LIBRO TERZO Bella

L’affetto per le persone è un lusso che ci si può permettere soltanto dopo aver eliminato tutti i nemici. Fino ad allora, chiunque tu ami sarà un ostacolo che ti priverà del coraggio e corromperà il tuo giudizio.

Orson Scott Card, Empire

Prefazione

Non era più solo un incubo: la fila di sagome nere avanzava verso di noi in una coltre di nebbia ghiacciata, sollevata dai loro piedi.

Moriremo, pensai nel panico. Ero disperata per la preziosa creatura che proteggevo, ma pensarci era una distrazione che non potevo permettermi.

Le sagome incombevano sempre più vicine, i neri mantelli si agitavano appena. Vidi quelle mani bianche e ossute stringersi come artigli. Iniziarono a sparpagliarsi per assalirci da ogni direzione. Erano più di noi. Era la fine.

E poi, come il lampo di luce di un flash, la scena cambiò. O meglio, tutto era uguale — i Volturi ci venivano incontro, pronti a uccidere — ma il mio atteggiamento era diverso. D’un tratto ero impaziente. Volevo che attaccassero. Il panico si trasformò in sete di sangue, mentre mi rannicchiavo in avanti, il sorriso sulle labbra e un ruggito fra i denti scoperti.

19 Bruciare

Il dolore era sconvolgente.

Proprio così. Ero sconvolta. Non capivo, non trovavo un senso a ciò che stava accadendo.

Quando il mio corpo cercava di rimuovere il dolore, venivo ripetutamente risucchiata da tenebre che avvolgevano secondi interi, persino minuti di quell’agonia, e rendevano ancora più difficile mantenere il senso della realtà.

Provai a separarle.

La non realtà era nera e non faceva così male.

La realtà era rossa e mi sentivo come fossi stata segata in due, investita da un autobus, messa KO da un peso massimo, calpestata dai tori e immersa nell’acido, tutto contemporaneamente.

La realtà era percepire il mio corpo contorcersi e divincolarsi mentre non potevo neanche muovermi per via del dolore.

La realtà era sapere che c’era qualcosa di molto più importante di tutta quella tortura e non riuscire a ricordare cosa.

La realtà era sopraggiunta troppo in fretta.

Un istante prima, tutto era come avrebbe dovuto essere. Ero circondata da persone che amavo. Sorrisi. In qualche modo, per improbabile che fosse, sembrava che stessi per ottenere tutto ciò per cui avevo lottato.

Poi una cosa piccola, irrilevante, era andata storta.

Avevo visto il bicchiere capovolgersi, il sangue scuro rovesciarsi e macchiare il bianco immacolato, e con un gesto automatico mi ero chinata a raccoglierlo. Avevo visto le altre mani, rapidissime, eppure il mio corpo continuava ad allungarsi, a tendersi...

Dentro di me, qualcosa aveva strattonato nella direzione opposta.

Lacerandomi. Spezzandomi. Torturandomi.

L’oscurità aveva preso il sopravvento, poi si era trasformata in un’onda di tortura. Non riuscivo a respirare... Già una volta avevo rischiato di annegare, ma era stato diverso: sentivo troppo caldo nella gola.

Parti di me si frantumavano, si spaccavano, si sbriciolavano ...

Altre tenebre.

Poi urla e il dolore che tornava.

«La placenta deve essersi staccata!».

Qualcosa più affilato di un coltello mi trapassò: le parole, sensate a dispetto di quella tortura. Placenta staccata: sapevo cosa significava. Il mio bambino stava morendo dentro di me.

«Fatelo uscire!», urlai a Edward. Perché non l’avevano ancora fatto? «NON RESPIRA! Fatelo uscire SUBITO!».

«La morfina...».

Voleva aspettare e anestetizzarmi mentre nostro figlio stava morendo?!

«NO, ADESSO...!», dissi con un rantolo, incapace di finire.

La luce nella stanza si macchiò di nero mentre da una sorgente fredda un altro dolore infieriva con una gelida pugnalata nella pancia. Qualcosa non andava; lottavo automaticamente per proteggere il mio grembo, il mio bambino, il mio piccolo Edward Jacob, ma ero debole. I polmoni mi facevano male, mi mancava l’ossigeno.

Il dolore scomparve di nuovo, nonostante mi ci stessi aggrappando. Il mio bambino, il mio bambino sta morendo...

Quanto tempo era passato? Secondi, minuti? Il dolore se n’era andato lasciandomi intorpidita, con i sensi azzerati. Ma riuscivo ancora a sentire. E c’era di nuovo aria nei miei polmoni, bolle di dolore che raschiavano su e giù per la gola.

«Resta con me, Bella! Mi senti? Resta qui! Non voglio che mi lasci. Fai battere il tuo cuore!».

Jacob? Jacob, sempre lui, sempre deciso a salvarmi.

, volevo dirgli. Sì che volevo far battere ancora il mio cuore. Non l’avevo promesso a entrambi?

Provai a sentire il cuore, per trovarlo, ma ero persa nel mio stesso corpo. Non sentivo ciò che dovevo, niente era al posto giusto. Battei gli occhi e li trovai. Vidi un po’ di luce. Non era ciò che stavo cercando, ma meglio di niente.

Mentre i miei occhi cercavano di adattarsi, Edward sussurrò: «Renesmee».

Renesmee?

Non era il bambino chiaro e perfetto della mia fantasia? Un attimo di smarrimento. E poi, un fiotto di calore.

Renesmee.

Costrinsi le labbra a muoversi, le bolle d’aria a trasformarsi in sussurri sulla mia lingua. Costrinsi le mani addormentate a tendersi. «Fammi... Dammela».

La luce ondeggiò accecante dalle mani cristalline di Edward. Lo scintillio aveva la sfumatura rossa del sangue che gli macchiava la pelle. E c’era ancora più rosso nelle sue mani. Qualcosa di piccolo si divincolava, grondante di sangue. Edward avvicinò il corpicino caldo alle mie braccia deboli e per me fu quasi un abbraccio. La sua pelle bagnata era calda. Calda come quella di Jacob.

La mia vista si affilò. All’improvviso, tutto fu assolutamente chiaro.

Renesmee non piangeva, ma faceva dei respiri veloci, spaventati. Aveva gli occhi aperti, l’espressione così sconcertata che era quasi divertente. La testa piccola, perfettamente rotonda, era coperta da uno spesso strato di riccioli arruffati e insanguinati. Le iridi erano di un colore familiare ma sorprendente: marrone cioccolato. Sotto il sangue, la pelle era chiara, avorio e crema. Tranne che sulle guance, infiammate di colore.

Il suo viso minuto era così perfetto da lasciarmi senza fiato. Era ancora più bella di suo padre. Incredibile. Impossibile.

«Renes...mee», sussurrai. «Sei... bellissima».

Quel visetto incredibile sorrise all’improvviso: un sorriso ampio, consapevole. Dietro le sue labbra color rosa perla c’era un intero corredo di denti da latte bianchissimi.

Appoggiò la testa in giù, contro il mio petto, rannicchiandosi al tepore. La sua pelle era calda e setosa, ma non aveva la stessa consistenza della mia.

Poi tornò il dolore. Una calda sferzata di dolore. Rantolai.

E lei non c’era più. La mia bambina dal viso d’angelo era sparita. Non potevo vederla né sentirla.

No! Avrei voluto gridare. Ridatemela!

Ma ero troppo debole. Le braccia per un attimo mi sembrarono tubi di gomma vuoti, poi fu come se non ci fossero. Non le sentivo più. Non mi sentivo più.

L’oscurità irruppe nei miei occhi più profonda di prima. Come una benda spessa, salda e stretta. Non mi copriva solo gli occhi ma tutta me stessa, con un peso insostenibile. Spingerla via era estenuante. Sapevo che sarebbe stato molto più semplice lasciar perdere. Permettere alle tenebre di risucchiarmi giù, giù, giù fino a un luogo in cui non c’erano più dolore né stanchezza, né pena né paura.

Fosse stato per me, non sarei riuscita a lottare molto a lungo. Ero solo umana, e umana era la mia forza. Da troppo tempo, come aveva detto Jacob, cercavo di tenere il passo del soprannaturale.

Ma non si trattava solo di me.

Se avessi scelto la via più semplice, se avessi permesso a quel nulla nero di cancellarmi, li avrei distrutti tutti.

Edward. Edward. La mia vita e la sua erano due fili intrecciati. Tagliane uno e li recidi entrambi. Se lui fosse scomparso, non sarei stata capace di sopravvivergli. E se fossi scomparsa io, neanche lui sarebbe sopravvissuto. Un mondo senza Edward mi sembrava completamente privo di senso. Edward doveva esserci.

Jacob che mi aveva detto addio mille volte, ma tornava sempre quando avevo bisogno di lui. Jacob che avevo ferito spesso, quasi con accanimento. Potevo ferirlo di nuovo, nel peggiore dei modi? Mi era rimasto accanto nonostante tutto. L’unica cosa che chiedeva, ora, era che restassi io accanto a lui.

Ma era così buio, non potevo vedere i loro volti. Niente sembrava reale. Era difficile non mollare.

Continuai a spingere contro quel nero, una reazione quasi automatica. Non tentavo di sollevarlo. Stavo solo resistendo per non permettergli di schiacciarmi completamente. Non ero Atlante e quell’oscurità pesava come un pianeta: non potevo reggerla sulle spalle. L’unica possibilità che avevo era di non lasciarmi annullare del tutto.

Era quasi una costante della mia vita. Non ero mai stata abbastanza forte da affrontare le cose fuori dal mio controllo, come attaccare i nemici o sovrastarli. Oppure evitare il dolore. Sempre umana e debole, l’unica cosa alla mia portata era la capacità di andare avanti. Resistere. Sopravvivere.

Fino a quel momento era servita e me la sarei fatta bastare ancora. Avrei resistito finché non fosse arrivato un aiuto.

Sapevo che Edward avrebbe fatto tutto ciò che poteva. Non avrebbe mai gettato la spugna. E neanche io.

Per un pelo, tenevo a bada l’oscurità della non-esistenza.

Ma la determinazione non era sufficiente. Mentre il tempo passava e le tenebre guadagnavano spazio, un millimetro alla volta, avevo bisogno di qualcos’altro da cui trarre forza.

Non riuscivo neanche a visualizzare il volto di Edward. Né quello di Jacob, di Alice, Rosalie, Charlie, Renée, Carlisle, o Esme... niente.

Ne fui terrorizzata e mi chiesi se non fosse troppo tardi.

Mi sentii scivolare. Non c’era più niente a cui aggrapparsi.

No! Dovevo sopravvivere. Edward contava su di me. Jacob. Charlie Alice Rosalie Carlisle Renée Esme...

Renesmee.

E all’improvviso, sebbene non vedessi niente, riuscii a sentire qualcosa. Come fossero arti fantasma, immaginai di sentire di nuovo le mie braccia. E fra loro, qualcosa di piccolo e duro, e molto, molto caldo.

La mia bambina. La mia piccola brontolona.

Ce l’avevo fatta. Contro ogni pronostico ero stata abbastanza forte da sopravvivere a Renesmee, ad aggrapparmi a lei fintanto che non era stata abbastanza forte da sopravvivere senza di me.

Quel punto caldo fra le mie braccia fantasma era così reale. Lo strinsi più forte, esattamente sul mio cuore. Stretta al caldo ricordo di mia figlia, sapevo che sarei stata in grado di combattere le tenebre per il tempo necessario.

Il calore accanto al mio cuore si fece sempre più reale, sempre più forte. Rovente. Così reale che era difficile credere che fosse tutta immaginazione.

Ancora più caldo.

E sempre meno piacevole. Troppo caldo. Troppo, troppo caldo.

Come se avessi afferrato un arricciacapelli dalla parte sbagliata, la mia reazione automatica fu di lanciare via ciò che mi ardeva fra le braccia. Ma fra le mie braccia non c’era niente. Le mie braccia non erano piegate sul petto. Le mie braccia erano oggetti morti che giacevano da qualche parte accanto a me. Il calore veniva da dentro.

Il fuoco crebbe, aumentò, raggiunse un apice e crebbe ancora, fino a superare qualsiasi altra sensazione avessi mai provato.

Nel mio petto, dietro le fiamme, sentii pulsare qualcosa e capii di aver ritrovato il mio cuore, appena in tempo per desiderare di non averlo mai fatto, di restare avvinta all’oscurità finché ne avevo ancora la possibilità. Avrei voluto alzare le braccia e squarciarmi il petto per strapparmi via il cuore. Qualunque cosa pur di sfuggire a quella tortura. Ma non sentivo le braccia, non riuscivo a muovere neanche un dito fantasma.

James che mi spezzava la gamba con il piede: quello era niente. Era un letto di piume, al confronto. Avrei fatto cambio, cento volte. Cento gambe spezzate. Le avrei accettate e avrei pure detto grazie.

La bambina che mi spezzava le costole a calci, che si faceva spazio sbriciolandomi, non era niente. Era galleggiare in una piscina d’acqua fresca. L’avrei preferito mille volte. L’avrei accettato ringraziandola.

Il fuoco avvampò con maggiore intensità e desiderai urlare, pregare qualcuno di uccidermi subito, di non impormi neanche un secondo in più di quel dolore. Ma non riuscivo a muovere le labbra. Il peso era ancora lì, a schiacciarmi.

Mi resi conto che non era l’oscurità a spingermi in basso, ma il mio stesso corpo. Pesante. Mi seppelliva fra le fiamme che nascevano dal cuore e lo rimasticavano per farsi strada e dispiegarsi con un dolore insopportabile attraverso le spalle e lo stomaco, ustionandomi la gola, fino a lambire il viso.

Perché non riuscivo a muovermi? Perché non riuscivo a urlare? Non era questo ciò che mi avevano raccontato.

La mia mente, insostenibilmente sveglia e lucida per via del dolore violento, colse la risposta appena formulai la domanda.

La morfina.

Ne avevamo discusso circa un milione di morti prima, io, Edward e Carlisle. Loro speravano che la giusta dose di sedativo bastasse a controllare il dolore del veleno. Carlisle ci aveva già provato con Emmett, ma il veleno aveva iniziato la sua opera prima del farmaco e gli aveva sigillato le vene. L’analgesico non aveva avuto tempo di diffondersi nel corpo.

Sforzandomi di mantenere un’espressione tranquilla, avevo annuito e ringraziato la mia piccola buona stella per il fatto che Edward non potesse leggermi nel pensiero.

Perché mi era già successo di assumere morfina e veleno insieme, e sapevo la verità. Sapevo che l’insensibilità causata dal farmaco era completamente irrilevante fintanto che il veleno mi scorreva nelle vene. Ma non mi ero mai azzardata a parlarne. Non volevo rafforzare la sua ritrosia a trasformarmi.

Non avevo immaginato che la morfina avrebbe avuto quell’effetto, che mi avrebbe immobilizzata e imbavagliata. Paralizzata, mentre bruciavo.

Conoscevo tutte le storie. Sapevo che Carlisle era rimasto abbastanza silenzioso da evitare che lo scoprissero mentre bruciava. Sapevo che, secondo Rosalie, urlare non era utile. E avevo sperato di comportarmi come Carlisle. Dovevo credere a Rosalie e tenere la bocca chiusa, perché sapevo che ogni urlo che mi fosse sfuggito dalle labbra sarebbe stato un tormento per Edward.

Ora che il mio desiderio si stava avverando, sembrava uno scherzo spaventoso.

Se non potevo urlare, come potevo implorarli di uccidermi?

Non desideravo altro che morire. Non essere mai nata. La mia intera esistenza svaniva di fronte a quel dolore. Non valeva la pena di sopravvivere a un altro battito del cuore.

Fatemi morire, fatemi morire, fatemi morire.

E, per un intervallo infinito, non ci fu nient’altro. Solo la tortura incandescente e le mie grida mute che imploravano l’arrivo della morte. Nient’altro, neanche il tempo. Al suo posto l’infinito, senza inizio e senza fine. Un infinito momento di dolore.

L’unico cambiamento giunse quando all’improvviso, incredibilmente, il dolore raddoppiò. La parte bassa del mio corpo, insensibile già prima della morfina, di colpo s’incendiò. Qualche giuntura rotta si era saldata grazie alle lingue di fuoco.

L’incendio infuriava, interminabile.


Passarono secondi o giorni, forse settimane o anni, ma a un certo punto il tempo tornò ad avere senso.

Successero tre cose insieme, sovrapposte, tanto che non capii quale fosse la prima. Il tempo ricominciò a scorrere, l’effetto della morfina scomparve e riguadagnai le forze.

Sentivo di riprendere il controllo sul mio corpo un passo alla volta, e ogni passo era il segno che il tempo si riattivava. Mi accorsi che ero in grado di contrarre le dita dei piedi e di stringere i pugni. Ne ero consapevole ma non volli farlo.

L’intensità del fuoco non diminuì di un solo grado. Tuttavia, iniziai a percepirlo diversamente, con una sensibilità nuova che analizzava una per una le fiamme urticanti che mi riempivano le vene. E malgrado tutto, capii che potevo ricominciare a pensare.

Ricordavo perché non potevo urlare. Ricordavo la ragione per cui mi ero impegnata a sopportare quell’agonia insopportabile. Ricordavo che, per quanto mi sembrasse impossibile, c’era qualcosa che valeva quella tortura.

Questo accadde appena in tempo perché mi ci potessi aggrappare quando i pesi abbandonarono il mio corpo. Nessuno, dall’esterno, si sarebbe accorto del cambiamento. Ma per me che lottavo per trattenere le grida e i colpi chiusi nel mio corpo, dove non potevano far male a nessuno, era come passare dall’essere legata al rogo mentre bruciavo, ad afferrare il rogo per reggermi nel fuoco.

Ero forte quel tanto che bastava per restare immobile a incenerirmi viva.

Il mio udito si fece sempre più acuto: riuscivo a contare i battiti frenetici e accelerati del mio cuore che segnavano il tempo.

I respiri corti che tossivo fra i denti.

E quelli bassi, regolari, che venivano da qualcun altro al mio fianco. Erano più lenti e mi concentrai su di essi. Tramite loro, scandivo una quantità maggiore di tempo. Meglio di un pendolo, quei respiri mi spinsero, un secondo infuocato dopo l’altro, verso la fine.

Divenni sempre più forte, con i pensieri più chiari. Riuscivo a udire ogni nuovo rumore.

Ci furono passi leggeri, il mormorio e lo spostamento d’aria di una porta che si apriva. I passi si fecero più vicini e sentii una pressione nell’incavo del polso. Non avvertii il gelo delle mani. Il fuoco aveva cancellato ogni mia memoria del freddo.

«Nessun cambiamento?».

«No».

Una pressione più leggera, un respiro contro la pelle urticata.

«L’odore della morfina non c’è più».

«Infatti».

«Bella? Mi senti?».

Sapevo, fuori di ogni dubbio, che se avessi aperto la bocca avrei perso completamente il controllo. Avrei urlato, gridato, mi sarei agitata e contorta. Se avessi aperto gli occhi, se avessi piegato anche solo un dito... qualunque movimento avrebbe significato perdere il controllo.

«Bella? Bella, amore? Riesci ad aprire gli occhi? A stringermi la mano?».

Una pressione sulle mie dita. Fu terribile non rispondere a quella voce, ma rimasi paralizzata. Sapevo che il dolore nella sua voce non era niente rispetto a quello che poteva essere. In questo momento aveva solo paura che stessi soffrendo.

«Forse... Carlisle, forse ho agito troppo tardi». La sua voce era smorzata; si ruppe sulla parola tardi.

Il mio proposito vacillò per un secondo.

«Ascolta il suo cuore, Edward. È più forte persino di quello di Emmett. Non ho mai sentito niente di così vitale. Starà benissimo».

Sì, meglio rimanere in silenzio. C’era Carlisle a rassicurarlo. Non aveva bisogno di soffrire con me.

«E... la schiena?».

«Le lesioni non erano tanto peggiori di quelle di Esme. Il veleno la guarirà come ha fatto con lei».

«Ma è così rigida. Devo aver fatto qualcosa di sbagliato».

«O qualcosa di giusto, Edward. Figlio mio, hai fatto tutto ciò che avrei fatto io, e anche di più. Non sono sicuro che avrei avuto altrettanta determinazione, né la fede che c’è voluta per salvarla. Smettila di rimproverarti. Bella ce la farà».

Un respiro strozzato. «Dev’essere in agonia».

«Non lo sappiamo. Nel suo organismo è circolata tanta morfina. Non sappiamo l’effetto che può aver avuto in questa circostanza».

Una debole pressione all’interno del mio gomito. Un altro sussurro. «Bella, ti amo. Bella, perdonami».

Avrei voluto rispondergli, ma non era giusto rendere il suo dolore ancora più profondo. Non finché avessi avuto la forza di rimanere ferma.

Il fuoco torturatore continuava a bruciarmi. Ma ora nella mia testa c’era molto spazio. Spazio per misurare le loro parole, per ricordare cos’era successo, per guardare al futuro, e ancora altro spazio infinito per soffrire.

E preoccuparmi.

Dov’era la mia bambina? Perché non era lì? Perché non parlavano di lei?

«No, rimango qui», sussurrò Edward, rispondendo a un pensiero silenzioso. «Troveranno un compromesso».

«Situazione interessante», rispose Carlisle. «E io che pensavo di aver già visto tutto».

«Ci penserò poi. Ci penseremo insieme». Qualcosa premette delicato sulla mia mano bollente.

«Siamo in cinque, sono sicuro che eviteremo che si trasformi in uno spargimento di sangue».

Edward sospirò. «Non so da che parte schierarmi. Mi piacerebbe prendere a calci entrambi. Be’, per ora lasciamo perdere».

«Chissà cosa ne penserà Bella», disse Carlisle fra sé.

Una risatina bassa, sforzata. «Sono sicuro che mi sorprenderà. Come sempre».

I passi di Carlisle si allontanarono e rimasi lì frustrata, senza altre spiegazioni. Di che cosa stavano parlando in modo così misterioso da infastidirmi?

Ricominciai a contare i respiri di Edward per segnare il tempo.

Diecimilanovecentoquarantatré respiri dopo, ecco il fruscio di altri passi, diversi. Più leggeri. Più... ritmici.

Strano, fra un passo e l’altro riuscivo a cogliere una lieve differenza che non ero mai stata in grado di avvertire prima.

«Quanto manca?», chiese Edward.

«Non molto», gli rispose Alice. «Vedi com’è tutto più chiaro? Ora la visualizzo molto meglio». Sospirò.

«Ti senti ancora un po’ amareggiata?».

«Ehi, grazie mille per avermelo ricordato», brontolò. «Anche tu rimarresti mortificato se ti rendessi conto di essere prigioniero della tua stessa natura. Vedo bene i vampiri, perché sono una di loro; vedo gli umani così così, perché lo ero anch’io. Ma non posso vedere questi strani mezzosangue, perché non sono niente che mi riguarda direttamente. Mah!».

«Alice, concentrati».

«Giusto. Ora è fin troppo facile vedere Bella».

Dopo qualche istante di silenzio, Edward sospirò. Era un suono diverso, più felice.

«Sta migliorando sul serio», sussurrò.

«Certo».

«Non eri così ottimista, due giorni fa».

«Due giorni fa non riuscivo a vederla bene. Ma ora che non ci sono più tutti quei buchi neri, è una pacchia».

«Puoi concentrarti un attimo per me? Dammi una previsione... dettagliata».

Alice sospirò. «Quanto sei impaziente. Lasciami un secon...».

Un respiro silenzioso.

«Grazie, Alice». Ora la voce era più chiara.

Quanto mancava? Non potevano dirlo ad alta voce per me? Era troppo chiederlo? Quanti secondi ancora avrei dovuto bruciare? Dieci, ventimila? Un altro giorno, ottantaseimilaquattrocento? Di più?

«Diventerà splendida».

Edward bofonchiò tranquillo. «Lo è sempre stata».

Alice sbuffò. «Sai cosa intendo. Guardala».

Edward non rispose, ma le parole di Alice mi diedero la speranza di non somigliare alla carbonella da barbecue che immaginavo. A quel punto mi sentivo soltanto una pila di ossa bruciacchiate. Ogni cellula del mio corpo era stata ridotta in cenere.

Udii Alice uscire leggera dalla camera. Ascoltai il fruscio del tessuto dei suoi vestiti. Sentii il ronzio tranquillo della luce appesa al soffitto. Il vento soffiare debole contro l’esterno della casa. Riuscivo a udire tutto.

Al piano di sotto, qualcuno guardava una partita di baseball. I Mariners erano in vantaggio di due punti.

«Tocca a me», sentii sbottare Rosalie, e in risposta ci fu un ringhio a bassa voce.

«Ehi, calma», ammonì Emmett.

Qualcuno sibilò.

Restai in ascolto, ma c’era solo la partita. Il baseball non era abbastanza interessante per distrarmi dal dolore, perciò tornai ad ascoltare il respiro di Edward e a contare i secondi.

Ventunomilanovecentodiciassette secondi e mezzo dopo, il dolore cambiò.

La buona notizia era che iniziava a sparire dai polpastrelli e dalle dita dei piedi. A sparire lentamente, ma almeno era un cambiamento. Eccoci, infine. Il dolore stava per andarsene...

Poi la cattiva notizia. Il fuoco in gola era diverso da prima. Non soltanto bruciava, ma era anche secca. Rarsa. Avevo sete. Fuoco e sete bruciavano assieme...

Altra cattiva notizia: il fuoco nel cuore si era fatto più caldo.

Com’era possibile?

Le pulsazioni, già troppo veloci, accelerarono. Il fuoco ne guidava il ritmo a un’andatura nuova e frenetica.

«Carlisle», chiamò Edward. La sua voce era bassa, ma nitida. Se Carlisle era in casa o nei dintorni, l’avrebbe sentita.

L’incendio si ritirò dal palmo delle mie mani e le lasciò felicemente fresche e libere dal dolore. Ma si concentrò nel mio cuore che avvampava caldo come il sole e batteva a velocità furiosa.

Carlisle entrò in camera assieme ad Alice. I loro passi erano così diversi, addirittura avrei detto che Carlisle si trovava sulla destra, davanti ad Alice.

«Ascolta», disse Edward.

Il suono più forte nella stanza era il mio cuore delirante, che batteva al ritmo del fuoco.

«Ah», disse Carlisle. «È quasi finita».

Il mio sollievo, a quelle parole, fu offuscato da una fitta straziante nel cuore.

Ma ora anche i miei polsi erano liberi, e le caviglie. Lì l’incendio era totalmente domato.

«Manca poco», concordò Alice impaziente. «Chiamo gli altri. Devo dire a Rosalie...?».

«Sì, tenete lontana la bambina».

Che cosa? No! No! Che significava: "tenetela lontana"? Cosa gli passava per la testa?

Le mie dita si contrassero. L’irritazione ruppe la facciata perfetta. La camera si fece silenziosa, a parte il martellare del mio cuore: tutti smisero di respirare per un secondo.

Una mano strinse le mie dita contratte. «Bella? Bella, amore?».

Potevo rispondere senza gridare? Ci pensai per un attimo, poi il fuoco divampò ancora più incandescente nel mio petto e defluì dai gomiti e dalle ginocchia. Meglio non rischiare.

«Li porto su», disse Alice con un tono d’urgenza nella voce e sentii il fruscio dell’aria non appena si librò allontanandosi.

E poi... ah!

Il mio cuore prese il volo e batteva come le pale di un elicottero, quasi con la stessa vibrazione di una nota lunga; sembrava pronto a sbriciolarmi le costole. L’incendio divampò al centro del mio petto e succhiò gli ultimi residui delle fiamme dal resto del corpo, prima di innescare il rogo definitivo. Il dolore intenso riuscì a tramortirmi, a sciogliere la presa ferrea con cui mi controllavo. La mia schiena s’inarcò come sollevata dal fuoco che mi trascinava afferrandomi al cuore.

Non permisi a nessun’altra parte del mio corpo di uscire dai ranghi, mentre il mio busto crollava di nuovo sul tavolo.

Divenne una battaglia interiore: il cuore che correva sempre più svelto incontro al fuoco minaccioso. Stavano perdendo entrambi. Il fuoco era destinato a morire, dopo aver consumato tutto ciò che era combustibile; il cuore galoppava verso il suo ultimo battito.

Il fuoco si fece più circoscritto e si concentrò nell’unico organo ancora umano, con uno slancio finale insopportabile. Uno slancio cui rispose un battito profondo, un suono cavo. Il mio cuore balbettò due volte, poi emise un ultimo battito sordo.

Non c’era più alcun suono. Alcun respiro. Neanche il mio.

Per un attimo, l’unica cosa che riuscii a comprendere fu l’assenza di dolore.

Poi aprii gli occhi e guardai in alto, sorpresa.

20 Nuova

Tutto era così limpido.

Nitido. Definito.

Nonostante la luce sul soffitto fosse accecante, riuscivo a distinguere le scie luminose dei filamenti all’interno della lampadina. Vedevo i colori dell’arcobaleno nel bianco della luce, ma all’estremità dello spettro percepivo un ottavo colore a cui non sapevo dare un nome.

Dietro la luce, mi era chiara ogni singola venatura del legno scuro del soffitto. Nell’aria, vedevo distinti e separati i granelli di polvere sia nella zona illuminata che in quella in ombra. Giravano come piccoli pianeti, vorticando uno attorno all’altro in una danza celestiale.

La polvere era così bella che la inspirai meravigliata; l’aria mi fischiò in gola e trasportò i granelli in un vortice. Mi parve un gesto innaturale, perché non ne traevo alcun sollievo. Non avevo bisogno d’aria. I miei polmoni non l’aspettavano. Rimasero indifferenti all’afflusso.

Non avevo bisogno dell’aria, ma mi piaceva. Grazie a essa sentivo gli odori della stanza: i deliziosi granelli di polvere, la miscela di aria stagnante mescolata al flusso leggermente più fresco che veniva dalla porta aperta. Un’intensa folata di seta. La sfumatura di qualcosa di caldo e desiderabile, qualcosa che doveva essere umido ma non lo era... Quell’odore fece bruciare la mia gola secca, un’eco debole delle ustioni da veleno, nonostante il profumo fosse guastato dal sapore di cloro e ammoniaca. E, soprattutto, percepivo un profumo come di miele, lillà e sole, più intenso e vicino a me.

Ascoltai il suono degli altri che avevano iniziato a respirare con me. Il loro respiro, mischiato a quella fragranza che era miele, lillà e sole, portava nuovi aromi. Cannella, giacinto, pera, acqua di mare, pane caldo, pino, vaniglia, pelle, mela, muschio, lavanda, cioccolato... Provai una dozzina di diversi raffronti nella mia mente, ma nessuno di loro corrispondeva esattamente a quel profumo. Così dolce e piacevole.

La TV al piano di sotto era silenziosa e sentii che qualcuno — Rosalie? — era salito al piano di sopra.

Udii anche un ritmo smorzato, martellante, con una voce che strillava arrabbiata a ritmo. Musica rap? Per un attimo rimasi sconcertata, poi il suono scomparve, come provenisse da un’auto che passava con i finestrini aperti.

In un baleno mi resi conto che forse era proprio così. Riuscivo a sentire fino alla superstrada?

Capii che qualcuno mi stava tenendo la mano soltanto quando, chiunque fosse, la strinse leggermente. Come era successo prima, mentre trattenevo la sofferenza, il mio corpo si bloccò, meravigliato. Non era il contatto che mi aspettavo. La pelle era perfettamente liscia, ma la temperatura sbagliata. Non era fredda.

Dopo quel primo secondo di sorpresa che mi immobilizzò, il mio corpo rispose al contatto imprevisto in un modo ancora più stupefacente.

L’aria mi sibilò dalla gola e uscì fra i denti serrati con il suono basso e minaccioso di uno sciame d’api. Prima ancora che lo emettessi, i miei muscoli si raccolsero e s’inarcarono, ritraendosi dallo sconosciuto. Lo scatto con cui raddrizzai la schiena avrebbe dovuto trasformare la stanza in una macchia sfocata... ma non lo fece. Vidi ogni granello di polvere, ogni scheggia del legno nelle pareti, ogni filo scucito con precisione microscopica, mentre il mio sguardo turbinava oltre.

Così, quando mi trovai rannicchiata contro il muro, sulla difensiva — dopo circa un sedicesimo di secondo -, avevo già capito cosa mi avesse fatto trasalire e che la mia reazione era stata esagerata.

Oh. Certo. Era ovvio che Edward non mi sembrasse più freddo. La nostra temperatura ormai era identica.

Restai in quella posizione per un altro ottavo di secondo e osservai la scena davanti a me.

Edward era chino sul tavolo operatorio che era stato la mia pira, con la mano tesa verso di me, l’espressione ansiosa.

Il suo viso era la cosa più importante, ma il mio sguardo periferico catalogò anche il resto, a scanso di equivoci. Si era innescato un certo istinto difensivo, la decisione automatica di cercare ogni possibile segno di pericolo.

La mia famiglia di vampiri aspettava circospetta, addossata alla porta, Emmett e Jasper davanti a tutti. Come se qualcuno fosse davvero in pericolo. Dilatai le narici in cerca della minaccia. Non c’erano odori fuori posto. Quel profumo debole e delizioso, ma guastato dagli aspri prodotti chimici, solleticò di nuovo la mia gola, la fece bruciare e dolere.

Alice sbirciava da dietro il gomito di Jasper con un enorme sorriso sul volto; i denti le scintillavano di una luce brillante, un altro arcobaleno a otto colori.

Quel sorriso mi rassicurò e mi aiutò a ricomporre i pezzi. Jasper ed Emmett erano lì davanti per proteggere gli altri, come avevo immaginato. Quello che non avevo afferrato subito era che dovevano proteggersi da me.

Ma tutto questo era secondario. La parte più importante dei miei sensi e della mia mente era concentrata sul volto di Edward.

Non l’avevo mai visto prima.

Quante volte avevo fissato Edward meravigliandomi della sua bellezza? Quante ore, giorni, settimane della mia vita avevo trascorso a sognare ciò che avevo sempre considerato la perfezione? Pensavo di conoscere il suo volto meglio del mio. Pensavo che fosse l’unico elemento concreto sicuro in tutto il mio mondo: la perfezione del viso di Edward.

Ma evidentemente ero cieca.

Per la prima volta, finalmente libera dai buchi neri e dalla debolezza limitante dell’occhio umano, vidi il suo volto reale. Ansimai e poi lottai con il mio vocabolario, incapace di trovare le parole giuste. Ne servivano di migliori.

A quel punto, l’altra parte della mia attenzione aveva accertato che l’unico pericolo era costituito da me stessa, perciò con un gesto automatico emersi dalla posizione accovacciata; era passato quasi un secondo intero da quando mi ero alzata dal tavolo.

Per un istante mi preoccupai della maniera in cui si muoveva il mio corpo. Non appena decisi di alzarmi, mi ritrovai in piedi. Non passò il minimo frammento di tempo fra il pensiero e l’azione: il cambiamento fu istantaneo, quasi in assenza di movimento.

Continuai a fissare il volto di Edward, di nuovo immobile.

Con le mani ancora tese verso di me, si muoveva lentamente attorno al tavolo: ciascun passo gli richiedeva almeno mezzo secondo e fluiva sinuoso come l’acqua del mare che s’insinua su pietre lisce.

Lo guardai avvicinarsi e assorbii tutta la grazia del suo incedere con i miei occhi nuovi.

«Bella?», chiese in tono basso, tranquillizzante, ma la preoccupazione nella sua voce riempì il mio nome di tensione.

Non seppi rispondergli subito, persa com’ero nelle pieghe vellutate della sua voce. Era la sinfonia perfetta, una sinfonia per strumento solo, uno strumento più profondo di ogni altro creato da mani umane...

«Bella, amore? Mi dispiace, so che sei frastornata. Ma è tutto a posto. Stai bene, va tutto bene».

Tutto? La mente si avvitò ai ricordi della mia ultima ora da umana. La memoria sembrava già offuscata, come se la vedessi attraverso un velo spesso e scuro... perché i miei occhi umani erano miopi. Era tutto sfocato.

Andava tutto bene, dunque... si riferiva anche a Renesmee? E dov’era? Con Rosalie? Cercai di ricordare il suo viso — sapevo che era bellissima — ma provare a frugare tra i miei ricordi umani era irritante. Il suo viso era avvolto nel buio, male illuminato...

E Jacob? Stava bene? Il mio migliore amico, che mi sopportava da una vita, adesso mi odiava? Era tornato nel branco di Sam? Assieme a Seth e Leah, magari?

I Cullen erano al sicuro, o la mia trasformazione aveva scatenato la guerra con il branco? Le rassicurazioni di facciata di Edward si riferivano a questo? O stava semplicemente cercando di calmarmi?

E Charlie? Che cosa gli avrei detto? Di sicuro aveva chiamato mentre bruciavo. Cosa gli avevano raccontato? Cosa credeva mi fosse successo?

Nella frazione di secondo che impiegai per decidere quale domanda porre per prima, Edward si avvicinò esitante e mi accarezzò una guancia con le dita. Lisce come la seta, morbide come piume e ora esattamente accordate alla temperatura della mia pelle.

Fu come sentirmi toccare al di là della superficie della pelle, direttamente sulle ossa del viso. In un formicolio elettrizzante, un brivido fra le mie ossa scese lungo la spina dorsale, e avvertii un tremolio nello stomaco.

Aspetta, pensai mentre il tremore maturava in calore e desiderio. Non era forse scritto che dovevo rinunciare a sensazioni come quella?

Ero una vampira neonata. Il dolore secco, bruciante in gola ne era una prova. E sapevo che cosa comportava essere una neonata. Le emozioni e i desideri umani sarebbero ritornati più tardi, in qualche modo, e davo per scontato di non poterli provare, all’inizio. Esclusa la sete. Questo era l’accordo, il prezzo, e io avevo accettato di pagarlo.

Ma mentre la mano di Edward si chiudeva sulla mia guancia, come acciaio ricoperto di seta, il desiderio percorse le mie vene asciutte e riecheggiò dalla punta dei capelli a quella dei piedi.

Lui inarcò un sopracciglio perfetto, aspettando che parlassi.

Gli gettai le braccia al collo.

Di nuovo, il movimento fu impercettibile. Un attimo prima ero lì, ferma e dritta come una statua; nello stesso istante, lui era fra le mie braccia.

Caldo. O almeno, così lo percepivo. E sentivo il profumo dolce, delizioso, che non ero mai stata in grado di avvertire con i miei ottusi sensi umani, ma che era al cento per cento di Edward. Premetti il viso sul suo petto liscio.

Lui si spostò, nervoso. Si scostò dal mio abbraccio. Rimasi a fissarlo, confusa e spaventata dal rifiuto.

«Uhm... attenzione, Bella. Ahi».

Allontanai le braccia, incrociandole dietro la schiena non appena compresi.

Ero troppo forte.

«Ops», farfugliai.

Sfoderò il sorriso che mi avrebbe fermato il cuore, se non avesse già smesso di battere.

«Non spaventarti, amore», disse, tendendo la mano per toccare le mie labbra, schiuse dall’orrore. «Sei soltanto un po’ più forte di me, per il momento».

Aggrottai le sopracciglia. Era un altro dettaglio che conoscevo, probabilmente il più surreale di tutti, in un momento già decisamente surreale. Ero più forte di Edward. Gli avevo fatto dire Ahi.

La sua mano mi accarezzò di nuovo la guancia e dimenticai subito l’angoscia, mentre un’altra ondata di desiderio si propagava nel mio corpo immobile.

Queste emozioni erano molto più forti di quelle a cui ero abituata, tanto che era difficile soffermarsi su un solo pensiero alla volta, malgrado una mente molto più spaziosa. Ogni nuova sensazione mi sopraffaceva. Ricordavo che Edward una volta aveva detto — con una voce che era soltanto l’ombra della limpidezza musicale e cristallina con cui risuonava adesso — che la sua specie, la nostra specie, si distraeva facilmente. Ora capivo perché.

Feci uno sforzo deciso per concentrarmi. C’era una cosa che dovevo dire. La più importante.

Attentamente, così attenta da rendere il movimento per una volta riconoscibile, levai il braccio destro da dietro la schiena e alzai la mano per toccargli la guancia. Rifiutai di lasciarmi distrarre dal colore perlaceo della mia mano, dalla pelle liscia e setosa di lui, o dalla carica che elettrizzava i miei polpastrelli.

Lo fissai negli occhi e per la prima volta udii la mia voce.

«Ti amo», dissi, ma sembrava che stessi cantando. La mia voce risuonò e tintinnò come una campana.

Il suo sorriso di risposta mi stordì più di quanto non avesse mai fatto quando ero umana; finalmente lo vedevo davvero.

«Ti amo anch’io», mi disse.

Mi prese il viso fra le mani e avvicinò i nostri volti abbastanza lentamente da ricordarmi di stare attenta. Mi baciò, un bacio all’inizio leggero come un sussurro e all’improvviso più forte, più intenso. Cercai di tenere bene in mente che dovevo essere delicata, ma era un lavoraccio ricordarsene nel mezzo di quella carica di sensazioni, dov’era difficile conservare un pensiero coerente.

Fu come se non mi avesse mai baciata prima. Come se questo fosse il nostro primo bacio. In effetti, non mi aveva mai baciato in quel modo.

Mi sentivo quasi in colpa. Di sicuro avevo rotto il contratto. Non avrei dovuto avere il permesso per certe cose.

Sebbene l’ossigeno non mi servisse più, il mio respiro accelerò, divenne affannoso come quando bruciavo. Ma era un fuoco diverso.

Qualcuno si schiarì la gola. Emmett: ne riconobbi il suono profondo, scherzoso e infastidito al tempo stesso.

Avevo dimenticato che non eravamo soli. E mi resi conto che il modo in cui ero avvinghiata a Edward non era esattamente educato verso il resto della compagnia. Imbarazzata, mi allontanai di mezzo passo con un altro movimento istantaneo.

Edward ridacchiò e fece lo stesso, tenendo il braccio stretto alla mia vita. Il suo viso splendeva come una fiamma bianca, che ardeva sotto la pelle adamantina.

Feci un inutile respiro e mi ricomposi.

Com’era stato diverso quel bacio! Lessi la sua espressione mentre confrontavo gli indistinti ricordi umani con quelle sensazioni chiare, intense. Lui sembrava... un po’ compiaciuto.

«Questo me l’avevi tenuto nascosto», lo accusai con la mia voce melodiosa, gli occhi appena socchiusi.

Rise, raggiante, sollevato che fosse tutto finito: la paura, il dolore, le incertezze, l’attesa erano alle nostre spalle. «Prima era necessario, in un certo senso», mi ricordò. «Ora tocca a te non farmi a pezzi». Rise di nuovo.

Aggrottai le sopracciglia mentre ci pensavo e a quel punto Edward non fu il solo a ridere.

Carlisle oltrepassò Emmett e si diresse rapido verso di me; i suoi occhi erano solo leggermente cauti, ma Jasper seguiva i suoi passi come un’ombra. Non avevo mai visto prima il viso di Carlisle, non sul serio. Ebbi uno strano bisogno di strizzare gli occhi, come di fronte al sole.

«Come stai, Bella?», mi chiese.

Ci pensai per un sessantaquattresimo di secondo.

«Confusa. C’è così tanto...», m’interruppi, ascoltando di nuovo il tono squillante della mia voce.

«Sì, all’inizio può essere un fastidio».

Annuii con un gesto frenetico. «Ma mi sento me stessa. Più o meno. Non me l’aspettavo».

Le braccia di Edward mi strinsero piano i fianchi. «Te l’avevo detto», sussurrò.

«Sei abbastanza controllata», rifletté Carlisle. «Più di quanto mi aspettassi nonostante il tempo che hai avuto a disposizione per prepararti mentalmente».

Pensai alle selvagge oscillazioni d’umore, alla difficoltà di concentrazione, e sussurrai: «Non ne sono molto sicura».

Lui annuì serio, poi i suoi occhi, come gioielli, scintillarono d’interesse. «Sembra che stavolta sia andata meglio con la morfina. Dimmi, cosa ricordi del processo di trasformazione?».

In silenzio, sentii l’intensità del respiro di Edward sfiorarmi la guancia e soffiare sussurri di elettricità sulla mia pelle.

«Era tutto... offuscato. Ricordo che la bambina non riusciva a respirare...».

Guardai Edward, momentaneamente spaventata da quel ricordo.

«Renesmee è sana e forte», mi assicurò, negli occhi un bagliore che non gli avevo mai colto. Pronunciò quel nome con fervore controllato. Con venerazione. Nel modo in cui i devoti parlano dei propri dèi. «Cosa ricordi oltre a questo?».

Sfoderai una faccia da poker, ma non ero mai stata molto brava a mentire. «Non ricordo bene. Prima era buio. E poi... ho aperto gli occhi e ho visto tutto».

«Sorprendente», sospirò Carlisle, gli occhi accesi.

Un’ondata di imbarazzo mi travolse e attesi che le mie guance avvampassero e mi tradissero. Ma poi ricordai che non potevo più arrossire. Forse questo avrebbe protetto Edward dalla verità.

Dovevo trovare un modo per raccontarla a Carlisle, prima o poi... se avesse mai avuto bisogno di creare un altro vampiro: una possibilità molto remota, cosa che mi permetteva di mentire più serenamente.

«Voglio che ripensi... che mi racconti tutto ciò che ricordi», insistette Carlisle eccitato e non riuscii a evitare la smorfia che mi balenò sul viso. Non volevo continuare a dire bugie, perché avrei potuto tradirmi. Ma non volevo neanche ripensare a quando bruciavo. A differenza dei ricordi umani, quella parte era perfettamente chiara e la ricordavo con fin troppa precisione.

«Oh, scusa tanto, Bella», disse subito Carlisle. «Immagino che la tua sete sia insopportabile. Questa conversazione può aspettare».

In realtà, finché non l’aveva nominata, la sete non era stata insopportabile. C’era tanto spazio nella mia testa. Una parte separata del mio cervello registrava l’arsura, quasi come un riflesso. Allo stesso modo in cui il mio vecchio cervello si ricordava di respirare e chiudere gli occhi.

Ma le parole di Carlisle riportarono alla ribalta la gola riarsa. All’improvviso, quel pensiero mi riempì la mente e, più ci pensavo, più faceva male. La mia mano si sollevò a coppa sulla gola, come a spegnere le fiamme dall’esterno. La pelle del collo era strana sotto le dita. Così liscia da sembrare morbida, malgrado fosse dura come la pietra.

Edward abbassò le braccia e mi prese l’altra mano, tirandola gentilmente. «Andiamo a caccia, Bella».

I miei occhi si spalancarono e il dolore della sete diminuì, sostituito dallo stupore.

Io? A caccia? Con Edward? E in che modo? Non sapevo cosa fare.

Lui lesse l’allarme nella mia espressione e mi fece un sorriso d’incoraggiamento. «È abbastanza semplice, amore. Istintivo. Non preoccuparti, ti faccio vedere io». Vedendo che non mi muovevo, sfoderò il suo sorriso sghembo e alzò le sopracciglia. «Credevo che tu avessi sempre voluto vedermi cacciare».

Risi, in un breve scoppio di buonumore (una parte di me ascoltò meravigliata il suono di quella melodia), perché le sue parole mi ricordarono certe annebbiate conversazioni umane. E impiegai un intero secondo per passare in rassegna i primissimi giorni con Edward — il vero inizio della mia vita — in modo da non dimenticarmene mai. Non mi aspettavo che ricordare sarebbe stato così complicato. Come provare a sbirciare nel fango. Sapevo dall’esperienza di Rosalie che se avessi pensato abbastanza ai miei ricordi umani non li avrei perduti nel corso del tempo. Non volevo dimenticare neanche un minuto trascorso con Edward, neppure ora che di fronte a noi si dispiegava l’eternità. Dovevo assicurarmi che i ricordi umani si cementassero nella mia infallibile mente di vampira.

«Andiamo?», chiese Edward. Riuscì a prendere la mano che avevo lasciato sul collo. Le sue dita mi accarezzarono la gola. «Non voglio che tu stia male», aggiunse con un mormorio basso che da umana non sarei mai stata in grado di sentire.

«Sto bene», dissi rispettando la mia vecchia abitudine umana. «Aspetta. Prima...».

C’erano molte cose. Non avevo avuto risposta alle mie domande. C’erano cose più importanti della sete.

Fu Carlisle a parlare. «Sì?».

«Voglio vederla. Renesmee».

Fu stranamente difficile pronunciare il suo nome. Mia figlia, parole difficili persino da pensare. Sembrava tutto così distante. Provai a ricordare come mi ero sentita tre giorni prima e automaticamente le mie mani si liberarono da quelle di Edward e scesero sulla pancia.

Piatta. Vuota. Mi aggrappai alla seta chiara che ricopriva la mia pelle e il panico m’invase di nuovo, mentre una percentuale insignificante della mia mente si accorse che Alice doveva avermi vestita.

Sapevo che dentro di me non c’era più nulla e avevo un debole ricordo della scena insanguinata del parto. Tutto ciò che sentivo era l’amore per la piccola brontolona dentro di me. Fuori di me, lei appariva come un mero frutto della mia immaginazione. Un sogno evanescente... un sogno che era un mezzo incubo.

Mentre lottavo con la mia confusione, vidi Edward e Carlisle scambiarsi uno sguardo prudente.

«Che c’è?», domandai.

«Bella», disse Edward in tono tranquillizzante. «Non è una buona idea. Lei è mezza umana, amore. Il suo cuore batte e nelle sue vene scorre sangue. Finché la tua sete non sarà effettivamente sotto controllo... non vorrai metterla in pericolo, vero?».

M’incupii. Certo che no.

Ero fuori controllo? Confusa, sì. Facile alle distrazioni, anche. Ma pericolosa? Per lei? Mia figlia?

Non potevo essere certa che la risposta fosse no. Dovevo essere paziente. La cosa suonava difficile. Finché non l’avessi vista di nuovo, non l’avrei creduta reale. Solo il sogno evanescente... di una sconosciuta...

«Dov’è?», tesi l’orecchio e sentii il cuore che batteva al piano di sotto. Sentii respirare più di una persona: erano silenziose, come in ascolto. C’era anche un suono palpitante, continuo, che non riuscivo a identificare...

E il cuore che batteva emetteva un suono così umido e invitante che mi venne l’acquolina in bocca.

Sì, dovevo imparare a cacciare prima di poterla vedere. La mia bimba sconosciuta.

«Rosalie è con lei?».

«Sì», abbozzò Edward e mi resi conto di aver toccato un tasto irritante per lui. Pensavo che finalmente si fosse pacificato con Rose. Avevano ricominciato a litigare? Prima che potessi chiederglielo, tolse le mie mani dalla pancia piatta e mi diede un altro piccolo strattone.

«Aspetta», protestai ancora, provando a concentrarmi. «E Jacob? E Charlie? Raccontatemi cosa mi sono persa. Per quanto tempo sono rimasta... priva di coscienza?».

Edward non sembrò notare la mia esitazione sulle ultime parole. Anzi, si stava scambiando un altro sguardo accorto con Carlisle.

«Qualcosa di storto?», sussurrai.

«Non c’è niente di storto», disse Carlisle, enfatizzando l’ultima parola in modo strano. «In realtà non è cambiato niente in particolare, sei rimasta in stato d’incoscienza per circa due giorni. È stato tutto molto veloce, per come vanno queste cose. Edward ha fatto un ottimo lavoro, davvero innovativo. Iniettare il veleno direttamente nel cuore è stata una sua idea». S’interruppe per sorridere orgoglioso al figlio, poi sospirò. «Jacob è ancora qui, e Charlie ti crede ancora malata. Pensa che tu stia facendo dei test al centro epidemiologico di Atlanta. Gli abbiamo dato un numero sbagliato, ed è un po’ frustrato. Ha parlato con Esme».

«Dovrei chiamarlo», mormorai fra me, ma ascoltando la mia voce compresi che c’era una nuova difficoltà. Non l’avrebbe riconosciuta. Non l’avrebbe di certo rassicurato. E poi, s’intromise la prima sorpresa. «Aspetta... Jacob è ancora qui.

Un altro scambio di sguardi.

«Bella», disse subito Edward. «C’è molto di cui parlare, ma prima di tutto dobbiamo pensare a te. Sicuramente starai soffrendo per la sete...».

Quando sottolineò questo, ricordai l’arsura e deglutii di colpo. «Ma Jacob...».

«Avremo tutto il tempo del mondo per le spiegazioni, amore», mi ricordò con dolcezza.

Certo. Avrei aspettato un altro po’ per la risposta; sarebbe stato più facile ascoltare senza il dolore intenso della sete incandescente che sconvolgeva la mia concentrazione. «Okay».

«Alt, alt, alt», fremette Alice sulla porta. Entrò danzando nella stanza, con grazia da sogno. Come con Edward e Carlisle, rimasi scioccata quando la vidi davvero. Era adorabile. «Avevate promesso che ci sarei stata anch’io la prima volta! Che ne dite di portare qui una bella superficie riflettente?».

«Alice...», protestò Edward.

«Ci vorrà solo un secondo!», e schizzò via.

Edward sospirò.

«Di cosa sta parlando?».

Ma Alice era già di ritorno, assieme all’enorme specchio con la cornice dorata che stava in camera di Rosalie, alto quasi due volte lei e largo molto di più.

Fino a quel momento Jasper era rimasto talmente immobile che non avevo più pensato alla sua presenza. Si spostò da dietro Carlisle per avvicinarsi ad Alice, gli occhi inchiodati alla mia espressione. Perché il pericolo ero io.

Sapevo che stava studiando anche il mio stato d’animo e dovette avvertire la mia sensazione di sbalordimento mentre osservavo il suo viso, guardandolo da vicino per la prima volta.

Ai miei miopi occhi umani, le cicatrici lasciate dalla sua vita precedente con l’esercito dei neonati nel Sud erano quasi invisibili. Avrei potuto notarle soltanto sotto una luce forte, che ne mettesse a fuoco le sagome leggermente sporgenti.

Ora che ci vedevo bene, le cicatrici erano la sua caratteristica dominante. Era difficile non fissarsi sul collo e sulla mascella, devastati; difficile credere, persino per un vampiro, che fosse sopravvissuto a tutti quei denti conficcati nella gola.

Istintivamente m’irrigidii per difendermi. Qualsiasi vampiro avesse incontrato Jasper avrebbe avuto la stessa reazione. Le cicatrici erano come un’insegna luminosa. Pericolo, urlavano. Quanti vampiri avevano provato a uccidere Jasper? Centinaia? Migliaia? Lo stesso numero che era morto nel tentativo.

Jasper vide e percepì al tempo stesso il mio giudizio, la mia cautela, e sorrise sardonico.

«Edward non mi ha dato la soddisfazione di metterti davanti a uno specchio prima del matrimonio», disse Alice, distraendo la mia attenzione dal suo spaventoso compagno. «E non ho più intenzione di farmi mettere i piedi in testa».

«In testa?», chiese Edward scettico, inarcando un sopracciglio.

«Forse sto esagerando», mormorò lei soprappensiero e girò lo specchio verso di me.

«E forse tutto questo ha a che fare soltanto con la tua gratificazione voyeuristica», considerò lui.

Alice gli fece l’occhiolino.

Prestai pochissima attenzione a questo scambio. La maggior parte della mia concentrazione era convogliata sulla persona nello specchio.

La prima reazione fu un piacere inconsapevole. La creatura aliena riflessa era indiscutibilmente bellissima, almeno quanto Alice o Esme. Era flessuosa persino se immobile e il suo viso perfetto, pallido come la luna, era incorniciato da una folta chioma di capelli neri. Gli arti erano sinuosi e forti, la pelle brillava leggermente, luminosa come perla.

La seconda reazione fu di orrore.

Chi era quella? A un primo sguardo non ritrovai il mio viso nella superficie liscia e perfetta dei suoi tratti.

E gli occhi! Dovevo aspettarmeli, ma gli occhi mi crearono lo stesso un brivido di terrore.

Mentre studiavo e reagivo a quella figura, il volto rimase perfettamente composto, la scultura di una dea, e non mostrava niente del tumulto che mi si agitava dentro. Poi le sue labbra piene si mossero.

«Gli occhi?», sussurrai, incapace di dire i miei occhi. «Per quanto tempo?».

«Fra qualche mese saranno più scuri», disse Edward con voce tenera, confortante. «Il sangue animale diluisce il colore più velocemente del sangue umano. Prima diventeranno d’ambra, poi dorati».

I miei occhi sarebbero divampati come crudeli fiamme rosse per mesi?

«Mesi?», dissi con voce più alta, enfatica. Allo specchio, le sopracciglia perfette s’inarcarono incredule su quegli occhi cremisi ardente, più luminosi di quanto avessi mai visto.

Jasper fece un passo avanti, allarmato dalla repentina intensità della mia ansia. Conosceva troppo bene i giovani vampiri: queste emozioni erano il preludio a un passo falso?

Nessuno rispose alla mia domanda. Osservai Edward e Alice. I loro occhi erano leggermente distratti: una reazione all’inquietudine di Jasper. Ascoltavano ciò che l’aveva procurata e guardavano all’immediato futuro.

Feci un altro respiro profondo e inutile.

«No, sto bene», li rassicurai. I miei occhi guizzarono verso l’estranea allo specchio, poi verso di loro. «È solo che... non è facile accettare tutto».

Jasper corrugò la fronte, evidenziando le due cicatrici sull’occhio sinistro.

«Non lo so», mormorò Edward.

La donna allo specchio aggrottò la fronte. «Che domanda mi sono persa?».

Edward sorrise. «Jasper si chiedeva come fai».

«A fare che?».

«A controllare le tue emozioni, Bella», rispose Jasper. «Non ho mai visto un neonato in grado di frenare così le emozioni che sta provando. Eri turbata, ma quando hai notato la nostra preoccupazione ti sei dominata e hai ripreso il controllo di te stessa. Ero pronto a darti una mano, ma non ne hai avuto bisogno».

«C’è qualcosa che non va?», chiesi. Il mio corpo restò automaticamente impietrito, in attesa del verdetto.

«No», disse, ma la voce era insicura.

Edward mi accarezzò il braccio, un incoraggiamento a rilassarmi. «È impressionante, Bella, ma non lo capiamo. Non sappiamo quanto durerà».

Ci pensai un attimo. Avrei potuto esplodere in qualunque momento? Trasformarmi in un mostro?

Eppure non avvertivo nulla del genere. Forse non c’era modo di anticipare una cosa del genere.

«Piuttosto, che ne pensi?», chiese Alice, un po’ impaziente, guardando lo specchio.

«Non lo so», tergiversai, senza voler ammettere quanto ero spaventata.

Fissai la donna stupenda dagli occhi terrificanti, cercandovi qualche parte di me. C’era qualcosa nella forma delle labbra: al di là della bellezza frastornante, il labbro superiore era leggermente sbilanciato, un po’ troppo pieno rispetto a quello inferiore. Ritrovare quel piccolo difetto familiare mi fece sentire un po’ meglio. Forse da qualche parte c’era anche il resto di me.

Alzai la mano per fare una prova e la donna nello specchio mi imitò, toccandosi il viso. I suoi occhi cremisi mi guardavano circospetti.

Edward sospirò.

Mi voltai verso di lui alzando un sopracciglio.

«Deluso?», chiesi con voce melodiosa e impassibile.

Rise. «A dire la verità, un po’ sì», disse.

Sentii la sorpresa sbriciolare la mia maschera composta e il dolore che seguì all’istante.

Alice ringhiò. Jasper si sporse di nuovo avanti, aspettando che scattassi.

Ma Edward li ignorò, mi abbracciò stretta malgrado fossi immobile e premette le labbra contro la mia guancia. «Sai, speravo di poter finalmente ascoltare la tua mente, ora che è più simile alla mia», mormorò. «Invece eccomi qua, frustrato come sempre, a chiedermi che cosa diavolo ti passa per la testa».

Mi sentii subito meglio. «Ah, be’», dissi leggera, lieta che i miei pensieri fossero ancora miei. «Mi sa che il mio cervello non funzionerà mai bene. Se non altro sono carina».

Era già più facile scherzare con lui, pensare in modo chiaro. Essere me stessa.

Edward ruggì al mio orecchio. «Bella, tu non sei mai stata solo carina».

Poi allontanò il viso e sospirò. «Va bene, sì», disse a qualcuno.

«Cosa?», chiesi.

«Stai facendo innervosire Jasper ogni secondo che passa. Si rilasserà soltanto dopo che sarai andata a caccia».

Guardai l’espressione preoccupata di Jasper e annuii. Se proprio doveva succedere, non volevo perdere le staffe in casa. Meglio essere circondata da alberi che da familiari.

«Okay. Andiamo a caccia», concordai, e un brivido di nervosismo e aspettativa sussultò nel mio stomaco. Mi sciolsi dall’abbraccio di Edward, lo presi per mano e voltai le spalle alla donna strana e bellissima nello specchio.

21 Prima caccia

«Dalla finestra?», chiesi fissando un piano più giù.

L’altezza di per sé non mi aveva mai spaventata, ma vedere con chiarezza tutti i dettagli faceva apparire meno allettante la prospettiva. Gli spigoli delle pietre erano più affilati di quanto avessi mai immaginato.

Edward sorrise. «È l’uscita più veloce. Se hai paura, ti porto io».

«Abbiamo l’eternità davanti, e ti preoccupi del tempo che ci metteremmo a uscire dal retro?».

Si accigliò leggermente. «Giù ci sono Renesmee e Jacob...».

«Ah».

Giusto. Adesso il mostro ero io. Dovevo tenermi lontana dagli odori che potevano innescare il mio lato selvaggio, in particolare dalle persone che amavo. Ma anche da quelle che non conoscevo ancora.

«Renesmee sta bene... con Jacob lì?», sussurrai. Finalmente mi resi conto che il cuore che avevo sentito battere giù doveva essere quello di Jacob. Tesi di nuovo l’orecchio, ma udivo soltanto le pulsazioni accelerate. «Non gli è mai andata a genio».

Le labbra di Edward si tesero in modo strano. «Fidati, è perfettamente al sicuro. Conosco i pensieri di Jacob dal primo all’ultimo».

«Ovvio», mormorai e guardai di nuovo giù.

«Stai forse prendendo tempo?», mi provocò.

«Un po’. Non so come...».

Ero consapevole che dietro di me i miei familiari mi guardavano in silenzio. Più o meno: Emmett aveva già ridacchiato sotto i baffi una volta. Un errore e si sarebbe sganasciato. E sarebbero iniziate le barzellette sull’unica vampira imbranata al mondo!

E poi, il vestito, che Alice probabilmente mi aveva infilato mentre ero troppo persa nel fuoco per accorgermene, non era certo quello che avrei scelto per mettermi a saltare per cacciare. Aderente seta azzurra? A cosa pensava che mi sarebbe servito? O forse era in programma un cocktail party dopo?

«Guardami», disse Edward. Poi, con grande disinvoltura, usci dalla finestra aperta e cadde.

Lo osservai con attenzione, analizzando l’angolo con cui aveva piegato le ginocchia per assorbire l’impatto. Il suono dell’atterraggio era stato sordo, come una porta chiusa con dolcezza o un libro posato con delicatezza sopra un tavolo.

Non sembrava difficile.

Mi concentrai serrando i denti e provai a copiare il suo passo disinvolto nel vuoto.

Ah! Il terreno parve muoversi verso di me così lentamente che fu cosa da niente poggiare il piede — che scarpe mi aveva messo addosso Alice? Tacchi a spillo? Pazza! — e posare le mie stupide scarpe a terra come se stessi banalmente camminando.

Assorbii l’impatto sulla punta dei piedi, perché non volevo spezzare i tacchi sottili. L’atterraggio era stato tranquillo come quello di Edward. Gli sorrisi.

«È vero. È facile».

Ricambiò il sorriso. «Bella?».

«Sì?».

«Sei stata molto aggraziata... anche per un vampiro».

Ci pensai su un attimo e poi m’illuminai. Se l’aveva detto tanto per dire, perché Emmett non si era messo a ridere? Nessuno trovò il suo commento divertente, perciò forse era vero. Nessuno aveva mai usato la parola "aggraziata" per descrivermi, in una vita, anzi, in un’esistenza intera.

«Grazie», risposi.

Poi, mi sfilai le scarpe d’argento satinato e le lanciai verso la finestra aperta. Con troppa energia, forse, ma per fortuna qualcuno le colse al volo prima che potessero rovinare le pareti di legno.

Alice brontolò: «Il suo senso estetico non è migliorato quanto il suo equilibrio».

Edward mi prese la mano — non smettevo di meravigliarmi di come fosse liscia la sua pelle e la sua temperatura gradevole — e guizzò per il prato fino alla riva del fiume. Lo seguii senza sforzi.

Ogni attività fisica sembrava molto semplice.

«Dobbiamo nuotare?», gli chiesi quando ci fermammo di fronte all’acqua.

«E rovinare il tuo bel vestito? No. Dobbiamo saltare».

Contrassi le labbra mentre ci pensavo. Il fiume in quel punto era largo una quarantina di metri.

«Prima tu», dissi.

Mi toccò la guancia, prese due lunghi passi di rincorsa e scattò, lanciandosi da una pietra liscia saldamente ancorata alla sponda. Studiai il suo movimento fulmineo mentre tracciava un arco sopra l’acqua e faceva una capriola prima di scomparire fra il fitto degli alberi dall’altra parte del fiume.

«Esibizionista», mugugnai e udii la sua risata invisibile.

Feci cinque passi indietro, per sicurezza, e respirai a fondo.

All’improvviso ero di nuovo ansiosa. Non di cadere né di farmi male. Ero preoccupata di procurare danni alla foresta.

Era affiorata lentamente, ma ora la sentivo: la forza grezza e massiccia che vibrava nei miei arti. D’un tratto fui sicura che se avessi voluto scavare un tunnel sotto il fiume, farmi strada a unghiate o a pugni sul fondo, non ci avrei messo molto. Tutto attorno a me, gli alberi, gli arbusti, le rocce... la casa, iniziava ad apparirmi molto fragile.

Sperando che Esme non fosse particolarmente affezionata a nessun albero dall’altra parte del fiume, feci la prima falcata. Poi mi fermai, quando la seta attillata si strappò di quindici centimetri lungo la coscia.

Be’, Alice in fondo trattava i vestiti come fossero tutti usa e getta e non si sarebbe dispiaciuta troppo. Mi chinai per afferrare i lembi della cucitura danneggiata e, esercitando la minor pressione possibile, strappai il vestito per tutta la lunghezza della coscia. Poi sistemai in quel modo anche l’altro lato.

Molto meglio.

Sentii le risate smorzate dentro casa, e il suono di qualcuno che digrignava i denti. La risata veniva dal piano di sopra, mentre riconobbi molto facilmente quel ridacchiare rauco, brusco, così diverso, dal piano terra.

Anche Jacob mi stava osservando? Non riuscivo a immaginare cosa stesse pensando o cosa facesse ancora lì. Avevo sperato di poterlo ritrovare, se mai mi avesse perdonata, in un futuro lontano, quando io fossi stata più stabile e il tempo avesse guarito le ferite che avevo inflitto al suo cuore.

Non mi voltai a guardarlo, consapevole dei miei sbalzi d’umore. Non era il caso di lasciare che le emozioni mi condizionassero il pensiero. I timori di Jasper si erano trasmessi anche a me. Prima di cimentarmi con qualsiasi altra cosa, dovevo cacciare. Provai a dimenticare tutto il resto, in modo da concentrarmi.

«Bella?», mi chiamò la voce di Edward che si avvicinava dal bosco. «Vuoi che ti mostri di nuovo come si fa?».

Ma ricordavo ogni dettaglio, ovviamente, e non volevo dare a Emmett un’ulteriore ragione per ridere di quelle mie prime lezioni. Si trattava di una questione fisica, doveva essere istintiva. Respirai a fondo e corsi verso il fiume.

Eliminato l’ostacolo della gonna, mi bastò un unico lungo balzo per raggiungere l’altra riva. Solo un ottantaquattresimo di secondo, che mi parve lunghissimo; i miei occhi e la mia mente si muovevano così veloci che un passo fu sufficiente. Fu semplice poggiare il piede destro sulla pietra piatta ed esercitare la pressione utile a far schizzare il mio corpo per aria. Prestai più attenzione alla mira che alla forza, così mi sbagliai sulla quantità di potenza necessaria; se non altro, non corsi il rischio di bagnarmi. Saltare più in là di quarantacinque metri era fin troppo facile...

Fu una cosa strana, vertiginosa, elettrizzante, ma breve. Non era passato neanche un secondo e già ero dall’altra parte.

Mi aspettavo che la vegetazione fitta costituisse un problema, invece fu sorprendentemente utile. Mentre ricadevo fra gli alberi, fu semplice allungare una mano per aggrapparmi a un ramo provvidenziale; mi lasciai penzolare e atterrai sulla punta dei piedi, a meno di cinque metri da terra, sull’ampia fronda di un abete Sitka.

Fantastico.

Oltre allo scampanio delle mie risate deliziose, sentii Edward corrermi incontro. Il mio salto era stato due volte più lungo del suo. Quando mi raggiunse, era incredulo. Saltai agile dal ramo fino al suo fianco e atterrai silenziosa, di nuovo sulla punta dei piedi.

«Andava bene?», chiesi stupita, con il respiro accelerato dall’eccitazione.

«Ottimo». Sorrise d’approvazione, ma il suo tono disinvolto non si accordava all’espressione sorpresa degli occhi.

«Possiamo farlo di nuovo?».

«Concentrati, Bella. Questa è una battuta di caccia».

«Oh, è vero». Annuii. «Caccia».

«Seguimi... se ci riesci». Sogghignò, improvvisamente sarcastico, e scattò di corsa.

Era più veloce di me. Non capivo come potesse muovere le gambe a una velocità così impressionante, ma non era il caso di sforzarmi. Comunque fosse, ero più forte di lui e ogni mia falcata valeva tre delle sue. Perciò volai con lui attraverso la ragnatela verde e vitale, al suo fianco, senza mai cedere terreno. Correndo non potevo evitare di ridacchiare per l’eccitazione e quel riso non mi rallentò né compromise la mia concentrazione.

Finalmente capivo come facesse Edward a non sbattere mai contro gli alberi durante la corsa; per me era sempre stato un mistero. Era una sensazione singolare: equilibrio fra velocità e nitidezza. Mentre correvo a razzo sopra, sotto e attraverso lo spesso labirinto color giada a una velocità che avrebbe dovuto ridurre tutto a una macchia striata di verde, distinguevo chiaramente ogni piccola foglia di ogni microscopico ramo di ogni insignificante arbusto che sorpassavo.

Per la velocità, sentivo l’aria scompigliarmi i capelli e schiacciare il mio povero vestito. Sapevo che era strano, ma sulla pelle la percepivo calda, così come il terreno duro della foresta non sarebbe dovuto sembrare velluto sotto i miei piedi nudi e i rami che mi sferzavano non sarebbero dovuti sembrare piume che mi accarezzavano.

La foresta era molto più viva di quanto avessi mai pensato: le foglie brulicavano di piccole creature, di cui non avrei mai indovinato l’esistenza. Tutte restavano in silenzio al nostro passaggio, il respiro accelerato dalla paura. Gli animali sembravano reagire al nostro odore con molta più saggezza rispetto agli umani. Be’, su di me aveva avuto l’effetto opposto.

Mi aspettavo che prima o poi sopraggiungesse la stanchezza, invece il respiro procedeva senza sforzo. Aspettavo che i muscoli iniziassero a bruciare, ma mentre mi abituavo alla corsa la mia forza non faceva che aumentare. Accelerai e presto fu Edward a doversi sforzare per tenere il passo. Risi di nuovo, esultante, quando sentii che restava indietro. Il mio piede nudo ora toccava terra così di rado che mi sembrava più di volare che di correre.

«Bella», mi chiamò ironico, con voce calma, quasi pigra. Non sentivo nient’altro. Si era fermato.

Per un istante presi in considerazione l’idea di ammutinarmi.

Ma, con un sospiro, turbinai e balzai leggera al suo fianco, qualche centinaio di metri più indietro. Lo guardai con grande aspettativa. Sorrideva, con un sopracciglio inarcato. Era così bello che non potevo non fissarlo.

«Che ne dici di restare entro i confini nazionali?», mi chiese, divertito. «O stavi pensando di proseguire verso il Canada oggi pomeriggio?».

«Qui va bene», acconsentii, più concentrata sul delizioso movimento delle labbra che sulle sue parole. Era difficile non distrarsi mentre tutto era una sorpresa per la mia nuova vista acuta. «Cosa cacciamo?».

«Alci. Ho pensato a qualcosa di semplice, visto che è la tua prima volta». S’interruppe quando i miei occhi si socchiusero alla parola semplice.

Ma non era il caso di fare storie. Avevo troppa sete. Nel momento stesso in cui iniziai a pensarci, l’arsura s’impadronì completamente di me. Stava proprio peggiorando. La mia bocca era come la Valle della Morte alle quattro di un pomeriggio di giugno.

«Dove?», chiesi scrutando gli alberi impaziente. Ora che le prestavo attenzione, la sete sembrava contaminare tutto il resto, filtrando fra il pensiero della corsa, delle labbra di Edward, dei baci e... che sete ardente. Non riuscivo a liberarmene.

«Fermati un minuto», mi disse posandomi con delicatezza le mani sulle spalle. L’urgenza della sete cedette momentaneamente al suo tocco.

«Ora chiudi gli occhi», mormorò. Obbedii e lui alzò le mani sul mio viso, accarezzandomi gli zigomi. Sentii il respiro accelerare e aspettai invano un rossore che non poteva arrivare.

«Ascolta», consigliò Edward. «Cosa senti?».

Tutto, avrei potuto rispondere; la sua voce perfetta, il suo respiro, le sue labbra sfiorarsi mentre parlava, il sussurro degli uccelli che si lisciavano le piume sulla cima degli alberi, il battito sfarfallante dei loro cuori, il fruscio delle foglie d’acero, gli scatti impercettibili delle formiche che procedevano in fila fino alla corteccia dell’albero più vicino. Ma sapevo che si riferiva a qualcosa di più specifico, dunque allargai il raggio dell’udito, in cerca di qualcosa di diverso dal piccolo brusio vitale che mi circondava. Accanto a noi c’erano uno spazio aperto — il vento aveva un suono diverso sull’erba — e un piccolo ruscello, con un letto sassoso. Lì, vicino al rumore dell’acqua, ecco gli schizzi di lingue che lappavano, il tonfo rumoroso di cuori pesanti che pompavano un flusso denso di sangue...

Sentivo la gola chiudersi in un risucchio.

«Verso nord-est, al ruscello?», chiesi, gli occhi sempre chiusi.

«Sì». Il tono era di approvazione. «Ora... aspetta di nuovo la brezza... che odore senti?».

Più che altro il suo profumo, quello strano misto di miele, lillà e sole. Ma anche il ricco odore di muffa e muschio del terreno, la resina dei sempreverdi, l’aroma caldo, quasi di nocciola, dei piccoli roditori acquattati sotto le radici degli alberi. E poi, più in là, la scia pulita dell’acqua, che a sorpresa, malgrado la sete, non mi allettava affatto. Mi concentrai sull’acqua e trovai l’odore abbinato al rumore delle lingue e ai cuori pulsanti. Un’altra fragranza calda, ricca e penetrante, più forte delle altre. Eppure poco attraente, come quella del ruscello. Arricciai il naso.

Lui ridacchiò. «Lo so... ci vuole un po’ per abituarsi».

«Sono tre?», provai a indovinare.

«Cinque. Ce ne sono due fra gli alberi, dietro di loro».

«Cosa faccio ora?».

La sua voce suonò come se stesse sorridendo. «Cosa ti senti di fare?».

Ci pensai, senza riaprire gli occhi, mentre ascoltavo e respiravo l’odore. Un altro attacco di sete cocente s’intromise nei miei pensieri e all’improvviso la fragranza calda e penetrante non era più così detestabile. Se non altro era qualcosa di caloroso e umido nella mia bocca riarsa. Sgranai gli occhi.

«Non pensarci», mi suggerì mentre sollevava le mani dal mio viso e faceva un passo indietro. «Segui l’istinto».

Mi lasciai trasportare dalla scia, appena consapevole dei miei movimenti mentre mi nascondevo lungo il declivio dello stretto prato presso cui scorreva il fiume. Il mio corpo si tese automaticamente in avanti e mi accovacciai immobile fra le felci che delimitavano la boscaglia. Accanto al ruscello vidi un grosso alce, con corna a grandi palchi sulla testa, e le sagome confuse nell’ombra degli altri quattro che a passo tranquillo si dirigevano verso est nel bosco.

Mi concentrai sul profumo del maschio, sul punto del suo collo peloso in cui il calore pulsava più forte. Solo trenta metri — due o tre salti — ci dividevano. Tesa, mi preparai al primo balzo.

Ma, mentre i miei muscoli si contraevano, il vento cambiò direzione e una forte folata venne da sud. Non mi fermai a pensarci e sfrecciai dagli alberi lungo una rotta perpendicolare al mio piano originario, spaventando l’alce e rincorrendo un’altra scia, così attraente da non concedermi possibilità di scelta. Era un obbligo.

L’odore mi dominava senza scampo. Non riuscivo a pensare ad altro mentre ne seguivo le tracce, consapevole solo della sete e della scia che prometteva di placarla. La sete peggiorò e divenne così dolorosa da confondere tutti gli altri pensieri e ricordarmi il veleno che mi era bruciato nelle vene.

Soltanto una cosa aveva la possibilità di fare breccia nella mia concentrazione: un istinto più potente, più essenziale della necessità di spegnere il fuoco. Quello di proteggermi dal pericolo. L’autodifesa.

Di colpo fui consapevole che qualcuno mi stava seguendo. L’attrazione dell’odore irresistibile lottava con l’impulso di girarmi e difendere la mia caccia. Una bolla di suono si gonfiò nel mio petto e le mie labbra si tesero spontaneamente per mostrare i denti. I piedi rallentarono, mentre ero in dubbio fra la necessità di guardarmi alle spalle e il desiderio di placare la sete.

Poi udii l’inseguitore avvicinarsi e il senso d’autodifesa vinse. Mi girai, e il suono mi uscì dalla gola, straziante.

Il ringhio feroce che nasceva dalla mia stessa bocca fu così inaspettato da farmi riprendere lucidità. Mi scosse e chiarì i pensieri per un secondo. L’annebbiamento della sete svanì, malgrado l’arsura.

Il vento cambiò e mi soffiò in faccia l’odore di terra bagnata e di pioggia in arrivo, liberandomi ancora un poco dalla morsa incandescente dell’altro odore: un profumo così delizioso che poteva essere solo umano.

Edward era fermo a qualche metro di distanza, con le braccia tese come per abbracciarmi. O contenermi. Il viso era concentrato e cauto mentre mi guardava, impietrita e terrorizzata.

Capii che ero stata sul punto di attaccarlo. Di soprassalto, mi raddrizzai e abbandonai la posizione difensiva. Trattenni il respiro mentre mi concentravo, nel timore che il potere di quella fragranza rispuntasse da sud.

Lui vide la ragione tornare sul mio viso e avanzò verso di me, abbassando le braccia.

«Devo andarmene da qui», sputai fra i denti, con il fiato corto che avevo.

La sorpresa gli attraversò il volto. «Ci riesci.

Non ebbi il tempo di chiedergli cosa intendesse. Sapevo che la capacità di ragionare con chiarezza sarebbe durata solo finché avessi potuto impedirmi di pensare a...

Ripartii di corsa, una volata a tutta velocità verso nord, concentrandomi soltanto sulla sgradevole sensazione di privazione sensoriale, unica risposta del mio corpo all’assenza d’aria. Il mio unico obiettivo era correre abbastanza lontano da lasciarmi quella scia alle spalle. Da non poterla ritrovare nemmeno se avessi cambiato idea.

Di nuovo, fui consapevole di essere seguita, ma stavolta ero lucida. Combattei l’istinto di respirare e di sfruttare gli odori nell’aria per assicurarmi che fosse Edward. Non dovetti sforzarmi troppo a lungo; correvo più veloce di prima, schizzando come una cometa fra i sentieri più dritti che fui capace di trovare in mezzo agli alberi, ma Edward mi raggiunse dopo neanche un minuto.

Un nuovo pensiero mi balzò alla mente e mi fermai inerte, i piedi piantati a terra. Ero certa di essere al riparo, ma trattenni ugualmente il respiro.

Edward sfilò via, sorpreso di trovarmi immobile. Tornò indietro e mi fu accanto in un secondo. Posò le mani sulle mie spalle e mi fissò negli occhi. Il suo volto era dominato dalla sorpresa.

«Come hai fatto?», domandò.

«Mi hai lasciato vincere prima, vero?», replicai, ignorando la domanda. E io che pensavo di essere stata così brava!

Quando aprii la bocca sentii il profumo dell’aria. Era pulita, senza tracce dell’odore irresistibile che stuzzicava la mia sete. Feci un respiro cauto.

Lui si strinse nelle spalle e scosse la testa, rifiutando di cambiare argomento. «Bella, come hai fatto?».

«A correre via? Ho trattenuto il respiro».

«Ma come hai fatto a interrompere la caccia?».

«Quando mi sei spuntato dietro... Mi dispiace tanto».

«Perché chiedi scusa a me? È stata una mia tremenda negligenza. Pensavo che non ci sarebbe stato nessuno così lontano dai sentieri, ma avrei dovuto controllare. Che errore da stupido! Non hai niente di cui scusarti, tu».

«Ma ti ho ringhiato contro!». Ero ancora terrorizzata di essere stata fisicamente capace di una tale blasfemia.

«Ovvio. È del tutto naturale. Ma non riesco a capire come hai fatto a scappare».

«Che altro dovevo fare?», chiesi. Il suo atteggiamento mi creava confusione. Cosa voleva che facessi? «Poteva essere qualcuno che conosco!».

Mi spaventò il suo accesso di risate che gli fece chinare la testa all’indietro, per poi echeggiare fra gli alberi.

«Perché ridi di me?».

Si fermò subito e vidi che era tornato circospetto.

Controllati, mi dissi. Dovevo tenere a bada il mio temperamento. Come fossi un giovane licantropo, anziché una vampira.

«Non rido di te, Bella. Rido perché sono senza parole. E sono senza parole perché sono completamente strabiliato».

«Ma perché?».

«Tu non dovresti essere in grado di fare queste cose. Di essere così... razionale. Non dovresti essere in grado di stare qui a discutere con calma e freddezza. E soprattutto, non dovresti essere in grado di scappare, nel bel mezzo di una caccia, dalla scia del sangue umano nell’aria. Persino i vampiri maturi hanno difficoltà a farlo. Siamo sempre molto attenti a dove cacciamo, in modo da non trovarci sulla via della tentazione. Bella, tu ti comporti come se fossi una vampira da decenni invece che da pochi giorni».

«Oh». Sapevo che sarebbe stato difficile, ecco perché stavo così in guardia: mi aspettavo che fosse così.

Di nuovo mi prese il viso fra le mani, con occhi accesi di meraviglia. «Non sai cosa darei per poter leggere nella tua mente anche solo per questo istante».

Che emozioni potenti. Alla sete ero pronta, ma non a questo. Ero certa che la sensazione del suo contatto non sarebbe stata più la stessa. Be’, a dirla tutta, non lo era.

Era molto più amplificata.

Mi allungai per seguire il profilo del suo viso; mi attardai con le dita sulle sue labbra.

«Credevo che per un bel po’ avrei dovuto rinunciare a queste sensazioni...», la mia incertezza fece somigliare la frase a una domanda. «E invece ti desidero lo stesso».

Batté le palpebre, stupefatto. «Come puoi concentrarti su un’idea del genere? Non muori di sete?».

Certo che ne morivo ora che me l’aveva ricordato! Provai a deglutire e sospirai, chiudendo gli occhi come avevo fatto prima per concentrarmi. Lasciai che i sensi si estendessero attorno a me, tesi, nel timore di un’ulteriore ondata di delizioso profumo tabù.

Edward abbassò le mani senza neanche respirare mentre ascoltavo sempre più a fondo i rumori della ragnatela verde e passavo al vaglio i profumi, i suoni, in cerca di qualcosa che non fosse del tutto repellente alla mia sete. Ed ecco la traccia di qualcosa di diverso, debole, verso est...

I miei occhi si aprirono di scatto, ma la mia concentrazione era dedicata a sensi più raffinati, mentre mi lanciavo e sfrecciavo silenziosa verso est. Il terreno salì ripido e scosceso quasi di colpo e io corsi in posizione di caccia, accovacciata, arrampicandomi sugli alberi quando potevo. Più che sentirne il rumore, avvertivo la presenza di Edward accanto a me: rimontava silenzioso attraverso il bosco, lasciando che fossi io a guidare.

La vegetazione si fece più rada mano a mano che salivamo; il profumo di pino e resina diventava sempre più potente, così come la traccia che stavo seguendo; un odore caldo, più nitido e invitante di quello dell’alce. Dopo qualche secondo sentii il passo sordo di zampe immense, molto meno evidente dello scalpiccio degli zoccoli. Veniva dall’alto, dalla vegetazione anziché dal terreno. Automaticamente anch’io mi lanciai sui rami, guadagnando una posizione strategica più alta, a metà di un torreggiante abete argentato.

Il rumore morbido delle zampe continuava circospetto sotto di me; quella fragranza così ricca era vicinissima. I miei occhi ne localizzarono il movimento e vidi il mantello fulvo dell’enorme felino muoversi di soppiatto lungo l’ampia chioma di un abete rosso, appena al di sotto e a sinistra del mio trespolo. Era grosso, almeno quattro volte più di me. Lo sguardo era fisso sul terreno sottostante: anche lui era a caccia. Intercettai l’odore di qualcosa di più piccolo, più delicato, vicino all’aroma della mia preda, acquattato sotto gli alberi. La coda del puma oscillava spasmodica mentre si preparava a scattare.

Con un balzo leggero, volai in aria e atterrai sul suo ramo. Quando sentì tremare il legno si voltò di scatto e ruggì di sorpresa e in segno di sfida. Graffiò con una zampata lo spazio fra noi, gli occhi accesi di furia. Mezza accecata dalla sete, ignorai le fauci spalancate e gli artigli uncinati e mi lanciai su di lui, trascinando entrambi sul terreno della foresta.

Lo scontro non fu granché.

L’impatto delle unghie taglienti sulla pelle somigliava a quello di dita carezzevoli. I suoi denti non riuscirono a far presa né sulla mia spalla né sul collo. Il suo peso non era niente per me. I miei denti trovarono senza errori la sua gola e la sua resistenza istintiva fu tristemente fragile contro la mia forza. Le mie mascelle si chiusero morbide nel punto preciso in cui si concentrava il flusso di calore.

Fu semplice come mordere il burro. I miei denti erano rasoi d’acciaio: tagliarono la pelliccia, il grasso e i tendini come se non ci fossero.

L’odore non era quello giusto, ma il sangue caldo e umido placò la mia smania, mentre bevevo con bramosia ardente. La resistenza del felino si fece sempre più debole e i suoi strepiti si affievolirono in un gorgoglio. Il calore del sangue s’irradiò lungo tutto il mio corpo e mi riscaldò fino alla punta delle dita.

Il puma perse le forze prima che io potessi riprenderle. Dopo averlo dissanguato, la sete divampò di nuovo e spinsi via la sua carcassa con disgusto. Come potevo essere ancora assetata?

Mi alzai con un movimento fulmineo. Mi resi conto di essere un mezzo disastro. Mi pulii il viso con il dorso della mano e provai a sistemare il vestito. Gli artigli, inefficaci sulla mia pelle, avevano avuto un certo successo con la seta.

«Mmm», disse Edward. Alzai lo sguardo e lo vidi, appoggiato comodamente contro il tronco di un albero, mentre mi osservava pensieroso.

«Immagino che avrei potuto fare di meglio». Ero tutta sporca, con i capelli arruffati, il vestito macchiato di sangue e ridotto a brandelli. Edward non tornava dalle battute di caccia ridotto così.

«Te la sei cavata alla grande», mi rassicurò. «È solo che... stare a guardarti è stato molto più difficile di quanto immaginassi».

Alzai le sopracciglia, confusa.

«Non è da me lasciarti lottare contro un puma. Ho rischiato un attacco d’ansia per tutto il tempo».

«Che scemo».

«Lo so. Le abitudini sono dure a morire. Ma apprezzo le migliorie al tuo vestito».

Se avessi potuto arrossire, l’avrei fatto. Cambiai argomento. «Perché ho ancora sete?».

«Perché sei giovane».

Sospirai. «E non credo che ci siano altri puma nelle vicinanze».

«Però è pieno di cervi».

Feci una smorfia. «Non hanno un profumo così buono».

«Sono erbivori. L’odore dei carnivori è più simile a quello umano», spiegò.

«Be’, non proprio», ribattei provando a non ricordarmene.

«Se vuoi possiamo tornare indietro», disse serio, ma c’era una luce ironica nei suoi occhi. «Chiunque fosse, se erano dei maschi forse non avrebbero avuto paura della morte vedendola arrivare per mano tua». Il suo sguardo si soffermò di nuovo sul mio vestito sbrindellato. «Nel momento in cui fossi apparsa, avrebbero pensato di essere già morti e assunti in paradiso».

Alzai gli occhi al cielo e sbuffai. «Andiamo a cacciare qualche erbivoro puzzolente».

Sulla strada verso casa trovammo un grosso branco di cervi muli. Edward cacciò insieme a me, ora che ci avevo preso la mano. Io abbattei un grosso maschio, combinando più o meno lo stesso disastro che avevo fatto con il puma. Prima che terminassi con il primo, lui ne aveva già finiti due, senza neanche un capello fuori posto, né una macchia sulla camicia immacolata. Inseguimmo il branco sparpagliato e terrorizzato ma, invece di mangiare ancora, osservai attentamente Edward per vedere come riuscisse a cacciare in modo così pulito.

Mi ero sempre lamentata che lui non mi portasse con sé quando andava a caccia, ma in cuor mio ne provavo sollievo. Perché ero sicura che vederlo sarebbe stato spaventoso. Anzi, orribile. Che vederlo cacciare avrebbe finalmente smascherato la sua natura mostruosa.

Ovviamente, dalla mia nuova prospettiva di vampira, le cose erano molto diverse. Ma tutto sommato pensai che anche i miei occhi umani sarebbero stati in grado di coglierne la bellezza.

Era un’esperienza sorprendentemente sensuale osservare Edward a caccia. Il suo scatto fluido era come lo strisciare sinuoso di un serpente; la sua presa così sicura, forte, inevitabile; le sue labbra piene erano perfette mentre scoprivano con grazia i denti luccicanti. Era magnifico. Sentii un sussulto improvviso di orgoglio e desiderio. Era mio. Nessuno ci avrebbe separati d’ora in poi. Ero troppo forte perché mi strappassero dal suo fianco.

Fu molto veloce. Si voltò verso di me e fissò curioso la mia espressione gongolante.

«Passata la sete?», chiese.

Scrollai le spalle. «Sei tu che mi hai distratto. Sei molto più bravo di me».

«Secoli di pratica». Sorrise. Nei suoi occhi, una deliziosa e sconcertante ombra d’oro color miele.

«Non più di uno», lo corressi.

Rise. «Sei soddisfatta per oggi? O vuoi continuare?».

«Soddisfatta, credo». Mi sentivo molto sazia, quasi ubriaca. Non ero sicura di quanto fluido potesse contenere il mio corpo. Il bruciore in gola si era momentaneamente spento. Del resto, sapevo che la sete era una condizione inevitabile della mia nuova vita.

Ma ne valeva la pena.

Mi sentivo padrona di me stessa. Forse esageravo, però il fatto di non aver ucciso nessuno, quel giorno, era una sensazione decisamente positiva. Se ero stata in grado di resistere a un umano estraneo, perché non potevo cavarmela di fronte al licantropo e alla figlia mezza-vampira che amavo?

«Voglio vedere Renesmee», dissi. Ora che la sete era sedata, anche se non cancellata, certe vecchie preoccupazioni tornarono a galla. Volevo riconciliare la sconosciuta che era mia figlia con la creatura che avevo amato fino a tre giorni prima. Era una sensazione strana, sbagliata, non averla più dentro di me. A un tratto mi sentii vuota e irrequieta.

Edward mi tese la mano. La presi e la sua pelle mi sembrò più calda di prima. La sua guancia aveva ripreso un filo di colore, le ombre sotto gli occhi erano scomparse.

Non riuscii a resistere alla tentazione di accarezzare ancora il suo viso. E non una volta sola.

Dimenticai che stavo aspettando una risposta, mentre fissavo l’oro scintillante dei suoi occhi.

Era difficile quasi come lo era stato fuggire dall’odore di sangue umano, ma in qualche modo badai a stare attenta, mentre mi allungavo in punta di piedi e lo abbracciavo. Con delicatezza.

Lui non fu così esitante nei movimenti: le sue braccia cinsero i miei fianchi e mi strinsero a lui. Le labbra morbide premettero sulle mie, che non si modellavano più attorno alle sue e mantenevano la propria forma.

Come prima, fu come se il tocco della sua pelle, delle labbra, delle mani, affondasse nella mia pelle, dura e liscia, nelle mie nuove ossa. Fino al centro del mio corpo. Non avevo immaginato che lo avrei potuto amare più di prima.

La mia vecchia mente non sarebbe mai riuscita a contenere tutto quell’amore. Il mio vecchio cuore non avrebbe mai avuto la forza necessaria a sopportarlo.

Forse quella era la parte di me che avrei amplificato nella mia nuova vita. Come la compassione per Carlisle e la devozione per Esme. Forse non sarei mai stata capace di fare niente di interessante o speciale, come Edward, Alice e Jasper. Forse avrei soltanto amato Edward come nessuno nella storia del mondo aveva mai amato nessun altro.

Mi andava bene anche così.

Qualche gesto lo ricordavo ancora — passare le dita sui suoi capelli, tracciare il contorno del suo petto — ma altri erano nuovi. Lui era nuovo. Era un’esperienza completamente diversa sentire Edward che mi baciava con forza, senza alcuna paura. Risposi a quella intensità e all’improvviso cademmo.

«Ops», dissi e lui rise sotto di me. «Non volevo assalirti così. Tutto okay?».

Mi accarezzò il viso. «Direi più che okay». Poi un’espressione perplessa lo sfiorò. «Renesmee?», chiese incerto, cercando di capire che cosa volessi in quel momento. Risposta difficile, perché volevo tante cose tutte insieme.

Neanche lui era esattamente contrario a posticipare il viaggio di ritorno e fu difficile pensare a qualcos’altro che non fosse la sua pelle sulla mia... visto che dei vestiti non era rimasto granché. Ma il ricordo di Renesmee, prima e dopo la nascita, stava diventando sempre più simile a un sogno. Sempre più improbabile. I miei ricordi di lei erano umani e li avvolgeva un’aura di finzione. Niente che non avessi visto con i miei nuovi occhi, toccato con le mie nuove mani, mi appariva reale.

Con il passare dei minuti, la certezza che la piccola sconosciuta fosse vera scivolava via.

«Renesmee», acconsentii malinconica, e mi rialzai in piedi trascinando Edward con me.

22 Promessa

Pensare a Renesmee la riportò al centro della mia mente strana, nuova, spaziosa ma facile alle distrazioni. Troppe domande da fare.

«Parlami di lei», insistetti, mentre Edward mi prendeva per mano. La stretta rallentò appena la nostra corsa.

«È qualcosa di unico al mondo», rispose e nella sua voce risuonò di nuovo una devozione quasi religiosa.

Sentii un’acuta fitta di gelosia per quell’estranea. Lui la conosceva e io no. Non era giusto.

«Quanto somiglia a te? E a me? Be’, a me com’ero prima».

«Sembra avere un’equa proporzione di entrambi».

«Aveva il sangue caldo», ricordai.

«Sì. Il suo cuore batte, anche se un po’ più veloce di quello umano. Anche la sua temperatura è un po’ più calda. E dorme».

«Davvero?».

«Abbastanza, per una neonata. Siamo gli unici genitori al mondo che non hanno bisogno di dormire e nostra figlia dorme già tutta la notte», ridacchiò.

Mi piacque il modo in cui disse nostra figlia. Le parole me la fecero sembrare più vera.

«Ha esattamente lo stesso colore dei tuoi occhi... non sono andati persi, quindi». Mi sorrise. «Sono così belli».

«E dai vampiri cos’ha preso?», chiesi.

«La sua pelle sembra impenetrabile, più o meno come la nostra. Non che qualcuno voglia azzardarsi a verificarlo».

Sgranai gli occhi per la sorpresa.

«È ovvio che nessuno lo farà», mi rassicurò. «Più che mangiare, be’, preferisce bere sangue. Carlisle insiste, vuole convincerla a prendere anche qualche pappa per bambini, ma lei non ne vuole sapere. Non posso certo biasimarla, quella roba ha un cattivo odore anche rispetto al cibo umano».

Restai a bocca aperta. A sentirlo, sembrava quasi che la bambina parlasse già. «Convincerla?».

«È intelligente, da non crederci, e progredisce a passi da gigante. Anche se non parla, almeno non ancora, comunica in modo abbastanza efficace».

«Come, "non ancora"?».

Rallentò l’andatura, lasciandomi il tempo per digerire le sue parole.

«In che senso comunica in modo efficace?», domandai.

«Credo che sarà più semplice se lo vedi con i tuoi occhi. È abbastanza complicato da spiegare».

Ci pensai su. C’erano tante cose che avevo bisogno di vedere con i miei occhi perché divenissero reali. Non ero sicura di essere pronta, perciò cambiai argomento.

«Perché Jacob è rimasto?», chiesi. «Come fa a sopportarlo? Perché mai?». La mia voce melodiosa tremò. «Perché deve soffrire ancora?».

«Jacob non sta soffrendo», rispose in un tono diverso e strano. «Anche se non mi dispiacerebbe fargli cambiare umore», aggiunse a denti stretti.

«Edward!», sibilai strattonandolo per fermarlo — con un piccolo brivido di compiacimento alla certezza di esserne capace. «Come puoi dire una cosa del genere? Jacob ha dato tutto per proteggerci! Con quello che gli ho fatto passare!».

Il vago ricordo mi fece trasalire di vergogna e senso di colpa. Mi sembrava tanto strano che avessi avuto così bisogno di lui. Il senso di vuoto quando lui non c’era era svanito: doveva essere una debolezza umana.

«Vedrai con i tuoi occhi perché la penso così», mugugnò Edward. «Gli ho dato la mia parola che avrà modo di spiegarsi, ma dubito che la vedrai diversamente da me. Però, spesso mi sbaglio sui tuoi pensieri, o no?», strinse le labbra e mi guardò.

«Spiegare cosa?».

Edward scosse la testa. «Ho fatto una promessa. Anche se non sono sicuro di dovergli ancora qualcosa». Serrò i denti.

«Edward, non capisco». La mia testa si riempì di frustrazione e indignazione.

Mi sfiorò una guancia e sorrise dolcemente quando il mio viso si distese e il desiderio ebbe la meglio sul fastidio. «È più difficile di come la fai sembrare, lo so. Me lo ricordo».

«Non mi piace sentirmi confusa».

«Lo so. Andiamo a casa, così potrai vederlo da te». Ma i suoi occhi percorsero ciò che rimaneva dei miei vestiti e aggrottò le sopracciglia. «Mmm». Dopo aver pensato mezzo secondo, si sbottonò la camicia bianca e me la offrì.

«Sono così indecente?».

Un sorrisetto fu la sua risposta.

Feci scivolare le braccia nelle maniche e poi l’abbottonai rapida sul corpetto a brandelli. Ovviamente, lui era rimasto a torso nudo... impossibile non distrarsi.

«Vediamo chi arriva primo», dissi e poi lo misi in guardia: «Stavolta senza favoritismi!».

Mi lasciò la mano con un sorriso. «Dai il via...».

Ritrovare la direzione della mia nuova casa fu più facile che camminare lungo la vecchia strada di Charlie: il nostro profumo aveva lasciato una scia chiara e facile da seguire, anche alla massima velocità. Edward mi fu davanti finché non arrivammo al fiume. Mi arrischiai e spiccai il salto precedendolo, provando a usare la mia forza per batterlo.

«Ah!», esultai, quando sentii il mio piede sfiorare l’erba per primo.

Mentre aspettavo che atterrasse, udii qualcosa di inatteso. Qualcosa di rumoroso e troppo vicino. Un cuore che batteva.

Edward mi fu accanto nello stesso istante, le mani ben ferme sulle mie spalle.

«Non respirare», mi raccomandò inquieto.

Provai a non andare nel panico, impietrita a metà respiro. I miei occhi erano le uniche cose che si muovevano, giravano d’istinto verso la fonte del rumore.

Sul confine fra la foresta e il prato dei Cullen, c’era Jacob a braccia conserte, la mascella tesa. Invisibili, nella boscaglia dietro di lui, sentii due cuori più grandi e il debole spezzarsi dei rami sotto zampate enormi.

«Piano, Jacob», disse Edward. Un ringhio dalla foresta riecheggiò la preoccupazione della sua voce. «Forse non è questo il modo migliore per...».

«Pensi che sarebbe meglio lasciarla prima avvicinare alla bambina?», lo interruppe Jacob. «È più sicuro vedere come si comporta con me. Io guarisco in fretta».

Era un test per vedere se riuscivo a non uccidere Jacob, prima di provare a non uccidere Renesmee? Ero preda di un genere totalmente assurdo di nausea. Non aveva niente a che fare con lo stomaco, ma solo con la testa. Era un’idea di Edward?

Lo guardai in faccia, ansiosa; per un momento parve meditare, poi la sua espressione passò dalla preoccupazione a qualcos’altro. Alzò le spalle e con una decisa sfumatura ostile disse: «Come credi, la gola è tua».

Il ringhio che si alzò dalla foresta era furioso, stavolta: Leah, senza dubbio.

Che gli prendeva? Dopo tutto ciò che avevamo passato, Edward non riusciva a dimostrare un minimo di gentilezza per il mio migliore amico? Avevo pensato, forse stupidamente, che fra lui e Jacob fosse nata una specie di amicizia. Dovevo aver frainteso.

Ma cosa stava facendo Jacob? Perché si offriva come test per proteggere Renesmee?

Tutto ciò non aveva alcun senso per me. Nemmeno se la nostra amicizia fosse sopravvissuta...

E nel momento in cui i miei occhi incontrarono quelli di Jacob, pensai che forse sì, era così. Vedevo ancora il mio migliore amico. Ma non era lui ad aver subito un cambiamento. Come gli apparivo adesso?

Poi sfoderò quel suo sorriso familiare, il sorriso di uno spirito affine, e capii che la nostra amicizia era intatta. Era proprio come prima, quando passavamo i pomeriggi nel suo garage improvvisato, due amici che ammazzano il tempo insieme. Una cosa semplice e normale. Di nuovo notai che lo strano bisogno di lui che sentivo prima della trasformazione era del tutto sparito. Davanti a me c’era solo un amico, proprio come avrebbe dovuto essere.

Ma il suo comportamento non aveva senso. Davvero era così altruista da volermi proteggere con la sua stessa vita da qualsiasi gesto incontrollato di cui avrei potuto pentirmi, in un’agonia eterna? Questo andava ben oltre il limitarsi a tollerare ciò che ero diventata, o provare miracolosamente a restarmi amico. Jacob era una delle persone migliori che conoscessi, ma accettare tutto questo sarebbe stato troppo per chiunque.

Il suo sorriso si allargò ed ebbe un leggero fremito. «Devo dirtelo, Bells. Sei un fenomeno da baraccone».

Contraccambiai il sorriso, ritrovando facilmente i vecchi modi di fare. Era una parte di lui che capivo.

Edward grugnì. «Guardati allo specchio, bastardo».

Il vento si alzò alle mie spalle e l’aria sana di cui mi riempì i polmoni mi permise di parlare. «No, ha ragione. Gli occhi sono proprio strani, vero?».

«Super-spaventosi. Ma non brutti come pensavo».

«Ehi... grazie per il bel complimento».

Alzò gli occhi al cielo. «Sai cosa intendo. Sei ancora tu, be’, più o meno. Forse non è tanto una questione d’aspetto... tu sei Bella. Non pensavo di poter sentire ancora la tua presenza». Sorrise di nuovo, senza alcuna traccia di amarezza o risentimento. Poi ridacchiò e disse: «A ogni modo, penso che mi abituerò presto a quegli occhi».

«Davvero?», chiesi, confusa. Era meraviglioso che fossimo ancora amici, ma non pensavo che avremmo trascorso più molto tempo insieme.

Uno strano sguardo gli attraversò il volto e cancellò il sorriso. Era... colpevole? Poi si rivolse a Edward.

«Grazie», gli disse. «Promessa o no, non ero sicuro che riuscissi a non dirglielo. Di solito esaudisci ogni suo desiderio».

«Forse spero che si arrabbi e ti strappi la testa», insinuò Edward.

Jacob sbuffò.

«Che succede? Mi state nascondendo un segreto?», domandai incredula.

«Ti spiego dopo», disse Jacob soprappensiero, come se non ne avesse davvero intenzione. Cambiò argomento. «Prima di tutto, diamo inizio allo spettacolo». Il suo sorriso era un enigma, ora che mi si avvicinava lentamente.

Ci fu un guaito di protesta dietro di lui, poi il corpo grigio di Leah sbucò dagli alberi. Seth, più alto, color sabbia, era proprio dietro di lei.

«Tranquilli, ragazzi», disse Jacob. «Statene fuori».

Con mia gioia non lo ascoltarono, lo seguirono e basta, un po’ più piano.

Il vento, ora assente, non poteva soffiarmi via il suo odore.

Si avvicinò abbastanza da permettermi di percepire il calore del suo corpo nell’aria. La mia gola bruciò in risposta.

«Su, Bells. Fai del tuo peggio».

Leah sibilò.

Non volevo respirare. Non era giusto prendermi un vantaggio così pericoloso su Jacob, anche se era lui stesso che me lo offriva. Ma non potevo sottrarmi. C’era un altro modo di avere la certezza che non avrei fatto del male a Renesmee?

«Il tempo passa, Bella», scherzò Jacob. «Okay, non tecnicamente, ma è per darti l’idea. Dai, fatti una zaffata».

«Tienimi stretta», dissi a Edward, rannicchiandomi sul suo petto.

Con le mani mi strinse le braccia.

Bloccai tutti i muscoli, sperando di poterli mantenere immobili. Decisi di comportarmi, alla peggio, come durante la caccia. In caso di emergenza avrei smesso di respirare e sarei corsa via. Nervosa ma pronta a tutto, abbozzai un breve respiro dal naso.

Faceva un po’ male, ma del resto la mia gola già bruciava sorda. L’odore di Jacob non era più umano di quello del puma. Nel suo sangue c’era un che di animale che mi disgustò subito. Nonostante il rombo forte e umido del suo cuore fosse invitante, il profumo che lo accompagnava mi fece arricciare il naso. In realtà l’odore rendeva più semplice controllare la mia reazione al suono e al calore del suo sangue pulsante.

Feci un altro respiro e mi rilassai. «Uhm. Ora so quello che intendevano tutti. Tu puzzi, Jacob».

Edward scoppiò a ridere e le sue mani scivolarono dalle mie spalle per cingermi la vita. Seth latrò una risatina a bassa voce, in sintonia con Edward; si avvicinò un po’, mentre Leah arretrò di vari passi. Mi accorsi che c’era altro pubblico quando udii lo sghignazzare basso e inconfondibile di Emmett, attutito dalla vetrata che ci divideva.

«Senti chi parla», rispose Jacob, tappandosi il naso con un gesto teatrale. Il suo viso non fece una grinza mentre Edward mi abbracciava e nemmeno quando si ricompose e mi sussurrò all’orecchio: «Ti amo». Jacob continuava a sorridere e basta. Questo mi fece sperare che le cose fra noi potessero andare per il meglio, come non accadeva da troppo tempo. Forse, finalmente potevo essere davvero sua amica perché lo disgustavo quanto bastava a non amarmi più come prima. Forse era proprio quello che ci voleva.

«Okay, ho superato l’esame, vero?», dissi. «Ora mi dite qual è questo grande segreto?».

L’espressione di Jacob si fece molto nervosa. «Niente di cui tu debba preoccuparti proprio ora».

Sentii Emmett che ridacchiava di nuovo... impaziente.

Avrei insistito, ma oltre a Emmett udii altri suoni: il respiro di sette persone. Un paio di polmoni si muoveva più rapidamente degli altri. E un unico cuore sbatteva come le ali di un uccellino, leggero e veloce.

Catturò la mia attenzione. Mia figlia era dall’altra parte di quella sottile parete di vetro. Non la vedevo: la luce si rifletteva sulla superficie e rimbalzava come da uno specchio. Potevo solo vedere me stessa e il mio aspetto stranissimo, così bianca e immobile, rispetto a Jacob. O rispetto a Edward, impeccabile.

«Renesmee», sussurrai. Lo stress mi trasformò di nuovo in una statua. Di certo Renesmee non aveva l’odore di un animale. Rischiavo di metterla in pericolo?

«Vieni a vedere», mormorò Edward. «So che sarai bravissima».

«Mi aiuterai?», gli sussurrai fra le labbra immobili.

«Certo».

«Anche Emmett e Jasper, nel caso che...?».

«Faremo attenzione, Bella. Non preoccuparti, saremo pronti. Nessuno di noi metterebbe mai in pericolo Renesmee. Rimarrai sorpresa di vedere come ci abbia già stregati tutti quanti. Sarà perfettamente al sicuro, non preoccuparti».

Il desiderio di vederla, di capire la venerazione con cui ne parlava, sciolse la mia rigidità. Feci un passo avanti.

Jacob mi sbarrò la strada, sul volto una maschera di paura.

«Sei sicuro, succhiasangue?», domandò, quasi implorandolo. Non l’avevo mai sentito parlare in quel modo a Edward. «La cosa non mi piace. Forse è meglio se aspetta...».

«Hai già avuto il tuo test, Jacob».

Il test era per Jacob?

«Ma», iniziò Jacob.

«Ma niente», disse Edward, improvvisamente esasperato. «Bella ha bisogno di vedere nostra figlia. Lasciala passare».

Jacob mi lanciò uno sguardo strano, turbato, poi si voltò e scattò per precederci.

Edward grugnì.

Non riuscivo a dare un senso a quel battibecco e non riuscivo nemmeno a concentrarmici. Pensavo soltanto alla bambina sfocata dei miei ricordi e lottavo contro la loro nebbia, provando a ricordare come fosse esattamente il suo viso.

«Pronta?», disse Edward, con voce di nuovo dolce.

Annuii nervosa.

Mi strinse forte la mano nella sua e mi guidò verso casa.

Mi aspettavano tutti, una fila di sorrisi al tempo stesso accogliente e sulla difensiva.

Rosalie era vari passi dietro di loro, accanto alla porta. Stava da sola, finché Jacob non la raggiunse e le si parò davanti, più vicino del normale. Non c’era alcun senso di agio in quella vicinanza, anzi, apparivano entrambi turbati da tanta prossimità.

Una cosa minuscola sporgeva dalle braccia di Rosalie e sbirciava da dietro Jacob. Immediatamente catturò la mia attenzione e ogni mio pensiero come nient’altro da quando avevo riaperto gli occhi.

«È nata solo da due giorni?», ansimai incredula.

La bimba-sconosciuta fra le braccia di Rosalie sembrava avere varie settimane, se non mesi. Era grande almeno il doppio rispetto alla piccolina dei miei vaghi ricordi e già capace di stare a schiena dritta mentre si allungava verso di me. I suoi capelli luminosi, color del bronzo, ricadevano in boccoli dietro le spalle. I suoi occhi color cioccolato mi esaminarono con un interesse per nulla infantile: era adulto, consapevole e intelligente. Per un attimo alzò una mano verso di me, poi la ritirò per toccare il collo di Rosalie.

Se il suo viso non fosse stato così strabiliante, bello e perfetto, non avrei creduto che fosse la stessa bambina. Mia figlia.

Ma nei suoi tratti c’era Edward e, nel colore degli occhi e delle guance, me stessa. Anche Charlie era presente, nei riccioli fitti, sebbene il colore fosse quello di Edward. Era nostra. Impossibile, ma vero.

Eppure, vedere quell’imprevedibile, piccolo essere umano non la rendeva più reale. La rendeva ancora più fantastica.

Rosalie le diede un buffetto sul collo e mormorò: «Sì, è lei».

Gli occhi di Renesmee erano fissi su di me. Poi, come aveva fatto solo qualche secondo dopo la sua nascita violenta, mi sorrise. Un lampo luminoso di denti bianchi piccoli e perfetti.

Dentro di me indugiavo e feci un passo incerto verso di lei.

Tutti si mossero velocissimi.

Emmett e Jasper mi si pararono davanti, spalla a spalla con le mani pronte. Edward mi afferrò da dietro, stringendo di nuovo le dita all’altezza delle mie spalle. Anche Carlisle ed Esme affiancarono Emmett e Jasper, mentre Rosalie indietreggiò verso la porta con Renesmee fra le braccia. Pure Jacob si mosse, mantenendo la sua posizione protettiva di fronte a loro.

Soltanto Alice restò al proprio posto.

«Oh, datele un po’ di fiducia», li rimbrottò. «Non stava per farle niente. Anche voi vorreste guardarla più da vicino».

Alice aveva ragione. Ero perfettamente padrona di me stessa. E pronta a tutto, a un profumo incredibile e irresistibile, come la scia umana nei boschi. Ma quest’altra tentazione era incomparabile, davvero. La fragranza di Renesmee era un perfetto equilibrio fra il profumo più buono e il cibo più delizioso. Il dolce aroma vampiresco bastava a evitare che la parte umana straripasse.

Potevo tenere tutto sotto controllo. Ne ero sicura.

«Sto bene», promisi, dando un colpetto alla mano di Edward sul mio braccio. Esitando, aggiunsi: «Ma restate vicini, non si sa mai».

Lo sguardo di Jasper era torvo, concentrato. Sapevo che stava misurando il mio livello emotivo e cercai di stabilizzare la calma. Sentii Edward sciogliere la presa mentre leggeva il giudizio di Jasper. Nonostante lo apprendesse di prima mano, Jasper non appariva troppo convinto.

Quando udì la mia voce, la bambina fin troppo consapevole si dimenò fra le braccia di Rosalie e si tese verso di me. Riuscì a mostrare un’espressione impaziente.

«Jazz, Em, state tranquilli. Bella ha tutto sotto controllo».

«Edward, il rischio...», disse Jasper.

«Minimo. Ascolta, Jasper: durante la caccia ha sentito il profumo di alcuni escursionisti che si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato...».

Sentii Carlisle soffocare un respiro scioccato. Il viso di Esme si riempì all’improvviso di preoccupazione mescolata a compassione. Jasper spalancò gli occhi, ma annuì appena, come se le parole di Edward rispondessero a qualche domanda nella sua testa. La bocca di Jacob si piegò in una smorfia di disgusto. Emmett scrollò le spalle. Rosalie sembrava persino meno preoccupata di Emmett, mentre provava a tenere ferma la bambina che si dimenava.

L’espressione di Alice mi diceva che non si era fatta trarre in inganno. I suoi occhi affilati, concentrati con intensità bruciante sulla mia camicia in prestito, sembravano più preoccupati di cosa avessi combinato al vestito che di tutto il resto.

«Edward!», lo riprese Carlisle. «Come hai potuto essere tanto irresponsabile?».

«Lo so, Carlisle, lo so. Sono stato uno stupido. Prima di lasciarla andare sola avrei dovuto assicurarmi che fossimo in una zona sicura».

«Edward», mugugnai a disagio per il modo in cui mi fissavano. Sembravano curiosi di vedere quanto brillasse il rosso nei miei occhi.

«Bella, i rimproveri di Carlisle li merito tutti», disse Edward con un sorriso. «Ho commesso un grosso errore. Il fatto che non abbia mai conosciuto nessuno forte come te non cambia le cose».

Alice alzò gli occhi al cielo. «Bella battuta, Edward».

«Non stavo scherzando. Stavo spiegando a Jasper perché so che Bella può mantenere il controllo. Non è colpa mia se avete tirato troppo presto le conclusioni».

«Aspetta», Jasper restò a bocca aperta. «Non ha attaccato gli umani?».

«Stava per farlo», disse Edward, palesemente felice di poterlo raccontare. Io serrai i denti. «Era completamente concentrata sulla caccia».

«E che cosa è successo?», s’intromise Carlisle. I suoi occhi si erano fatti improvvisamente luminosi e un sorriso affascinato gli si stava formando sul viso. Come prima, quando aveva voluto i dettagli sulla trasformazione. Il brivido di avere nuove informazioni.

Edward si sporse verso di lui, animato. «Mi ha sentito dietro di sé e ha reagito per difendersi. Appena si è accorta che la stavo inseguendo, ha distolto l’attenzione dal sangue. Non avevo mai visto niente di simile. In un istante ha capito cosa stava accadendo e allora... ha trattenuto il respiro ed è scappata».

«Accidenti», mormorò Emmett. «Davvero?».

«Ha tralasciato qualcosa», mugugnai, più imbarazzata di prima. «Per esempio che gli ho ringhiato contro».

«Vi siete dati un paio di fendenti come si deve?», chiese Emmett eccitato.

«No! Ovviamente no».

«No, davvero? Non l’hai attaccato?».

«Emmett!», protestai.

«Ah, che occasione sprecata», si lamentò Emmett. «Probabilmente sei l’unica che potrebbe batterlo, perché non può entrarti nella testa per imbrogliare, e avevi anche la scusa perfetta». Sghignazzò. «Muoio dalla voglia di vedere come farebbe senza il suo vantaggio».

Lo fissai gelida. «Non potrei mai».

Lo sguardo accigliato di Jasper catturò la mia attenzione; sembrava ancora più turbato di prima.

Edward sfiorò leggermente la spalla di Jasper con un pugno scherzoso. «Capisci che voglio dire?».

«Non è naturale», brontolò Jasper.

«Avrebbe potuto attaccarti... Ha solo poche ore!», lo rimproverò Esme, con la mano sul cuore. «Avremmo dovuto accompagnarvi».

Non stavo più prestando molta attenzione, adesso che Edward era andato oltre lo scherzo iniziale. Fissavo la bambina meravigliosa che, sulla porta, mi guardava. Le manine piene di fossette si tendevano verso di me come se sapesse esattamente chi fossi. Anche le mie mani, automaticamente, le andarono incontro imitandola.

«Edward», dissi piegandomi verso Jasper per vederla meglio. «Posso?».

Jasper, che serrava i denti, non si mosse.

«Jazz, questo non ha niente a che fare con ciò che hai visto finora», disse Alice tranquilla. «Fidati di me».

I loro sguardi s’incrociarono per un breve istante, poi Jasper annuì. Mi fece strada, ma mi posò una mano sulla spalla e mi seguì mentre pian piano mi avvicinavo.

Muovevo i passi concentrata al massimo, analizzando il mio umore, l’arsura, la posizione degli altri attorno a me. Quanto mi sentivo forte e se sarebbero stati in grado di frenarmi. Fu una lenta processione.

Poi la bambina, che non aveva smesso un attimo di agitarsi e sporgersi dalle braccia di Rosalie, con un’espressione sempre più irritata, emise un lamento forte e squillante. Tutti reagirono come se anche loro sentissero per la prima volta la sua voce.

Sciamarono attorno a lei in un secondo e mi lasciarono da sola, impietrita sul posto. Il suono del pianto di Renesmee penetrò dritto dentro me, arpionandomi a terra. I miei occhi pungevano in modo stranissimo, come volessero sciogliersi in lacrime.

Sembrava che tutti la toccassero per accarezzarla e rassicurarla. Tutti tranne me.

«Che problema c’è? Si è fatta male? Che cosa è successo?».

La voce di Jacob era quella più alta e spiccava ansiosa fra le altre. Lo guardai scioccata mentre si avvicinava a Renesmee e poi terrorizzata quando Rosalie gliela cedette senza resistenze.

«No, sta bene», lo rassicurò Rosalie.

Rosalie rassicurava Jacob?

Renesmee andò fra le braccia di Jacob piuttosto di buon grado, premendo la manina contro la sua guancia, poi si dimenò per tornare da me.

«Lo vedi?», gli disse Rosalie. «Vuole andare da Bella».

«Vuole me?», mormorai.

Gli occhi di Renesmee — i miei occhi — mi fissavano smaniosi.

Edward tornò al mio fianco con un balzo. Posò le mani delicatamente sulle mie braccia e mi spinse in avanti.

«Ti sta aspettando da quasi tre giorni», disse.

Eravamo a pochi passi da lei. Sembrava emettere ondate improvvise di calore, nell’impazienza di toccarmi.

O forse era Jacob che stava tremando. Notai le sue mani agitarsi mentre mi avvicinavo. Tuttavia, da tantissimo tempo non lo vedevo con un’espressione così serena.

«Jake... sto bene», gli dissi. Mi dava il panico vedere Renesmee fra le sue mani tremanti, ma cercai di mantenere il controllo.

Mi guardò torvo, di sottecchi, come se il pensiero di Renesmee fra le mie braccia lo riempisse di panico.

Renesmee frignò irrequieta e si avvicinò, le manine strette a pugno.

All’improvviso dentro di me scattò qualcosa. Il suono del suo pianto, la familiarità dei suoi occhi, il modo in cui sembrava ancora più impaziente di me di quel ricongiungimento, tutto s’intesseva nel più naturale dei ricami, mentre lei tentava di afferrare l’aria fra noi. All’improvviso Renesmee divenne assolutamente reale e ovviamente la riconobbi. Fu perfettamente naturale fare l’ultimo passo e raggiungerla, mettendo le mani al posto giusto mentre l’attiravo con dolcezza a me.

Jacob tese le lunghe braccia per lasciarmela cullare, senza però mollare la presa. Ebbe un piccolo brivido quando ci sfiorammo. La sua pelle, che era sempre stata così calda, ora mi sembrava una fiamma viva. Aveva quasi la stessa temperatura di Renesmee. Forse un paio di gradi di differenza.

Renesmee appariva indifferente, o quantomeno abituata, al freddo della mia pelle.

Mi guardò e sorrise di nuovo, mostrando i dentini squadrati e le due fossette. Poi, con un gesto deciso, allungò le mani verso il mio viso.

Nello stesso istante, tutte le mani che mi toccavano strinsero la presa, anticipando la mia reazione. Me ne accorsi appena.

Ero senza fiato, sbalordita e spaventata dall’immagine strana e allarmante che mi aveva occupato la mente. Sembrava un ricordo potentissimo e lo percepivo mentalmente senza che mi oscurasse la vista, ma mi era totalmente ignoto. Lo contemplai mentre Renesmee mi guardava trepidante e cercai di capire cosa stesse accadendo, lottando disperatamente per mantenere la calma.

Oltre a essere sconvolgente e sconosciuta, l’immagine era anche sbagliata, in qualche modo. Riconobbi chissà come il mio viso, il mio vecchio viso, ma era strano, capovolto. Capii all’istante che lo stavo guardando come lo vedevano gli altri, anziché riflesso.

Il volto del ricordo era deforme, distrutto, coperto di sudore e sangue. Tuttavia, la mia espressione si aprì in un sorriso adorante; gli occhi marroni brillavano cerchiati da occhiaie profonde. L’immagine si allargò, il mio viso si fece più vicino allo sguardo dell’osservatore nascosto e svanì di colpo.

La mano di Renesmee scivolò dalla mia guancia. Mi fece un grande sorriso e mostrò di nuovo le fossette.

L’unico rumore nella stanza era il battito dei cuori. Nessuno, a parte Jacob e Renesmee, respirava. Il silenzio si amplificò, come fossero tutti in attesa che dicessi qualcosa.

«Cosa è... stato?», riuscii a farfugliare.

«Cosa hai visto?», domandò curiosa Rosalie, appoggiandosi a Jacob, che sembrava al tempo stesso molto concentrato e molto fuori luogo. «Cosa ti ha mostrato?».

«È stata lei a mostrarmelo?», sussurrai.

«Te l’ho detto che era difficile da spiegare», mi mormorò Edward all’orecchio. «Ma come mezzo di comunicazione è efficacissimo».

«Cos’era?», chiese Jacob.

Battei varie volte le palpebre. «Uhm. Ero io. Credo. Ma avevo un aspetto orribile».

«È l’unico ricordo che ha di te», spiegò Edward. Ovviamente anche lui aveva visto ciò che mi aveva mostrato Renesmee nei suoi pensieri. Era ancora turbato, la voce roca per aver rivissuto quel ricordo. «Voleva dirti che ha capito, che ti riconosce».

«Ma come ha fatto?».

Renesmee non sembrava preoccupata dei miei occhi trasecolati. Abbozzava un sorriso tirandomi una ciocca di capelli.

«Come faccio io a sentire i pensieri? Come fa Alice a vedere il futuro?», rispose retorico Edward, che scrollò le spalle. «Ha un dono».

«È un interessante capovolgimento», disse Carlisle a Edward. «Sembra che faccia esattamente l’opposto di ciò che sai fare tu».

«Interessante», concordò Edward. «Chissà se...».

Sapevo che si stavano perdendo in speculazioni, ma non me ne preoccupai. Rimasi a fissare il volto più bello del mondo. Era calda fra le mie braccia e mi ricordava il momento in cui le tenebre avevano quasi vinto, quando non era rimasto niente al mondo a cui aggrapparsi. Niente che fosse abbastanza solido da tirarmi fuori dall’oscurità schiacciante. Il momento in cui avevo pensato a Renesmee e avevo trovato qualcosa che mai mi sarei lasciata rubare.

«Anch’io mi ricordo di te», le dissi tranquilla.

Mi sembrò molto naturale sporgermi verso di lei e premere le labbra sulla sua fronte. Aveva un profumo meraviglioso. Un profumo che mi faceva bruciare la gola, ma ignorarlo era semplice. Non sminuì la gioia del momento. Renesmee era reale, la riconoscevo. Era la stessa per cui avevo lottato fin dall’inizio. La mia piccola brontolona, quella che aveva iniziato a volermi bene già dentro di me. Mezza Edward, perfetta e adorabile. Mezza me... il che, a sorpresa, la migliorava anziché penalizzarla.

Avevo fatto bene. Valeva la pena di aver combattuto.

«Sta bene», mormorò Alice, probabilmente a Jasper. Li sentivo incombere; non si fidavano di me.

«Non abbiamo sperimentato abbastanza per oggi?», domandò Jacob, la voce arrochita dallo stress. «Okay, Bella sta andando alla grande, ma non esageriamo».

Lo guardai con profonda irritazione. Jasper si spostò irrequieto accanto a me. Eravamo tutti così vicini che ogni piccolo movimento appariva enorme.

«Che problema c’è, Jacob?», gli chiesi. Mi tirai leggermente indietro per non rimettergli Renesmee fra le braccia e lui mi si avvicinò quasi a toccarmi. Solo Renesmee ci divideva.

Edward gli sibilò contro. «Solo perché capisco la situazione, non significa che non possa cacciarti, Jacob. Bella si sta comportando in modo straordinario. Non rovinarle questo momento».

«E io lo aiuterò a sbatterti fuori, cane», promise Rosalie, con la voce che ribolliva d’ira. «Ti devo un bel calcio nella pancia». Ovviamente la relazione fra loro non era affatto cambiata, a meno che non fosse peggiorata.

Rivolsi a Jacob un’espressione ansiosa e un po’ adirata. I suoi occhi erano fissi sul viso di Renesmee. Eravamo tutti talmente pressati che stava toccando almeno sei vampiri diversi contemporaneamente, ma ciò non sembrava neanche infastidirlo.

Lo stava davvero facendo solo per proteggermi da me stessa? Durante la mia trasformazione, l’alterazione che lui odiava, cosa poteva essere successo per costringerlo ad ammorbidirsi così tanto?

Perplessa, osservavo il suo sguardo su mia figlia. La fissava come... come un cieco che vede il sole per la prima volta.

«No!», rantolai.

I denti di Jasper si strinsero e le braccia di Edward si avvolsero attorno al mio petto come un boa. Nello stesso istante Jacob mi sfilò Renesmee dalle braccia e non provai neanche a tenerla. Perché la sentivo arrivare: l’esplosione che tutti stavano aspettando.

«Rose», dissi fra i denti, con lentezza e precisione. «Prendi Renesmee».

Rosalie tese le mani e Jacob le diede subito mia figlia. Entrambi indietreggiarono.

«Edward, non voglio farti male, quindi, per favore, lasciami andare».

Esitò.

«Mettiti davanti a Renesmee», gli suggerii.

Ci pensò un attimo, poi mi liberò.

Mi chinai in posizione di caccia e feci due passi lenti verso Jacob. «Dimmi che non è vero», gli ringhiai contro.

Lui indietreggiò a mani alzate, cercando di farmi ragionare. «Sai che è una cosa che non si può controllare».

«Stupido imbecille! Come hai potuto? La mia bambina.

Mentre lo prendevo di mira, si rifugiò fuori dalla porta d’ingresso, indietreggiando di corsa sui gradini. «Mica l’ho deciso io, Bella!».

«L’ho tenuta in braccio una sola volta, e già pensi di avere qualche pretesa idiota da lupo su di lei? Lei è mia».

«Me ne basta un po’», disse implorante mentre si ritirava attraverso il prato.

«Pagare prego», disse Emmett dietro di me. Una piccola parte della mia mente si chiese chi avesse scommesso contro questo risultato. Ma non ci prestai molta attenzione. Ero troppo furiosa.

«Come hai osato avere l’imprinting con mia figlia? Sei fuori di testa?!».

«Non è una cosa volontaria!», insistette lui, arretrando fra gli alberi.

Non era più solo. I due enormi lupi riapparvero ad affiancarlo. Leah mi abbaiò contro.

In risposta, fra i miei denti vibrò un ringhio terrificante. Il suono mi disturbò, ma non abbastanza da fermarmi.

«Bella, puoi provare ad ascoltarmi solo per un secondo? Per favore?», mi pregò Jacob. «Leah, torna indietro!», aggiunse.

Leah scoprì i denti, senza muoversi.

«Perché dovrei ascoltarti?», sibilai. La furia si era impadronita di me. Cancellava ogni altra cosa.

«Perché eri stata tu a dirmelo. Ti ricordi? Tu mi hai detto che le nostre vite si appartenevano, giusto? Che eravamo una famiglia. Hai detto che era così che doveva andare, fra noi. E ora... eccoci. È ciò che volevi».

Lo guardai con ferocia. Ricordavo a malapena quelle parole. Ma il mio nuovo e velocissimo cervello era due passi avanti rispetto a una simile assurdità.

«Pensi di poter fare parte della mia famiglia come genero!», strillai. La mia voce fuoriuscì due ottave più alta, eppure continuava a sembrare musica.

Emmett rise.

«Fermala, Edward», mormorò Esme. «Non penso che sarà felice di fargli del male».

Ma nessuno mi si avvicinò.

Contemporaneamente, Jacob insistette: «No! Come puoi vederla così? È poco più che una neonata, maledizione!».

«È questo il punto!», urlai.

«Ma lo sai anche tu come funziona! Pensi che Edward mi avrebbe lasciato vivo, se fosse stato così? Desidero soltanto che lei sia al sicuro e felice. È sbagliato? È così diverso da ciò che vuoi tu?», mi gridò.

Senza parole, gli risposi con un ringhio acuto.

«Fantastica, non è vero?», sentii mormorare Edward.

«Non l’ha puntato alla gola neanche una minima volta», annuì Carlisle, meravigliato.

«Bene, questa l’avete vinta voi», disse Emmett riluttante.

«Le starai lontano», sibilai a Jacob.

«Non posso!».

Fra i denti: «Provaci. A partire da ora».

«Non è possibile. Ricordi quanto desideravi che ti fossi vicino, tre giorni fa? E quant’era difficile separarci? È tutto finito per te, vero?».

Lo fissai, senza afferrare cosa intendesse.

«Era lei», mi disse. «Sin dall’inizio. Dovevamo stare insieme, persino allora».

Ricordai e compresi; una piccola parte di me fu sollevata dalla spiegazione di quella follia. Però il sollievo, chissà perché, non fece che aumentare la rabbia. Pensava di cavarsela così? Che quell’unico breve chiarimento mi avrebbe tranquillizzata?

«Scappa finché puoi», lo minacciai.

«Dai, Bells! Anch’io piaccio a Nessie!», insistette.

Mi raggelai. Smisi di respirare. Alle mie spalle, avvertii il silenzio innaturale della reazione ansiosa degli altri.

«Come l’hai... chiamata.

Jacob fece un passo indietro e riuscì a sembrare impacciato. «Be’», mugugnò, «il nome che le hai dato è un po’ difficile da pronunciare e...».

«Hai dato a mia figlia il soprannome del Mostro di Loch Ness?», strillai.

E mi avventai sulla sua gola.

23 Ricordi

«Mi dispiace, Seth. Sarei dovuto intervenire prima».

Edward si stava di nuovo scusando e non pensavo che fosse né giusto né opportuno. Dopo tutto, non era stato Edward ad aver perso le staffe, senza alcun motivo. Non era stato Edward ad aver provato a staccare la testa a Jacob — il quale non si era neanche trasformato per proteggersi — e accidentalmente ad aver rotto spalla e clavicola a Seth, corso a dividerci. Non era stato Edward ad aver quasi ucciso il suo migliore amico.

Non che il migliore amico non avesse un paio di cose di cui giustificarsi, ma, ovviamente, in nessun modo Jacob avrebbe potuto mitigare la mia reazione.

Forse ero io quella che doveva chiedere scusa, no? Ci riprovai.

«Seth, io...».

«Non ti preoccupare, Bella. Sto benissimo», rispose Seth nello stesso momento in cui Edward diceva: «Bella, amore, nessuno ti sta giudicando. Ti stai comportando tanto bene».

Non mi avevano ancora lasciato finire una frase.

A peggiorare ulteriormente le cose, Edward non riusciva a smettere di sorridere. Sapevo che Jacob non meritava la mia reazione esagerata, ma era chiaro che Edward ci trovava una qualche soddisfazione. Forse anche lui avrebbe voluto essere un neonato, per poter dare sfogo fisico alla sua irritazione verso Jacob.

Provai a cancellare del tutto la rabbia dal mio organismo, ma fu difficile, sapendo che Jacob era fuori con Renesmee proprio in quel momento. Per proteggerla da me, la neonata pazza.

Carlisle assicurò la steccatura al braccio di Seth, che fece una smorfia.

«Scusa, scusa», farfugliai, certa che non sarei mai riuscita a chiedere perdono come avrei dovuto.

«Niente paranoie, Bella», disse Seth e mi diede un buffetto sul ginocchio con la mano buona, mentre Edward dall’altra parte mi accarezzava il braccio.

Seth non sembrava infastidito dalla mia presenza accanto a lui, sul divano, mentre Carlisle lo curava. «Tornerò normale in mezz’ora», continuò, dandomi altri colpetti sul ginocchio, ignorandone la consistenza dura e fredda. «Chiunque avrebbe fatto la stessa cosa, con Jake e Ness...». S’interruppe a metà parola e cambiò subito argomento. «Voglio dire, almeno non mi hai morso o niente del genere. Quella sì che sarebbe stata una schifezza».

Sprofondai il viso fra le mani e tremai all’idea della possibilità concreta che ciò fosse successo. Sarebbe potuto accadere molto facilmente. I licantropi non reagivano al veleno dei vampiri nello stesso modo degli umani, l’avevo appena scoperto. Per loro era veleno vero e proprio.

«Sono crudele».

«E invece no. Io avrei...», cominciò Edward.

«Smettila», sospirai. Non volevo che si assumesse la colpa anche di questo, come aveva sempre fatto.

«Per fortuna Ness... Renesmee non è velenosa», disse Seth dopo un attimo di silenzio imbarazzato. «Perché mordicchia Jake in continuazione».

Lasciai andare le mani. «Davvero?».

«Sì. Ogni volta che lui e Rosalie sono un po’ lenti a darle da mangiare. Rose lo trova molto divertente».

Lo guardai, scioccata e con un certo senso di colpa, perché dovevo ammettere che questo mi faceva piacere in un modo leggermente capriccioso.

Ovviamente, sapevo già che Renesmee non era velenosa. Ero stata la prima a essere morsa. Non feci però questa osservazione ad alta voce, visto che fingevo di non ricordare gli eventi più recenti.

«Bene, Seth», disse Carlisle, alzandosi e indietreggiando. «Penso sia tutto ciò che posso fare. Prova a non muoverti per... be’, qualche ora, credo». Ridacchiò. «Mi piacerebbe che curare gli umani desse gratificazioni altrettanto istantanee». Passò la mano sui capelli neri di Seth. «Non ti muovere», gli ordinò, poi scomparve al piano di sopra. Sentii chiudersi la porta del suo studio e mi chiesi se avessero già rimosso le tracce del mio passaggio là dentro.

«Magari ce la faccio a rimanere fermo per un po’», acconsentì Seth dopo che Carlisle se n’era già andato, poi sbadigliò. Con cautela, attento a non torcere la spalla, poggiò la testa sul divano e chiuse gli occhi; un secondo dopo, la sua bocca si rilassò completamente.

Guardai accigliata il suo volto pacifico per un altro minuto. Come Jacob, Seth sembrava avere il dono di addormentarsi quando voleva. Certa che per un po’ non sarei stata in grado di scusarmi, mi alzai. Il movimento non urtò minimamente il divano. Tutto ciò che era fisico era semplicissimo. Ma il resto...

Edward mi seguì verso la vetrata e mi prese la mano.

Leah camminava avanti e indietro lungo il fiume, fermandosi in continuazione per guardare la casa. Era facile capire quando cercava il fratello e quando me: alternava sguardi ansiosi a occhiate assassine.

Udivo Jacob e Rosalie che, sui gradini della veranda, battibeccavano sottovoce sui turni per dare da mangiare a Renesmee. Il loro antagonismo non si era placato e l’unica cosa su cui si trovavano d’accordo era che dovevo restare lontana dalla bambina finché non mi fossi ripresa al cento per cento dagli sbalzi d’umore. Edward si era opposto, ma li avevo lasciati fare. Anch’io volevo esserne sicura. Ero preoccupata, però, che la stima che facevo io di questo cento per cento e quella loro divergessero di parecchio.

A parte il loro bisticcio, il respiro lento di Seth e lo sbuffare infastidito di Leah, era tutto molto silenzioso. Emmett, Alice ed Esme erano a caccia. Jasper era rimasto a casa per sorvegliarmi. Se ne stava discreto dietro il montante della scala, cercando di non infastidirmi.

Approfittai di quella calma per pensare a tutte le cose che Edward e Seth mi avevano spiegato mentre Carlisle steccava il braccio di quest’ultimo. Mi ero persa un sacco di novità mentre bruciavo e quella era la prima vera occasione di capirci qualcosa.

La notizia più importante era la fine della faida con il branco di Sam, il motivo per cui gli altri si sentivano di nuovo liberi di andare e venire come volevano. L’armistizio si dimostrava più solido che mai. O più fastidioso, secondo i punti di vista.

Fastidioso perché la più sacra di tutte le leggi del branco era che nessun lupo poteva uccidere per nessun motivo l’oggetto dell’imprinting di un altro lupo. L’infrazione di questa legge, consapevole o accidentale che fosse, non ammetteva il perdono e i lupi coinvolti avrebbero combattuto fino alla morte; non c’era alternativa. Era accaduto tanto tempo prima, mi raccontò Seth, ma si era trattato di un incidente. Nessun lupo avrebbe mai distrutto intenzionalmente un fratello in quel modo.

Perciò Renesmee era intoccabile, per via di quello che Jacob provava per lei. Provai a concentrarmi sul sollievo che ciò avrebbe dovuto comportare, piuttosto che sul disappunto, ma non fu facile. La mia mente era abbastanza spaziosa da provare intensamente entrambe le emozioni.

E Sam doveva accettare la mia trasformazione senza arrabbiarsi, perché Jacob, in qualità di vero alfa, l’aveva permessa. Che amarezza, rendermi conto ancora una volta di quanto dovevo a Jacob, mentre il mio unico desiderio era di arrabbiarmi con lui.

Con uno sforzo di volontà diedi un nuovo indirizzo ai miei pensieri, per tenere a bada le emozioni. Riflettei su un altro fenomeno interessante: benché il silenzio fra i due branchi proseguisse, Jacob e Sam avevano scoperto che gli alfa potevano parlarsi quando erano entrambi in forma di lupo. Non potevano sentire uno i pensieri dell’altro come prima della scissione, però. Secondo Seth, somigliava più a una conversazione ad alta voce. Sam poteva sentire solo i pensieri che Jacob voleva condividere, e viceversa. E, ora che avevano ripreso i rapporti, avevano scoperto di poter comunicare anche a distanza.

Se n’erano accorti soltanto quando Jacob era andato da solo — malgrado le obiezioni di Seth e Leah — a spiegare a Sam di Renesmee. Era stata l’unica occasione in cui aveva lasciato da sola la bimba, dal primo sguardo che aveva posato su di lei.

Appreso che la situazione era cambiata, Sam era tornato con Jacob per parlare a Carlisle. Si erano incontrati in forma umana (Edward si era rifiutato di lasciarmi per fare da traduttore) e avevano rinnovato il patto. Non credo, però, che lo spirito fosse amichevole come un tempo.

Una grossa preoccupazione in meno.

Ma ce n’era un’altra che, per quanto non fosse pericolosa come un branco di lupi arrabbiati, mi sembrava molto più urgente.

Charlie.

Aveva parlato con Esme, quel mattino, ma ciò non lo aveva dissuaso dal chiamare di nuovo, due volte, appena qualche minuto prima, mentre Carlisle medicava Seth. Carlisle ed Edward avevano lasciato squillare il telefono a vuoto.

Qual era la mossa più giusta da fare? Avevano ragione i Cullen? Il modo migliore, il meno crudele, era dirgli che ero morta? Sarei stata in grado di fingere, immobile in una bara, mentre lui e mia madre piangevano per me?

Non mi sembrava giusto. Ma rischiare che Charlie o Renée restassero vittime dei Volturi e della loro ossessione per la segretezza era del tutto fuori discussione.

Un’idea ce l’avevo: permettere a Charlie di vedermi, quando fossi stata pronta, e lasciare che si creasse le sue spiegazioni di comodo. Tecnicamente, le regole dei vampiri sarebbero state rispettate. Non era meglio per Charlie sapere che ero viva — più o meno — e felice? Per quanto mi trovasse strana, diversa e probabilmente spaventosa?

I miei occhi, in particolare, ora come ora erano troppo terrificanti. Quanto avrei dovuto aspettare, prima che i miei occhi e il mio autocontrollo fossero pronti per Charlie?

«Che c’è, Bella?», chiese Jasper tranquillo, leggendo la mia tensione crescente. «Nessuno è arrabbiato con te», un ringhio basso dal fiume lo contraddisse, ma lui lo ignorò, «né sorpreso, in verità. Be’, no, in effetti ci hai sorpresi eccome. Non pensavamo che fossi capace di uscirne tanto velocemente. Sei stata brava. Molto più di quanto ci si aspettasse».

Mentre parlava, la stanza si fece molto tranquilla. Il respiro di Seth era diventato un basso ronfare. Mi sentii più in pace, ma non dimenticai le mie ansie.

«Stavo pensando a Charlie, in realtà».

Il battibecco di fronte a casa cessò. «Ah», mormorò Jasper.

«Dobbiamo partire sul serio, vero?», domandai. «Per un po’, come minimo. Fingere che siamo ad Atlanta, o qualcosa del genere».

Sentivo lo sguardo di Edward fisso sul mio viso, ma osservai Jasper, che mi aveva risposto con quel tono grave.

«Sì. È l’unico modo per proteggere tuo padre».

Rimuginai per un attimo. «Mi mancherà moltissimo. Mi mancheranno tutti quelli di qui».

Jacob, pensai, mio malgrado. Anche se, con mio grande sollievo, il desiderio che ci univa era sia svanito che chiarito, era ancora mio amico. Uno che aveva conosciuto la vera me stessa e l’aveva accettata. Persino in forma di mostro.

Ripensai alle parole imploranti di Jacob, prima che lo attaccassi. Tu mi hai detto che le nostre vite si appartenevano, giusto? Che eravamo una famiglia. Hai detto che era così che doveva andare, fra noi. E ora... eccoci. È ciò che volevi.

Ma non era ciò che volevo. Almeno, non esattamente. Tornai con la memoria ai ricordi deboli e incompleti della mia vita umana. Ai momenti più difficili da ricordare: i mesi senza Edward, un periodo talmente cupo che avevo provato a seppellirlo in un angolo della mia mente. Non riuscivo ad articolare le parole giuste; ricordavo solo di aver desiderato che Jacob fosse mio fratello, in modo da poterci voler bene l’un l’altro senza confusione né dolore. Come una famiglia. Ma non avevo mai inserito una figlia in quel quadretto. Ricordai un altro momento, uno dei miei tanti addii a Jacob, in cui mi ero chiesta ad alta voce con chi sarebbe finito, chi avrebbe dato un senso alla sua vita dopo il male che gli avevo fatto. Chiunque fosse, avevo detto, non sarebbe mai stata degna di lui.

Sbuffai ed Edward alzò un sopracciglio, incuriosito. Risposi scuotendo la testa.

Ma per quanto potessi sentire la mancanza del mio amico, sapevo che c’era un problema più grande. Sam, Jared e Quil erano mai stati un giorno intero senza vedere Emily, Kim e Claire, gli oggetti delle loro fissazioni? Potevano farlo? Che cosa avrebbe scatenato in Jacob la separazione da Renesmee? Ulteriore sofferenza?

Ero ancora abbastanza infuriata da sorridere all’idea, non del suo dolore quanto della possibilità di allontanare Renesmee da lui. Come potevo sopportare che appartenesse a Jacob quando a malapena sentivo che apparteneva a me?

Il rumore di un movimento nel portico interruppe i miei pensieri. Li sentii alzarsi ed entrare. In quel preciso istante Carlisle scese le scale con le mani piene di cose strane: un metro a nastro, una bilancia. Jasper balzò accanto a me. Come avesse ricevuto un segnale che mi era sfuggito, Leah si sedette fuori con l’espressione di chi attende qualcosa di familiare e noioso al tempo stesso.

«Devono essere le sei», disse Edward.

«Quindi?», chiesi con gli occhi fissi su Rosalie, Jacob e Renesmee. Erano in piedi nell’ingresso, Renesmee in braccio a Rosalie. Rose sembrava pensierosa. Jacob preoccupato. Renesmee bellissima e impaziente.

«Ora di misurare Ness... ehm, Renesmee», spiegò Carlisle.

«Ah. Lo fai tutti i giorni?».

«Quattro volte al giorno», corresse Carlisle soprappensiero, mentre spingeva gli altri verso il divano. Mi parve di sentir sospirare Renesmee.

«Quattro volte? Tutti i giorni? Perché?».

«Continua a crescere in fretta», mi mormorò Edward, la voce forzatamente tranquilla. Mi strinse la mano e con l’altro braccio mi avvolse saldamente la vita, come avesse bisogno di sostegno.

Non riuscii a distogliere lo sguardo da Renesmee per controllare la sua espressione.

Lei era perfetta, assolutamente in salute. La pelle splendeva come rilucente alabastro e il colore delle guance era quello dei petali di una rosa. Una bellezza così radiosa non poteva avere difetti. Sicuramente l’elemento più pericoloso della sua vita era sua madre. O no?

La differenza fra la neonata a cui avevo dato la vita e la bimba che avevo ritrovato solo un’ora prima sarebbe stata evidente a chiunque. La differenza fra Renesmee un’ora prima e Renesmee in quel momento era sottile. Gli occhi umani non l’avrebbero mai percepita. Ma c’era. Il suo corpo si era leggermente allungato. Appena un po’ più magro. Il viso non era rotondo, ma lievemente più ovale. I boccoli ricadevano un decimo di millimetro più giù lungo le spalle. Si distese di buon grado fra le braccia di Rosalie mentre Carlisle srotolava il metro, che usò prima per misurare la sua lunghezza, poi la circonferenza della testa. Non prese nota: memoria perfetta.

Notai che Jacob teneva le braccia conserte, strette al petto come quelle di Edward chiuse su di me. Le sue sopracciglia disegnavano una linea netta sopra gli occhi infossati.

Nel corso di poche settimane, da una singola cellula era maturata una neonata di grandezza normale. Sembrava in procinto di diventare una bambina a pochi giorni dalla nascita. Se quel tasso di crescita si fosse mantenuto... La mia mente di vampira non ebbe problemi con i calcoli.

«Cosa facciamo?», sussurrai terrorizzata.

Le braccia di Edward mi strinsero. Aveva capito perfettamente il senso della domanda. «Non lo so».

«Sta rallentando», farfugliò Jacob fra i denti.

«Ci vorranno vari giorni di misurazione per tenere d’occhio l’andamento, Jacob. Non posso fare previsioni».

«Ieri è cresciuta di cinque centimetri. Oggi meno».

«Cinque centimetri meno un decimo, se le misurazioni sono accurate», disse Carlisle pacato.

«Devono esserlo, dottore», disse Jacob e le sue parole furono quasi minacciose. Rosalie s’irrigidì.

«Tu sai che farò del mio meglio», lo rassicurò Carlisle.

Jacob sospirò. «Mi sa che di più non posso chiedere».

Sentii tornare l’irritazione, come se Jacob mi stesse rubando le battute... e le ripetesse tutte sbagliate.

Anche Renesmee appariva irritata. Iniziò a divincolarsi e tese imperiosamente la mano verso Rosalie, che si sporse in avanti per lasciarsi sfiorare il viso. Dopo un secondo, sospirò.

«Cosa vuole?», domandò Jacob, rubandomi l’ennesima battuta.

«Bella, ovviamente», rispose Rosalie e le sue parole mi riscaldarono. Poi mi guardò. «Come ti senti?».

«Preoccupata», confessai ed Edward mi strinse di più.

«Lo siamo tutti. Ma non intendevo questo».

«Tutto sotto controllo», promisi. La sete era scesa in fondo alla classifica delle priorità. Inoltre, il buon profumo di Renesmee non somigliava a quello del cibo.

Jacob si morse il labbro ma non fece una mossa per fermare Rosalie mentre mi offriva Renesmee. Jasper ed Edward, pur con qualche esitazione, non si opposero. Vedevo tutta la tensione di Rose e mi chiesi come potesse apparire la stanza a Jasper in quel momento. O forse si stava concentrando così tanto su di me da non vedere gli altri?

Mentre ci sporgevamo l’una verso l’altra, Renesmee si aprì in un sorriso accecante che le illuminò il viso. Prese posto fra le mie braccia senza difficoltà, come fossero fatte apposta per lei. Immediatamente, posò la manina calda sulla mia guancia.

Ero preparata, ma trasalii ugualmente al ricordo che proiettò nella mia mente come una visione. Luminoso e colorato, ma al tempo stesso del tutto trasparente.

Si stava ricordando di me che assalivo Jacob di fronte al prato e di Seth che ci divideva. Aveva visto e sentito tutto con estrema chiarezza. L’elegante predatore che si avventava sulla sua preda come una freccia scagliata dall’arco non mi somigliava. Doveva essere qualcun altro. Mi fece sentire un po’ meno colpevole vedere Jacob fermo e indifeso, con le mani alzate. Non gli tremavano.

Edward ridacchiava, guardando i pensieri di Renesmee insieme a me. Poi, entrambi facemmo una smorfia sentendo lo schianto delle ossa di Seth.

Renesmee sfoderò il suo sorriso luminoso e la sua memoria visiva seguì Jacob per tutto il caos succeduto allo scontro. Percepii un gusto nuovo in quel ricordo — non esattamente protettivo, più possessivo — mentre guardava Jacob. Ebbi la netta impressione che lei fosse contenta che Seth si fosse opposto al mio attacco. Non voleva che Jacob si ferisse. Lui era suo.

«Ah, splendido», grugnii. «Perfetto».

«È solo perché ha un gusto migliore rispetto a noi», mi assicurò Edward, la voce indurita dal fastidio.

«Te l’ho detto che anch’io le piaccio», mi stuzzicò Jacob dall’altra parte della stanza, gli occhi fissi su Renesmee. Cercava di essere ironico, ma senza convinzione; l’angolo teso del suo sopracciglio non si era rilassato.

Renesmee mi toccò il viso impaziente, pretendeva la mia attenzione. Un altro ricordo: Rosalie che le spazzolava dolcemente i riccioli. Una bella sensazione.

Carlisle e le sue misurazioni: sapeva che doveva stare buona e distesa. Non lo trovava interessante.

«È come se ti volesse fare un resoconto di tutto ciò che ti sei persa», mi commentò Edward all’orecchio.

Il mio naso si arricciò quando mi apparve il ricordo successivo. L’odore che proveniva da una strana tazza di metallo, abbastanza dura da non poterla mordere facilmente, mi riempì la gola di un bruciore istantaneo. Ahi.

Renesmee venne subito allontanata dalle mie braccia, immobilizzate dietro la schiena. Non lottai contro Jasper; mi limitai a guardare Edward, spaventata. «Che ho fatto?».

Edward guardò Jasper dietro di me, poi ancora me. «Ma stava ricordando di avere sete», mugugnò corrugando la fronte. «Stava ricordando il sapore del sangue umano».

Le braccia di Jasper mi strinsero più forte. Parte della mia mente notò che non era così sgradevole e men che meno doloroso come sarebbe stato per un umano. Era semplicemente fastidioso. Ero certa di potermi liberare dalla presa, ma preferii non contrastarlo.

«Sì», confermai. «E allora?».

Edward mi guardò accigliato per un attimo, poi il suo viso si rilassò. Rise. «E allora niente, a quanto pare. Stavolta sono io ad aver avuto una reazione spropositata. Jazz, lasciala andare».

Le mani che mi tenevano si dileguarono. Mi avvicinai a Renesmee appena fui libera. Edward me la restituì senza esitazioni.

«Non capisco», disse Jasper. «È davvero insopportabile».

Lo guardai sorpresa mentre usciva a lunghi passi dalla porta posteriore. Leah si mosse per lasciarlo libero di avvicinarsi al fiume, che superò con un balzo.

Renesmee mi toccò il collo, ripetendo quella scena come un replay istantaneo. Sentivo le domande nei suoi pensieri, eco delle mie.

Avevo già superato lo shock di questo suo strano, piccolo dono. Lo vedevo come una parte del tutto naturale di lei, quasi prevedibile. Forse, ora che anch’io facevo parte del soprannaturale, avevo abbandonato lo scetticismo.

Ma cos’aveva di strano Jasper?

«Tornerà», disse Edward, però non capii se si rivolgeva a me o a Renesmee. «Ha bisogno di stare un po’ da solo per riorganizzare il suo punto di vista sulla vita». C’era un sorriso minaccioso, agli angoli della sua bocca.

Un altro ricordo umano: Edward che mi diceva che Jasper si sarebbe sentito meglio con se stesso se io "avessi avuto difficoltà ad adattarmi" alla vita da vampira. Argomento della discussione: quante persone avrei ucciso nel mio primo anno da neonata.

«È arrabbiato con me?», chiesi tranquilla. Edward sgranò gli occhi. «No. Perché dovrebbe?».

«Allora che problema ha?».

«Ce l’ha con se stesso, non con te, Bella. Si preoccupa di... una profezia che si autoavvera, potremmo dire».

«In che senso?», chiese Carlisle precedendomi.

«Si sta chiedendo se la follia dei neonati sia davvero così difficile da controllare come abbiamo sempre pensato, o se invece con il carattere e la concentrazione giusta tutti potrebbero reagire bene come Bella. Persino ora... alcune sue difficoltà permangono perché crede che certi difetti siano naturali e inevitabili. Forse, chiedendo di più a se stesso, potrebbe dimostrarsi anche lui all’altezza. Lo hai costretto a rimettere in discussione parecchi luoghi comuni sulla sua indole, Bella».

«Ma non è corretto», disse Carlisle. «Siamo tutti diversi e a ciascuno toccano prove personali. Forse ciò che sta facendo Bella va oltre il naturale. Forse è il suo dono, per così dire».

Restai impietrita per la sorpresa. Renesmee avvertì il cambiamento e mi toccò. Si ricordò l’ultimo secondo e me ne chiese il perché.

«Questa è una teoria interessante e piuttosto plausibile», disse Edward.

Provai una momentanea delusione. Cosa? Niente vista magica, niente abilità offensive formidabili come, che so, sparare fulmini e saette dagli occhi o cose del genere? Proprio niente di utile o fico?

Poi pensai che, se davvero il mio "superpotere" non era altro che un’eccezionale capacità di autocontrollo, qualcosa voleva pur dire.

Tanto per cominciare, avevo un dono speciale. Sempre meglio di niente.

Ma soprattutto, se Edward aveva ragione, potevo lasciarmi alle spalle fin da subito la parte che mi faceva più paura.

E se davvero non fossi stata costretta a comportarmi da neonata, quantomeno a non trasformarmi in una folle macchina assassina? E se avessi potuto stare tranquillamente con i Cullen fin dal primo giorno? Se non avessi dovuto nascondermi da qualche parte per un anno, in attesa di "crescere"? E se, come Carlisle, non avessi mai ucciso neanche una persona? Se avessi potuto essere dal primo istante una buona vampira?

Avrei potuto vedere Charlie.

Sospirai non appena la realtà filtrò dalla speranza. In quel momento non potevo vederlo. Gli occhi, la voce, il viso perfetto: che cosa gli avrei raccontato, da che cosa mai avrei potuto cominciare? In cuor mio ero lieta di avere delle scuse per allontanare quel momento perché, se era vero che desideravo trovare il modo per tenere Charlie nella mia vita, ero altrettanto terrorizzata all’idea del primo incontro con lui. Sapevo che si sarebbe spaventato. Mi chiedevo quale oscura spiegazione si sarebbe dato.

Ero abbastanza codarda da poter aspettare un anno, finché i miei occhi non si fossero raffreddati. Una volta diventata indistruttibile, pensavo, non avrei avuto più paura.

«Hai mai visto un talento simile nell’autocontrollo?», domandò Edward a Carlisle. «Pensi davvero che sia un dono, o magari è solo il frutto di tutta la sua preparazione?».

Carlisle scrollò le spalle. «Somiglia un po’ a ciò che è sempre stata capace di fare Siobhan, anche se lei non lo giudica un talento».

«Siobhan, la tua amica di quel clan irlandese?», chiese Rosalie. «Non sapevo che avesse una capacità speciale. Pensavo fosse Maggie la più talentuosa della congrega».

«Sì, anche Siobhan ne è convinta. Ma lei ha il dono di realizzare come un semplice atto di volontà gli obiettivi che si pone. A detta sua, è soltanto buona capacità organizzativa, ma mi sono sempre chiesto se non fosse qualcosa di più. Quando ha incluso Maggie, ad esempio. Liam non era contento del nuovo arrivo, ma Siobhan voleva in tutti i modi che funzionasse, e ha funzionato».

Edward, Carlisle e Rosalie si sedettero e continuarono la discussione. Jacob si sistemò vicino a Seth con aria protettiva e un po’ annoiata. Da come gli pesavano le palpebre, capii che si sarebbe addormentato in un attimo.

Ascoltai, ma la mia attenzione si divise. Renesmee continuava a raccontarmi la sua giornata. La tenevo in braccio vicino alla finestra e la cullavo con gesti automatici mentre ci fissavamo negli occhi.

Mi resi conto che gli altri non avevano alcuna ragione per sedersi. Io ero perfettamente a mio agio in piedi. Era riposante proprio come lo sarebbe stato stiracchiarsi su un letto. Avrei potuto restare in quella posizione per sette giorni senza muovermi, costantemente rilassata.

Di sicuro si sedevano per abitudine. Gli umani avrebbero notato qualcuno che rimane in piedi per ore senza neanche spostare il peso da un piede all’altro. Proprio in quel momento vidi Rosalie passarsi le dita fra i capelli e Carlisle incrociare le gambe. Movimenti minimi per evitare di rimanere troppo fermi, troppo vampiri.

Dovevo prestare attenzione ai loro piccoli gesti e iniziare ad allenarmi. Spostai il mio peso sulla gamba sinistra. Mi sentii un po’ sciocca.

Forse volevano soltanto concedermi un po’ di tempo sola con la mia bambina, purché non la mettessi in pericolo.

Renesmee mi raccontò ogni minuto della giornata e dal tenore delle sue piccole storie sembrava che il suo desiderio di farsi conoscere fosse forte quanto il mio. Era preoccupata che mi fossi persa certe cose: i passeri che avevano zampettato sempre più vicini quando Jacob l’aveva tenuta in braccio, immobile, accanto a uno dei grandi abeti; gli uccelli non si sarebbero mai avvicinati così tanto a Rosalie. O quella roba bianca disgustosa e insopportabile — pappa per bambini — che Carlisle le aveva messo nella tazza; odorava di fango acido. O la canzone che Edward le aveva canticchiato per cullarla, così incantevole che Renesmee me la ripeté due volte; fui sorpresa di ritrovarmi sempre sullo sfondo dei suoi ricordi, perfettamente immobile e piuttosto malconcia. Rabbrividii, ricordando quei giorni dal mio punto di vista. Quel fuoco spaventoso...

Dopo quasi un’ora, mentre gli altri erano ancora assorti nella loro discussione e Seth e Jacob ronfavano in armonia sul divano, il racconto dei ricordi di Renesmee iniziò a farsi più lento. I loro contorni si facevano sempre più confusi, le immagini sfocate prima ancora di giungere alla fine. Ero sul punto di chiamare Edward, nel panico — aveva forse qualche problema? — quando le sue palpebre tremolarono e si chiusero. Sbadigliò, le labbra rosa e paffute disegnarono una O e i suoi occhi non si riaprirono.

La sua mano cadde dal mio viso non appena scivolò nel sonno. Le palpebre erano di color lavanda pallido come le nuvole sottili prima dell’alba. Attenta a non disturbarla, riportai la manina sulla mia pelle e la tenni così, per curiosità. All’inizio non c’era niente ma, dopo qualche minuto, un guizzo di colori simile a uno sciame di farfalle si sparpagliò dai suoi pensieri.

Ipnotizzata, osservai i suoi sogni. Non seguivano un senso. Erano soltanto colori, forme e visi. Fui lieta di scoprire quante volte il mio volto — entrambi i miei volti, l’umana spaventosa e la magnifica immortale — affiorasse nei suoi pensieri inconsci. Più di Edward e Rosalie. Era un testa a testa con Jacob; cercai di non prendermela.

Per la prima volta capii come aveva fatto Edward a guardarmi dormire, una notte noiosa dopo l’altra, soltanto per sentirmi parlare nel sonno. Avrei potuto osservare i sogni di Renesmee per sempre.

Il cambiamento di tono di Edward catturò la mia attenzione quando disse «Finalmente» e si voltò per guardare dalla finestra. Fuori era una notte profonda, violacea, ma ci vedevo bene quanto prima. Niente mi veniva nascosto dall’oscurità; le cose avevano solo cambiato colore.

Leah, ancora truce, si alzò e sgattaiolò fra i cespugli quando Alice apparve sull’altra sponda del fiume. Ondeggiò su un ramo come una trapezista, con le punte dei piedi che toccavano le mani, prima di oltrepassare il fiume con un balzo aggraziato. Esme fece un salto più tradizionale, mentre Emmett puntò dritto attraverso l’acqua, spruzzandola così lontano che gli schizzi colpirono la vetrata. Con mia sorpresa, anche Jasper li seguiva e al confronto i suoi salti, per quanto vigorosi, sembravano deboli, persino delicati.

L’enorme sorriso che si aprì sul viso di Alice mi era familiare, in maniera bizzarra e opaca. Tutti improvvisamente mi sorrisero: Esme in modo dolce, Emmett emozionato, Rosalie un po’ altezzosa, Carlisle bonario, Edward impaziente.

Alice schizzò nel salone anticipando gli altri, la mano tesa, circondata da una visibile aura di impazienza. Nel palmo della mano teneva una normalissima chiave d’ottone, a cui era stretto un gigantesco fiocco di seta rosa.

Mi offrì la chiave e automaticamente strinsi la presa su Renesmee con il braccio destro, per aprire la mano sinistra. Alice vi lanciò la chiave.

«Buon compleanno!», squittì.

Alzai gli occhi al cielo. «Nessuno inizia a contare dal primo giorno di nascita», le ricordai. «Il primo compleanno è dopo un anno, Alice».

Il suo sorriso si fece compiaciuto. «Non stiamo festeggiando il tuo compleanno da vampira. Non ancora. È il 13 settembre, Bella. Buon diciannovesimo compleanno!».

24 Sorpresa

«Non esiste proprio!». Scossi decisa la testa e lanciai un’occhiata al sorriso furbo sul viso da diciassettenne di mio marito. «No, questo non conta. Ho smesso d’invecchiare tre giorni fa. Avrò per sempre diciotto anni».

«Pazienza», disse Alice liquidando le mie proteste con un’alzata di spalle. «Noi ti festeggiamo comunque, quindi fai la brava».

Sospirai. Discutere con Alice era quasi sempre tempo perso.

Quando mi lesse negli occhi la resa, il ghigno che le aleggiava sulle labbra si dilatò a dismisura.

«Pronta ad aprire il regalo?», cantilenò.

«I regali», la corresse Edward e sfilò dalla tasca un’altra chiave: più lunga, argentata e con un fiocco blu meno vistoso.

Mi sforzai di non alzare gli occhi al cielo. Avevo capito subito che chiave fosse: quella dell’"auto del dopo". Mi chiesi se dovessi sentirmi emozionata. Non mi pareva che la trasformazione in vampira avesse scatenato in me un’improvvisa passione per le auto sportive.

«Prima il mio», disse Alice e fece una linguaccia a Edward immaginandone la risposta.

«Il mio è più vicino».

«Sì, ma guarda com’è vestita». Il tono di Alice era quasi lamentoso. «È tutto il giorno che me la sorbisco in questo stato. L’estetica ha la precedenza assoluta».

Inarcai le sopracciglia e mi chiesi come intendesse cambiarmi d’abito con una chiave. Aveva riempito il bagagliaio di vestiti?

«Ce la giochiamo, va bene?», propose Alice. «Morra cinese».

Jasper ridacchiò ed Edward sospirò.

«Perché non mi dici subito chi vince? Così facciamo prima», replicò Edward impassibile.

Alice s’illuminò. «Vinco io. Perfetto».

«Tanto mi sa che è meglio se aspetto fino a domani mattina». Edward mi lanciò un sorriso sghembo e indicò con un cenno Jacob e Seth, più collassati che addormentati. Chissà quante ore insonni avevano trascorso, stavolta. «Credo sarebbe più divertente se anche Jacob fosse sveglio per la grande rivelazione, non vi pare? Almeno ci sarà qualcuno in grado di entusiasmarsi come si deve».

Gli restituii il ghigno. Mi conosceva bene.

«Evviva!», cantilenò Alice. «Bella, affida Ness... Renesmee a Rosalie».

«Dove dorme di solito?».

Alice si strinse nelle spalle. «In braccio a Rose. O a Jacob. O a Esme. Non la mettono giù nemmeno un istante, figurati. Diventerà la vampirastra più viziata della galassia».

Edward rise mentre Rosalie prendeva in braccio Renesmee con gesto esperto. «Allora è anche la vampirastra meno viziata della galassia», osservò. «È il bello di essere unici».

Rosalie mi rivolse un sorriso in cui ritrovai con piacere il nostro nuovo cameratismo. Non ero sicura di quanto sarebbe durato dopo che la vita di Renesmee non fosse stata più legata a doppio filo alla mia, ma forse avevamo lottato fianco a fianco abbastanza a lungo da restare amiche per sempre. Mi ero decisa a fare il passo che avrebbe compiuto lei al posto mio e ciò sembrava aver cancellato tutto il suo risentimento per le altre decisioni che avevo preso.

Alice mi porse la chiave infiocchettata, poi mi afferrò per il gomito e mi guidò verso la porta posteriore. «Dai, andiamo», trillò.

«È qui fuori?».

«Più o meno», rispose Alice spingendomi avanti.

«Spero che il regalo ti piaccia», disse Rosalie. «È da parte di tutti noi. Soprattutto di Esme».

«Ma voi non venite?», chiesi, notando che nessuno si era mosso.

«Te lo lasciamo godere in privato», rispose Rosalie. «Poi ci racconterai...».

Emmett esplose in una risata sguaiata che per qualche motivo mi fece venir voglia di arrossire, anche se non capivo bene il perché.

In quel momento mi resi conto che in tante cose, l’allergia alle sorprese e una certa idiosincrasia per i regali, per esempio, non ero affatto cambiata. Era un sollievo e allo stesso tempo una rivelazione scoprire quanto della mia natura più vera e profonda mi avesse seguito nel mio nuovo corpo.

Non mi aspettavo di essere ancora me stessa, e nel constatarlo un ampio sorriso mi si dipinse sul volto.

Sorridevo ancora mentre Alice mi trascinava per il gomito nella notte violetta. Soltanto Edward ci accompagnava.

«Ecco l’entusiasmo, così mi piace», mormorò Alice in tono d’approvazione. Poi mi lasciò andare il braccio e con due agili balzi saltò dall’altra parte del fiume.

«Vieni, Bella!», mi esortò dalla sponda opposta.

Edward saltò nel momento in cui anch’io mi staccavo da terra. Era divertente proprio come lo era stato nel pomeriggio, forse anche di più, perché la notte rendeva i colori diversi e più intensi.

Alice si diresse verso nord con noi due al seguito. Era più facile seguire il frusciare dei suoi piedi sul terreno e la scia fresca del suo odore che cercare di distinguerne l’ombra nel fitto della vegetazione.

A un tratto, come in risposta a un segnale invisibile, fece dietrofront e schizzò fino al punto dove mi ero fermata.

«Non attaccarmi», si raccomandò e balzò verso di me.

«Che fai?», chiesi e rabbrividii nel sentire che mi era salita in spalla e mi bendava gli occhi. Resistetti all’impulso di scrollarmela di dosso.

«Ti copro gli occhi».

«Potevo occuparmene io senza bisogno di fare tutto questo teatro», disse Edward.

«Non mi fido di te, scommetto che la lasceresti sbirciare. Prendila per mano e guidala».

«Alice, io...».

«Non preoccuparti, Bella. Fidati».

Sentii le dita di Edward intrecciarsi alle mie. «Ancora un briciolo di pazienza, Bella. Fra poco ci lascerà in pace e andrà a scocciare qualcun altro». Mi spinse avanti. Tenevo il suo passo senza difficoltà, non avevo paura di andare a sbattere contro un albero: tanto, nel caso, sarebbe stato l’albero a farsi male.

«Però potresti mostrare un po’ d’entusiasmo anche tu, Edward», lo rimproverò Alice. «Il regalo lo facciamo anche a te».

«Hai ragione. Grazie ancora, Alice».

«Prego, prego». D’un tratto la voce prese a vibrarle d’emozione. «Stop. Girala un pochino verso destra. Ecco, così. Perfetto. Pronta?».

«Pronta», risposi. C’erano nuovi odori che catturavano la mia attenzione e accrescevano la mia curiosità, profumi che non appartenevano alla foresta. Caprifoglio. Legna bruciata. Rose. Segatura? Anche qualcosa di metallico. L’odore intenso di terra rivoltata di fresco. Mi tesi verso il mistero.

Alice scese dalle mie spalle e mi liberò gli occhi.

Fissai il buio violetto. Al centro di una piccola radura in mezzo alla foresta sorgeva una casetta di pietra, color grigio lavanda alla luce delle stelle.

Era incastonata così perfettamente nel paesaggio da sembrare scaturita direttamente dalla roccia, quasi fosse un’incrostazione naturale. Un muro era coperto da una pianta di caprifoglio che si avvitava oltre il tetto, ricoperto di massicce scandole in legno. In un fazzoletto di giardino, proprio sotto le finestre buie e incassate, fiorivano cespugli di rose tardive. Un piccolo sentiero di pietre piatte, ametista nella luce notturna, conduceva a un pittoresco ingresso ad arco con la porta in legno.

Strinsi la chiave che tenevo in mano, praticamente sotto shock.

«Che te ne pare?», chiese Alice, la voce di nuovo morbida, in perfetta sintonia con l’idillio di quella scena che pareva tolta di peso da un libro di fiabe.

Aprii la bocca ma non mi uscì alcun suono.

«Esme ha pensato che ci avrebbe fatto piacere avere un posticino tutto nostro per un po’, ma voleva che restassimo a portata di voce», mormorò Edward. «E poi per lei ogni scusa è buona per ristrutturare vecchi ruderi. Questa casetta cadeva letteralmente a pezzi, era abbandonata da almeno un secolo».

Come imbambolata, non avevo ancora ritrovato l’uso della parola.

«Non ti piace?», chiese Alice profondamente delusa. «Cioè, sono sicura che possiamo rifarla, se vuoi. Emmett voleva già ampliarla di qualche migliaio di metri quadrati, alzarla di un piano, aggiungere un colonnato e anche una torre, ma Esme ha pensato che vi sarebbe piaciuta di più così, com’era nel progetto originale». Parlava veloce adesso, in un tono acuto che sfiorava lo stridulo. «Però se si è sbagliata non ci mettiamo niente a...».

Riuscii a sibilare un «Sssh!».

Alice strinse le labbra e rimase in attesa. Mi ci volle qualche secondo per riavermi.

«Mi regalate una casa per il mio compleanno?», chiesi in un sussurro.

«Ci regalano», corresse Edward. «E poi non è che sia un palazzo da mille e una notte. Insomma, casa è una parola grossa».

«Attento a come parli», mormorai fra i denti.

Alice s’illuminò. «Allora ti piace».

Feci segno di no con la testa.

«Di più?».

Annuii.

«Non vedo l’ora di dirlo a Esme!».

«Perché non è venuta anche lei?».

Il sorriso di Alice svanì per un istante, come se le avessi fatto una domanda imbarazzante. «Oh, be’, lo sanno tutti come la pensi sui regali. Non volevano metterti a disagio».

«Ma era ovvio che mi sarebbe piaciuta. Voglio dire, come potrei non apprezzare una cosa del genere?».

«Saranno felici di saperlo», commentò, dandomi un paio di buffetti sul braccio. «Bene, la cabina armadio trabocca di roba, fanne buon uso. E... direi che è tutto».

«Non vuoi entrare?».

Arretrò di qualche passo, con aria casuale. «Edward sa già tutto. Io... faccio un salto più tardi. Ma chiamami pure, se hai dubbi riguardo all’abbinamento dei vestiti». Mi scoccò prima uno sguardo indeciso e poi un sorriso. «Jazz vuole andare a caccia. Ci vediamo».

E sparì in mezzo agli alberi come un proiettile di velluto.

«Non capisco», commentai dopo che l’eco del suo volo si fu spenta del tutto. «Sono talmente difficile che non hanno avuto il coraggio di accompagnarci? Adesso mi sento in colpa. Non ho nemmeno ringraziato Alice come si deve. Forse dovremmo tornare indietro e dire a Esme...».

«Bella, ti prego. Nessuno pensa che tu sia difficile».

«Allora perché...».

«Volevano lasciarci soli. Fa parte del regalo. Alice ha cercato di dirtelo fra le righe».

«Ah».

Tanto bastò a far scomparire la casa e tutto il resto. Avremmo potuto essere ovunque. Non vedevo più alberi né pietre, nemmeno le stelle. Solo Edward.»

«Vieni, ti mostro cos’hanno fatto», disse, tirandomi per la mano. Non si era accorto della scarica elettrica che si era irradiata nel mio corpo, neanche fosse sangue?

Di nuovo mi sentii stranamente presa in contropiede da me stessa, in attesa di una reazione che il mio corpo non era più in grado di avere. Il mio cuore avrebbe dovuto battere come un maglio sull’incudine, assordante. Avrei dovuto avere il viso in fiamme.

Avrei anche dovuto essere esausta. Era stato il giorno più lungo della mia vita.

Appena mi resi conto che quel giorno sarebbe durato in eterno, mi venne da ridere. Una risatina sommessa, a denti stretti, traumatizzata.

«Ti è venuta in mente una barzelletta divertente? Fai ridere anche me».

«Non proprio», risposi, mentre mi lasciavo condurre verso la porticina ad arco. «Pensavo solo che questo è il primo e l’ultimo giorno di... sempre. Non è un concetto che mi entra in testa tanto facilmente, nonostante tutto lo spazio extra che ho a disposizione adesso». Risi di nuovo.

Edward ridacchiò con me e mi indicò con un gesto ampio la porta, invitandomi a fare gli onori di casa. Infilai la chiave nella serratura e aprii.

«Sei un talento naturale, Bella. Al punto che mi dimentico quanto debba apparirti strano tutto questo. Mi piacerebbe riuscire ad ascoltarti». Allora si piegò sulle ginocchia e mi prese in braccio, così velocemente che non lo vidi nemmeno muoversi... il che era tutto dire.

«Ehi!».

«Portare in braccio la sposa oltre la soglia fa parte dei miei doveri coniugali», mi ricordò. «Ma dimmi a cosa pensi, sono curioso». Spinse la porta, che si aprì con un cigolio quasi impercettibile, ed entrò nel piccolo soggiorno in pietra.

«A tutto», risposi. «E tutto in una volta, non so se hai presente. Alle cose belle, a quelle nuove e a quelle preoccupanti. A un uragano di superlativi nel cervello. In questo preciso momento sto pensando che Esme è un’artista fatta e finita, è tutto così perfetto!».

L’interno della casetta sembrava uscito proprio da un libro illustrato. Il pavimento era un patchwork di pietre levigate dal tempo, il soffitto basso era attraversato da lunghe travi a vista (uno alto come Jacob ci avrebbe sicuramente sbattuto la testa), le pareti erano a sezioni di legno e pietra. Nel caminetto all’angolo ardevano ancora i resti di un lento fuoco tremolante: era legna spiaggiata quella che stava finendo di bruciare e le lingue basse di fuoco erano verdi e azzurre di sale.

L’arredamento era eterogeneo, non un solo pezzo che facesse il paio con un altro, eppure armonioso. Una sedia aveva l’aria vagamente medievale, l’ottomana bassa vicino al camino era in stile moderno, la libreria piena zeppa di fronte alla finestra più lontana mi ricordava i set di certi film italiani. Eppure, per qualche motivo, tutti gli elementi s’incastravano alla perfezione, come pezzi di un gigantesco puzzle tridimensionale. Riconobbi anche alcuni dei quadri appesi alle pareti: i miei preferiti fra quelli della grande casa. Tutti originali di valore incalcolabile, senza dubbio, eppure s’intonavano perfettamente all’ambiente, proprio come il resto.

Era uno di quei posti che ti fanno credere nella magia, dove ti aspetteresti di veder apparire da un momento all’altro Biancaneve con la mela in mano, o un unicorno intento a brucare le rose.

Edward si era sempre considerato una creatura da racconto dell’orrore, ma sapevo che si sbagliava, e di grosso. Era ovvio che il suo posto fosse là. Dentro una fiaba.

E adesso c’ero anch’io, con lui.

Stavo pensando di approfittare del fatto che si era dimenticato di rimettermi giù e che l’incanto del suo viso si trovava a pochi centimetri dal mio, quando lo sentii dire: «Meno male che a Esme è venuto in mente di aggiungere una stanza. Nessuno aveva messo in conto Ness... Renesmee».

Brutalmente strappata alle mie fantasticherie, mi rabbuiai.

«Non mettertici anche tu, con quel soprannome», borbottai.

«Scusa, tesoro, ma lo leggo in continuazione nella mente altrui. È snervante».

Sospirai. Mia figlia, il serpente marino. Forse era inevitabile, ma non intendevo arrendermi.

«Scommetto che non vedi l’ora di dare un’occhiata alla cabina armadio. Perlomeno è ciò che dirò ad Alice, per farla contenta».

«Devo aver paura?».

«Al posto tuo io sarei terrorizzato».

Mi condusse lungo uno stretto corridoio di pietra con il soffitto ad archetti, come in un castello in miniatura.

«Questa è la stanza di Renesmee», disse indicando con un cenno del mento una camera vuota dal pavimento di legno chiaro. «Con il casino dei licantropi, non hanno avuto il tempo di sistemarla un granché...».

Ridacchiai fra me, sorpresa dalla velocità con cui le cose erano tornate a posto dopo l’incubo di una settimana prima.

E che cavolo! Jacob doveva proprio trovare quel modo per rendere tutto perfetto?

«E questa è la nostra camera. Esme ha cercato di ricreare l’atmosfera della sua isola. Ha pensato che ci fossimo affezionati».

Il letto era grande e bianco, avvolto da nuvole di tulle che scendevano in morbide ondulazioni fino a terra. Il pavimento era uguale a quello dell’altra stanza, color sabbia tropicale, ormai l’avevo capito. Le pareti erano di quell’azzurro quasi bianco che hanno certe giornate di sole, e su quella di fondo si apriva una grande portafinestra che dava su un giardinetto segreto, con rose rampicanti e un piccolo stagno rotondo con la superficie a specchio e il bordo di sassi lucidi. Un piccolo oceano calmo tutto per noi.

«Oh», fu tutto ciò che riuscii a dire.

«Già», bisbigliò Edward.

Restammo lì per qualche istante, ognuno perso nei propri ricordi. I miei erano umani e confusi, ma avevano assunto il controllo totale della mia mente.

Edward s’illuminò di un ampio sorriso e scoppiò a ridere. «La cabina armadio è dietro quella doppia porta. Ti avverto: è più grande della camera».

Non mi girai nemmeno. Di nuovo, al mondo non esisteva altro che Edward, le sue braccia piegate sotto di me, il suo alito dolce sul mio viso, le sue labbra a sfiorare le mie: nulla poteva distrarmi da lui, e poco importava che fossi una neonata.

«Diremo ad Alice che sono corsa dritta alla cabina armadio», sussurrai, infilandogli le dita fra i capelli e avvicinando il mio volto al suo. «Le diremo che ho passato ore a provare i vestiti. Mentiremo».

Si sintonizzò sulla mia lunghezza d’onda in un attimo, o forse lo era già da prima e stava solo cercando di farmi apprezzare al meglio il mio regalo di compleanno, da vero gentiluomo. Attirò a sé il mio viso con improvviso ardore e un rantolo basso gli salì dal fondo della gola. Nell’udirlo il mio corpo fu attraversato da una scarica elettrica che mi portò sull’orlo della frenesia, come se non potessi avvicinarmi abbastanza o abbastanza rapidamente a lui.

Nel sentire la stoffa che si lacerava sotto le nostre dita sorrisi fra me al pensiero che i miei vestiti, se non altro, erano già a brandelli. Per i suoi era ormai troppo tardi. Pensai che era quasi un insulto ignorare quel bel letto bianco, ma sapevo che non ci saremmo mai arrivati.

Quella seconda luna di miele non fu come la prima.

Il tempo trascorso con Edward sull’isola aveva rappresentato il culmine della mia vita da umana. Il meglio del meglio. Tanto che mi ero sentita pronta a protrarre il tempo da umana, pur di prolungare quei momenti con lui. Perché dal punto di vista fisico, lo sapevo, non sarebbe mai più stata la stessa cosa.

Avrei dovuto immaginarlo, dopo una giornata così, che sarebbe stato meglio.

Ora potevo davvero apprezzare Edward nei dettagli più intimi: grazie ai miei nuovi e acutissimi occhi riuscivo a vedere ogni singolo tratto del suo viso meraviglioso e ogni minimo particolare del suo corpo snello e assurdamente perfetto. Lo percepivo da ogni angolazione e su tutti i piani, potevo sentire il suo sapore intenso sulla lingua e l’incredibile morbidezza della sua pelle marmorea sotto le dita.

La mia pelle era altrettanto sensibile al suo tocco.

Era tutto nuovo, un’altra persona quella che avvinceva dolcemente il proprio corpo al mio sul pavimento color sabbia. Nessuna cautela, nessun riserbo. Soprattutto, nessuna paura. Potevamo amarci insieme. Entrambi partecipanti attivi, ora finalmente alla pari.

Come prima con i baci, ogni contatto, ogni sfioramento era più di quanto fossi abituata a ricevere. Capii fino a che punto si fosse trattenuto, prima. Era stato necessario, certo, ma rimasi sconvolta nel rendermi conto di ciò che mi ero persa fino a quel momento.

Mi sforzavo di tenere a mente che ero più forte di lui, ma non era facile concentrarmi, mentre le sensazioni intense attiravano la mia attenzione verso un milione di punti diversi del mio corpo nello spazio di un secondo. Non so se gli feci male, ma non lo sentii mai lamentarsi.

Una piccolissima parte della mia mente era intenta a studiare quella situazione così affascinante e astrusa. Non mi sarei mai stancata e lui nemmeno. Non avevamo bisogno di riprendere fiato, riposare, mangiare o andare in bagno; non avevamo più alcuna esigenza umana. Edward possedeva il corpo più perfetto che si fosse mai visto ed era tutto mio; sentivo che non sarei mai arrivata al punto di dire: «Per oggi ne ho avuto abbastanza». Anzi, ne avrei voluto sempre di più. Inoltre, quell’oggi sarebbe durato in eterno. Come smettere, in una situazione del genere?

Non seppi darmi una risposta, ma non me ne preoccupai affatto.

A un certo punto mi accorsi — percepii, più che altro — che cominciava a far chiaro. Il piccolo oceano fuori dalla finestra scolorò dal nero al grigio e un’allodola iniziò a cantare, vicinissima. Forse aveva fatto il nido fra le rose.

«Ti manca?», chiesi a Edward quando l’uccello tacque.

Non erano le prime parole che pronunciavamo, ma non si poteva nemmeno dire che avessimo conversato.

«Cosa?», mormorò.

«Tutto. Il calore, la morbidezza della pelle, il profumo... Io non ho perso nessuna di queste sensazioni ma mi chiedevo se per te, invece, non fosse un po’ triste...».

Edward rise piano. «Credo che sarebbe dura trovare qualcuno meno triste di me in questo momento. Impossibile, direi. Non sono in molti a ottenere ciò che desiderano, addirittura, più cose di quante si sognavano di chiedere, e tutte in un solo giorno».

«Stai eludendo la domanda?».

Mi premette una mano sul viso. «Ma sei calda», disse.

In un certo senso era vero. Anche per me la sua mano era calda, anche se non era come toccare la pelle incandescente di Jacob. Ma il contatto era più gradevole. Più naturale.

Quindi fece scivolare piano le dita lungo il mio viso, percorrendo delicatamente il profilo della mascella fino al collo e, da lì, scese fino alla vita. Sentii i miei occhi rovesciarsi all’indietro.

«E sei morbida».

Le sue dita erano come seta sulla mia pelle, capivo perfettamente cosa volesse dire.

«Quanto al profumo, be’, non posso dire di sentirne davvero la mancanza. Ti ricordi l’odore degli escursionisti, quando siamo andati a caccia?».

«Ho fatto di tutto per dimenticarlo».

«Ecco, immagina di baciare qualcuno con quell’odore».

La gola mi andò a fuoco come se vi fosse esploso un aerostato.

«Oh».

«Appunto. Quindi la risposta è no. Sono la gioia fatta persona, perché non sento la mancanza di niente. Nessuno è più ricco di me in questo istante».

Stavo per obiettare a quell’ultimo commento, ma d’un tratto mi ritrovai con le labbra molto impegnate.

Quando il sole che sorgeva colorò lo stagno di grigio perla, mi venne in mente un’altra domanda.

«Quanto dura? Voglio dire, Carlisle ed Esme, Em e Rose, Alice e Jasper non passano tutto il tempo chiusi in camera da letto. Sono sempre in giro, fanno cose con i vestiti addosso... Questa... bramosia passa, dopo un po’?». Mi avvinghiai ancora più stretta al suo corpo — sorprendendo me stessa, non credevo fosse possibile — per chiarire meglio il concetto.

«Difficile a dirsi. Ognuno è fatto a modo proprio e tu sei di gran lunga la più diversa di tutti. In genere i vampiri giovani hanno troppa sete per pensare ad altro, ma non mi sembra il tuo caso. Dopo il primo anno, di solito, vengono fuori altre esigenze, ma né la sete né gli altri desideri svaniscono mai del tutto. Si tratta solo di trovare un equilibrio, stabilire le priorità. Imparare a gestire la situazione, insomma...».

«Quanto dura?».

Edward sorrise, arricciando un po’ il naso. «Il massimo sono stati Emmett e Rosalie. Sono dovuti passare la bellezza di dieci anni prima che riuscissi a sopportarne la vicinanza entro il raggio dei dieci chilometri. Anche Esme e Carlisle non digerivano troppo la faccenda e alla fine hanno buttato fuori i piccioncini. Esme ha costruito una casa anche a loro. Più lussuosa di questa, ma lei conosce i gusti di Rose, così come conosce i tuoi».

«Quindi, dopo dieci anni», non che fossimo in gara con Emmett e Rosalie, ma se avessimo superato il decennio avrei potuto anche vantarmene, «si torna normali, come loro adesso?».

Edward sorrise di nuovo. «Non sono sicuro di sapere cosa intendi per normale. Hai sempre visto la mia famiglia condurre una vita piuttosto... umana. Però tu la notte dormivi». Mi fece l’occhiolino. «Se non hai bisogno di dormire hai un mucchio di tempo in più da dedicare alle tue... inclinazioni. Non è un caso che io sia il miglior musicista della famiglia, quello che ha letto più libri — insieme a Carlisle -, studiato di più, imparato il maggior numero di lingue... Emmett vorrebbe farti credere che so tante cose perché leggo nel pensiero, ma la verità è che ho avuto un mucchio di tempo libero a disposizione».

Scoppiammo a ridere insieme e i sussulti si trasmisero in maniera molto interessante ai nostri corpi allacciati, mettendo fine alla conversazione.

25 Favore

Passò un po’ di tempo prima che Edward mi riportasse coi piedi per terra.

Gli bastò una sola parola.

«Renesmee...».

Sospirai. Di lì a poco si sarebbe svegliata, dovevano essere quasi le sette del mattino. Mi avrebbe cercata? Di colpo mi prese il panico. Che aspetto avrebbe avuto?

Edward percepì la mia ansia. «Va tutto bene, tesoro. Vestiti, saremo a casa in due secondi».

Dovevo sembrargli un cartone animato per il modo in cui saltai su, mi voltai a guardarlo — il suo corpo adamantino riluceva nell’atmosfera soffusa -, puntai verso ovest, dove mi aspettava Renesmee, poi di nuovo verso di lui e poi ancora nella direzione opposta, alternando destra e sinistra a sei battute al secondo. Edward abbozzò un sorriso ma trattenne le risate: sapeva sopportare.

«Te l’ho detto, è tutta questione di equilibrio, amore. E tu sei talmente in gamba che non ci metterai niente a inquadrare ogni cosa nella giusta prospettiva».

«E poi abbiamo tutta la notte, no?».

Il suo sorriso si fece più ampio. «Credi che ti lascerei rivestire se non fosse così?».

Doveva bastarmi per reggere fino a sera. Dovevo tenere a bada il mio desiderio devastante, travolgente, in modo da essere una buona... mi faceva strano anche solo pensarla, la parola. Per quanto Renesmee fosse una presenza assolutamente reale nella mia vita, non riuscivo a considerarmi una madre. D’altronde credevo che qualunque donna si sarebbe sentita così, se non avesse avuto nove mesi di tempo per abituarsi all’idea. E per di più con una figlia che mutava aspetto ogni ora.

Al pensiero della vita accelerata di Renesmee fui travolta da una nuova ondata di angoscia, tanto che non mi concessi nemmeno un minuto di raccoglimento prima di aprire le ante intagliate della cabina armadio e scoprire di cosa l’avesse riempita Alice. Le spalancai, decisa a infilarmi la prima cosa che avessi trovato, ma avrei dovuto sapere che non sarebbe stato così semplice.

«Quali sono i miei?», sibilai. Come mi era stato anticipato, il guardaroba era più grande della camera da letto. Forse più grande dell’intera casa, ma avrei dovuto misurarlo a passi per esserne sicura. Ebbi un flash di Alice intenta a persuadere Esme a ignorare le proporzioni classiche e accettare quella mostruosità. Mi chiesi in che modo fosse riuscita a convincerla.

Ogni singolo capo era infilato dentro un copriabito bianco. Le file di vestiti appesi si succedevano immacolate l’una all’altra, sembravano infinite.

«A quanto mi risulta, è tutta roba tua tranne questa», disse Edward appoggiando la mano su una barra che correva lungo la mezza parete a sinistra della porta.

«Tutto?».

Si strinse nelle spalle.

«Alice», ci uscì di bocca all’unisono. Con la differenza che lui pronunciò il nome a mo’ di spiegazione, io come un’imprecazione.

«Bello», mormorai tirando giù la cerniera della sacca più vicina. Quando vidi il colore del lungo abito di seta che conteneva mi lasciai sfuggire un ringhio soffocato: rosa confetto.

Mi ci sarebbe voluta l’intera giornata per trovare qualcosa di normale da mettermi addosso!

«Ti aiuto io», si offrì Edward e, dopo aver annusato attentamente l’aria, seguì una traccia verso il fondo della stanza, fino a un cassettone a muro. Inspirò di nuovo e aprì un cassetto. Con un ghigno di trionfo tirò fuori un paio di jeans sbiaditi ad arte.

Gli volai accanto. «Come hai fatto?».

«Il denim ha un odore particolare, come qualunque altra cosa. E per il sopra... cotone elasticizzato?».

Seguì il proprio naso fino a una mezza rastrelliera da dove dissotterrò una maglietta bianca a maniche lunghe. Me la lanciò.

Lo ringraziai di cuore e annusai il tessuto, memorizzandone l’odore in vista di future ricerche in quel delirio di cabina armadio. Rievocai le note olfattive di seta e raso: così avrei saputo evitarli.

A Edward bastarono un paio di secondi per trovare i propri vestiti, e se non l’avessi visto nudo avrei giurato che non ci fosse niente di più bello di lui in pantaloni kaki e pullover beige chiaro. Mi prese la mano e sfrecciammo attraverso il giardino segreto. Balzammo agilmente oltre il muro di pietra e scattammo nella foresta. Liberai la mano per fare a gara a chi correva più veloce. Questa volta vinse lui.

Renesmee era sveglia. Seduta per terra e marcata stretta da Emmett e Rose, giocava con un mucchio contorto di posate d’argento. Nella mano destra teneva un cucchiaio martoriato. Appena mi vide attraverso il vetro, lo gettò sul pavimento, dove lasciò una tacca nel legno, e indicò imperiosa nella mia direzione. Alice, Jasper, Esme e Carlisle, lì presenti, risero osservando la scena seduti sul divano, come se fosse il più emozionante dei film.

Prima ancora che la risata scoppiasse ero già entrata, avevo attraversato a lunghe falcate la stanza e avevo sollevato Renesmee da terra, tutto nello stesso istante. Ci scambiammo un grande sorriso.

Era diversa, ma non tanto. Si era allungata ancora, le proporzioni da neonata stavano già cedendo il posto ai primi tratti infantili. I capelli le erano cresciuti di almeno mezzo centimetro e a ogni movimento i riccioli le rimbalzavano in testa come molle. Lungo la strada avevo scatenato la fantasia e mi ero immaginata ben di peggio. Grazie ai miei timori esagerati, quei cambiamenti minimi furono quasi un sollievo. Anche senza i calcoli di Carlisle, ero certa che fossero più lenti del giorno prima.

Renesmee tamburellò sulla mia guancia. Feci una smorfia. Aveva di nuovo fame.

«Da quanto tempo è alzata?», chiesi, mentre Edward spariva oltre la porta della cucina. Ero certa che fosse andato a preparare la colazione, dato che aveva letto il pensiero di Renesmee chiaramente quanto me. Chissà se si sarebbe accorto del suo talento particolare, se fosse stato l’unico a conoscerla. Per lui, probabilmente, era come ascoltare chiunque altro,

«Da qualche minuto», rispose Rose. «Ti avremmo chiamato fra poco. Ti voleva, anzi, ti pretendeva. Esme ha sacrificato uno dei suoi servizi di posate per tenere impegnato il piccolo mostro», disse e sorrise a Renesmee con un affetto così raggiante che la critica perse qualunque significato. «Non volevamo... disturbarvi, ecco».

Rosalie si morse il labbro e si voltò dall’altra parte, sforzandosi di non ridere. Alle mie spalle il ghigno silenzioso di Emmett faceva vibrare le fondamenta della casa.

A testa alta dissi a Renesmee: «Ti prepariamo subito la camera. La casetta ti piacerà, vedrai. È magica». Guardai Esme. «Grazie, Esme. Grazie infinite. È assolutamente perfetta».

Prima che Esme potesse rispondere, Emmett era scoppiato a ridere di nuovo, fragorosamente.

«Quindi è ancora in piedi?», riuscì a dire fra un singhiozzo e l’altro. «Ero convinto che l’avreste demolita. Cos’avete fatto stanotte, avete discusso del debito pubblico?». Ormai ululava dalle risate.

Strinsi le mascelle e ripensai a cos’era successo il giorno prima, quando avevo dato libero sfogo al mio malumore. Anche se, ovviamente, Emmett non era fragile come Seth...

Il pensiero di Seth mi fece tornare in mente i licantropi. Dov’erano? Guardai fuori dalla vetrata, arrivando non avevo visto tracce di Leah.

«Jacob è partito stamattina presto», mi comunicò Rosalie, la fronte corrugata. «Seth è andato con lui».

«Di cos’era preoccupato?», chiese Edward rientrando nella stanza con la tazza di Renesmee. Evidentemente nella testa di Rosalie c’era più di quanto la sua espressione mi aveva trasmesso.

Senza respirare passai Renesmee a Rosalie. Superautocontrollo o no, proprio non ce la facevo a darle da mangiare. Non ancora.

«Non lo so e non m’importa», borbottò Rosalie. Ma poi aggiunse: «Guardava Nessie dormire, imbambolato, con quella sua aria da imbecille, quando d’un tratto, senza motivo — nessuno che io abbia notato, almeno — è balzato in piedi e si è fiondato fuori. A me non è dispiaciuto che si levasse di torno. Più tempo passa qui, più sarà difficile liberare la casa dall’odore».

«Rose», la riprese bonaria Esme.

Rosalie buttò indietro la testa di scatto. «Ma non è un grosso problema. Immagino che non resteremo qui ancora a lungo».

«Io insisto che dovremmo andare dritti nel New Hampshire a organizzare le cose», intervenne Emmett, riprendendo chiaramente una conversazione già iniziata. «Bella è già iscritta a Dartmouth. Non credo le ci vorrà tanto per ambientarsi a scuola». Poi, voltandosi a guardarmi con un ghigno scherzoso, aggiunse: «Sono sicuro che diventerai la prima della classe... A quanto pare la notte non hai di meglio da fare che studiare».

Rosalie ridacchiò.

Non perdere le staffe, non perdere le staffe, mi ripetevo come un mantra. E, con mia grande soddisfazione, ci riuscii.

Edward invece no, il che mi sorprese doppiamente.

Ringhiò — un suono aspro e penetrante che mi lasciò agghiacciata — e la furia più nera gli oscurò il viso come una nuvola temporalesca.

Prima che qualcuno potesse rispondere, Alice balzò in piedi.

«Cosa sta facendo? Com’è riuscito quel cane a cancellare il mio programma di tutta la giornata? Non riesco a vedere niente! No!». Mi lanciò uno sguardo tormentato. «E tu guardati! Hai bisogno di me per capire come usare la cabina armadio».

Per un istante fui grata a Jacob, qualunque cosa stesse facendo.

Poi Edward strinse i pugni e disse in tono rabbioso: «Ha parlato con Charlie. Pensa che lui lo stia seguendo. Verrà qui. Oggi».

Alice usò un’espressione che fece un effetto molto strano con il suo tono di voce acuto e signorile, poi si lanciò attraverso la porta sul retro con uno scatto così repentino che i contorni della sua figura persero definizione.

«L’ha detto a Charlie?», rantolai. «Ma... non si rende conto? Come ha potuto?». Charlie non doveva sapere di me, né dei vampiri! Altrimenti sarebbe finito sulla lista di quelli da eliminare e nemmeno i Cullen avrebbero potuto salvarlo. «No!».

«Jacob è già qui», mormorò Edward fra i denti.

Verso est doveva aver cominciato a piovere, perché Jacob entrò scrollandosi come un cane, sventagliando acqua dai capelli sul tappeto e sul divano bianco, che macchiò di gocce grigie. I denti gli brillavano fra le labbra scure; aveva gli occhi accesi e lo sguardo allucinato. Si muoveva a scatti, come se l’idea di distruggere la vita di mio padre lo eccitasse.

«Salve, ragazzi», ci salutò ghignando.

Silenzio totale.

Leah e Seth gli scivolarono alle spalle. Erano in forma umana per il momento. A entrambi tremavano le mani dalla tensione.

«Rose», chiamai, tendendo le braccia. Senza dire una parola mi diede Renesmee. La strinsi al mio cuore immobile, come un talismano contro gli atti inconsulti. L’avrei tenuta fra le braccia finché non fossi stata sicura che la mia decisione di uccidere Jacob era frutto di una scelta razionale e non dell’ira.

Renesmee era calmissima, osservava e ascoltava. Quanto riusciva a capire?

«Fra poco arriverà Charlie», buttò lì Jacob, rivolto a me. «Te lo dico a titolo informativo. Immagino che Alice sia andata a prenderti un paio d’occhiali...».

«Tu hai troppa immaginazione», sputai fra i denti. «Che. Cavolo. Hai. Combinato?».

Il suo sorriso vacillò, ma era ancora troppo su di giri per rispondere seriamente. «Stamattina Emmett e la bionda mi hanno svegliato con la storia che vi trasferite tutti quanti dall’altra parte del paese. Come se potessi lasciarvi andare. Il grosso problema era Charlie, no? Be’, problema risolto».

«Ti rendi conto anche solo vagamente di ciò che hai fatto? Del rischio a cui l’hai esposto?».

Sbuffò. «Non l’ho messo in pericolo. L’unico pericolo potresti essere tu, ma tu possiedi una specie di autocontrollo soprannaturale, dico bene? Anche se per me non vale quanto la capacità di leggere nel pensiero. Molto meno eccitante».

A quel punto Edward si mosse. Sfrecciò attraverso la stanza fino a trovarsi con la faccia a un millimetro da quella di Jacob. Sebbene fosse più basso di lui di mezza testa, l’ondata di rabbia al calor bianco che gli rovesciò addosso costrinse Jacob a tirarsi indietro, come se Edward lo sovrastasse.

«È solo una teoria, bastardo», sputò. «Pensi che dovremmo usare Charlie come banco di prova? Hai pensato al dolore fisico che patirebbe Bella, ammesso e non concesso che riuscisse a resistere? E alla sofferenza nel caso non ci riuscisse? Ma immagino che ciò che prova Bella non sia più affar tuo!». L’ultima parola gli uscì di bocca come uno sputo.

Renesmee mi premeva ansiosamente le dita sulla guancia, il replay nella sua testa era tinto di tensione.

Le parole di Edward smorzarono la bizzarra eccitazione di Jacob. La bocca gli si piegò in una smorfia. «Bella sentirà dolore?».

«Come se le avessi infilato in gola un ferro incandescente!».

Trasalii al pensiero del sangue umano puro e del suo profumo.

«Non lo sapevo», sussurrò Jacob.

«Potevi chiedere, prima», ringhiò Edward fra i denti.

«Potevi fermarmi».

«Dovevi essere fermato».

«Non si tratta di me», m’intromisi. Ero immobile, aggrappata a Renesmee come all’ancora della sanità mentale. «Si tratta di Charlie, Jacob. Come hai potuto esporlo a un simile rischio? Ti rendi conto che adesso o muore, o diventa anche lui un vampiro?». La voce mi tremava di lacrime che i miei occhi non sapevano più versare.

Jacob era ancora disorientato dalle accuse di Edward, ma le mie non sembrarono impressionarlo. «Rilassati, Bella. Non gli ho detto nulla che non avessi già intenzione di dirgli tu».

«Ma sta venendo qui!».

«L’idea era quella, infatti. Mi pareva di aver capito che il tuo piano fosse "facciamogli supporre cose sbagliate", così ci ho pensato io a depistarlo».

Le mie dita si staccarono da Renesmee e le strinsi a pugno, per sicurezza. «Spiegati, Jacob. Non ho tempo da perdere con gli indovinelli».

«Non gli ho detto niente di te. Non proprio. Gli ho detto di me. Be’, forse sarebbe più corretto dire che gli ho fatto vedere me».

«Si è trasformato davanti a Charlie», sibilò Edward.

«Hai fatto cosa?», sussurrai.

«Ha del fegato. Come te. Non è svenuto, non ha vomitato, niente. Devo dire che ne sono rimasto colpito. Però avresti dovuto vedere la sua faccia quando ho cominciato a spogliarmi. Impagabile», sghignazzò.

«Ma allora sei completamente deficiente! Poteva venirgli un infarto!».

«Sta bene. È uno tosto. Se ci pensassi sopra un minuto, ti renderesti conto che ho fatto un favore a tutti».

«Di minuto te ne concedo mezzo, Jacob». La mia voce era piana e gelida come il ghiaccio. «Hai trenta secondi per riferirmi ogni cosa che vi siete detti, parola per parola, prima che affidi Renesmee a Rosalie e ti stacchi quella testa vuota che ti ritrovi. Questa volta non ci sarà Seth a fermarmi».

«Gesù, Bella! Non eri così melodrammatica, prima. È una cosa da vampiri?».

«Ventisei secondi».

Jacob alzò gli occhi al cielo e si lasciò sprofondare nella poltrona più vicina. Il suo piccolo branco si dispose ai lati, con aria nient’affatto rilassata. Leah mi teneva lo sguardo puntato addosso, i denti appena scoperti.

«Allora: ho bussato da Charlie, questa mattina, e gli ho chiesto di venire a fare una passeggiata. Sul momento è rimasto un po’ interdetto, ma quando gli ho detto che si trattava di te e che eri tornata in città mi ha seguito nel bosco senza esitare. Gli ho detto che non eri più malata, ma anche che non eri... del tutto a posto. Stava già partendo per venire da te, ma gli ho detto che prima volevo fargli vedere una cosa. E mi sono trasformato», concluse con un’alzata di spalle.

Avevo i denti talmente serrati che mi sentivo come se qualcuno mi avesse chiuso la faccia in una morsa. «Voglio le parole esatte, mostro».

«Scusa, hai detto che mi rimanevano solo trenta secondi. Okay, okay». La mia espressione doveva averlo convinto che non ero dell’umore per apprezzare le battute di spirito. «Dunque: mi sono ritrasformato e rivestito e, dopo che lui ha ripreso a respirare, ho detto qualcosa tipo: "Sai, Charlie, il mondo è diverso da quello che credevi. La buona notizia è che non è cambiato niente... a parte che adesso lo sai. La vita continua come sempre. E tu puoi tornare a far finta di non credere a niente di tutto questo".

Ci ha messo un minuto buono per riprendersi. Poi ha voluto sapere cos’avevi veramente, la storia della malattia rara eccetera. Gli ho detto che eri stata davvero malata, ma che adesso stavi bene, solo che per guarire avevi dovuto cambiare qualcosina. Lui mi ha chiesto cosa intendessi per "cambiare qualcosina" e io ho risposto che somigliavi molto più a Esme che a Renée».

Edward sibilò, io rimasi a fissare Jacob inorridita. Ci stavamo lanciando in una direzione pericolosa.

«Dopo un paio di minuti mi ha chiesto, con molta calma, se anche tu fossi diventata un animale. E io ho replicato: "Le piacerebbe!"». Jacob ridacchiava.

Rosalie fece un verso di ripulsa.

«Volevo spiegargli qualcosa in più sui licantropi, ma prima ancora che pronunciassi la parola per intero mi ha bloccato e ha detto che preferiva "non scendere nei dettagli". Poi mi ha chiesto se sapevi a cosa andavi incontro quando hai sposato Edward e io ho detto: "Sicuro, sapeva tutto da anni, da quando è arrivata a Forks". Questo non gli ha fatto molto piacere. L’ho lasciato sfogare e quando si è calmato voleva due cose: primo, vederti, e io gli ho detto che era meglio se mi lasciava il tempo di spiegarti...».

Respirai a fondo. «E secondo?».

Jacob sorrise. «Ti piacerà. La sua richiesta è stata di sapere il meno possibile di tutta la storia. Quindi, se non si tratta di un dettaglio essenziale, tientelo per te».

Per la prima volta da quando Jacob aveva messo piede in casa, mi sentii sollevata. «Ce la posso fare».

«Per il resto, gli piacerebbe far finta che non è successo niente». Il sorriso di Jacob si fece compiaciuto. Forse aveva intuito l’ombra di qualcosa di simile alla gratitudine nei suoi confronti da parte mia.

«E di Renesmee cosa gli hai detto?». Mi sforzavo di mantenere un tono glaciale, di non lasciar trapelare il sollievo che, mio malgrado, cominciavo a provare. Era prematuro. La situazione era ancora troppo confusa. Anche se l’iniziativa di Jacob aveva suscitato in Charlie una reazione più positiva di quanto osassi sperare.

«Ah, sì. Gli ho detto che tu ed Edward avevate ereditato una boccuccia da sfamare». Lanciò un’occhiata a Edward. «È la vostra orfanella. Tipo Bruce Wayne e Dick Grayson», ridacchiò Jacob. «Non vi dispiace che abbia mentito, vero? In fondo fa parte del gioco...». Dato che Edward non aprì bocca, proseguì. «Charlie ormai era oltre lo shock, eppure è riuscito a chiedermi se avevate intenzione di adottarla. Le sue parole esatte sono state: "Come una figlia? Per cui io diventerei una specie di nonno?". Gli ho detto di sì: "Congratulazioni, nonnino", e gli ho strappato persino un sorriso».

Gli occhi ripresero a bruciarmi, ma questa volta non era né paura, né angoscia. Charlie sorrideva all’idea di diventare nonno? Quindi era disposto a vedere Renesmee...

«Ma muta così rapidamente», sussurrai.

«Gli ho spiegato che era più speciale di tutti noi messi assieme», disse dolcemente Jacob. Dopodiché si alzò e venne dritto verso di me, allontanando con un gesto della mano Leah e Seth che stavano per seguirlo. Renesmee fece per allungarsi verso di lui, ma la strinsi più forte a me. «Gli ho detto: "Fidati, è meglio che tu non sappia. Ma se riesci a ignorare gli aspetti bizzarri, ne resterai affascinato. Non c’è essere più meraviglioso al mondo". E poi gli ho detto che se riusciva a farsene una ragione, sareste rimasti in zona per un po’ e avrebbe avuto l’occasione di vederla. Se, invece, fosse stato troppo per lui, sareste andati via. E lui ha risposto che, purché gli venissero risparmiati i dettagli, ce l’avrebbe fatta».

Jacob rimase a fissarmi con un mezzo sorriso, in attesa.

«Non aspettarti un grazie», dissi. «Hai comunque esposto Charlie a un rischio enorme».

«Mi dispiace davvero di averti ferito. Non immaginavo che ci stessi male. Le cose sono diverse fra noi adesso, ma tu sarai sempre la mia migliore amica, e ti vorrò sempre bene, nel modo giusto, però. Finalmente ho trovato un equilibrio. Abbiamo entrambi qualcuno senza cui non possiamo vivere».

E detto questo sfoderò il più jacobico dei suoi sorrisi. «Amici?».

Per quanto mi sforzassi di trattenerlo, lasciai affiorare anch’io un sorriso.

Jacob mi tese la mano: un’offerta.

Feci un respiro profondo e, spostata Renesmee sull’altro braccio, posai la mano sinistra sulla sua e lui non fece una piega al contatto con il freddo della mia pelle. «Se stasera non uccido Charlie, prenderò in considerazione l’eventualità di perdonarti».

«Siccome stasera non ucciderai Charlie, mi sei debitrice. Altroché».

Alzai gli occhi al cielo.

Jacob tese l’altra mano verso Renesmee: una richiesta, questa volta. «Posso?».

«La sto tenendo in braccio per avere le mani occupate e impedirmi di ucciderti. Più tardi, magari».

Sospirò ma non insistette. Saggia decisione.

Alice rientrò come un fulmine, le braccia cariche e l’espressione foriera di violenza.

«Tu, tu e tu», intimò fulminando con lo sguardo, a turno, i licantropi. «Se proprio dovete restare, mettetevi nell’angolo e vedete di rimanerci per un po’. Devo vedere. Bella, ti consiglio di mollargli la piccola. E poi è meglio se tieni le braccia libere».

Jacob fece un ghigno di trionfo.

Era paura allo stato puro quella che mi dilagò nello stomaco quando mi resi conto dell’enormità di ciò che stavo per fare. Stavo puntando tutto sul mio presunto autocontrollo e la cavia era il mio ignaro padre umano. Le parole di Edward tornarono a rimbombarmi nelle orecchie.

Hai pensato al dolore fisico che patirebbe Bella, ammesso e non concesso che riuscisse a resistere? E alla sofferenza nel caso non ci riuscisse?

Non osavo immaginare il livello di dolore, se avessi fallito. Il respiro mi si spezzò in un singhiozzo.

«Prendila», sussurrai e feci scivolare Renesmee fra le braccia di Jacob.

Lui annuì, la fronte aggrottata dalla preoccupazione. Fece un cenno agli altri e si ritirarono tutti nell’angolo più lontano della stanza. Seth e Jake si acquattarono subito a terra, ma Leah scosse la testa e contrasse le labbra.

«Posso andare?», borbottò. Aveva l’aria di essere a disagio nel suo corpo umano, portava la stessa maglietta e gli stessi pantaloncini di cotone sporchi di qualche giorno prima, quando mi aveva fatto quella scenata, e i corti capelli scompigliati in ciuffi disordinati. Le tremavano ancora le mani.

«Certo», rispose Jake.

«Mantieniti a est, così non rischi di incontrare Charlie», aggiunse Alice.

Leah non la guardò. Si chinò per uscire dalla porta posteriore e s’inoltrò con passo pesante fra i cespugli, pronta a trasformarsi.

Edward era di nuovo accanto a me e mi accarezzava il viso. «Ce la puoi fare. Sai di potercela fare. Ti aiuterò. Ti aiuteremo tutti».

Con il panico stampato in faccia a caratteri cubitali, incrociai lo sguardo di Edward. Era forte a sufficienza da fermarmi, se avessi fatto una mossa sbagliata?

«Se non fossi convinto che puoi farcela, ci eclisseremmo oggi stesso. In questo preciso istante. Ma ce la farai. E sarai più felice se Charlie farà ancora parte della tua vita».

Mi sforzai di calmare il respiro.

Alice tese una mano. Nel palmo teneva una scatolina bianca. «Queste ti irriteranno gli occhi: non fanno male, ma annebbiano un po’ la vista. Danno fastidio. Non è il tuo vecchio colore, ma sempre meglio che rosso acceso, ti pare?».

Lanciò la scatola in aria e io l’afferrai al volo.

«Ma quando hai...».

«Prima che partiste per la luna di miele. Ho preso in considerazione vari, possibili scenari futuri».

Annuii e aprii la scatolina. Non avevo mai portato lenti a contatto, ma non doveva essere poi tanto complicato. Afferrai la prima delle due lunette marroni e me la posai sull’occhio dal lato concavo.

Quando battei le palpebre, una specie di velo mi scese sulla pupilla. Era trasparente, naturalmente, ma vedevo anche la sua trama. Il mio occhio continuava a concentrarsi sui graffi microscopici e sulle deformazioni della lente.

«Ho capito cosa intendevi», mormorai mentre m’infilavo la seconda lente. Questa volta mi sforzai di non battere le palpebre. Il mio occhio tentava istintivamente di espellere il corpo estraneo.

«Come sto?».

Edward sorrise. «Una favola, naturalmente...».

«Sì, sì, certo, lei è sempre una favola», terminò impaziente Alice al posto suo. «Meglio che rossi, ma è l’unico commento positivo che mi sento di fare. Marrone fango. Il tuo colore naturale era molto più bello. Ricorda che non durano in eterno: il veleno nei tuoi occhi le scioglie nel giro di poche ore. Quindi se Charlie si trattiene più a lungo, dovrai scusarti e correre a infilartene un paio nuove. Che è comunque una buona idea, visto che gli umani devono andare in bagno». Scosse la testa. «Esme, dalle un paio di dritte sul comportamento da umano mentre io rifornisco il bagno di lenti».

«Quanto tempo ho?».

«Charlie sarà qui fra cinque minuti. Sii sintetica».

Esme annuì e mi prese la mano. «Per prima cosa, non devi star seduta troppo immobile, né muoverti troppo velocemente», disse.

«Se lui si siede, siediti anche tu», s’intromise Emmett. «Agli umani non piace stare in piedi».

«Ogni trenta secondi o giù di lì sposta lo sguardo», aggiunse Jasper. «Gli umani non fissano le cose troppo a lungo».

«Accavalla le gambe, poi, dopo cinque minuti, incrocia le caviglie», disse Rosalie.

Annuivo a ogni suggerimento. Li avevo visti fare quei gesti il giorno prima e ritenevo di riuscire a imitarli.

«E batti le palpebre almeno tre volte al minuto», si raccomandò Emmett. D’un tratto si accigliò, schizzò verso il tavolino, afferrò il telecomando e sintonizzò il televisore su un canale che trasmetteva una partita del campionato universitario di football. Annuì fra sé.

«Muovi anche le mani. Tirati indietro i capelli, fai finta di grattare qualcosa...», disse Jasper.

«Avevo detto Esme», si lamentò Alice al suo ritorno. «Così la confondete».

«No, credo di aver capito», dissi. «Star seduta, guardare in giro, battere le palpebre, muovere le mani».

«Esatto», approvò Esme cingendomi le spalle.

Jasper si accigliò. «Tratterrai il fiato il più possibile, ma devi sollevare ritmicamente le spalle, appena appena, per dare l’impressione che respiri».

Feci un respiro e annuii di nuovo.

Edward mi abbracciò dal fianco libero. «Ce la farai», mi mormorò incoraggiante all’orecchio.

«Due minuti», annunciò Alice. «Forse dovresti farti trovare già seduta sul divano. In fin dei conti sei stata malata. Così non noterà subito il tuo modo di muoverti».

Alice mi spinse verso il divano. Cercavo di camminare piano e rendere più goffi i miei movimenti, ma forse non me la cavai molto bene, perché la vidi alzare gli occhi al cielo.

«Jacob, ho bisogno di Renesmee», dissi.

Jacob s’incupì e non si mosse.

Alice scosse la testa. «Bella, lei non mi aiuta a vedere».

«Ma mi serve. Mi tranquillizza». Impossibile non notare la nota acuta di panico nella mia voce.

«D’accordo», borbottò Alice. «Tienila più ferma che puoi, cercherò di vederle attorno», e sbuffò seccata, come una cui hanno chiesto di fare gli straordinari in un giorno festivo. Anche Jacob sbuffò ma mi consegnò Renesmee, per poi sottrarsi rapido allo sguardo di Alice.

Edward mi si sedette accanto e mise un braccio attorno a me e Renesmee. Poi si piegò in avanti e guardò la piccola negli occhi, con aria molto seria.

«Renesmee, sta per arrivare una persona molto speciale che viene apposta per vedere te e la mamma», disse in tono grave, come se si aspettasse che lei capisse ogni singola parola. Capiva? Lo fissava con sguardo intento e limpido. «Ma non è come noi, nemmeno come Jacob. Dobbiamo essere molto cauti con lui. Non devi dirgli le cose come le dici a noi».

Renesmee gli toccò il viso.

«Esatto», disse Edward. «Inoltre ti farà venire sete. Ma non devi morderlo. Non può guarire come Jacob».

«Riesce a capirti?», sussurrai.

«Capisce. Farai attenzione, vero, Renesmee? Ci aiuterai?».

Renesmee lo toccò di nuovo.

«No, non m’importa se mordi Jacob, va bene».

Jacob ridacchiò.

«Forse è meglio se te ne vai, Jacob», disse Edward secco, freddandolo con lo sguardo. Non lo aveva perdonato perché sapeva che, comunque fosse finita con Charlie, io avrei sofferto. Ma, se sentirmi ardere la gola fosse stata la cosa peggiore da dover patire quella sera, ne sarei stata felice.

«Ho detto a Charlie che ci sarei stato anch’io», replicò Jacob. «Ha bisogno di sostegno morale».

«Sostegno morale», ripeté Edward sprezzante. «Fra noi mostri tu sei il più ributtante, per Charlie».

«Ributtante?», protestò Jake, poi ridacchiò fra sé.

Udii le ruote dell’auto svoltare dalla strada principale e irrompere nel silenzio dello sterrato umido del vialetto che portava a casa Cullen e il respiro mi s’inchiodò nuovamente. Il cuore avrebbe dovuto battermi all’impazzata. L’assenza delle reazioni più ovvie mi causava un po’ di ansia.

Per calmarmi mi concentrai sul battito regolare del cuore di Renesmee. L’effetto fu quasi immediato.

«Ottimo, Bella», approvò Jasper in un sussurro.

Edward mi cinse le spalle con più forza.

«Sei sicuro?», gli chiesi.

«Sicurissimo. Puoi fare qualunque cosa». Sorrise e mi baciò.

Non fu esattamente un bacio casto e per un attimo la mia reazione inconsulta da vampira mi fece abbassare la guardia. Il contatto con le sue labbra era come un’iniezione di una qualche droga chimica ad altissimo potere d’assuefazione dritta nel mio sistema nervoso. Ne desiderai subito ancora. Mi occorse tutta la mia capacità di concentrazione per non dimenticare che tenevo Renesmee fra le braccia.

Jasper percepì il mio cambiamento d’umore. «Ehm, Edward, non la distrarre così proprio adesso. Deve essere in grado di concentrarsi».

Edward si tirò indietro. «Ops», disse.

Risi. Quella era sempre stata la mia battuta, sin dal primo bacio.

«Più tardi», dissi, e solo all’idea lo stomaco mi si contrasse.

«Concentrazione, Bella», incalzò Jasper.

«Vero». Scacciai i languori e mi concentrai su Charlie, la cosa più importante in quel momento. Tenere Charlie al sicuro. Avremmo avuto tutta la notte per...

«Bella».

«Scusa, Jasper».

Emmett rise.

Il rumore dell’auto della polizia guidata da Charlie si faceva sempre più vicino. Il momento di leggerezza passò e calò il silenzio. Accavallai le gambe e mi esercitai a battere le palpebre.

La macchina si fermò davanti alla casa e restò con il motore acceso per alcuni secondi. Mi chiesi se anche Charlie fosse nervoso quanto me. Poi il ronzio del motore cessò e si udì sbattere una portiera. Tre passi sull’erba, poi otto rimbombi sui gradini di legno. Altri quattro passi sotto il portico. Silenzio. Charlie fece due respiri profondi.

Toc, toc, toc.

Inspirai per quella che avrebbe potuto essere l’ultima volta. Renesmee era sprofondata fra le mie braccia, il viso nascosto fra i miei capelli.

Carlisle andò ad aprire, la tensione sul suo viso di colpo mutata in un’espressione di cordiale benvenuto, come se avesse cambiato canale alla TV.

«Ciao, Charlie», disse con la giusta dose di sconcerto dipinta in faccia. In fin dei conti avremmo dovuto essere al centro epidemiologico di Atlanta. Charlie sapeva che gli avevamo mentito.

«Carlisle», rispose Charlie impassibile. «Dov’è Bella?».

«Sono qui, papà».

Oddio, che voce strana mi era uscita. Per di più avevo usato parte della mia riserva d’aria. Rifeci rapidamente il pieno, ringraziando che l’odore di Charlie non avesse ancora saturato la stanza.

La sua espressione vuota mi confermò che avevo parlato con una voce non mia. Mi mise a fuoco e sgranò gli occhi.

Lessi le emozioni che provava una per una, mentre si succedevano sul suo viso.

Sorpresa. Incredulità. Dolore. Perdita. Paura. Rabbia. Sospetto. Di nuovo dolore.

Mi morsi il labbro. Che buffo. I miei nuovi denti erano più affilati, contro la pelle di granito, di quanto fossero quelli vecchi sulle mie soffici labbra umane.

«Bella, sei tu?», sussurrò Charlie.

«Sì». Trasalii a quella mia voce scampanellante. «Ciao, papà».

Respirò a fondo per farsi coraggio.

«Ciao, Charlie», lo salutò Jacob dall’angolo. «Come va?».

Charlie gli lanciò uno sguardo torvo, rabbrividì al ricordo e si voltò di nuovo verso di me.

Attraversò lentamente la stanza e si fermò a pochi passi da me. Saettò uno sguardo accusatore a Edward, poi tornò a fissarmi battendo le palpebre.

Il calore del suo corpo mi s’infrangeva addosso a ogni battito del suo cuore.

«Bella?», chiese di nuovo.

Tenni la voce bassa, nel tentativo di renderla meno trillante. «Sono proprio io».

Serrò le mascelle.

«Mi dispiace, papà», dissi.

«Stai bene?», chiese.

«Alla grande», assicurai. «Sana come un pesce».

E con quello finii la riserva d’ossigeno.

«Jake mi ha detto che era... necessario. Che stavi morendo». Lo disse come se non credesse a una sola parola.

Svuotai la mente, mi concentrai sul peso caldo di Renesmee, mi appoggiai a Edward per farmi forza e respirai profondamente.

L’odore di Charlie era un pugno di fuoco affondato nella mia gola. Ma c’era molto di più del dolore. C’era anche un desiderio pulsante, penetrante come una lama. Charlie aveva l’odore più delizioso che avessi mai sentito. Gli escursionisti sconosciuti che avevo rischiato di cacciare erano appetitosi, ma Charlie mi tentava il doppio. Ed era lì, a pochi passi da me, a intridere di calore e umidità l’aria asciutta della stanza. Inutile, mi faceva venire l’acquolina in bocca.

Però non ero a caccia. E lui era mio padre.

Edward mi strinse la spalla comprensivo e Jacob mi lanciò un’occhiata di scuse.

Mi sforzai di riprendere il controllo di me stessa e ignorare il dolore e la sete. Charlie aspettava una risposta.

«Jacob ti ha detto la verità».

«Quindi sei una di loro», gorgogliò.

Speravo che riuscisse a leggermi in faccia il rimorso, a dispetto dei cambiamenti avvenuti nel mio viso.

Da sotto i capelli sentii Renesmee annusare. L’odore di Charlie era arrivato anche a lei. La strinsi più forte.

Charlie captò il mio sguardo ansioso e lo seguì verso il basso. «Oh», disse, mentre la rabbia lasciava il posto alla sorpresa. «È lei. L’orfanella che volete adottare».

«Mia nipote», mentì Edward con nonchalance. Doveva aver pensato che la somiglianza fra lui e Renesmee fosse troppo marcata per passare inosservata. Meglio dichiarare da subito un certo grado di parentela.

«Credevo non avessi famiglia», disse Charlie in tono accusatorio.

«Ho perso i genitori. Mio fratello maggiore è stato adottato, come me. Non l’ho mai più rivisto. Però il tribunale mi ha rintracciato quando è morto insieme alla moglie in un incidente d’auto, lasciando orfana la figlia, che non aveva nessun altro al mondo».

Edward era un maestro in certe cose. Voce pacata, innocente al punto giusto. Io avevo ancora parecchia strada da fare in quel senso.

Renesmee emerse dai miei capelli, sempre annusando. Lanciò a Charlie uno sguardo timido da sotto le lunghe ciglia e tornò a nascondersi.

«È... be’, sì, è bellissima».

«Sì», concordò Edward.

«Certo che vi siete presi una bella responsabilità. Avete appena messo su casa».

«Cos’altro potevamo fare?», disse Edward sfiorando la guancia di Renesmee. Lo vidi poggiarle le dita sulle labbra per un istante: un memento. «Tu ti saresti rifiutato?».

«Be’, ovvio che...». Charlie scosse la testa come a voler scacciare il pensiero. «Jake mi ha detto che si chiama Nessie».

«No», dissi, in un tono troppo acuto e tagliente. «Il suo nome è Renesmee».

Lo sguardo di Charlie tornò ad appuntarsi su di me. «Ma tu te la senti? Forse Carlisle ed Esme potrebbero...».

«È mia», lo interruppi. «La voglio».

Charlie s’accigliò. «Devo diventare nonno così presto?».

Edward sorrise. «Anche Carlisle è nonno».

Charlie lanciò uno sguardo incredulo a Carlisle, che era rimasto in piedi accanto all’ingresso e sembrava il fratello minore, e più bello, di Zeus.

Charlie grugnì mettendosi a ridere. «Immagino che questo dovrebbe farmi sentire meglio». Il suo sguardo tornò su Renesmee. «Certo che di bambini così non se ne vedono tutti i giorni». Il suo alito caldo riempì lo spazio che ci divideva.

Renesmee quasi si appoggiò contro l’odore, scuotendosi di dosso i miei capelli e guardando Charlie dritto in faccia per la prima volta. Charlie boccheggiò.

Sapevo cosa vedeva. I miei occhi — i suoi — replicati nel viso perfetto di Renesmee.

Charlie andò in iperventilazione. Riuscivo a leggere sulle sue labbra tremanti i numeri che pronunciava in silenzio. Contava alla rovescia, cercando di condensare nove mesi in uno. Si sforzava di far quadrare i conti, ma il suo cervello si rifiutava di accettare l’evidenza che gli si parava davanti.

Jacob si alzò e gli diede un paio di pacche sulla schiena. Poi si chinò a sussurrargli qualcosa all’orecchio; solo Charlie non sapeva che noi potevamo sentire le sue parole.

«Top secret, Charlie. Andrà tutto bene. Te lo prometto».

Charlie deglutì e poi annuì. Con lo sguardo acceso e i pugni serrati, si avvicinò di un passo a Edward. «Non voglio sapere tutto, ma sono stufo di sentirmi raccontare balle!».

«Mi dispiace», disse Edward calmo, «ma, più che la verità, ti serve conoscere la versione ufficiale. Se devi far parte del segreto, la versione ufficiale è ciò che conta. Per proteggere Bella e Renesmee, nonché tutti noi. Riesci a reggere qualche bugia per amore di loro due, almeno?».

La stanza era piena di statue. Incrociai le caviglie.

Charlie sbuffò e si voltò a guardarmi. «Avresti potuto avvertirmi in qualche modo, piccola».

«Avrebbe reso le cose più facili?».

Aggrottò le sopracciglia e s’inginocchiò sul pavimento davanti a me. Vedevo il suo sangue pulsare sotto la pelle del collo. Ne percepivo la vibrazione calda.

Anche Renesmee la sentiva. Sorrise e gli tese una manina rosea, il palmo in avanti. La trattenni. Lei appoggiò l’altra mano sul mio collo, nei suoi pensieri vi erano sete, curiosità e il viso di Charlie. La sensazione che avesse perfettamente compreso le parole di Edward era sottile e inquietante: provava sete e resisteva all’impulso in un unico pensiero.

«Wow», biascicò Charlie, lo sguardo fisso sulla dentatura perfetta di Renesmee. «Quanto tempo ha?».

«Ehm...».

«Tre mesi», rispose Edward, poi aggiunse piano, «cioè, ha le dimensioni di una bambina di circa tre mesi. Ma sotto certi aspetti è più piccola, sotto altri, invece, più matura».

Renesmee agitò il braccio con un gesto deciso.

Charlie batté violentemente le palpebre.

Jacob gli diede di gomito. «Te l’avevo detto che era speciale».

Charlie si ritrasse al contatto.

«E dai, Charlie», borbottò Jacob. «Sono sempre io, il solito vecchio Jake. Fai finta che questo pomeriggio non sia mai esistito».

Le labbra di Charlie sbiancarono al ricordo, ma annuì. «Tu che ruolo hai in tutto questo, Jake?», chiese. «Quanto ne sa Billy? Perché sei qui?». Guardò in faccia Jacob, che fissava raggiante Renesmee.

«Potrei spiegarti — fra l’altro, Billy è al corrente di tutto -, ma dovrei includere un mucchio di particolari riguardo ai lican...».

«Aaah!», esclamò Charlie tappandosi le orecchie con le mani. «Lascia stare».

Jacob sogghignò. «Andrà tutto bene, Charlie. Basta che ti sforzi di non credere a ciò che vedi».

Papà mormorò qualcosa di inintelligibile.

«Così!», rimbombò all’improvviso la voce baritonale di Emmett. «Forza, Gators!».

Jacob e Charlie sobbalzarono. Il resto di noi divenne, se possibile, ancora più immobile.

Appena si fu riavuto, Charlie si voltò a guardare Emmett, che gli dava le spalle. «Il Florida sta vincendo?».

«Hanno appena segnato il primo touchdown», rispose Emmett e si girò a guardarmi, sciabolando un paio di volte le sopracciglia come un cattivo da avanspettacolo. «Finalmente qualcuno che non fa cilecca».

Trattenni a stento un sibilo. Davanti a Charlie? Superava ogni limite.

Ma Charlie non era in condizione di cogliere i doppi sensi. Fece un altro respiro profondo, risucchiando l’aria come cercasse di farla arrivare alla punta dei piedi. Lo invidiai. Si mosse con passo vacillante, aggirò Jacob e si lasciò cadere su una poltroncina. «Mah», sospirò, «vediamo se riescono a conservare il vantaggio».

26 Brillante

«Non so quanto ci convenga raccontare questa storia a Renée», disse Charlie indugiando, con un piede già fuori della porta. Si stiracchiò e gli brontolò lo stomaco.

Annuii. «Non lo so nemmeno io. Non voglio farla uscire di testa. Meglio proteggerla. Per certe rivelazioni ci vogliono nervi saldi».

La bocca gli si increspò in una smorfia mesta. «Anche a me sarebbe piaciuto proteggerti, se avessi saputo come. Ma se c’è una cosa che non ti manca, sono proprio i nervi saldi, dico bene?».

Sorrisi, aspirando una boccata d’aria incandescente fra i denti.

Charlie si batté distrattamente una mano sullo stomaco. «Cercherò di farmi venire in mente qualcosa. Abbiamo tempo per parlarne, vero?».

«Certo», lo rassicurai.

Per certi versi era stata una giornata lunga, per altri era passata in un lampo. Charlie era in ritardo per la cena da Sue Clearwater, che si era offerta di cucinare per lui e Billy. La serata si prospettava poco rilassante ma, se non altro, avrebbe mangiato qualcosa di decente. Date le sue scarse doti culinarie, ero felice che qualcuno gli impedisse di morire di fame.

Per tutto il giorno la tensione aveva fatto sì che i minuti trascorressero al rallentatore. Charlie non aveva rilassato le spalle un solo istante, però non aveva avuto fretta di andarsene. Aveva guardato due partite intere — così assorbito dal gioco, grazie al cielo, da non cogliere le battute allusive di Emmett, la cui sfacciataggine cresceva di minuto in minuto -, i commenti del dopopartita e il telegiornale. Si era mosso soltanto quando Seth gli aveva fatto presente l’ora.

«Non vorrai bidonare Billy e mamma, vero, Charlie? Dai, Bella e Nessie sono qui anche domani. Datti una mossa, forza».

Glielo si leggeva in faccia che non credeva alle parole di Seth, ciononostante si lasciò condurre verso la porta. Si fermò sulla soglia con espressione dubbiosa. Le nuvole si stavano sfilacciando, la pioggia era passata. Non era escluso che il sole si mostrasse in una rapida apparizione solo per poter tramontare.

«Jake ha detto che volevate sparire senza dirmi niente», mormorò.

«L’avrei fatto soltanto se fosse stato strettamente necessario. Infatti, come vedi, siamo ancora qui».

«Ha detto che sareste rimasti per un po’, ma unicamente se io fossi stato forte e avessi tenuto la bocca chiusa».

«Sì... ma non posso prometterti che non ce ne andremo, papà. È piuttosto complicato...».

«Top secret», mi rammentò.

«Appunto».

«Ma se anche te ne vai, tornerai a trovarmi ogni tanto, no?».

«Te lo prometto, papà. Adesso che sai quel che basta, credo che si possa fare. Ti resterò vicina quanto desideri».

Si mordicchiò il labbro per mezzo secondo, poi si chinò piano su di me tendendo cauto le braccia. Spostai Renesmee, che si era appisolata, sul braccio sinistro, serrai le mascelle, trattenni il fiato e cinsi i suoi fianchi caldi e morbidi con il braccio destro, senza stringere.

«Restami vicino, Bells», mormorò. «Molto vicino».

«Ti voglio bene, papà», sussurrai a denti stretti.

Rabbrividì e si staccò da me. Sciolsi l’abbraccio.

«Anch’io ti voglio bene, piccola. Se c’è una cosa che non è cambiata, è proprio quella». Sfiorò con un dito la guancia rosea di Renesmee. «Incredibile quanto ti somiglia».

Nonostante il tumulto interiore, mantenni un’espressione neutra. «Io trovo che somigli di più a Edward». Esitai, poi aggiunsi: «Però ha i tuoi ricci».

Charlie aprì bocca per dire qualcosa, ma gli uscì un verso. «Già. Uhm... Sono il nonno». Scosse la testa dubbioso. «Me la farai tenere in braccio, una volta o l’altra?».

Battei le palpebre scioccata, poi mi ricomposi. Riflettei per un istante e, considerato che Renesmee mi sembrava profondamente addormentata e che le cose parevano aver preso una piega positiva, decisi che tanto valeva sfidare la sorte fino all’ultimo.

«Tieni», dissi tendendo le braccia. Lui piegò di riflesso le sue a formare una sorta di goffa culla e io vi deposi Renesmee. La pelle di Charlie non era calda come quella di lei, ma al contatto con il calore che fluiva sotto quella sottile epidermide mi sentii pizzicare ugualmente la gola. Nel punto in cui il mio braccio freddo toccò il suo, gli venne la pelle d’oca. Non riuscii a stabilire se si trattasse di una reazione puramente fisiologica alla mia nuova temperatura corporea, o di un riflesso emotivo.

Charlie emise un piccolo grugnito nel sentire il peso di Renesmee. «È... bella tosta».

Aggrottai le sopracciglia. A me pareva leggera come una piuma. Forse avevo perso anche la percezione del peso.

«È un bene», aggiunse Charlie notando la mia espressione. Poi aggiunse, mormorando fra sé: «Dovrà essere tosta, in mezzo a questo delirio...». Dondolò piano le braccia. «È la bimba più bella che abbia mai visto. Batte persino te, piccola mia. Scusa, ma è la verità».

«Lo so».

«Questa bella bambina...», ripeté, ma tubava, ormai, più che parlare.

Gli leggevo in faccia che ne era stregato, vedevo crescere l’estasi di secondo in secondo. La teneva in braccio da mezzo minuto e già la sua magia gli aveva fatto perdere la testa, proprio come a tutti noi.

«Posso tornare domani?».

«Certo, papà. Ci trovi qui».

«Sarà meglio», disse in tono severo, ma l’espressione era tutta zucchero e miele, mentre continuava a fissare Renesmee. «Ci vediamo domani, Nessie».

«Anche tu?!».

«Eh?».

«Si chiama Renesmee. Come Renée ed Esme assieme. Niente diminutivi né abbreviazioni». Mi sforzai di calmarmi, ma senza inspirare a fondo. «Vuoi sapere il suo secondo nome?».

«Certo».

«Carlie. Senz’acca. Come Carlisle e Charlie messi assieme».

Strizzò gli occhi nel suo sorriso caratteristico e s’illuminò tutto, prendendomi in contropiede. «Grazie, Bells».

«Sono io che devo ringraziare te, papà. Sono cambiate così tante cose in così poco tempo. Ho il cervello che mi bolle. Se non avessi te, avrei già mollato la presa... sulla realtà». Stavo per dire su quella che ero. Ma sarebbe stato davvero troppo per lui.

Gli brontolò di nuovo lo stomaco.

«Vai a mangiare, papà. Ci ritroverai qui». Ricordai la mia prima, scomoda immersione in quella fantasia e la sensazione che tutto avesse potuto sparire con il sorgere del sole.

Charlie annuì e con riluttanza mi restituì Renesmee. Diede un’occhiata alla stanza, dietro di me. Un lampo confuso gli attraversò gli occhi mentre si guardava attorno nell’ambiente inondato di luce. Erano ancora tutti lì; anche Jacob, che sentivo rovistare nel frigorifero in cucina. Alice era seduta sul primo gradino della scala e Jasper le posava il capo in grembo; Carlisle stava tutto curvo, con il naso infilato dentro un grosso libro che teneva sulle gambe; Esme disegnava canticchiando fra sé, mentre Emmett e Rosalie erano tutti presi a costruire un enorme castello di carte sotto le scale; Edward strimpellava dolcemente al pianoforte. Niente lasciava presagire che il giorno stesse per finire, che fosse ora di cenare o di passare a qualche attività tipicamente serale. L’atmosfera era impercettibilmente mutata. I Cullen si stavano impegnando meno del solito a fingersi umani. Di quel minimo che bastava perché Charlie notasse la differenza.

Rabbrividì, scosse la testa e sospirò. «A domani, Bella». Poi aggrottò la fronte e aggiunse: «Senti, non è che non sei più... carina. Mi ci abituerò».

«Grazie, papà».

Charlie annuì e si avviò pensieroso all’auto. Lo guardai allontanarsi; soltanto quando sentii lo stridere degli pneumatici sulla strada asfaltata mi resi conto di avercela fatta. Non gli avevo fatto del male. C’ero riuscita, per un giorno intero. Ma allora possedevo veramente dei superpoteri!

Mi sembrava troppo bello per essere vero. Sul serio potevo avere la mia nuova famiglia senza dover rinunciare alla vecchia? E io che credevo che il giorno prima fosse stato perfetto...

«Wow», sussurrai. Battei le palpebre e sentii disintegrarsi il terzo paio di lenti a contatto.

La musica del piano cessò e le braccia di Edward mi cingevano la vita, il suo mento sulla spalla.

«Mi hai rubato la parola di bocca».

«Edward, ce l’ho fatta!».

«Sì. Sei stata incredibile. Quelle paure da neonata... le hai saltate tutte a piè pari». Rise sommessamente.

«Secondo me non è neanche una vampira, figuriamoci una neonata», esclamò Emmett da sotto le scale. «È troppo mansueta.

Tutti i commenti imbarazzanti che aveva fatto di fronte a mio padre mi risuonarono nelle orecchie e fu probabilmente un bene che avessi in braccio Renesmee. Non riuscii a impedirmi di ringhiare fra i denti.

«Uh, che paura», rise Emmett.

Sibilai e Renesmee si mosse. Batté un paio di volte le palpebre e si guardò attorno confusa. Annusò l’aria, poi allungò una mano verso il mio viso.

«Charlie torna domani», la rassicurai.

«Ottimo», commentò Emmett. Questa volta Rosalie si unì alla sua risata.

«Non è stata una gran bell’idea, Emmett», disse Edward sprezzante tendendo le braccia per prendere Renesmee. Nel vedermi esitare ammiccò, al che io, un po’ sconcertata, gliela cedetti.

«Cosa intendi dire?», chiese Emmett.

«Non ti pare un po’ azzardato sfidare il vampiro più forte di casa?».

Emmett buttò indietro la testa e sbuffò con tracotanza. «Ma per piacere.

«Bella», mi sussurrò Edward, mentre Emmett aguzzava le orecchie, «ti ricordi, qualche mese fa, quel favore che ti ho chiesto di farmi non appena fossi diventata immortale?».

Un campanello lontano trillò nella mia mente. Mi sforzai di ricostruire certe fumose conversazioni da umana. Dopo qualche istante il ricordo mi mozzò il fiato ed esalai un «Oh!».

Alice esplose in una lunga risata squillante. Jacob fece capolino dall’angolo, masticando a bocca piena.

«Cosa?», gorgogliò Emmett.

«Dici sul serio?», chiesi a Edward.

«Fidati», rispose.

Respirai a fondo. «Emmett, ti andrebbe una piccola scommessa?».

Balzò in piedi. «Come no. Spara».

Esitai un istante. Era proprio grosso.

«O hai paura?», mi provocò.

Raddrizzai le spalle. «Tu. Io. A braccio di ferro. Sul tavolo della sala da pranzo. Adesso».

La bocca di Emmett si spalancò in un ghigno.

«Ehm, Bella», intervenne Alice. «Esme ci tiene parecchio a quel tavolo. È un pezzo antico».

Le labbra di Esme mimarono un «grazie» silenzioso.

«No problem», ghignò Emmett raggiante. «Accomodati, prego».

Lo seguii fuori, verso il garage sul retro; sentii gli altri che ci venivano dietro. C’era un masso di granito in cima a un mucchio di pietre, vicino al fiume. Avevo capito che era a quello che pensava Emmett. Era un po’ arrotondato e aveva la superficie irregolare, ma sarebbe andato bene.

Emmett puntò il gomito sul masso e m’invitò a farmi sotto.

Nel vedere i suoi muscoli gonfiarsi fui invasa da una nuova ondata di nervosismo, ma restai impassibile. Edward mi aveva assicurato che per un certo periodo sarei stata più forte di chiunque altro. Ne sembrava convinto e io mi sentivo forte. Sì, ma, così forte?, mi domandai, guardando nuovamente i bicipiti di Emmett. Non avevo nemmeno due giorni, come vampira, e ciò avrebbe dovuto giocare a mio vantaggio. A meno che fossi anomala in tutto. Magari non ero forte come tutti i neonati. Forse era questo il motivo per cui riuscivo a controllarmi così bene...

Sforzandomi di mantenere un’aria disinvolta, appoggiai il gomito sulla pietra.

«Okay, Emmett. Se vinco, non farai più un solo commento sulla mia vita intima, e questo vale anche per Rose. Basta allusioni, basta doppi sensi, basta... tutto».

Socchiuse gli occhi. «Ci sto. Se perdi, invece, non ti darò tregua».

Nel sentirmi trattenere il respiro ghignò maligno. Non c’era traccia di bluff nei suoi occhi.

«Cos’è, sorellina, ci stai ripensando?», mi schernì. «Allora non sei veramente selvaggia... Scommetto che la vostra casetta non ha nemmeno un graffio». Scoppiò a ridere. «Edward te l’ha detto quante case abbiamo sfasciato io e Rose?».

Strinsi la mascella e gli afferrai la grossa mano. «Uno, due...».

«Tre», disse roco e cominciò a spingere.

Non accadde nulla.

Non che non percepissi la pressione che stava esercitando. La mia nuova mente sembrava piuttosto brava a far calcoli, per cui deducevo che se non avesse incontrato resistenza avrebbe sfondato la roccia senza problemi. La spinta crebbe e mi chiesi distrattamente se fosse paragonabile a quella di un autocarro carico di cemento lanciato in discesa a sessanta all’ora. A ottanta? A cento? Probabilmente di più.

Ma non bastava a spostarmi. La sua mano spingeva contro la mia con forza schiacciante, ma non mi procurava una sensazione sgradevole. Anzi, mi dava una sorta di strano piacere. Da quando mi ero risvegliata, ero stata attentissima a non rompere niente ed era quasi un sollievo poter usare i muscoli senza risparmio. Lasciar fluire la forza invece di trattenerla.

Emmett emise un grugnito; aggrottò la fronte e spinse con tutto il corpo contro la linea della mia mano inamovibile. Lo lasciai sudare — in senso figurato — per un momento mentre mi godevo appieno quella folle energia che mi fluiva nel braccio.

Dopo qualche secondo, però, cominciai ad annoiarmi. Flessi il braccio ed Emmett perse un paio di centimetri.

Risi. Emmett ringhiò roco fra i denti.

«Chiudi quella boccaccia», suggerii, dopodiché abbattei il suo braccio contro la pietra. Uno schianto assordante echeggiò fra gli alberi. Il masso tremò e un frammento, all’incirca un ottavo, si staccò da una faglia prima invisibile, precipitò fragorosamente a terra e colpì il piede di Emmett. Ridacchiai. Udivo il riso soffocato di Edward e Jacob.

Emmett calciò il lastrone oltre il fiume. Il frammento tranciò a metà un giovane acero prima di fermarsi con un tonfo ai piedi di un grosso abete, che ondeggiò e si abbatté su un albero vicino.

«Rivincita. Domani».

«Non perderò le forze tanto presto», gli dissi. «Fra un mesetto, magari».

Emmett ringhiò, scoprendo i denti. «Domani».

«Tutto pur di farti felice, fratellone».

Voltandosi per andarsene diede un pugno al granito, da cui staccò una valanga di polvere e schegge. A modo suo, con quel comportamento infantile, mi faceva tenerezza.

Affascinata dalla prova inconfutabile di essere più forte del più forte vampiro che avessi mai conosciuto, appoggiai la mano aperta sulla roccia e premetti lentamente le dita nella pietra, sbriciolandola più che scavandola; la consistenza mi ricordò quella del formaggio duro. Mi ritrovai con una manciata di ghiaia in mano.

«Fico», mormorai.

Con un ghigno stampato in faccia ruotai su me stessa e diedi un colpo di taglio al masso. La pietra stridette, emise un gemito e si spezzò a metà sollevando una nuvola di polvere.

Iniziai a ridacchiare fra me.

Non prestai molta attenzione alle risatine alle mie spalle mentre prendevo a pugni e calci il resto del masso riducendolo in frammenti. Mi stavo divertendo troppo, sghignazzando ebbra di gioia. Fu solo quando udii una risata nuova, un ridacchiare acuto e argentino come di campanelli, che interruppi il mio stupido gioco.

«Sbaglio, o ha riso?».

Tutti fissavano Renesmee con la stessa espressione sbalordita che dovevo avere io.

«Sì», rispose Edward.

«E chi non stava ridendo?», borbottò Jake alzando gli occhi al cielo.

«Dimmi che, la tua prima volta, non ti sei lasciato andare un pochino anche tu, cane», lo prese in giro Edward senza la benché minima nota di rivalità nella voce.

«È diverso», disse Jacob sferrando, con mia sorpresa, un pugno amichevole alla spalla di Edward. «Bella è una donna adulta, moglie e madre. Dovrebbe avere un po’ più di serietà».

Renesmee si accigliò e toccò il viso di Edward.

«Cosa vuole?», domandai.

«Meno serietà», rispose Edward ghignando. «Si stava divertendo a vedere come te la godevi, quasi quanto me».

«Sono buffa?», chiesi a Renesmee fiondandomi verso di lei e allungando le braccia per prenderla nel momento stesso in cui si tendeva verso di me. La presi da Edward e le offrii la scheggia che avevo in mano. «Vuoi provare?».

Renesmee sfoderò il suo sorriso scintillante, afferrò la pietra e la strinse fra le mani. La concentrazione le scavò una fossetta fra le sopracciglia.

Si udì il suono leggero di qualcosa che si sbriciolava e si intravide un po’ di polvere. Renesmee aggrottò la fronte e mi tese il sasso.

«Ci penso io», dissi riducendolo in sabbia fra pollice e indice.

Renesmee batté le mani e rise, e nell’udire quel suono delizioso ci unimmo tutti a lei.

Il sole comparve all’improvviso fra le nuvole, proiettando lunghi raggi oro e rosso rubino su noi dieci, e di colpo mi persi nella bellezza della mia pelle alla luce del tramonto. Ne ero abbagliata.

Renesmee ne accarezzò le sfaccettature lisce, che brillavano come un diamante, poi posò il braccio accanto al mio. La sua pelle possedeva una luminosità vaga, sottile e misteriosa, lontana dallo scintillio che mi avrebbe costretta a chiudermi in casa nelle giornate di sole. Mi toccò il viso, contrariata dalla differenza fra noi.

«Sei più bella tu», la rassicurai.

«Non sono sicuro di potermi dichiarare d’accordo», disse Edward ma, quando mi voltai per rispondergli, il sole sul suo viso mi lasciò senza parole.

Jacob teneva una mano davanti alla faccia, fingendo di ripararsi gli occhi dal riverbero. «L’assurda Bella», disse.

«Che creatura affascinante», mormorò Edward in tono di conferma, come se il commento di Jacob fosse stato un complimento. Era abbagliato e abbagliante.

Era una sensazione strana — eppure non mi sorprendeva, perché ormai tutto era strano -, quella di possedere un talento naturale per qualcosa. Da umana non ero mai stata la migliore in niente. Con Renée me l’ero cavata abbastanza bene ma, probabilmente, un mucchio di gente se la sarebbe cavata meglio; Phil mi sembrava in gamba. A scuola andavo bene, ma non ero mai stata la prima della classe. Doti sportive, nemmeno a parlarne. Nessuna inclinazione artistica né musicale, nessun talento particolare da vantare. Premi a chi leggeva troppi libri non ne davano mai. Dopo diciotto anni di mediocrità ero abbastanza abituata a rientrare nella media. D’un tratto mi resi conto che avevo rinunciato da tempo a qualunque aspirazione di emergere, di brillare. Sfruttavo al meglio ciò che avevo, senza mai sentirmi a posto veramente nel mio mondo.

Adesso, invece, era diverso. Ero stupefacente per loro e per me stessa. Era come se fossi nata per essere una vampira. Al pensiero mi venne voglia di ridere, persino di mettermi a cantare. Avevo trovato il mio posto nel mondo, un posto su misura per me, il posto in cui brillare.

27 Progetti di viaggio

Da quando ero diventata una vampira, prendevo la mitologia molto più sul serio.

Spesso, ripensando ai miei primi tre mesi da immortale, cercavo d’immaginare che aspetto dovesse avere il filo della mia vita nelle mani delle Parche (a questo punto, chi poteva dire che non esistessero davvero?) ed ero certa che avesse cambiato colore. Credo che in origine fosse di un beige delicato, qualcosa di conciliante e non polemico, adatto a uno sfondo. Adesso doveva essere rosso acceso, o magari oro lucente.

L’arazzo di amici e familiari che mi si era tessuto attorno era bellissimo e splendente, sgargiante dei loro vivaci colori complementari.

Alcuni dei fili che avevo finito per includere nella mia vita mi sorprendevano. I licantropi, con le loro intense tonalità boschive, non li avevo calcolati; Jacob sì, naturalmente, e anche Seth. Ma pure i miei vecchi amici Embry e Quil erano entrati a far parte dell’arazzo nel momento in cui si erano uniti al branco di Jacob, e persino Emily e Sam si dimostravano cordiali. Le tensioni fra le nostre famiglie si stemperarono soprattutto grazie a Renesmee. Era facile volerle bene.

Non avevo previsto nemmeno che Sue e Leah Clearwater si intrecciassero al tessuto della nostra vita.

Sue sembrava essersi assunta il compito di spianare a Charlie la strada della transizione verso il mondo della fantasia. Lo accompagnava dai Cullen quasi tutti i giorni, sebbene desse l’impressione di non trovarsi mai veramente a proprio agio, a differenza di suo figlio e della maggior parte del branco di Jacob. Non parlava molto e si limitava a vegliare protettiva su Charlie. Era sempre suo il primo sguardo che Charlie cercava quando Renesmee lo inquietava con la sua precocità, il che accadeva spesso. Per tutta risposta Sue lanciava un’occhiata eloquente a Seth, come a significare: «A chi lo dici».

Leah era ancora più a disagio di Sue ed era la sola, fra i membri più recenti della famiglia, apertamente ostile alla fusione. Però il nuovo cameratismo che si era venuto a instaurare fra lei e Jacob la teneva vicina a tutti noi. Una volta, non senza una certa esitazione, chiesi spiegazioni a Jacob. Non volevo impicciarmi dei fatti loro, ma m’incuriosiva la nuova piega presa dal suo rapporto con lei. Jacob si strinse nelle spalle e disse che era una questione di branco. Leah era il capo in seconda, adesso, la sua "beta", come l’avevo chiamata una volta, tanto tempo prima.

«Ho pensato che se volevo fare sul serio con questa storia dell’alfa», spiegò Jacob, «certe formalità andavano messe in chiaro».

Nel suo nuovo ruolo Leah sentiva il bisogno di fare spesso rapporto a Jacob e dato che lui era sempre con Renesmee...

Leah non era contenta di frequentarci, ma costituiva l’eccezione. Ormai l’ingrediente principale della mia vita, il tratto dominante dell’arazzo, era la felicità. Al punto che il mio rapporto con Jasper divenne molto più intimo di quanto mi fossi mai sognata.

Sulle prime, però, mi aveva davvero infastidita.

«Gesù», mi lamentai con Edward una sera, dopo aver deposto Renesmee nel suo lettino di ferro battuto. «Se non ho ammazzato Sue o Charlie finora, probabilmente non lo farò mai. Vorrei che Jasper la smettesse di girarmi intorno a quel modo!».

«Nessuno lo mette in dubbio, Bella, neppure per un momento», mi assicurò Edward, «ma sai com’è fatto Jasper, non sa resistere a un buon clima emotivo. E tu sei sempre così felice, amore, che ti gravita attorno senza nemmeno accorgersene».

Poi mi abbracciò forte, perché nulla gli faceva più piacere dello stato d’estasi permanente che mi dava la mia nuova vita.

In effetti ero quasi sempre di umore euforico. Le giornate non erano mai abbastanza lunghe da consentirmi di fare il pieno d’adorazione per mia figlia e le notti erano sempre troppo corte perché potessi appagare il mio bisogno di Edward.

C’era anche una zona d’ombra, però. Immaginavo che, vista dal rovescio, la trama delle nostre vite avrebbe mostrato i lugubri intrecci grigi del dubbio e della paura.

Renesmee disse la sua prima parola a una settimana esatta di vita. La parola era mamma e mi avrebbe resa immensamente felice se non fossi stata così preoccupata per la rapidità dei suoi progressi da contraccambiarla a malapena con un sorriso sul mio volto impietrito. Il fatto che alla prima parola seguisse la prima frase, nello spazio dello stesso respiro, non contribuì, ovviamente, a confortarmi. «Mamma, dov’è il nonno?», chiese con voce squillante da soprano. Parlò a voce alta solo perché mi trovavo dall’altra parte della stanza. L’aveva già chiesto a Rosalie facendo ricorso ai suoi soliti (o del tutto insoliti, a seconda del punto di vista) mezzi di comunicazione e, dato che Rosalie non lo sapeva, si era rivolta a me.

Una situazione analoga si verificò nemmeno tre settimane più tardi, quando mosse i primi passi: dopo aver fissato per un lungo istante Alice, che volteggiava qua e là con le braccia cariche di fiori da distribuire fra i vasi disseminati per la stanza, si alzò in piedi senza nemmeno vacillare e attraversò il locale con grazia di poco inferiore a quella della zia.

Jacob scoppiò in un applauso, ovviamente per assecondare le aspettative di Renesmee. Il legame che lo univa a lei lo induceva a mettere in secondo piano i propri impulsi personali: il suo primo istinto era sempre di dare a Renesmee ciò di cui aveva bisogno. Però i nostri sguardi s’incrociarono e io vidi riflesso nei suoi occhi lo stesso panico che sapevo presente nei miei. Mi obbligai a battere le mani anch’io, cercando di non mostrare a Renesmee la mia paura. Edward applaudiva piano accanto a me. Non avevamo bisogno di dar voce ai nostri pensieri per sapere che si equivalevano.

Edward e Carlisle cominciarono a fare ricerche a tappeto, nella speranza di trovare una risposta, un qualunque dato che consentisse di fare una previsione. In giro c’era poco e niente di verificabile.

In genere Alice e Rosalie aprivano la nostra giornata con una sfilata di moda. Renesmee non indossava mai due volte lo stesso vestito, in parte perché le andavano subito tutti troppo piccoli e in parte perché Alice e Rosalie stavano cercando di creare un album fotografico che sembrava coprire anni invece che settimane. Le scattavano migliaia di foto, per documentare ogni fase della sua infanzia accelerata.

A tre mesi Renesmee poteva passare per una bambina di un anno molto cresciuta, o per una di due un po’ piccola. Non aveva la struttura fisica tipica della prima infanzia, perché era più sottile e aggraziata, con proporzioni simili a quelle di un adulto. I riccioli color del bronzo le arrivavano alla vita; non avrei avuto la forza di tagliarglieli, nemmeno se Alice l’avesse consentito. Articolava alla perfezione ogni parola e parlava con assoluta proprietà di linguaggio, ma si dava raramente la pena di aprir bocca: preferiva mostrare ciò che voleva. Oltre che camminare, sapeva correre e ballare. Ed era persino in grado di leggere.

Una sera le stavo leggendo Tennyson, perché mi pareva che il ritmo e l’andamento della sua poesia avessero un effetto rilassante su di lei. (Dovevo cercare continuamente nuovo materiale: a differenza di qualsiasi altro bambino, Renesmee non amava sentirsi raccontare sempre le stesse storie e non aveva pazienza per i libri illustrati). Allungò una mano per toccarmi la guancia, nella mente un’immagine di noi due, solo che nella sua testa era lei a tenere il libro. Glielo cedetti con un sorriso.

«Musica dolce qui più lene cade», cominciò a leggere senza esitazione, «che non sull’erba petali di rose o, in uno stretto, su silenziose acque, fra rocce, a notte, le rugiade...».

Le tolsi il libro di mano con un gesto automatico.

«Come fai ad addormentarti, se leggi?», chiesi trattenendo a stento il tremito nella voce.

Secondo i calcoli di Carlisle, il ritmo di crescita del suo corpo stava rallentando gradualmente, ma la sua intelligenza, a quanto pareva, continuava la corsa. E se anche il rallentamento fosse proseguito a quel ritmo, nel giro di quattro anni al massimo sarebbe stata adulta.

Quattro anni. E a quindici sarebbe stata una donna anziana.

Soltanto quindici anni di vita.

Eppure scoppiava di salute. Era sveglia, vivace, radiosa e felice. Di fronte al suo evidente benessere, mi era facile godermi il momento e lasciare il domani dov’era, cioè ancora di là da venire.

Edward e Carlisle discutevano le possibili alternative future in uno scambio di sussurri che mi sforzavo di non ascoltare, ma non lo facevano mai in presenza di Jacob, perché dell’unico modo sicuro che conoscessero per arrestare l’invecchiamento Jacob non sarebbe stato entusiasta. Nemmeno io, se era per quello. Troppo pericoloso!, urlava il mio istinto. Jacob e Renesmee avevano troppe cose in comune, erano entrambi esseri ibridi, a metà fra due mondi. E, stando alle storie sui licantropi, il veleno di vampiro era una condanna a morte, più che un passaporto per l’immortalità...

Esaurite le possibilità di ricerca da casa, Edward e Carlisle si stavano preparando a risalire direttamente alla fonte delle antiche leggende. Dovevamo tornare in Brasile e ricominciare da lì. Nei miti degli indios Ticuna si parlava di bambini come Renesmee... Se erano già esistiti altri piccoli semi-immortali come lei, forse era possibile sapere qualcosa di più sul loro arco di vita.

Restava solo da stabilire quando saremmo partiti.

L’incognita ero io. In parte perché volevo rimanere a Forks fino a dopo le feste, per Charlie, ma soprattutto perché ero ben conscia di avere un altro viaggio da compiere, come priorità assoluta. E dovevo compierlo da sola.

Era stato l’unico motivo di attrito fra Edward e me da quando ero diventata una vampira. E il contenzioso riguardava principalmente il "da sola". Ma la realtà era quella e il mio piano era l’unico che avesse un senso. Dovevo presentarmi ai Volturi e non potevo andarci accompagnata.

Anche ora che mi ero liberata dei vecchi incubi, anzi, dei sogni tout court, mi era impossibile dimenticare i Volturi. Né loro mancavano di rinfrescarci la memoria, peraltro.

Fino al giorno in cui arrivò il regalo di Aro, non sapevo che Alice avesse mandato una partecipazione di matrimonio ai capi dei Volturi; Edward e io eravamo lontani, sull’Isola Esme, quando Alice aveva avuto una visione di alcuni soldati Volturi, fra i quali Jane e Alec, i gemelli dalla forza devastante. Caius era deciso a inviare un manipolo di cacciatori per scoprire se ero ancora umana, perché ciò sarebbe stato contrario all’editto (dato che conoscevo il segreto dei vampiri, dovevo diventare una di loro, oppure dovevo essere messa a tacere. Per sempre). Perciò Alice aveva spedito la partecipazione, conscia che avrebbero perso tempo a interpretarne il significato. Prima o poi, però, sarebbero venuti. Poco ma sicuro.

Il regalo di per sé non era un’aperta minaccia. In un certo senso, era spaventoso per la sua stravaganza, ma la parte più minacciosa era nell’ultima frase del biglietto di auguri che Aro aveva vergato di proprio pugno, in inchiostro nero, su un biglietto di cartoncino bianco:

Sono ansioso d’incontrare di persona la nuova signora Cullen.

Il regalo era contenuto in un’antica scatola di legno riccamente intagliata, con intarsi in oro e madreperla, un arcobaleno di pietre preziose. Alice osservò che già la scatola da sola era un tesoro di valore incommensurabile e avrebbe fatto impallidire, al confronto, qualunque gioiello — a eccezione di quello che vi era contenuto.

«Mi ero sempre chiesto che fine avessero fatto i gioielli della corona dopo che Giovanni d’Inghilterra li impegnò, nel tredicesimo secolo», disse Carlisle. «Chissà perché non mi sorprende che i Volturi si siano aggiudicati la propria quota del bottino».

La collana era semplice: un cordone a scaglie d’oro spesso come una fune, una specie di liscio serpente da arrotolarsi stretto intorno al collo. Al centro pendeva un diamante bianco grosso quanto una pallina da golf.

Più della collana, però, a me interessava la velata minaccia che chiudeva il messaggio. I Volturi avevano bisogno di accertarsi che fossi diventata immortale, che i Cullen avessero obbedito agli ordini, e avevano fretta. Non potevamo permettere che si avvicinassero a Forks ed esisteva un unico modo per tutelare la nostra sicurezza.

«Da sola non ci vai», aveva insistito Edward a denti stretti, i pugni serrati.

«Non mi faranno del male», gli avevo detto nel tono più suadente che fossi riuscita a di tirare fuori, sforzandomi di apparire convinta. «Non ne hanno motivo. Sono una vampira ormai. Il caso è chiuso».

«No. Neanche per idea».

«Edward, è l’unico modo per proteggerla».

A quello non aveva saputo cosa ribattere. La mia logica era a prova di bomba.

Anche per quel poco che lo conoscevo, avevo capito che Aro era un collezionista e i pezzi più ambiti erano quelli vivi. La bellezza, il talento e l’unicità dei suoi seguaci immortali lo esaltavano più di qualunque gioiello custodito nei suoi forzieri. Era già abbastanza increscioso che avesse messo gli occhi sulle capacità di Edward e Alice; non intendevo offrirgli altri motivi d’invidia nei confronti della famiglia di Carlisle, Renesmee era bella, dotata e speciale: un pezzo unico. Non potevo permettere che Aro la vedesse, nemmeno attraverso i pensieri di qualcun altro.

E io ero l’unica di cui non poteva ascoltare i pensieri. Ovvio che dovevo andare sola.

Alice non intravedeva alcun problema nel mio viaggio, ma era preoccupata dalla mancanza di chiarezza delle sue visioni. Disse che a volte si facevano indistinte se si riferivano a decisioni esterne potenzialmente conflittuali e non ancora risolte in maniera definitiva. Questa incertezza faceva sì che Edward, già poco convinto, si opponesse con fermezza alla mia iniziativa. Era deciso a venire con me fino a Londra, dove avrei fatto scalo, ma non volevo lasciare Renesmee senza entrambi i genitori. Mi avrebbe accompagnata Carlisle. Saperlo a sole poche ore di distanza da me ci avrebbe fatti sentire un po’ più tranquilli.

Alice continuava a scrutare il futuro, ma ciò che trovava non aveva nulla a che vedere con quello che stava cercando. Un nuovo trend sul mercato azionario; la possibilità di una visita di riconciliazione da parte di Irina (ma era ancora indecisa); una bufera di neve, però non prima di altre sei settimane; una telefonata di Renée (mi stavo esercitando a rendere più roca la mia voce e facevo progressi di giorno in giorno. Per lei ero ancora malata, ma mi stavo riprendendo).

Comprammo i biglietti per l’Italia il giorno dopo che Renesmee ebbe compiuto tre mesi. Dato che avevo intenzione di star via molto poco, non dissi nulla a Charlie. Jacob lo sapeva e la pensava come Edward. Quel giorno, tuttavia, l’oggetto di discussione era il Brasile. Jacob era deciso a venire con noi.

Stavo cacciando con Jacob e Renesmee. Lei non andava pazza per la dieta a base di sangue animale ed era quello il motivo per cui a Jacob era permesso accompagnarci: la buttava in competizione e non c’era modo migliore per convincere la piccola a cacciare.

Renesmee aveva le idee chiare sulla differenza fra buono e cattivo in materia di caccia agli umani e considerava il sangue dei donatori come un buon compromesso. Il sangue umano la saziava e sembrava compatibile con il suo organismo, ma la sua reazione ai cibi solidi era la stessa che avevo io, da piccola, nei confronti del cavolo o dei fagioli. Se non altro il sangue animale era meglio di quelli. Renesmee era un tipo competitivo e la sfida con Jacob la stimolava a cacciare.

«Jacob», dissi, decisa a dissuaderlo mentre Renesmee saltellava verso la lunga radura di fronte a noi in cerca di tracce olfattive interessanti. «Hai delle responsabilità qui. Seth, Leah...».

Sbuffò. «Non sono la balia del branco. E anche loro hanno delle responsabilità a La Push».

«Quanto te? Allora abbandoni ufficialmente la scuola? Se vuoi tener testa a Renesmee, dovrai darci dentro molto di più con lo studio, sappilo».

«Consideralo un anno sabbatico. Riprenderò il liceo quando il ritmo... rallenterà».

A quelle parole persi di vista l’obiezione che volevo muovere ed entrambi guardammo automaticamente Renesmee. Osservava i fiocchi di neve che le vorticavano alti sopra la testa e si scioglievano prima di imbiancare l’erba ingiallita della lunga radura, a forma di punta di freccia, in cui ci trovavamo. Il suo vestito avorio con le arricciature era di un tono appena più scuro della neve e i suoi riccioli ramati riuscivano a emettere bagliori nonostante il sole fosse sepolto sotto una spessa coltre di nubi.

La vedemmo piegarsi sulle ginocchia per un istante e poi spiccare un balzo di quattro metri buoni per aria. Chiuse la manina attorno a un fiocco e tornò a posarsi dolcemente a terra.

Si voltò a guardarci con quel suo sorriso sconvolgente — non era proprio possibile farci l’abitudine — e aprì la mano per mostrarci la stella di ghiaccio a otto punte, minuscola e perfetta, prima che si sciogliesse.

«Carino», apprezzò Jacob, «ma ho come l’impressione che ti si sia ingolfato il motore, Nessie».

Renesmee lo raggiunse con un balzo; Jacob tese le braccia nel momento esatto in cui lei gli si tuffava sopra, con una manovra perfettamente sincronizzata. Renesmee faceva così quando aveva qualcosa da dire, perché parlare a voce alta continuava a non andarle a genio.

Gli toccò la faccia, corrucciando deliziosamente il visino mentre tendevamo tutti e tre l’orecchio al rumore di un piccolo branco di alci che s’inoltravano nel bosco.

«Nooo che non hai sete, Nessie, come no», rispose Jacob in tono vagamente sarcastico ma pieno di indulgenza. «Hai solo paura che il più grosso me lo becchi ancora io!».

Renesmee si catapultò via dalle sue braccia, toccò elegantemente terra e alzò gli occhi al cielo — somigliava moltissimo a Edward quando faceva così. Poi si lanciò fra gli alberi.

«Ci penso io», disse Jacob quando mi vide inclinare il busto come per inseguirla. Si strappò di dosso la maglietta e, già tremante, guizzò anche lui nella foresta. «Non vale barare», gridò.

Scuotendo la testa, sorrisi al turbine di foglie che avevano sollevato. A volte, dei due il vero bambino era Jacob.

Concessi ai miei compagni di caccia qualche minuto di vantaggio. Sarebbe stato più che facile seguirne le tracce, e Renesmee voleva di certo sorprendermi con le dimensioni della sua preda. Sorrisi di nuovo.

Il prato era tranquillo e molto vuoto. I fiocchi di neve si stavano diradando e svanendo. Alice aveva visto giusto, la vera nevicata sarebbe giunta di lì a qualche settimana.

Di solito Edward si univa alla nostra caccia, ma quel giorno era con Carlisle, a programmare il viaggio a Rio all’insaputa di Jacob... Mi accigliai. Mi sarei schierata dalla parte di Jacob, doveva venire con noi. La posta in gioco era grossa per lui quanto per noi: c’era di mezzo la sua vita, né più né meno della mia.

Mentre il mio pensiero si perdeva nel futuro prossimo, perlustrai in automatico il fianco della montagna in cerca di prede e di pericoli. Non era una decisione cosciente, quanto un riflesso innato.

O forse avevo una ragione per scandagliare i dintorni, un minuscolo qualcosa che i miei sensi affilati come lame avevano registrato prima ancora che il cervello elaborasse il pensiero.

Mentre i miei occhi saettavano lungo il crinale di uno strapiombo lontano, che si stagliava netto, con il suo grigio azzurrino, sul verde scuro della foresta, una scintilla argentata — o dorata? — attirò la mia attenzione.

Misi a fuoco quel colore fuori posto, così remoto nella foschia che nemmeno un’aquila l’avrebbe notato. Aguzzai lo sguardo.

Lei mi fissò di rimando.

Che fosse una vampira era fuor di dubbio. Aveva la pelle color bianco marmo, la sua consistenza un milione di volte più liscia e compatta di quella umana, e splendeva nonostante il cielo coperto. Se non fosse stato per la pelle, sarebbe stata l’immobilità a tradirla. Soltanto una statua o un vampiro potevano restare così perfettamente immobili.

Aveva i capelli biondi, chiarissimi, quasi platino. Ecco cos’era il riverbero che mi aveva catturato l’occhio. Le scendevano dritti come un regolo, divisi da una riga in mezzo, fino all’altezza del mento.

Per me era una perfetta sconosciuta. Ero più che sicura di non averla mai vista prima, nemmeno quand’ero umana. Nessuna delle facce che fluttuavano nella mia memoria melmosa corrispondeva alla sua. Eppure la riconobbi immediatamente dagli occhi color oro cupo.

Alla fine Irina si era decisa a venire.

Rimasi a fissarla per un momento e lei ricambiò il mio sguardo. Chissà se anche lei aveva capito subito chi ero. Alzai un braccio a metà, per accennare un saluto, ma le sue labbra si contrassero impercettibilmente e le diedero un’espressione di colpo ostile.

Dalla foresta giunsero il grido di vittoria di Renesmee e l’ululato rimbombante di Jacob, e vidi Irina corrugare il viso pensosa quando, qualche istante dopo, il suono echeggiò fino a lei. Il suo sguardo virò leggermente a destra e sapevo cosa avrebbe visto: un enorme licantropo fulvo, forse proprio quello che aveva ucciso il suo Laurent. Da quanto ci stava osservando? Abbastanza a lungo da aver assistito al nostro scambio di effusioni, ne ero certa.

La sua espressione si piegò in una smorfia di dolore.

D’istinto allargai le braccia in un gesto di scuse. Lei tornò a fissarmi e arricciò il labbro superiore scoprendo i denti. Un ringhio le fece scattare la mascella.

Quando la sua debole eco giunse fino a me, Irina era già scomparsa nella foresta.

«Merda!», mugolai.

Mi lanciai fra gli alberi nella direzione presa da Renesmee e Jacob, perché non mi andava di non averli sott’occhio. Non sapevo da che parte si fosse diretta Irina, né fino a che punto fosse furiosa. La vendetta era una vera fissa per i vampiri, un impulso difficile da eliminare.

Correndo a tutta velocità mi bastarono due secondi per raggiungerli.

«Il mio è più grosso», stava insistendo Renesmee quando irruppi dai fitti rovi nella piccola radura in cui si trovavano lei e Jacob.

Nel notare la mia espressione Jacob appiattì le orecchie; si acquattò, teso in avanti, scoprendo i denti, il muso striato del sangue della preda. Con gli occhi scrutava la foresta. Potevo udire il brontolio che gli stava montando dalla gola.

Renesmee era all’erta quanto lui. Lasciato cadere un cervo morto, balzò fra le mie braccia tese, premendomi sul viso le manine indagatrici.

«Forse è stata una reazione esagerata», rassicurai entrambi. «Credo che vada tutto bene. Aspettate».

Tirai fuori il cellulare e premetti un tasto di chiamata rapida. Edward rispose al primo squillo. Jacob e Renesmee ascoltavano attenti mentre lo aggiornavo.

«Vieni qui e porta anche Carlisle», trillai così rapidamente da dubitare che Edward riuscisse a seguirmi. «Ho visto Irina, e lei mi ha visto, ma poi ha notato Jacob, si è arrabbiata e se ne è andata, credo. Qui non si è vista — non ancora, perlomeno — ma mi è sembrata parecchio sconvolta, per cui magari si avvicinerà. In caso contrario, tu e Carlisle dovrete inseguirla e parlare con lei. Non sono tranquilla».

Jacob borbottò.

«Trenta secondi e siamo lì», mi assicurò Edward e riuscivo a udire il fruscio del vento prodotto dal suo slancio.

Ci fiondammo di nuovo verso la radura e aspettammo in silenzio, io e Jacob con le orecchie tese nello sforzo di percepire l’eventuale arrivo della sconosciuta.

Il suono che udimmo, però, era più che familiare. Un istante dopo Edward era al mio fianco, seguito a breve distanza da Carlisle. Fui sorpresa di sentire un tonfo pesante di grossi artigli alle spalle di Carlisle, ma immagino che non avrei dovuto stupirmi. Con Renesmee in pericolo, era ovvio che Jacob chiamasse rinforzi.

«Era su quel crinale», dissi tutto d’un fiato, indicando il punto. Se Irina stava scappando, aveva già un bel vantaggio. Avrebbe dato ascolto a Carlisle? Ripensando alla sua espressione, ne dubitavo. «Forse dovreste portarvi dietro anche Emmett e Jasper. Aveva un’aria molto... sconvolta. Mi ha ringhiato contro».

«Cosa?», disse Edward irritato.

Carlisle gli posò una mano sul braccio. «È in lutto. Vado io».

«Vengo con te», si offrì Edward.

Si scambiarono una lunga occhiata. Forse Carlisle si chiedeva se fosse il caso di sfruttare le qualità telepatiche di Edward, malgrado fossero viziate dalla rabbia nei confronti di Irina. Alla fine annuì e partirono sulle tracce della vampira senza chiamare né Jasper né Emmett.

Jacob sbuffò impaziente e spinse il naso contro la mia schiena. Probabilmente voleva portare Renesmee al sicuro, per non correre rischi inutili. Fui d’accordo con lui, e ci precipitammo a casa con Seth e Leah che correvano al nostro fianco.

Renesmee giaceva sorniona fra le mie braccia, una mano ancora appoggiata sul mio viso. Dato che la battuta di caccia era finita in un nulla di fatto, avrebbe dovuto accontentarsi di sangue donato. Leggevo un vago compiacimento nei suoi pensieri.

28 Il futuro

Edward e Carlisle non erano riusciti a raggiungere Irina prima che le sue tracce svanissero nello stretto. Lo avevano attraversato a nuoto nella speranza di ritrovarle sulla sponda orientale, ma per un raggio di chilometri non scoprirono alcun segno del suo passaggio.

Era tutta colpa mia. Come aveva previsto Alice, era venuta a fare pace con i Cullen e la mia amicizia con Jacob l’aveva fatta infuriare. Quanto avrei voluto accorgermi prima della sua presenza, per impedire a Jacob di trasformarsi. Quanto avrei voluto che fossimo andati a caccia da un’altra parte.

Ormai c’era poco da rimediare. Carlisle aveva dato a Tanya la scoraggiante notizia. Tanya e Kate non vedevano Irina da quando avevano deciso di venire al mio matrimonio ed erano turbate all’idea che, pur essendo così vicina, non fosse tornata a casa; per quanto temporanea, la separazione da una sorella era dolorosa. Mi chiesi se in qualche modo rivivessero la perdita della madre, avvenuta tanti secoli prima.

Alice riuscì a gettare un paio d’occhiate sull’immediato futuro di Irina, ma non risultò niente di concreto. Da quanto poteva capire, non stava tornando a Denali, però l’immagine era sfocata. L’unica cosa che riusciva a vedere chiaramente era la sua aria sconvolta; avanzava attraverso una distesa di neve deserta con un’espressione di immenso dolore dipinta sul viso. Quanto alla direzione, si lasciava portare alla deriva dal lutto.

I giorni passavano e, sebbene non avessi dimenticato nulla, Irina e il suo dolore finirono per scivolare gradualmente fra i pensieri meno urgenti. C’erano cose più importanti a cui pensare. Entro pochi giorni sarei partita per l’Italia. Al mio ritorno saremmo andati tutti in Sudamerica.

Ogni dettaglio era già stato ponderato e soppesato almeno cento volte. Avremmo cominciato con i Ticuna risalendo, per quanto possibile, all’origine delle loro leggende. Jacob, la cui partecipazione era ormai un dato di fatto, avrebbe avuto un ruolo di primo piano nel progetto: era improbabile che chi credeva ai vampiri raccontasse a noi ciò che sapeva. Se con i Ticuna fossimo finiti in un vicolo cieco, nella zona c’erano molte altre comunità strettamente imparentate con cui proseguire. In Amazzonia vivevano certe vecchie amiche di Carlisle: se le avessimo trovate, forse avrebbero potuto fornirci qualche indicazione utile. O perlomeno indirizzarci sulla strada giusta. Era improbabile che le tre vampire amazzoniche avessero qualcosa a che vedere con le leggende sugli ibridi, dato che erano tutte e tre femmine. Era impossibile prevedere la durata della nostra ricerca.

A Charlie non avevo ancora detto niente del più lungo fra i due viaggi, e mentre Edward e Carlisle continuavano a discutere del progetto pensavo e ripensavo a cosa raccontargli. Come dargli la notizia nel modo giusto?

Mentre mi dibattevo fra i dubbi interiori, osservavo Renesmee. Era acciambellata sul divano, il respiro lento del sonno profondo, il viso incorniciato da un groviglio di riccioli. Di solito Edward e io la riportavamo a casa nostra quand’era ora di dormire, ma quella sera ci eravamo fermati con il resto della famiglia — Edward e Carlisle erano ancora assorti nei preparativi del viaggio.

Emmett e Jasper, invece, erano più interessati alle opportunità di caccia. L’Amazzonia sarebbe stata una bella novità rispetto alle nostre normali fonti d’approvvigionamento. Giaguari e pantere, per esempio. Emmett si era fissato con l’anaconda. Esme e Rosalie stavano decidendo cosa mettere in valigia. Jacob era fuori con il branco di Sam a sistemare un paio di cose in previsione della sua assenza.

Alice si aggirava piano, per i suoi standard, qua e là, mettendo inutilmente ordine nel salone già immacolato, raddrizzando le ghirlande già appese da Esme in modo perfetto. In quel momento stava centrando i vasi sulla mensola. Da come vedevo cambiare la sua espressione — prima attenta, poi persa, poi di nuovo attenta — intuivo che stava esplorando il futuro. Immaginai che cercasse di vedere, al di là dei buchi neri che Jacob e Renesmee producevano nelle sue visioni, cosa ci aspettava in Sudamerica. Poi Jasper disse: «Lascia stare, Alice, lei non è un problema nostro», e una nuvola di serenità, silenziosa e invisibile, riempì la stanza. Quindi stava pensando a Irina.

Alice fece una linguaccia a Jasper, sollevò un vaso di cristallo pieno di rose bianche e rosse e si diresse in cucina. A parte uno dei fiori bianchi, che accennava appena ad appassire, il bouquet era impeccabile, ma quella sera, evidentemente, Alice inseguiva la perfezione per distrarsi dall’assenza di visioni.

Ero tornata a fissare Renesmee, perciò non mi accorsi di quando il vaso le sfuggì di mano. Udii solo il fruscio dell’aria sul cristallo e alzai gli occhi appena in tempo per vedere il vaso esplodere in diecimila schegge di diamante sul pavimento di marmo della cucina.

Restammo perfettamente immobili mentre i frammenti di cristallo volavano e rimbalzavano in tutte le direzioni con un tintinnio discordante, gli occhi di tutti puntati sulla schiena di Alice.

Il mio primo, irragionevole pensiero fu che ci avesse fatto uno scherzo. Impossibile che avesse lasciato cadere il vaso per sbaglio. Io stessa avrei avuto tutto il tempo di saettare attraverso la stanza e afferrarlo prima che toccasse terra, se non avessi dato per scontato che l’avrebbe fatto lei. E poi, come aveva potuto scivolarle di mano? Con le sue dita infallibili...

Non avevo mai visto un vampiro lasciar cadere qualcosa per sbaglio. Mai.

Alice ci stava fissando. Si era voltata con un movimento così fulmineo che nemmeno era esistito.

I suoi occhi erano a metà strada fra noi e il futuro che li teneva inchiodati, spalancati, fissi e dilatati in modo abnorme. Guardarli era come guardar fuori da una tomba; ero sepolta nel terrore, nell’angoscia e nella disperazione del suo sguardo.

Udii Edward ansimare con un suono spezzato, quasi di soffocamento.

«Cosa c’è?», ringhiò Jasper, balzando al fianco di Alice in un lampo nebuloso e calpestando le schegge di cristallo. L’afferrò per le spalle e la scosse brutalmente. Alice si lasciava sbatacchiare silenziosa fra le sue mani. «Cosa c’è, Alice?».

Con la coda dell’occhio vidi comparire Emmett, i denti scoperti e gli occhi che sciabolavano verso la finestra, come anticipando un attacco.

Solo silenzio da Esme, Carlisle e Rose, impietriti quanto me.

Jasper scosse di nuovo Alice. «Che cos’è?».

«Stanno venendo a prenderci», sussurrarono Edward e Alice in perfetto sincrono. «Ci sono tutti».

Silenzio.

Per una volta fui io la prima a capire: qualcosa nelle loro parole aveva attivato la mia visione. Era solo il lontano ricordo di un sogno, vago, trasparente, indistinto come se stessi guardando attraverso un fitto velo di garza... Nella mia mente vidi una linea nera avanzare verso di me, il fantasma del mio quasi dimenticato incubo umano. Nell’immagine sbiadita non riuscivo a vedere il luccichio dei loro occhi rossi, né il balenare dei loro denti acuminati e velenosi, ma sapevo dove scorgere il riverbero...

Ancora più intensa del ricordo visivo fu la memoria della sensazione, il bisogno lacerante di proteggere la creatura preziosa dietro di me.

Volevo afferrare Renesmee e stringerla fra le braccia, nasconderla dietro la mia pelle e i miei capelli, renderla invisibile. Ma non riuscivo nemmeno a girarmi per guardarla. Non mi sentivo di pietra, ma di ghiaccio. Per la prima volta dopo la mia rinascita come vampira, provai una sensazione di freddo.

Quasi non udii la conferma dei miei timori, ma non ne avevo bisogno. Sapevo.

«I Volturi», gemette Alice.

«Tutti», precisò Edward nello stesso momento e con lo stesso tono di voce.

«Perché?», sussurrò Alice fra sé. «Come mai?».

«Quando?», bisbigliò Edward.

«Perché?», fece eco Rosalie.

«Quando?», ripeté Jasper in una voce di ghiaccio che si spezza.

Alice non batté nemmeno le palpebre, ma fu come se sugli occhi le calasse un velo; il suo sguardo divenne completamente vitreo. Solo la bocca conservò un’espressione d’orrore.

«Fra non molto», rispose all’unisono con Edward. Poi aggiunse: «C’è neve nella foresta, neve in città. Poco più di un mese».

«Ma perché?». Questa volta era Carlisle.

Fu Esme a rispondere. «Deve esserci un motivo. Forse per vedere...».

«Non è per Bella», disse Alice cupa. «Stanno venendo tutti, Aro, Caius, Marcus, la guardia al completo, persino le mogli».

«Le mogli non lasciano mai la città», obiettò Jasper con voce incolore. «Mai. Non l’hanno lasciata durante la guerra del Sud, né quando i rumeni hanno cercato di conquistare il potere, nemmeno quando davano la caccia ai bambini immortali...».

«Stavolta invece sì», sussurrò Edward.

«Ma perché?», chiese di nuovo Carlisle. «Non abbiamo fatto niente! E se anche avessimo fatto qualcosa, cosa potrebbe essere tanto grave da farci meritare questo?».

«Siamo in tanti», rispose Edward atono. «Vorranno assicurarsi che...». Non terminò la frase.

«La domanda cruciale è un’altra! Perché?».

Sentivo di conoscere la risposta e allo stesso tempo temevo che non fosse quella giusta. Il motivo era Renesmee, ne ero certa. Tutto sommato ero sin dall’inizio consapevole che sarebbero venuti per lei. Il mio inconscio mi aveva avvertita ancor prima che scoprissi di averla dentro di me. Adesso mi sembrava strano ma scontato. Come se avessi sempre saputo che i Volturi sarebbero venuti a strapparmi di mano la felicità.

Ma la domanda restava senza risposta.

«Torna indietro, Alice», pregò Jasper. «Cerca il fattore scatenante. Fruga».

Alice scosse lentamente la testa, le spalle basse. «È uscita dal nulla, Jazz. Non stavo cercando né loro né noi. Cercavo Irina e non era dove mi aspettavo che fosse». La sua voce si affievolì, gli occhi tornarono a perdersi nel vuoto. Per un istante interminabile mise a fuoco il nulla di fronte a sé.

Poi sollevò la testa di scatto, lo sguardo duro come selce. Sentii Edward trattenere il fiato.

«Ha deciso di andare da loro», disse Alice. «Irina ha deciso di andare dai Volturi. Poi prenderanno una decisione... È come se la stessero aspettando. Come se avessero già deciso e stessero aspettando che lei...».

Calò nuovamente il silenzio mentre digerivamo la notizia. Cosa avrebbe detto Irina ai Volturi di tanto grave da scatenare la terribile visione di Alice?

«Possiamo fermarla?», chiese Jasper.

«Impossibile. È quasi arrivata».

«Cosa sta facendo?», sentii chiedere Carlisle, ma non stavo più seguendo la conversazione. Tutta la mia attenzione era concentrata sull’immagine che la mia mente stava tratteggiando con dolorosa precisione.

Vedevo Irina in cima al pendio, intenta a osservare qualcosa. Cosa aveva visto? Un vampiro e un licantropo uniti da un evidente rapporto di amicizia. Mi ero fissata su quell’immagine, perché avrebbe spiegato la sua reazione. Ma Irina aveva visto anche dell’altro.

Una bambina. Una bambina splendida che mostra la propria bravura nella neve, indubbiamente più che umana...

Irina... le sorelle orfane... Carlisle aveva detto che la perdita della madre a causa delle leggi dei Volturi aveva fatto di Tanya, Kate e Irina delle puriste in materia di giustizia.

Solo mezzo minuto prima Jasper l’aveva detto: Nemmeno quando davano la caccia ai bambini immortali... I bambini immortali, il flagello innominabile, l’orrendo tabù.

Con il suo passato, quale altra interpretazione avrebbe potuto dare Irina a ciò che vedeva? Non era abbastanza vicina da sentire il cuore di Renesmee e percepire il calore emanato dal suo corpo. A quanto ne sapeva, le sue guance rosate avrebbero potuto benissimo essere un trucco.

In fin dei conti i Cullen facevano comunella con i licantropi. Dal punto di vista di Irina, poteva significare che niente era troppo per noi.

Irina che si torce le mani nella neve: non al ricordo della morte di Laurent, ma nella certezza che è suo dovere denunciare i Cullen, sapendo a quale destino andranno incontro se lo farà. A quanto pareva, la sua coscienza aveva avuto la meglio su secoli d’amicizia.

E la reazione dei Volturi a quel genere d’infrazione era così automatica che la decisione era già presa.

Mi girai e mi stesi accanto al corpo addormentato di Renesmee, coprendola con i miei capelli, seppellendo il viso nei suoi riccioli.

«Pensate a cosa ha visto questo pomeriggio», dissi sottovoce, interrompendo Emmett che stava per parlare. «Come reagirebbe qualcuno che ha perso la madre a causa dei bambini immortali, vedendo Renesmee?».

Scese di nuovo il silenzio mentre gli altri arrivavano alla conclusione che io avevo già raggiunto.

«Una bambina immortale», sussurrò Carlisle.

Sentii Edward inginocchiarsi accanto a me e abbracciare entrambe.

«Ma si sbaglia», proseguii. «Renesmee non è come quei piccoli. Loro erano congelati in un momento preciso, lei cresce a vista d’occhio ogni giorno. Loro erano incontrollabili, lei non ha mai fatto del male a Sue o Charlie, e nemmeno mostra loro cose che potrebbero ferirli. Lei sa controllarsi. È già più in gamba della maggior parte degli adulti. Non ci sarebbe motivo di...».

Continuai a sproloquiare, in attesa che qualcuno sospirasse di sollievo, che il gelo nella stanza si sciogliesse perché si erano resi conto che avevo ragione. Invece la tensione sembrò aumentare. Finché la mia voce, sempre più fievole, svanì nel mezzo di una frase.

Per un pezzo nessuno apri bocca.

Poi Edward mi sussurrò fra i capelli: «Per crimini come questo non è previsto alcun processo, amore. Per Aro i pensieri di Irina sono una prova. Vengono per distruggere, non per discutere».

«Ma si sbagliano», mi ostinai.

«Non ci lasceranno il tempo di spiegare».

Il suo tono di voce era ancora gentile, dolce, vellutato... tuttavia era impossibile non coglierne la nota dolente e disperata. La sua voce era come gli occhi di Alice poco prima, sembrava provenire da una tomba.

«Cosa possiamo fare?», domandai.

Renesmee era calda e perfetta fra le mie braccia, e sognava beata. Mi ero preoccupata così tanto per la sua crescita ultrarapida, per il fatto che fosse destinata a vivere solo poco più di un decennio... Quelle paure sembravano una vera ironia adesso.

Poco più di un mese...

Era quello il limite, dunque? Ero stata più felice di quanto la maggior parte della gente avrebbe mai potuto essere. C’era chissà quale legge di natura per cui gioia e dolore dovevano essere distribuiti equamente? La mia bilancia pendeva troppo dalla parte della felicità? Quattro mesi erano il massimo che mi si poteva concedere?

Fu Emmett a rispondere alla mia domanda retorica.

«Combatteremo», disse calmo.

«Non possiamo vincere», brontolò Jasper. Già immaginavo che espressione avrebbe avuto, in che modo si sarebbe curvato, protettivo, su Alice.

«Non possiamo nemmeno scappare. Non con Demetri in giro». Emmett fece una smorfia schifata e d’istinto compresi che non era il segugio dei Volturi a disgustarlo, bensì l’idea della fuga. «Io non so se non possiamo vincere», disse. «Ci sono un paio di possibilità da considerare. Non dobbiamo affrontarli da soli».

A quelle parole sollevai di colpo la testa. «Non dobbiamo nemmeno condannare a morte i Quileute, Emmett!».

«Rilassati, Bella». La sua espressione non era molto diversa da quella che aveva quando fantasticava sul corpo a corpo con l’anaconda. Nemmeno la minaccia della distruzione totale riusciva ad alterare il suo modo di far fronte alla realtà, la sua capacità di esaltarsi all’idea di una sfida. «Non alludevo al branco. Ma siamo realistici: pensi che Jacob o Sam si lasceranno invadere senza reagire? Anche se non ci fosse Nessie di mezzo... Per non parlare del fatto che, grazie a Irina, adesso Aro sa della nostra alleanza con il branco. Tuttavia pensavo ad altri amici».

Carlisle mi fece eco in un sussurro. «Non dobbiamo condannare nemmeno loro».

«Ehi, li lasceremo decidere», disse Emmett conciliante. «Non ho detto che li obbligheremo a schierarsi al nostro fianco». Mentre parlava riuscivo a vedere come il piano prendesse corpo nella sua mente. «Devono solo spalleggiarci quel tanto che basta a far esitare i Volturi. Bella ha ragione, dopotutto. Se solo riuscissimo a tenerli buoni il tempo necessario perché ascoltino le nostre spiegazioni, a quel punto non ci sarebbe più motivo di scontrarsi, purtroppo...».

L’ombra di un sorriso aleggiava sul suo volto. Mi stupiva che nessuno gli avesse ancora dato un cazzotto. Io ne avevo voglia.

«Sì», si entusiasmò Esme. «Può funzionare, Emmett. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è che i Volturi ci diano retta per un istante. Che si fermino ad ascoltare».

«Ci serviranno un bel po’ di testimoni», disse Rosalie con una voce che sembrava fragile come vetro.

Esme annuì, come se non avesse colto il sarcasmo. «Chiedere a un amico di testimoniare non è pretendere troppo».

«Noi lo faremmo, per loro», disse Emmett.

«Dobbiamo chiederglielo subito», mormorò Alice. I suoi occhi erano di nuovo un buco nero. «Dovremo mostrargliela con molta cautela».

«Mostrare cosa?», chiese Jasper.

Edward e Alice si voltarono a guardare Renesmee. Poi gli occhi di Alice tornarono a velarsi.

«La famiglia di Tanya», disse. «I clan di Siobhan e di Amun. Qualche nomade: Garrett e Mary di sicuro. Magari Alistair».

«Peter e Charlotte?», chiese Jasper esitante, come se sperasse che la risposta fosse no e al suo antico compagno venisse risparmiata l’imminente carneficina.

«Magari».

«Le amazzoni?», propose Carlisle. «Kachiri, Zafrina e Senna?».

Sulle prime Alice sembrava troppo immersa nella visione per rispondere, poi si scosse e i suoi occhi tornarono sfarfallando al presente. Incrociò lo sguardo di Carlisle per un’infinitesima frazione di secondo e chinò la testa.

«Non vedo niente».

«Cos’era?», chiese Edward in un sussurro ansioso. «Quella parte nella giungla... Andremo a cercarli?».

«Non ci vedo», ribadì Alice evitando il suo sguardo. Un lampo di confusione saettò attraverso il viso di Edward. «Dovremo dividerci e fare alla svelta... prima che la neve attecchisca al suolo. Dobbiamo radunare tutti quelli che possiamo e farli venire qui a testimoniare». Si perse di nuovo in una visione. «Chiedete a Eleazar. Non ne va soltanto della bambina immortale».

Per un altro momento interminabile, mentre Alice precipitava ancora in trance, regnò un silenzio carico di presagi. Alla fine sbatté piano le palpebre, gli occhi stranamente opachi nonostante fosse del tutto nel presente.

«È una faccenda complicata. Dobbiamo sbrigarci», sussurrò.

«Alice?», intervenne Edward. «È stato troppo veloce, non ho capito. Cos’era...».

«Non ci vedo!», esplose lei. «Sta arrivando Jacob!».

Rosalie fece un passo verso l’ingresso. «Mi occuperò io di...».

«No, lascialo entrare», la bloccò rapida Alice, la voce che saliva di tono a ogni parola. Poi afferrò la mano di Jasper e lo trascinò verso la porta posteriore. «E poi vedrò meglio, lontana da Nessie. Devo andare. Ho bisogno di concentrarmi sul serio. Di vedere tutto ciò che riesco a vedere. Devo andare. Vieni, Jasper, non c’è tempo da perdere!».

Tutti sentivamo i passi di Jacob sui gradini. Alice strattonò impaziente Jasper. Lui si affrettò a seguirla, negli occhi la stessa confusione che si leggeva in quelli di Edward. Si lanciarono verso la notte argentata.

«Sbrigatevi», ci urlò Alice. «Dovete trovarli tutti!».

«Trovare cosa?», chiese Jacob chiudendosi la porta alle spalle. «Dove andava Alice?».

Nessuno rispose. Restammo tutti a fissarlo.

Jacob si scosse l’umidità dai capelli e s’infilò la maglietta, lo sguardo su Renesmee. «Ehi, Bells! Credevo foste già andati a casa a quest’ora».

Alla fine si voltò verso di me, batté le palpebre e rimase a fissarmi. Osservai il mutare della sua espressione mano a mano che percepiva l’atmosfera della stanza. Abbassò lo sguardo, gli occhi spalancati verso la pozza d’acqua sul pavimento, le rose sparse, le schegge di cristallo. Gli vibravano le dita.

«Cosa?», domandò con voce incolore. «Cos’è successo?».

Io non sapevo da dove cominciare, ma nemmeno gli altri trovavano le parole adatte.

In tre falcate Jacob attraversò la stanza e si lasciò cadere in ginocchio accanto a Renesmee e me. Percepivo il calore che il suo corpo emanava al ritmo dei fremiti che gli correvano lungo le braccia fino alle mani tremanti.

«Sta bene?», chiese toccando la fronte di Renesmee e inclinando la testa per auscultarle il cuore. «Non farmi incavolare, Bella, per favore!».

«Renesmee sta bene», dissi con voce strozzata, le parole che si spezzavano in punti strani.

«E allora chi?».

«Noi tutti, Jacob», sussurrai. Ed eccola, anche nella mia voce, l’eco di tomba. «È finita. Siamo tutti condannati a morte».

29 Defezione

Restammo lì seduti l’intera notte, come statue d’orrore e di dolore, ma Alice non tornò.

Eravamo tutti al limite, in preda a un’ansia talmente convulsa da impedirci ogni movimento. Carlisle si sforzò di parlare per mettere Jacob al corrente dei fatti. A sentirla raccontare di nuovo, la situazione appariva addirittura più tragica e da quel momento persino Emmett se ne rimase buono e zitto.

Soltanto quando vidi sorgere il sole e mi resi conto che di lì a poco Renesmee si sarebbe stiracchiata fra le mie braccia mi chiesi per la prima volta come mai Alice ci mettesse così tanto. Avevo sperato in qualche notizia fresca prima di dover affrontare la curiosità di mia figlia. In una qualche risposta. In un piccolo, minuscolo barlume di speranza che mi permettesse di sorridere e fare in modo che almeno lei non fosse invasa dal terrore.

Mi sentivo il volto impietrito nella maschera che avevo indossato tutta la notte. Dubitavo di essere ancora capace di sorridere.

Jacob russava in un angolo, una montagna di pelo abbandonata sul pavimento, il corpo scosso, a intervalli, da contrazioni nervose. Sam sapeva tutto e i lupi si stavano preparando all’attacco. Anche se non sarebbe servito ad altro che a farsi ammazzare insieme al resto della mia famiglia.

Il sole penetrò dalla vetrata sul retro, accendendo scintille sulla pelle di Edward. Non avevo staccato gli occhi dai suoi da quando Alice se n’era andata. Eravamo rimasti a fissarci tutta la notte, a fissare ciò che nessuno dei due avrebbe sopportato di perdere: l’altro. Vidi il mio riflesso brillare nel suo sguardo angosciato mentre il sole arrivava a sfiorare anche la mia pelle.

Fece un movimento infinitesimale con le sopracciglia, poi con le labbra.

«Alice», disse.

Il suono della sua voce era quello di una lastra di ghiaccio che si spezza durante il disgelo. L’immobilità generale s’incrinò, la rigidità si allentò. Riprendemmo a muoverci.

«È via da parecchio», mormorò Rosalie, sorpresa.

«Dove potrebbe essere?», si chiese Emmett e fece un passo verso la porta.

Esme posò una mano sul suo braccio. «Meglio non disturbare...».

«Non ci ha mai messo così tanto», disse Edward. Un nuovo timore scheggiò la maschera del suo viso. I suoi lineamenti ripresero vita, gli occhi improvvisamente sbarrati su una nuova paura, una nuova ondata di panico. «Carlisle, secondo te può essere... una misura preventiva? Ha forse visto in tempo qualcuno che la stava venendo a prendere?».

Il viso di Aro, con la sua pelle trasparente, mi riempi la testa. Aro, che aveva letto in tutti i recessi della mente di Alice, sapeva perfettamente ciò che lei era in grado di fare.

Emmett imprecò a voce così alta che Jacob balzò sulle zampe con un ringhio. Il branco gli fece eco dal cortile. La mia famiglia era già una macchia indistinta di attività.

«Rimani con Renesmee!», gridai con voce stridula a Jacob mentre mi lanciavo fuori di casa.

Ero ancora la più forte di tutti e ne approfittai per passare in testa. In pochi balzi superai Esme e con un altro paio di falcate Rosalie. Poi schizzai nel fitto della foresta fino ad arrivare alle spalle di Edward e Carlisle.

«Potrebbero averla colta di sorpresa?», chiese Carlisle, il respiro calmo come se fosse immobile invece che lanciato a folle corsa.

«Non vedo come», rispose Edward. «Però Aro la conosce meglio di chiunque altro. Meglio di me».

«È una trappola?», gridò Emmett alle nostre spalle.

«Forse», disse Edward. «Le uniche tracce olfattive sono quelle di Alice e Jasper. Dove stavano andando?».

Le scie si aprivano in un ampio ventaglio: dalla casa puntavano a est, poi a nord dall’altra parte del fiume e infine, dopo qualche chilometro, viravano in direzione ovest. Riattraversammo il fiume, balzando tutti e sei a distanza di un secondo l’uno dall’altro. Conduceva Edward, nella concentrazione più totale.

«Lo sentite questo odore?», ci gridò Esme alle spalle qualche istante dopo che avevamo attraversato il fiume per la seconda volta. Era l’ultima e chiudeva il gruppo all’estrema sinistra. Indicava il sud-est.

«Seguite la pista principale, siamo quasi al confine con il territorio Quileute», ordinò Edward secco. «Restate uniti. Vediamo se hanno puntato a nord o a sud».

Non conoscevo i confini del trattato bene quanto gli altri, ma sentivo odore di lupo nella brezza che spirava da est. Edward e Carlisle rallentarono appena, per abitudine; vedevo le loro teste descrivere ampi archi fra destra e sinistra, in attesa di una svolta nella scia.

D’un tratto l’odore di lupo divenne più intenso ed Edward alzò di scatto la testa, arrestandosi di colpo. Il resto di noi lo imitò.

«Sam?», chiese Edward con voce incolore. «Cos’è successo?».

Sam uscì dagli alberi a qualche centinaio di metri di distanza, nella sua forma umana, e puntò rapidamente su di noi affiancato da due grossi lupi, Paul e Jared. Gli ci volle un po’ per raggiungerci; il suo passo umano mi rendeva impaziente. Non volevo avere tempo per pensare a ciò che stava accadendo. Volevo muovermi, fare qualcosa. Volevo abbracciare Alice, avere la certezza che stesse bene.

Vidi Edward sbiancare nel leggere i pensieri di Sam. Sam lo ignorò: lo sguardo fisso su Carlisle, si fermò e cominciò a raccontare.

«Appena dopo la mezzanotte, Alice e Jasper sono venuti qui e hanno chiesto il permesso di attraversare le nostre terre fino all’oceano. Gliel’ho concesso e li ho scortati io stesso fino alla costa. Si sono tuffati subito in acqua e non sono più tornati. Lungo la strada Alice mi ha raccomandato di non dire a Jacob che l’avevo vista prima di aver parlato con voi, ha detto che era una cosa della massima importanza. Avrei dovuto attendervi qui, quando sareste venuti a cercarla, per darvi questo biglietto. Ha detto che ne va della vita di tutti noi».

Scuro in volto, estrasse un foglio di carta ripiegato, stampato fitto a piccoli caratteri neri. Era la pagina di un libro; i miei occhi acutissimi lessero il testo mentre Carlisle lo apriva per guardare il retro. Il lato del foglio rivolto verso di me riportava il copyright dell’edizione del Mercante di Venezia. Quando Carlisle scosse il foglio per distenderlo, un lieve sentore di me stessa mi giunse alle narici. Capii che la pagina era stata strappata da uno dei miei libri. Avevo portato con me nella foresta qualche oggetto prelevato da casa di Charlie: vecchi vestiti, le lettere di mia madre e i miei libri preferiti. Il mattino precedente, la mia sbrindellata raccolta delle opere di Shakespeare in edizione tascabile si trovava sullo scaffale del nostro piccolo soggiorno.

«Alice ha deciso di lasciarci», sussurrò Carlisle.

«Cosa?», esclamò Rosalie.

Carlisle girò il foglio in modo che tutti potessimo leggere.

Non cercateci. Non c’è tempo da perdere. Ricordate: Tanya, Siobhan, Amun, Alistair, tutti i nomadi che riuscite a trovare. Peter e Charlotte li cercheremo noi lungo la strada. Siamo desolati di dovervi lasciare così, senza nemmeno un saluto o una spiegazione, ma era l’unico modo. Con affetto infinito.

Restammo nuovamente pietrificati, il silenzio assoluto rotto solamente dal battito cardiaco dei lupi e dal loro respiro. Anche i loro pensieri dovevano essere rumorosi. Edward fu il primo a riprendere vita e rispose a ciò che aveva udito nella mente di Sam.

«Sì, è una situazione pericolosa».

«Al punto da abbandonare una famiglia?», chiese Sam a voce alta con tono di riprovazione. Era chiaro che non aveva letto il biglietto prima di consegnarlo a Carlisle. Appariva profondamente turbato, come se fosse pentito di aver prestato ascolto alle richieste di Alice.

Edward aveva un’espressione dura che Sam doveva aver scambiato per rabbia o arroganza, ma io riconoscevo la forma del dolore nei tratti irrigiditi del suo viso.

«Non sappiamo cos’ha visto», disse Edward. «Alice non è insensibile, o vigliacca. Dispone solo di più informazioni rispetto a noi».

«Noi non...», cominciò a dire Sam.

«I vostri legami sono diversi dai nostri», tagliò corto Edward. «Ognuno di noi è libero di agire secondo la propria volontà».

Sam sollevò di scatto il mento e i suoi occhi divennero improvvisamente nero opaco.

«Però dovresti dar retta all’avvertimento», riprese Edward. «Credimi, non è cosa in cui lasciarsi coinvolgere. Siete ancora in tempo a evitare ciò che Alice ha visto».

Sam fece un sorriso risoluto. «Noi non scappiamo». Alle sue spalle Paul soffiò sprezzante.

«Non lasciar massacrare la tua famiglia per orgoglio», s’intromise tranquillo Carlisle.

Sam lo guardò rabbonito. «Come faceva notare Edward, noi non abbiamo lo stesso grado di libertà che avete voi. Ormai Renesmee fa parte della nostra famiglia quanto della vostra. Jacob non può abbandonarla e noi non possiamo abbandonare lui». Il suo sguardo saettò sul biglietto di Alice e le sue labbra si tesero in una linea sottile.

«Non la conosci», disse Edward.

«E tu?», replicò Sam secco.

Carlisle posò una mano sulla spalla di Edward. «Abbiamo molto da fare, figliolo. Qualunque cosa Alice abbia deciso, saremmo pazzi a non darle retta. Torniamo a casa e mettiamoci al lavoro».

Edward annuì, il viso ancora irrigidito dal dolore. Alle mie spalle udivo i singhiozzi sommessi di Esme.

Non ero capace di piangere, nel mio nuovo corpo; non potevo far altro che restarmene lì, con lo sguardo fisso. Non c’erano ancora sensazioni. Mi sembrava tutto irreale, come se dopo mesi avessi ricominciato a sognare. Ad avere degli incubi.

«Grazie, Sam», disse Carlisle.

«Mi dispiace», gli rispose. «Non avremmo dovuto lasciarla passare».

«Hai fatto la cosa giusta», disse Carlisle. «Alice è libera di fare ciò che vuole. Non le negherei mai questa libertà».

Avevo sempre pensato ai Cullen come a un tutt’uno, un’entità unica e indivisibile. A un tratto ricordai che non era sempre stato così. Carlisle aveva creato Edward, Esme, Rosalie ed Emmett; Edward aveva creato me. Eravamo fisicamente uniti da un legame di sangue e veleno. Non avevo mai pensato ad Alice e Jasper come a qualcosa di separato, il risultato di un’adozione, ma, in effetti, era stata Alice ad adottare i Cullen. Si era presentata con il suo passato senza legami, insieme a Jasper, e si era ritagliata un posto in una famiglia già costituita. Sia lei che Jasper avevano conosciuto una vita al di fuori dei Cullen. Aveva davvero scelto una nuova vita perché aveva visto che quella con la sua vecchia famiglia si era conclusa?

Dunque, eravamo tutti condannati, giusto? Non c’era alcuna speranza. Nemmeno un piccolo raggio, un barlume per cui Alice credesse di avere una chance con noi.

L’aria luminosa del mattino sembrò di colpo più densa, più nera, come se la mia disperazione l’avesse colorata.

«Io non mi arrenderò senza combattere», ringhiò Emmett sottovoce, a denti stretti. «Alice ci ha detto cosa fare. Facciamolo».

Gli altri annuirono con determinazione e mi resi conto che contavano sull’opportunità che Alice ci aveva offerto, qualunque fosse. Non avevano intenzione di abbandonare la speranza e attendere passivamente la morte.

Sì, avremmo lottato. Che altro potevamo fare? E a quanto pareva avremmo coinvolto anche altri, perché così aveva detto Alice prima di lasciarci. Come ignorare il suo ultimo avvertimento? Anche i lupi avrebbero combattuto al nostro fianco per Renesmee.

Noi avremmo combattuto, loro avrebbero combattuto e saremmo morti tutti.

Non sentivo dentro la stessa determinazione che intuivo negli altri. Alice conosceva le probabilità. Ci stava dando l’unica chance che riusciva a vedere, ma era troppo debole perché lei stessa si sentisse di scommetterci.

Mentre voltavo le spalle a Sam, che ci guardava con aria critica, e seguivo Carlisle verso casa, mi sentivo già sconfitta.

Correvamo in modo automatico ora, non più con il furore e il panico dell’andata. Quando fummo vicini al fiume, Esme sollevò la testa.

«C’era quell’altra traccia. Fresca».

Con un cenno della testa indicò il punto, davanti a sé, su cui aveva richiamato l’attenzione di Edward all’andata. Mentre correvamo a salvare Alice...

«Doveva essere dello stesso giorno, ma precedente a quella che seguivamo. Lei da sola, senza Jasper».

Esme si accigliò e annuì.

Restai un po’ indietro, allargandomi sulla destra. Ero certa che Edward avesse ragione ma allo stesso tempo... In fin dei conti, come c’era finita la pagina di un mio libro in mano ad Alice?

«Bella?», chiese Edward con voce piatta nel vedermi indugiare.

«Voglio seguire la traccia», risposi, annusando il lieve sentore di Alice che si allontanava dalla scia principale. Non ero molto pratica ma per me l’odore era lo stesso, senza quello di Jasper.

Gli occhi d’oro di Edward erano privi di espressione. «Forse riporta semplicemente a casa».

«Allora ci vediamo lì».

Sulle prime pensai che mi lasciasse andare da sola, ma appena mi fui allontanata di qualche passo il suo sguardo spento si riaccese.

«Vengo con te», disse a bassa voce. «Ci vediamo dopo a casa, Carlisle».

Carlisle annuì e se ne andò con gli altri. Appena furono scomparsi alla vista, rivolsi a Edward uno sguardo interrogativo.

«Non potevo lasciarti andar via», disse a voce bassa. «Mi fa male solo a pensarci».

Capii senza bisogno di ulteriori spiegazioni. Immaginai di essere separata da lui, anche solo per un tempo brevissimo, e mi resi conto che avrei provato lo stesso dolore.

Ci restava così poco tempo insieme.

Gli tesi la mano e lui l’afferrò.

«Sbrighiamoci», disse. «Renesmee si sarà svegliata».

Annuii e riprendemmo a correre.

Probabilmente era un’idiozia sprecare del tempo prezioso, che avremmo potuto trascorrere accanto a Renesmee, soltanto per soddisfare una curiosità. Il biglietto di Alice, però, mi dava da pensare. Avrebbe potuto scrivere il messaggio su un masso o sul tronco di un albero, se non aveva carta e penna a disposizione. Avrebbe potuto rubare un blocchetto di post-it da una qualunque delle case lungo la strada. Perché proprio un mio libro? Quando l’aveva strappata, quella pagina?

Come avevo intuito, la traccia portava a casa nostra, anche se faceva un giro vizioso per evitare casa Cullen e i lupi dei boschi vicini. Appena se ne rese conto, Edward aggrottò le sopracciglia, confuso.

Cercò di ricostruire i movimenti di Alice. «Ha lasciato Jasper ad aspettarla laggiù ed è venuta qui?».

Eravamo quasi arrivati ormai e mi sentivo a disagio. Ero felice di stringere la mano di Edward nella mia ma, nello stesso tempo, avevo la sensazione che avrei dovuto essere sola. Strappare una pagina da uno dei miei libri e tornare da Jasper era un gesto strano, non da Alice. Sentivo che voleva dire qualcosa, ma non capivo cosa. E dato che il libro era mio, il messaggio doveva essere indirizzato a me. Se avesse voluto mandarlo a Edward avrebbe preso uno dei suoi libri, no?

«Dammi solo un minuto», dissi lasciandogli la mano mentre ci avvicinavamo alla porta.

Corrugò la fronte. «Bella?».

«Per favore. Trenta secondi».

Non attesi la risposta. Mi fiondai attraverso la porta chiudendomela alle spalle e andai dritta alla libreria. La traccia di Alice era fresca, nemmeno un giorno. Nel camino ardeva, basso ma caldo, un fuoco che non avevo acceso io. Sfilai Il mercante di Venezia e lo aprii al frontespizio.

Accanto allo strappo della pagina mancante, sotto la dicitura «Il mercante di Venezia di William Shakespeare», trovai un appunto:

Poi distruggilo.

Seguivano un nome e un indirizzo di Seattle. Quando Edward entrò, dopo soli tredici secondi invece dei trenta che gli avevo chiesto, stavo guardando il libro bruciare. «Cosa sta succedendo, Bella?».

«È stata qui. Ha strappato una pagina del mio libro per scriverci sopra».

«Perché?».

«Non lo so».

«Perché lo stai bruciando?».

«Perché... Io...», mi accigliai, lasciando che mi si leggessero in faccia tutto il dolore e la frustrazione che provavo. Non capivo cosa stesse cercando di dirmi Alice, sapevo solo che si era data un gran daffare affinché nessuno lo venisse a sapere oltre me. L’unica persona della quale Edward non riusciva a leggere i pensieri. Quindi voleva tenerlo all’oscuro, e probabilmente aveva un ottimo motivo. «Mi è sembrato giusto, ecco».

«Non conosciamo le sue intenzioni», osservò Edward calmo.

Continuavo a fissare le fiamme. Ero l’unica persona al mondo che potesse mentire a Edward. Che cosa voleva da me Alice? Un’ultima richiesta?

«Sull’aereo che ci portava in Italia», sussurrai — questa non era una bugia, a parte forse il contesto -, «quando stavamo venendo a salvarti, ha mentito a Jasper per impedire che venisse con noi. Sapeva che se avesse affrontato i Volturi sarebbe morto. Preferiva rimetterci la vita lei, piuttosto che esporlo al pericolo. Era pronta a morire anche per me. E per te».

Edward non disse nulla.

«Sa cos’è meglio fare», conclusi. Sentii una fitta al cuore, il mio cuore immobile, nel momento in cui mi resi conto che quella spiegazione non mi suonava affatto come una bugia.

«Non ci credo», disse Edward. Lo disse come se stesse discutendo non con me, ma con se stesso. «Forse solo Jasper era in pericolo. Il suo piano avrebbe funzionato per tutti noi, ma non per lui, e se fosse rimasto... Forse».

«Avrebbe potuto dircelo. Mandarlo via».

«Ma lui se ne sarebbe andato? Magari gli sta mentendo di nuovo».

«Forse», finsi di assecondarlo. «Dovremmo tornare a casa. Non c’è più tempo».

Edward mi prese per mano e partimmo.

L’appunto di Alice non mi lasciava ben sperare. Se ci fosse stato un modo per evitare l’imminente carneficina, sarebbe rimasta con noi. Non vedevo altra possibilità. Quindi mi stava suggerendo qualcos’altro. Non era una via di fuga. Ma cos’altro pensava potessi volere? Forse un modo per salvare qualcosa? C’era qualcosa che potevo ancora salvare?

Carlisle e gli altri si erano dati da fare in nostra assenza. Li avevamo lasciati solo cinque minuti e già erano pronti a partire. Jacob, di nuovo umano, era seduto in un angolo e teneva Renesmee in grembo. Entrambi ci fissavano con occhi sgranati.

Rosalie aveva rinunciato al suo aderente abito di seta a favore di un robusto paio di jeans, scarpe da corsa e una camicia pesante da boscaiolo. Esme era vestita più o meno allo stesso modo. Sul tavolino del divano era posato un mappamondo, ma avevano già finito di studiarlo. Aspettavano solo noi.

L’atmosfera era più positiva di prima; l’idea di entrare in azione li faceva sentire meglio. Tutte le speranze erano riposte nelle istruzioni di Alice.

Guardai il mappamondo e mi chiesi quale fosse la nostra prima meta.

«Noi dobbiamo restare?», domandò Edward a Carlisle. Non ne sembrava contento.

«Alice ha detto che avremmo dovuto mostrare Renesmee agli altri, e con cautela», disse Carlisle. «Vi manderemo tutti quelli che riusciremo a trovare. Edward, è un campo minato che solo tu puoi attraversare incolume».

Edward annuì secco, ancora scontento. «Sarà un campo sterminato».

«Noi ci divideremo», intervenne Emmett. «Io e Rose scoveremo i nomadi».

«Qui non starete con le mani in mano», precisò Carlisle. «La famiglia di Tanya sarà qui in mattinata e non hanno la più pallida idea del motivo. Quindi, primo: dovrete convincerli a non reagire come Irina. Secondo: dovrete scoprire cosa intendeva Alice a proposito di Eleazar. A quel punto si vedrà se saranno disposti a testimoniare a nostro favore. Per ciascuno che si presenta, dovrete ricominciare tutto da capo, ammesso e non concesso che si lascino convincere a venire». Carlisle sospirò. «Temo che il vostro sia il compito più difficile. Torneremo a sostenervi appena possibile».

Carlisle posò per un istante la mano sulla spalla di Edward e mi baciò sulla fronte. Esme ci abbracciò ed Emmett diede a entrambi una pacca sul braccio. Rosalie si sforzò di sorriderci, mandò un bacio in punta di dita a Renesmee e salutò Jacob con una smorfia.

«Buona fortuna», augurò Edward.

«Anche a voi», disse Carlisle. «Ne avremo tutti bisogno».

Li guardai allontanarsi, desiderando di riuscire a provare la speranza che li animava... e di poter restare sola con il computer per qualche secondo. Dovevo scoprire chi fosse il tale "J. Jenks" e perché Alice fosse arrivata a tanto pur di impedire che chiunque altro, al di fuori di me, ne scoprisse il nome.

Renesmee si contorse fra le braccia di Jacob per toccargli la guancia.

«Non so se gli amici di Carlisle verranno. Lo spero. Per il momento mi pare che siamo decisamente inferiori numericamente», mormorò Jacob a Renesmee.

Quindi sapeva. Renesmee aveva capito sin troppo bene cosa stava succedendo. Il meccanismo per cui un licantropo che ha ricevuto l’imprinting è pronto a concedere qualunque cosa all’oggetto della propria dedizione iniziava a seccarmi. Non avrebbe dovuto essere più importante proteggere Renesmee, piuttosto che rispondere alle sue domande?

Studiai l’espressione della piccola. Non sembrava spaventata, solo ansiosa e molto seria mentre intratteneva la sua conversazione silenziosa con Jacob.

«No, non possiamo fare niente. Noi dobbiamo restare qui», proseguì Jacob. «C’è gente che viene per vedere te, altro che il paesaggio».

Renesmee lo fissò aggrottando la fronte.

«No, non devo andare da nessuna parte», le disse. Poi guardò Edward, sul volto la sorpresa di chi si rende improvvisamente conto che forse si sta sbagliando. «O sì?».

Edward esitò.

«Sputa», lo esortò Jacob, la voce roca per la tensione. Era al punto di rottura, come tutti noi d’altronde.

«I vampiri che stanno venendo qui per aiutarci non sono come noi», disse Edward. «La famiglia di Tanya è l’unica, oltre alla nostra, a rispettare la vita umana, ma nemmeno loro hanno un’alta opinione dei licantropi. Quindi sarebbe più sicuro per...».

«So badare a me stesso», lo interruppe Jacob.

«Sarebbe più sicuro per Renesmee», riprese Edward, «se la loro scelta di credere o no a quello che racconteremo su di lei non fosse influenzata dall’associazione con un licantropo».

«Begli amici. Ti volterebbero le spalle solo per la gente che frequenti?».

«Credo che in circostanze normali sarebbero parecchio tolleranti, ma, cerca di capire, accettare Nessie non sarà facile per nessuno di loro. Perché rendere tutto ancora più complicato di quello che già è?».

La notte precedente Carlisle aveva parlato a Jacob delle leggi sui bambini immortali. «Erano davvero così tremendi, questi bambini?», domandò.

«Non hai idea della ferita che hanno inferto alla psiche collettiva dei vampiri».

«Edward...». Mi pareva ancora strano udire Jacob pronunciare quel nome senza astio.

«Lo so, Jake. So quanto è difficile starle lontano. Andremo a istinto, a seconda della loro reazione quando la vedranno. In ogni caso, nelle prossime settimane, Nessie dovrà tenere, come dire, un basso profilo a fasi alterne. Fra una presentazione e l’altra resterà al sicuro nella nostra casetta. Quindi, fintanto che ti tieni a distanza di sicurezza da questa casa...».

«Ce la posso fare. Domattina arriva gente, eh?».

«Sì. La nostra amica più cara. Nel suo caso particolare, è probabilmente meglio mettere le carte in tavola al più presto. Puoi restare qui, tanto Tanya sa di te. Ha persino conosciuto Seth».

«Vero».

«È meglio che tu avverta Sam di cosa sta succedendo. Nei boschi potrebbero comparire presto degli stranieri».

«Giusto. Anche se gli devo un po’ di silenzio dopo la scorsa notte».

«Di solito, dare retta ad Alice è la cosa migliore».

Jacob serrò i denti e capii che la pensava come Edward, riguardo alla scelta di Alice e Jasper.

Mentre parlavano mi diressi verso la vetrata, cercando senza troppa fatica di assumere un’aria ansiosa e inquieta, e appoggiai la testa contro la parete che s’incurvava dal soggiorno alla sala da pranzo, proprio vicino a uno dei computer. Fissando la foresta feci scorrere le dita sulla tastiera, come soprappensiero. Chissà se i vampiri agivano soprappensiero, qualche volta? Non pensavo che qualcuno mi prestasse particolare attenzione, ma non mi voltai per sincerarmene. Il monitor s’illuminò. Feci scivolare nuovamente le dita sui tasti. Poi le tamburellai silenziosamente sul piano di legno della scrivania, sempre fingendo un gesto casuale. Poi ripassai sui tasti.

Lessi sullo schermo con la coda dell’occhio.

Nessun J. Jenks, però c’era un Jason Jenks. Avvocato. Sfiorai la tastiera cercando di tenere un ritmo, come accarezzassi assorta un gatto che mi ero quasi dimenticata di avere in braccio. Il sito dello studio di Jason Jenks era ben fatto, ma l’indirizzo sulla homepage era sbagliato. A Seattle, sì, ma con un codice postale diverso da quanto mi risultava. Presi nota del numero di telefono e ricominciai a battere il tempo con le dita sulla tastiera. Cercai a cosa corrispondesse l’indirizzo, ma non trovai nulla, come se non esistesse. Avrei voluto guardare su una mappa, ma decisi che sarebbe stato troppo rischioso. Un’ultima passata sui tasti, a cancellare tutto...

Continuai a guardare fuori della finestra e sfiorai il legno un paio di volte. Udii avvicinarsi passi leggeri e mi voltai con quella che speravo fosse la stessa espressione di prima.

Renesmee mi tese le braccia e io allargai le mie. Ci si tuffò dentro, emanando un odore intenso di licantropo, e mi appoggiò la testa alla base del collo.

Non ero sicura di riuscire a sopportare. Il timore per la mia vita, per quella di Edward e del resto della mia famiglia non era niente paragonato al terrore che mi chiudeva lo stomaco al pensiero che accadesse qualcosa a mia figlia.

Doveva esserci un modo per salvarla, fosse l’unica cosa che potessi fare.

D’un tratto mi resi conto che era tutto quello che volevo. Se proprio avessi dovuto, avrei sopportato tutto il resto, ma non che lei perdesse la vita. Quello no.

Era l’unica cosa che dovevo salvare.

Alice aveva visto ciò che provavo?

La mano di Renesmee mi toccò piano la guancia.

Mi mostrò il mio viso e quelli di Edward, Jacob, Rosalie, Esme, Carlisle, Alice e Jasper, in successione sempre più rapida. Seth e Leah. Charlie, Sue e Billy. E poi di nuovo, da capo. Preoccupata, come tutti noi. Ma solo preoccupata. A quanto capivo, Jake le aveva risparmiato il peggio: che non avevamo speranza e che di lì a un mese saremmo morti.

Renesmee si fermò sul volto di Alice, piena di desiderio e confusione. Dov’era Alice?

«Non lo so», sussurrai. «Ma è Alice. Sta facendo la cosa giusta, come sempre». La più giusta per lei, tuttavia. Mi detestavo a dare un simile giudizio su Alice, ma in quale altro modo avrei dovuto interpretare la situazione?

Renesmee sospirò e la nostalgia crebbe.

«Manca anche a me».

Sentivo la mia faccia che si sforzava di trovare l’espressione adeguata al dolore che m’invadeva. Mi sentivo gli occhi strani e asciutti e battevo le palpebre per eliminare quel fastidio. Mi morsi il labbro. Al respiro successivo l’aria mi rimase impigliata in gola, come se stessi soffocando.

Renesmee si tirò indietro per guardarmi e vidi il mio volto specchiato nei suoi pensieri e dentro i suoi occhi. Avevo la faccia di Esme quella mattina.

Quindi era questo ciò che si provava a piangere.

Gli occhi di Renesmee si accesero di un luccichio umido mentre mi osservava. Mi passò la mano sul viso senza farmi vedere niente, soltanto per consolarmi.

Non avrei mai pensato di vedere il rapporto fra me e mia figlia ribaltarsi, come era sempre stato tra Renée e me. Ma non avevo mai avuto una visione chiara del futuro.

Sull’orlo dell’occhio di Renesmee si raccolse una lacrima. L’asciugai con un bacio. Lei si toccò stupita e poi guardò l’umido sui polpastrelli.

«Non piangere», le dissi. «Andrà tutto bene. Non ti succederà niente. Troverò il modo perché tu ne esca sana e salva».

Se per me non c’erano più alternative, dovevo salvare almeno la mia piccola Renesmee. Ero più che certa che grazie ad Alice ci sarei riuscita. Lei sapeva. E mi avrebbe mostrato come fare.

30 Irresistibile

C’erano così tante cose a cui pensare.

Dove avrei trovato il tempo per mettermi, da sola, sulle tracce di J. Jenks, e perché Alice me ne aveva parlato?

Se, invece, la dritta non aveva niente a che vedere con Renesmee, come potevo salvare mia figlia?

In quale modo, l’indomani, avremmo spiegato le cose alla famiglia di Tanya? E se avessero reagito come Irina? Se la situazione fosse sfociata in uno scontro?

Io non sapevo combattere. Potevo imparare in un mese? C’era la possibilità che m’insegnassero in così poco tempo a trasformarmi in un pericolo per uno qualsiasi dei Volturi? O ero condannata alla totale inutilità? Come una normalissima neonata da togliere di mezzo senza sforzo?

Tante domande mi frullavano in testa, ma sembrava che non avessi alcuna opportunità di trovare una risposta.

Spinta dal desiderio di conservare un minimo di normalità per Renesmee, avevo insistito per portarla a dormire a casa nostra. Jacob si sentiva meglio in forma di lupo, al momento; controllava più facilmente la tensione quando era pronto a lottare. Mi sarebbe piaciuto provare la medesima sensazione, sentirmi pronta. Jacob corse nei boschi, di nuovo sul chi va là.

Quando fui certa che si fosse profondamente addormentata, deposi Renesmee nel suo letto e raggiunsi Edward in soggiorno per fargli qualche domanda, perlomeno quelle che mi era consentito fare. Uno dei problemi maggiori era cercare di tenergli nascosto qualcosa, nonostante il vantaggio del silenzio dei miei pensieri.

Mi dava le spalle e guardava il fuoco nel camino.

«Edward, io...».

Si voltò e attraversò la stanza in quello che parve un istante immaginario. Ebbi solo il tempo di registrare la sua espressione feroce prima che le sue labbra s’infrangessero contro le mie e le sue braccia mi stritolassero in una morsa d’acciaio.

Per il resto della notte smisi di pensare. Non mi ci volle molto a comprendere la ragione del suo umore, e ancora meno a condividerlo in pieno.

Avevo messo in conto di trascorrere anni ad apprendere il controllo del desiderio fisico travolgente che provavo per lui, e poi avrei avuto secoli per goderne. Invece ci restava soltanto un mese... Non riuscivo a sopportare l’idea che finisse. Per il momento a prevalere era l’egoismo. Non volevo altro che amarlo il più possibile nel poco tempo che ci rimaneva.

Fu dura staccarmi da lui al sorgere del sole, ma ci attendeva un compito importante, forse più complicato di qualunque ricerca in cui era impegnato nel frattempo il resto della famiglia. Non appena mi concessi di pensare a ciò che stava per accadere, la tensione m’inondò nuovamente. Sembrava che i miei nervi fossero tirati su un cavalletto da tortura e avevo la sensazione che diventassero più tesi e sottili a ogni istante che passava.

«Vorrei ci fosse un modo per ottenere da Eleazar le informazioni che ci servono prima di parlargli di Nessie», mormorò Edward mentre ci vestivamo in fretta nella cabina armadio che mi ricordava Alice più di quanto in quel momento desiderassi. «Tanto per andare sul sicuro».

«Già, ma non capirebbe la domanda», ribadii. «Pensi che ci lasceranno spiegare?».

«Non lo so».

Sollevai Renesmee, ancora addormentata, dal letto e la strinsi forte, i suoi riccioli contro la mia faccia. Il suo profumo dolce, così vicino, sovrastava ogni altro odore.

Era una giornata in cui non potevo perdere un solo secondo. Mi servivano risposte e non sapevo bene quanto ancora Edward e io saremmo rimasti da soli. Se tutto andava bene con la famiglia di Tanya, avremmo avuto compagnia per parecchio tempo.

«Edward, m’insegneresti a combattere?», gli chiesi tesa per paura della sua reazione, mentre mi teneva aperta la porta.

Reagì come mi aspettavo. Si raggelò e mi percorse con uno sguardo carico di significato, come se mi vedesse per la prima o l’ultima volta. Poi rimase a fissare nostra figlia che dormiva fra le mie braccia.

«Se si arriva a uno scontro, nessuno di noi potrà fare granché», tergiversò.

Cercai di mantenere un tono di voce regolare. «Non vorrai lasciarmi completamente inerme».

Edward deglutì irrequieto e la porta vibrò, i cardini cigolavano mentre la sua mano aumentava la presa. Poi annuì. «Se la metti così... Allora conviene che ci mettiamo al lavoro al più presto».

Annuii anch’io e ci avviammo verso la grande casa, stavolta senza fretta.

Mi chiedevo in che maniera potessi fare la differenza. A modo mio ero un po’ speciale, ammesso di considerare speciale o soprannaturale un cranio insondabile. Poteva tornare utile in qualche modo?

«Qual è il loro maggior vantaggio, secondo te? Ce l’hanno qualche punto debole?».

Non ebbe bisogno di chiedermi se stessi parlando dei Volturi.

«Sono Alec e Jane la loro arma principale», rispose impassibile, come se stessimo parlando di una squadra di pallacanestro. «I difensori non vedono palla quasi mai».

«Perché Jane ti può incenerire sui due piedi, almeno a livello mentale. E Alec cosa fa? Una volta, se non sbaglio, mi hai detto che è persino più pericoloso di lei».

«Sì. In un certo senso è l’antidoto a Jane. Lei ti infligge il dolore più terribile che si possa immaginare, Alec non ti fa sentire nulla. Assolutamente niente. A volte, quando sono in buona, i Volturi lo usano per anestetizzare qualcuno prima di giustiziarlo. Se si è arreso o li ha compiaciuti in altro modo».

«Anestetico? E allora come fa a essere più pericoloso di Jane?».

«Perché ti annulla i sensi. Non provi dolore, ma resti senza vista, udito e olfatto. Completa deprivazione sensoriale. Ti ritrovi completamente smarrito nell’oscurità. Non senti nulla nemmeno mentre ardi».

Rabbrividii. Era quello il meglio che potessimo augurarci? Morire senza vedere né provare nulla?

«Il che lo rende pericoloso quanto Jane», proseguì Edward con lo stesso tono distaccato, «perché entrambi ti mettono fuori gioco, ti trasformano in un bersaglio inerme. La differenza fra loro è come quella fra Aro e me: lui riesce ad ascoltare i pensieri di una sola persona per volta, così come Jane può ferire solo il bersaglio che sta puntando. Io riesco a udire tutti contemporaneamente».

Mi sentii gelare quando compresi dove stava andando a parare. «Alec può metterci fuori gioco tutti quanti in un colpo solo?», sussurrai.

«Sì», rispose Edward. «Se usa il suo talento contro di noi, resteremo tutti ciechi e sordi finché non ci uccideranno. Magari si limiteranno a metterci al rogo senza prima farci a pezzi. Be’, potremmo tentare di reagire, ma molto probabilmente otterremmo solo di ferirci fra noi».

Camminammo in silenzio per alcuni secondi.

Nella mia mente stava prendendo forma un’idea. Non lasciava sperare granché, ma era sempre meglio di niente.

«Secondo te Alec è bravo a combattere?», domandai. «Escluso il suo potere, intendo. Se dovesse scontrarsi senza ricorrere al suo talento. Mi chiedo se ci abbia mai provato...».

Edward mi diede un’occhiata intensa. «A cosa stai pensando?».

Io guardavo fisso davanti a me. «Probabilmente con me il suo trucchetto non funziona, se è come te, Aro e Jane. Forse, se non ha mai avuto bisogno di difendersi e io conoscessi un paio di mosse...».

«Sta con i Volturi da secoli», m’interruppe Edward con voce improvvisamente presa dal panico. Probabilmente le nostre menti vedevano la stessa immagine: tutti i Cullen fermi impalati sul campo di battaglia a mo’ di statue, inermi e insensibili, eccetto me. Io sarei stata la sola in grado di combattere. «Tu sei sicuramente immune al suo potere, Bella, ma sei comunque una neonata. Non posso trasformarti in una macchina da guerra nel giro di poche settimane. Sono certo che Alec non è digiuno di scontri».

«Forse no, forse si. È l’unica cosa che nessuno di noi può fare, tranne me. Se riuscissi anche solo a distrarlo per un po’...». Avrei potuto resistere abbastanza a lungo da dare una possibilità agli altri?

«Fammi il favore, Bella», disse Edward fra i denti, «non voglio nemmeno parlarne».

«Sii ragionevole».

«Cercherò di insegnarti tutto ciò che posso ma, ti scongiuro, non riesco neanche a pensare che ti sacrifichi per fare da diversivo a...», ma non poté continuare perché gli si era strozzata la voce in gola.

Annuii e decisi che mi sarei tenuta per me i miei piani. Prima Alec, poi, se per miracolo avessi vinto, Jane. Se solo avessi potuto riequilibrare un po’ la situazione, ridimensionare anche di poco lo schiacciante vantaggio offensivo dei Volturi, forse avremmo avuto una possibilità di farcela. La mia mente ormai era lanciata nel futuro. E se davvero fossi riuscita a distrarli, o addirittura a fermarli? In effetti, perché mai Jane o Alec avrebbero dovuto imparare a combattere? Non riuscivo nemmeno a immaginarla, quella petulante di Jane che ammetteva di avere qualcosa da imparare...

Avrebbe fatto una bella differenza, se fossi riuscita a ucciderli.

«Devo imparare il più possibile. Tutto quello che riesci a farmi entrare in testa nell’arco del prossimo mese», mormorai.

Edward ignorò le mie parole.

E dopo, chi? Tanto valeva buttar giù un piano completo, così se fossi sopravvissuta ad Alec non avrei esitato a sferrare l’attacco successivo. Cercai di pensare a un’altra situazione in cui il mio cranio insondabile rappresentasse un vantaggio. Non sapevo abbastanza di ciò che facevano gli altri. Ovviamente, guerrieri come il grosso Felix erano fuori dalla mia portata: da quel punto di vista potevo solo tentare di offrire a Emmett la possibilità di scontrarsi in un leale corpo a corpo. Per il resto la guardia dei Volturi mi era praticamente sconosciuta, a parte Demetri.

La mia espressione si mantenne impassibile mentre pensavo a lui. Era in gamba, per forza. Altrimenti non sarebbe sopravvissuto tanto a lungo, sempre in prima linea. E doveva essere uno di quelli che guidavano l’attacco, visto che era un segugio: il numero uno al mondo, senza dubbio. Se ce ne fosse stato uno migliore, i Volturi l’avrebbero sostituito. Aro non amava le seconde scelte.

Se non fosse stato per Demetri, ci saremmo dati alla fuga. I superstiti, almeno. Mia figlia, calda fra le mie braccia... Qualcuno avrebbe potuto portarla in salvo. Jacob, Rosalie, chiunque fosse rimasto vivo.

E se Demetri non fosse esistito, Alice e Jasper avrebbero potuto salvarsi una volta per tutte. Era quello che aveva visto Alice? Quale parte della nostra famiglia sarebbe sopravvissuta? Loro due, perlomeno.

Potevo biasimarla?

«Demetri...», esordii.

«Demetri è mio», replicò Edward secco, con voce tesa. Lo guardai di sottecchi e intravidi un’espressione crudele.

«Perché?», sussurrai.

Sulle prime non rispose. Eravamo arrivati al fiume quando, infine, mi mormorò: «Per Alice. È il solo modo che ho di ringraziarla per gli ultimi cinquant’anni».

I suoi pensieri erano in linea con i miei, quindi.

Udii i passi pesanti di Jacob sul terreno gelato. Pochi secondi dopo mi camminava accanto, gli occhi scuri puntati su Renesmee.

Sollevai il mento a mo’ di saluto e tornai ai miei interrogativi. Avevo così poco tempo.

«Edward, secondo te, perché Alice ci ha detto di chiedere a Eleazar riguardo ai Volturi? È stato in Italia di recente, o cosa? Che cosa potrebbe sapere?».

«Eleazar sa tutto dei Volturi. Avevo scordato che tu non potevi saperlo. Era uno di loro».

Mi lasciai sfuggire un sibilo. Jacob, al mio fianco, ringhiò.

«Cosa?», esclamai, nella mente l’immagine del bell’uomo con i capelli scuri e il lungo mantello color cenere che avevo conosciuto al nostro matrimonio.

Edward aveva assunto un’espressione più dolce, ora, e accennava un sorriso. «Eleazar è una persona molto gentile. Non si trovava granché bene con i Volturi, ma rispettava la legge e capiva la necessità di farla rispettare. Sentiva di contribuire a un bene comune. Non ha rimorsi per il tempo trascorso con loro. Tuttavia, l’incontro con Carmen gli ha fatto capire quale fosse il suo posto nel mondo. Si somigliano molto, entrambi sono vampiri compassionevoli». Sorrise di nuovo. «Hanno conosciuto Tanya e le sue sorelle, e non hanno mai provato un rimpianto. Sono soddisfatti di questo stile di vita. Anche se non avessero incontrato Tanya, credo che avrebbero trovato da soli un modo per vivere senza sangue umano».

Ero confusa, le immagini nella mia testa facevano a pugni fra loro. Un soldato dei Volturi che conosce la compassione?

Edward lanciò un’occhiata a Jacob e rispose a una sua domanda silenziosa. «No, non era un loro guerriero in senso stretto. Possedeva un dono che i Volturi trovavano conveniente».

Immaginai che Jacob avesse posto l’ovvia domanda successiva.

«Ha la capacità di riconoscere immediatamente le doti particolari degli altri, i doni esclusivi di alcuni vampiri», spiegò Edward. «Gli basta trovarsi a una certa distanza da loro. Un requisito molto utile, in battaglia. Aro scopriva subito se fra gli avversari c’era qualcuno che potesse riservare qualche sorpresa, ma capitava di rado: bisogna avere qualità davvero eccezionali per mettere in difficoltà i Volturi, anche solo per pochi istanti. Più che altro serviva a risparmiare la vita a qualcuno che poteva tornargli utile. Il dono di Eleazar funziona, entro certi limiti, anche con gli umani, ma con loro deve concentrarsi molto perché il talento latente è nebuloso. Perciò Aro lo usava per esaminare quelli che volevano unirsi a lui, per vedere se possedessero potenzialità interessanti. Ad Aro è dispiaciuto che Eleazar se ne sia andato».

«L’hanno lasciato andare così, come niente fosse?», chiesi.

Il sorriso di Edward si fece più cupo, un po’ obliquo. «I Volturi non sono sempre i cattivi della situazione, come ti appaiono. Sono il fondamento stesso della nostra civiltà e della pace. Chi si arruola nel corpo di guardia sceglie di votarsi a essi. È un grande onore farne parte; tutti ne sono orgogliosi, nessuno viene costretto contro la propria volontà».

Guardai a terra, accigliata.

«Passano per crudeli e spietati solo fra i criminali, Bella».

«Noi però non siamo criminali».

Jacob espresse il proprio consenso sbuffando.

«Questo non lo sanno».

«Pensi che riusciremo a fermarli per farci ascoltare?».

Edward esitò per un istante e si strinse nelle spalle. «Se troviamo abbastanza amici pronti a schierarsi al nostro fianco, sì. Forse».

Forse. D’un tratto percepii l’urgenza del compito che ci aspettava quel giorno. Edward e io accelerammo il passo e cominciammo a correre. Jacob ci raggiunse poco dopo.

«Tanya non dovrebbe tardare ancora molto», disse Edward. «Dobbiamo essere pronti».

Sì, ma cosa voleva dire "pronti"? Organizzavamo e riorganizzavamo, pensavamo e ripensavamo. Meglio lasciare Renesmee bene in vista, o aspettare? Meglio Jacob nella stanza, oppure fuori? Aveva detto al branco di mantenersi vicino, ma invisibile. Forse era meglio se si eclissava anche lui?

Alla fine stabilimmo che io, Renesmee e Jacob in forma umana avremmo atteso seduti al grande tavolo lucido della sala da pranzo, dietro l’angolo rispetto all’entrata. Jacob mi lasciò tenere Renesmee perché voleva essere libero nei movimenti, nel caso si rendesse necessaria una trasformazione subitanea.

Nonostante mi colmasse di gioia, tenere mia figlia fra le braccia mi faceva sentire inutile. Mi ricordava che, in uno scontro con vampiri maturi, non sarei stata altro che un facile bersaglio, quindi non serviva che avessi le mani libere.

Cercai di riportare alla memoria i volti di Tanya, Kate, Carmen ed Eleazar dalle immagini del matrimonio, ma li distinguevo appena dentro la nebbia scura dei miei ricordi fumosi. Sapevo solo che erano belli: due bruni, le altre due bionde. E non riuscivo a ricordare se avessero uno sguardo gentile.

Edward si appoggiò immobile contro la vetrata sul retro, lo sguardo fisso sulla porta d’ingresso. Non sembrava vedere la stanza che aveva davanti.

Ascoltammo le auto che sfrecciavano sulla superstrada. Nessuna rallentava.

Renesmee era rannicchiata contro il mio collo, una mano sulla mia guancia, ma non irradiava alcuna immagine. Ancora non ne aveva per descrivere ciò che stava provando.

«E se non gli piaccio?», sussurrò a un tratto, e tutti i nostri occhi si fissarono di colpo su di lei.

«Figurati se non...», aveva cominciato a dire Jacob, ma lo zittii con un’occhiata.

«Non ti capiscono, Renesmee, perché non hanno mai conosciuto nessuna come te», dissi, evitando promesse che non ero certa di poter mantenere. «Il problema consiste proprio nel fare in modo che capiscano».

Renesmee fece un sospiro e nella mia mente vidi passare, come in una folata di vento, le immagini di tutti noi. Vampiro, umano, licantropo. Lei non rientrava in nessuna categoria.

«Sei speciale, non è una brutta cosa».

Scosse la testa in disaccordo. Pensò ai nostri volti tesi e disse: «È colpa mia».

«No», esclamammo io, Edward e Jacob all’unisono ma, prima che potessimo aggiungere qualcosa, udimmo il rumore tanto atteso di un motore che scendeva di giri e di pneumatici che imboccavano lo sterrato.

Edward sfrecciò verso la porta, dove rimase in piedi, in attesa. Renesmee si nascose fra i miei capelli. Jacob e io ci scambiammo uno sguardo disperato da un capo all’altro del tavolo.

L’auto procedeva rapida attraverso il bosco, più veloce di come avrebbero guidato Charlie o Sue. La udimmo attraversare il prato e fermarsi davanti al porticato. Quattro portiere si aprirono e si richiusero. I nuovi arrivati si avvicinavano alla porta senza parlare. Edward aprì prima che avessero il tempo di bussare.

«Edward!», gridò entusiasta una voce femminile.

«Ciao, Tanya. Kate, Eleazar, Carmen».

Seguirono tre «Ehi, ciao» appena mormorati.

«Carlisle ha detto che doveva parlarci con urgenza», disse la prima voce: Tanya. Sentivo che erano ancora tutti fuori. Immaginai Edward sulla porta, a bloccare loro l’ingresso. «Che problema c’è? Problemi con i licantropi?».

Jacob alzò gli occhi al cielo.

«No», disse Edward. «La nostra tregua con i licantropi funziona alla grande».

Una donna ridacchiò.

«Non ci inviti a entrare?», chiese Tanya. Poi, senza attendere risposta, aggiunse: «Dov’è Carlisle?».

«È dovuto andar via». E ne seguì un breve silenzio.

«Che succede, Edward?», chiese Tanya.

«Vi chiedo di concedermi il beneficio del dubbio per pochi minuti», rispose Edward. «Devo spiegarvi una cosa piuttosto complicata e ho bisogno che mi ascoltiate fino in fondo senza preconcetti».

«Ma Carlisle sta bene?», s’informò una voce maschile in tono ansioso. Eleazar.

«Nessuno di noi sta bene, Eleazar», rispose Edward, che posò una mano sulla spalla di qualcuno, forse proprio di Eleazar. «Cioè, fisicamente sì, sta bene».

«Fisicamente?», chiese Tanya brusca. «Che intendi dire?».

«Che la mia famiglia corre un grave pericolo. Prima di spiegare, però, vi chiedo una promessa: di ascoltare tutto il racconto. Vi prego solo di starmi a sentire fino alla fine».

Un silenzio più lungo seguì le sue parole. Jacob e io ci guardammo muti attraverso il silenzio teso. Le sue labbra color ruggine impallidirono.

«Ti ascoltiamo», disse infine Tanya. «Ti ascolteremo fino in fondo prima di giudicare».

«Grazie, Tanya», disse Edward con fervore. «Non vi avremmo coinvolti se avessimo avuto un’alternativa».

Edward si mosse. Udimmo quattro paia di piedi varcare la soglia.

Qualcuno annusò l’aria. «Lo sapevo che c’erano di mezzo i licantropi», borbottò Tanya.

«Sì, e sono dalla nostra parte. Ancora una volta».

Nessuno replicò al commento.

«Dov’è la tua Bella?», chiese un’altra voce femminile. «Come sta?».

«Ci raggiungerà fra poco. Sta bene, grazie. Ha varcato le soglie dell’immortalità con singolare eleganza».

«Dicci di questo pericolo, Edward», lo esortò Tanya dolcemente. «Ascolteremo e ci schiereremo al tuo fianco, dov’è giusto che stiamo».

Edward respirò a fondo. «Prima vi chiedo di vedere con i vostri occhi. Ascoltate, nella stanza accanto. Cosa sentite?».

All’inizio era tutto tranquillo, poi si udì del movimento.

«Prima ascoltate, per favore», insistette Edward.

«Un licantropo, presumo. Sento il suo cuore che batte», disse Tanya.

«Cos’altro?», chiese Edward.

Ci fu una pausa.

«Cos’è quella pulsazione?», chiese Kate, o forse era Carmen. «Un... uccello, forse?».

«No, ma tenete a mente il suono. E che odore sentite, a parte quello di licantropo?».

«C’è un umano?», bisbigliò Eleazar.

«No», lo contraddisse Tanya. «Non è umano, anche se... vi si avvicina molto. Più di qualunque altro odore presente qui dentro. Che cos’è, Edward? Non credo di averne mai sentito uno simile, prima d’ora».

«Sicuramente no, Tanya. Per favore, vi prego, tenete presente che per voi è una cosa del tutto nuova. Mettete da parte qualunque preconcetto».

«Ti ho promesso di ascoltare, Edward».

«D’accordo. Bella, porta qui Renesmee, per favore».

Mi sentivo le gambe stranamente addormentate, ma sapevo che era solo una questione mentale. Mi costrinsi a non esitare, a non strascicare i piedi mentre mi alzavo e percorrevo i pochi passi fino all’angolo. Mi sentivo alle spalle il ventaglio di calore emanato dal corpo di Jacob, che mi seguiva come un’ombra.

Feci un passo nel salone e restai impietrita, incapace di proseguire oltre. Renesmee respirò a fondo e spuntò da sotto i miei capelli, le piccole spalle rigide, quasi si aspettasse già di essere respinta.

Pensavo di essere pronta a qualunque reazione. Accuse, urla, l’immobilità raggelata della sorpresa.

Tanya arretrò di quattro passi, con un fremito dei riccioli biondo ramato, come un umano che si trova all’improvviso davanti a un serpente velenoso. Kate balzò all’indietro fino alla porta e si schiacciò contro la parete, emettendo un sibilo sconvolto fra i denti. Eleazar si rannicchiò protettivo davanti a Carmen.

«Ma per favore...», sentii Jacob borbottare fra sé.

Edward mise un braccio attorno a Renesmee e me. «Avete promesso di ascoltare», disse.

«Ci sono cose che non si possono stare a sentire!», esclamò Tanya. «Come hai potuto, Edward? Non ti rendi conto di cosa significa?».

«Dobbiamo andarcene di qui», disse Kate ansiosa, la mano già sulla maniglia della porta.

«Edward...». Eleazar sembrava persino incapace di trovare le parole.

«Aspettate», disse Edward, la voce indurita. «Ricordatevi di quello che udite e dell’odore che sentite. Renesmee non è ciò che credete».

«Non sono ammesse eccezioni alla regola, Edward», ribatté Tanya asciutta.

«Tanya», riprese Edward in tono altrettanto tagliente, «lo senti il cuore che batte, no? Rifletti per un istante su ciò che significa».

«Il suo cuore?», bisbigliò Carmen sbirciando da sopra la spalla di Eleazar.

«Non è una bambina vampira a tutti gli effetti», spiegò Edward, concentrandosi su Carmen, che aveva l’espressione meno ostile di tutti. «Per metà è umana».

I quattro vampiri lo guardarono come se parlasse una lingua sconosciuta.

«Ascoltate». La voce di Edward aveva assunto un tono vellutato e persuasivo. «Renesmee è unica. Io sono suo padre, non il suo creatore. Sono il suo padre biologico».

Tanya scuoteva la testa con un movimento appena percettibile di cui non sembrava rendersi nemmeno conto.

«Edward, non puoi aspettarti che noi...», esordì Eleazar.

«Allora dammela tu, una spiegazione. Percepisci il calore del suo corpo nell’aria. Nelle sue vene scorre sangue, Eleazar. Puoi sentirlo, no?».

«Ma come?», esalò Kate.

«Bella è la madre biologica», disse Edward. «Ha concepito e partorito Renesmee mentre era ancora umana. Le è quasi costata la vita. Tanto che, dopo lunghe esitazioni, sono stato costretto a iniettarle una dose di veleno nel cuore per salvarla».

«Mai sentita una cosa simile», commentò Eleazar. Aveva ancora le spalle contratte e l’espressione dura.

«I rapporti fra vampiri e umani non sono certo all’ordine del giorno», concesse Edward, con un vago accenno di humour nero. «E i frutti di simili accoppiamenti sono ancora più rari. Non siete d’accordo, cugine?».

Kate e Tanya gli lanciarono entrambe un’occhiata torva.

«Dai, Eleazar. Non dirmi che non noti la somiglianza». Fu Carmen a rispondere, mentre girava intorno a Eleazar, incurante di un suo avvertimento a mezza voce, e avanzava cauta fino a me. Mi si mise di fronte, inclinò appena il busto ed esaminò attenta il volto di Renesmee.

«Gli occhi sono della mamma», disse a voce bassa e calma, «ma la faccia è del papà». Poi, come se non potesse farne a meno, le sorrise.

Renesmee ricambiò con un sorriso abbagliante. Mi toccò una guancia senza distogliere lo sguardo da Carmen: immaginava di toccarle il viso, si chiedeva se poteva farlo.

«Ti spiace lasciare che sia Renesmee stessa a raccontarti di sé?», chiesi a Carmen. La voce mi uscì in un sussurro. Ero ancora troppo sconvolta per tirare fuori qualcosa di più. «È una vera maestra nello spiegare le cose».

Carmen stava ancora sorridendo a Renesmee. «Parli già, piccolina?».

«Sì», rispose Renesmee nel suo soprano trillante. Nell’udirne la voce, tutta la famiglia di Tanya ebbe un sussulto, a eccezione di Carmen. «Però sono più brava a mostrare che a dire».

E posò la manina paffuta sulla sua guancia.

Carmen s’irrigidì come se avesse preso una scossa. Eleazar le fu accanto in un istante, le mani sulle spalle, pronto a tirarla via.

«Aspetta», disse Carmen d’un fiato, lo sguardo immobile inchiodato in quello di Renesmee.

La "spiegazione" di Renesmee andò avanti per un bel pezzo. Edward osservava Carmen tutto concentrato e avrei dato qualunque cosa per poterli ascoltare. Alle mie spalle Jacob si dondolava impaziente sulle gambe e sapevo che desiderava la stessa cosa.

«Cosa le sta mostrando?», brontolò Jacob fra i denti.

«Tutto», mormorò Edward.

Trascorse un altro minuto, e Renesmee ritrasse la mano dal viso stupito di Carmen, scoccandole un sorriso irresistibile.

«È proprio figlia tua», sospirò Carmen, ruotando i grandi occhi color topazio su Edward. «Un dono come il suo può venire solo da un padre particolarmente dotato».

«Credi a ciò che ti ha mostrato?», chiese Edward con espressione intensa.

«Senza il minimo dubbio», disse Carmen semplicemente.

Il volto di Eleazar era pietrificato dalla tensione. «Carmen!».

Carmen gli prese una mano e la strinse. «Per impossibile che appaia, quello che Edward ci ha raccontato è la verità. Lascia che la bambina te lo mostri».

Carmen sospinse Eleazar verso di me e fece un cenno a Renesmee. «Faglielo vedere, mi querida».

Renesmee sfoderò un sorrisetto, evidentemente deliziata dall’accoglienza di Carmen, e toccò piano Eleazar sulla fronte.

«Ay caray», sputò lui, ritraendosi di scatto.

«Che cosa ti ha fatto?», chiese Tanya, avvicinandosi cauta. Anche Kate avanzò lentamente.

«Cerca solo di raccontare la propria versione della storia», disse Carmen in tono conciliante.

Renesmee aggrottò la fronte, impaziente. «Guarda, per favore», chiese a Eleazar. La bambina tese una mano verso di lui e la lasciò sospesa a pochi centimetri dal suo viso, in attesa.

Eleazar le lanciò un’occhiata sospettosa e si voltò verso Carmen, in cerca d’aiuto. Lei annuì con fare incoraggiante. Eleazar fece un respiro profondo e inclinò il busto in avanti fino a che la sua fronte non toccò nuovamente la mano di Renesmee.

All’inizio fu percorso da un brivido ma non si mosse, gli occhi chiusi per favorire la concentrazione.

«Ah», mormorò riaprendoli, alcuni minuti dopo. «Ora capisco».

Renesmee gli sorrise. Lui esitò, poi le restituì un sorriso appena riluttante.

«Eleazar?», chiese Tanya.

«È tutto vero, Tanya. Non è un’immortale. Per metà è umana. Vieni a vedere tu stessa».

Prima Tanya e poi Kate, in silenzio e con circospezione, mi si pararono davanti. Assunsero entrambe un’espressione scioccata quando il tocco di Renesmee evocò la prima immagine, ma alla fine, proprio come Carmen ed Eleazar, apparvero del tutto conquistate.

Lanciai un’occhiata al viso tranquillo di Edward, chiedendomi se davvero fosse così facile. I suoi occhi dorati erano limpidi, senza ombre. Senza trucco né inganno, quindi.

«Grazie per aver ascoltato», disse piano.

«Ma c’è il grave pericolo di cui ci hai avvertito», disse Tanya. «Dato che non viene dalla bambina ma è connesso a lei, deduco che si tratti dei Volturi. Come hanno fatto a scoprire la sua esistenza? Quando verranno?».

Non mi sorprese che capisse tutto così rapidamente. D’altronde, cosa poteva minacciare una famiglia potente come la mia se non i Volturi?

«Quando Bella ha visto Irina, quel giorno in montagna», spiegò Edward, «Renesmee era con lei».

Kate sibilò, gli occhi ridotti a fessure. «È stata Irina? Ha fatto questo a te? A Carlisle? Irina?».

«No», sussurrò Tanya. «Qualcun altro...».

«Alice l’ha vista andare dai Volturi», disse Edward. Mi chiesi se gli altri notassero come trasaliva appena nel nominare Alice.

«Come ha potuto fare una cosa simile?», chiese Eleazar, ma a nessuno in particolare.

«Immaginate di aver visto Renesmee da lontano. Senza attendere la nostra spiegazione...».

Tanya ebbe uno sguardo torvo. «Non importa cosa può aver pensato. Facciamo parte della stessa famiglia».

«Ormai non possiamo fare più niente per rimediare alla decisione di Irina, è troppo tardi. Alice ci ha dato un mese di tempo».

Tanya ed Eleazar inclinarono la testa di lato. Kate aggrottò le sopracciglia.

«Così tanto?», chiese Eleazar.

«Verranno tutti. Servono dei preparativi».

Eleazar rimase senza fiato. «L’intera guardia?».

«Non solo la guardia», rispose Edward, la mascella tesa. «Aro, Caius, Marcus. Persino le mogli».

La sorpresa appannò lo sguardo dei quattro.

«Impossibile», disse Eleazar incredulo.

«L’avrei detto anch’io, due giorni fa», ribatté Edward.

Eleazar s’accigliò e quando riprese a parlare la sua voce uscì simile a un ringhio. «Ma non ha senso. Perché mettere in pericolo anche le mogli, oltre a se stessi?».

«Da quel punto di vista non ha senso, infatti. Secondo Alice, non c’è di mezzo soltanto la punizione per ciò di cui ci accusano. Pensava che tu potessi aiutarci».

«E cosa può esserci, oltre alla punizione?». Eleazar cominciò a misurare la stanza a lunghe falcate, verso la porta e ritorno, avanti e indietro, come fosse solo, lo sguardo corrucciato fisso sul pavimento.

«Dove sono tutti, Edward? Carlisle, Alice e gli altri?», s’informò Tanya.

L’esitazione di Edward fu quasi impercettibile. Rispose alla domanda solo in parte. «In cerca di amici che possano darci una mano».

Tanya si chinò verso di lui, tendendo le braccia. «Edward, per quanti amici riusciate a trovare, non possiamo aiutarvi a vincere. Riusciremo solo a morire con voi. Questo lo sai. D’altro canto, forse meritiamo la morte, dopo ciò che ha combinato Irina e dopo che già una volta vi abbiamo voltato le spalle».

Edward scosse la testa con decisione. «Non vi stiamo chiedendo di combattere e morire con noi, Tanya. Sai che Carlisle non pretenderebbe mai una cosa simile».

«E allora cosa, Edward?».

«Siamo in cerca di testimoni. Se riusciamo a fermare i Volturi per il tempo necessario a spiegare...». Sfiorò la guancia di Renesmee. Lei gli afferrò la mano e se la premette contro la pelle. «È difficile dubitare della nostra storia quando la vedi con i tuoi occhi».

Tanya annuì piano. «Credi che saranno tanto interessati al passato di Renesmee?».

«Solo in quanto presagio per il futuro. Lo scopo della restrizione era di proteggerci dal contatto con i bambini immortali, dagli eccessi di creature giovani e indomabili».

«Io non sono pericolosa», s’intromise Renesmee. Ascoltai la sua voce acuta e cristallina in modo nuovo e immaginai come suonasse agli altri. «Non ho mai fatto del male al nonno, a Sue, o a Billy. Io amo gli umani. E i licantropi come il mio Jacob». Lasciò andare la mano di Edward e si sporse all’indietro per dare un paio di colpetti affettuosi al braccio di Jacob.

Tanya e Kate si scambiarono un’occhiata fugace.

«Se Irina non fosse arrivata così presto», disse Edward come stesse meditando ad alta voce, «avremmo potuto evitare tutto questo. Renesmee cresce a un ritmo vertiginoso. In un mese cresce come se ne fossero trascorsi sei».

«Be’, questa è una cosa che possiamo testimoniare di sicuro», disse Carmen in tono risoluto. «Potremo assicurare che l’abbiamo vista crescere sotto ai nostri occhi. I Volturi non potranno ignorare una simile evidenza».

«Già, come potrebbero?», borbottò Eleazar senza alzare lo sguardo. Stava ancora camminando avanti e indietro, come se non prestasse la minima attenzione.

«Possiamo testimoniare a vostro favore, sì», disse Tanya, «poco ma sicuro. E penseremo a cos’altro potremmo fare».

«Tanya», protestò Edward, dopo che udì nei suoi pensieri più di quanto avesse espresso a parole, «non ci aspettiamo che lottiate per noi».

«Se i Volturi non si fermeranno ad ascoltarvi, non potremo restare a guardare», insistette Tanya. «Anche se, ovviamente, dovrei parlare per me stessa».

Kate sbuffò. «Dubiti a tal punto di me, sorella?».

Tanya le rivolse un ampio sorriso. «È una missione suicida, dopotutto».

Kate le scoccò un ghigno e fece spallucce, disinvolta. «Io ci sto».

«Anch’io. Farò tutto ciò che è in mio potere per proteggere la bambina», disse Carmen. Poi, come se non potesse resistere, tese le braccia verso Renesmee. «Posso tenerti un pochino, bebé linda.

Renesmee si sporse con impaziente entusiasmo verso la sua nuova amica. Carmen la strinse forte e le mormorò paroline in spagnolo.

Era stato come con Charlie e, prima ancora, con i Cullen al completo. Renesmee era irresistibile. Com’era che restavano tutti conquistati, al punto da essere disposti a mettere in gioco la propria vita per lei?

Per un momento pensai che forse il nostro tentativo non era così disperato. Forse Renesmee sarebbe riuscita a compiere il miracolo, soggiogando i nostri nemici come aveva fatto con i nostri amici.

Poi ricordai che Alice ci aveva lasciati e la mia speranza morì rapida com’era nata.

31 Talenti

«Che ruolo hanno i licantropi in tutto questo?», chiese Tanya lanciando un’occhiata a Jacob.

Prima che Edward potesse aprire bocca fu Jacob stesso a rispondere. «Se i Volturi non sono disposti a dar retta a Nessie, a Renesmee, cioè», si corresse, rendendosi conto che a Tanya il suo stupido soprannome non avrebbe detto niente, «li fermeremo noi».

«Molto coraggioso, ragazzino, ma sarebbe un’impresa disperata anche per gente molto più esperta di voi».

«Non sai ciò che siamo in grado di fare».

Tanya si strinse nelle spalle. «La vita è vostra, potete farci quel che vi pare».

Jacob lanciò a Renesmee — ancora in braccio a Carmen, con Kate china sopra di lei — uno sguardo evidentemente carico di profondo affetto.

«È una piccola molto speciale», concesse Tanya come pensando ad alta voce. «Difficile resisterle».

«Una famiglia piena di talenti», mormorò Eleazar mentre, nel frattempo, il ritmo del suo andirivieni era aumentato e schizzava dalla porta a Carmen e viceversa a intervalli di un secondo. «Il padre legge nel pensiero, la madre è uno scudo e questa bimba eccezionale possiede un qualche potere magico con cui ti incanta. Mi chiedo se ci sia un termine per definire quello che fa, o se sia normale per una mezza vampira. Anche se "normale", insomma, è una parola grossa per una creatura che è un vampiro ibrido!».

«Scusa», disse Edward come stordito, posando una mano sulla spalla di Eleazar per bloccarlo prima che schizzasse di nuovo verso la porta. «Cos’hai detto che è mia moglie?».

Eleazar lo guardò incuriosito e per un attimo cessò il suo passeggiare nervoso. «Uno scudo, credo. In questo momento mi sta bloccando, quindi non ne sono sicuro».

Fissai Eleazar, le sopracciglia aggrottate per la confusione. Scudo? In che senso lo stavo bloccando? Non ero sulla difensiva; me ne stavo lì e basta.

«Uno scudo?», ripeté Edward, stupefatto.

«Dai, Edward! Se io non riesco a leggerle la mente, dubito che ci riesca tu. Riesci a sentire i suoi pensieri in questo momento?», chiese Eleazar.

«No», mormorò Edward, «ma non ci sono mai riuscito. Nemmeno quand’era umana».

«Mai?». Eleazar batté le palpebre. «Interessante. Lascerebbe supporre un notevole talento invisibile, se si manifestava così chiaramente già prima della trasformazione. Non riesco a trovare un varco nello scudo per farmi un’idea più precisa. Eppure dev’essere ancora grezza, ha appena pochi mesi di vita come vampira». Lo sguardo che lanciò a Edward era quasi esasperato. «E a quanto pare non se ne rende affatto conto, è una cosa del tutto inconscia. Che ironia. Aro mi ha spedito ai quattro angoli del pianeta in cerca di gente che possedesse simili particolarità, mentre tu ti ci imbatti per caso e nemmeno te ne accorgi». Eleazar scosse la testa incredulo.

Mi rabbuiai. «Di cosa stai parlando? In che senso, sono uno scudo? Cosa significa?». Tutto quello che riuscivo a immaginare sentendo quel termine era un’assurda armatura medievale.

Eleazar inclinò la testa di lato e mi studiò. «Immagino che nella guardia fossimo un po’ troppo formali al proposito. In effetti, classificare talenti è una faccenda soggettiva e, tutto sommato, casuale. Ogni talento è unico e irripetibile, nel senso che non si presenta mai identico. Tu invece, Bella, sei facile da classificare: i talenti puramente difensivi, che tutelano alcuni aspetti di colui che li possiede, sono sempre definiti scudi. Hai messo alla prova le tue capacità? Hai mai provato a bloccare qualcun altro oltre a me e al tuo compagno?».

Nonostante la velocità d’elaborazione del mio nuovo cervello, mi occorsero alcuni secondi per mettere insieme una risposta.

«Funziona solo per certe cose», dissi. «La mia mente è, come dire... privata. Però non impedisce a Jasper di influenzare il mio umore o ad Alice di vedere il mio futuro».

«Una difesa prettamente psichica». Eleazar annuì fra sé. «Limitata, ma efficace».

«Aro non riusciva a sentirla», intervenne Edward. «Sebbene fosse umana, quando si sono conosciuti».

Eleazar sgranò gli occhi.

«Jane ha cercato di colpirmi, ma non c’è riuscita», aggiunsi. «Secondo Edward, Demetri non può trovarmi, e nemmeno Alec può farmi alcunché. È un bene?».

Eleazar, ancora a bocca aperta, annuì. «Direi!».

«Uno scudo!», esclamò Edward, trasudando soddisfazione. «Non avevo mai considerato la cosa sotto questo punto di vista. L’unica che avevo conosciuto prima era Renata, ma lei era così diversa».

Eleazar intanto si era ripreso. «Appunto. Nessun talento si manifesta esattamente allo stesso modo, perché nessuno pensa mai esattamente allo stesso modo».

«Chi è Renata? Cosa fa?», chiesi. Anche Renesmee, interessata, si era scostata da Carmen per guardare oltre Kate.

«Renata è la guardia del corpo di Aro», spiegò Eleazar. «Uno scudo molto pratico e anche molto forte».

Ricordavo vagamente un manipolo di vampiri, maschi e femmine, che non perdevano mai di vista Aro nella sua macabra torre, ma non riuscivo a far riemergere alcun viso femminile dall’inquietante nebbia della memoria. Fra loro, comunque, doveva esserci Renata.

«Chissà...», esordì Eleazar come se stesse riflettendo ad alta voce. «Renata è uno scudo potente contro gli attacchi fisici. Chiunque si avvicini a lei o ad Aro — ed è la stessa cosa, dato che lei è sempre al suo fianco nelle situazioni critiche — si trova improvvisamente... deviato. Il campo di forza che l’avvolge è quasi impercettibile: ci si accorge di colpo di muoversi in un’altra direzione, con la vaga consapevolezza che non è quella giusta, ma senza ricordarsi bene perché. Renata può proiettare lo scudo a diversi metri di distanza da sé: infatti, in caso di necessità, protegge anche Caius e Marcus. Però la sua priorità è Aro. Tuttavia, ciò che fa non è prettamente fisico. Come per la stragrande maggioranza dei doni, avviene tutto nella mente. Se cercasse di deviare te, per esempio, mi chiedo chi avrebbe la meglio...». Scosse la testa. «Non ho mai sentito di qualcuno che riuscisse a mettere fuori gioco Aro o Jane».

«Mamma, tu sei speciale», mi disse Renesmee, per nulla sorpresa, come se stesse commentando il colore del mio vestito.

Ero disorientata. Non conoscevo forse già il mio dono, il super-autocontrollo che mi aveva permesso di saltare a piè pari l’orribile primo anno da vampira? E i vampiri possedevano non più di una qualità extra, no?

A meno che Edward non avesse ragione sin dall’inizio: quando Carlisle aveva avanzato l’ipotesi che il mio autocontrollo potesse avere del soprannaturale, Edward aveva suggerito che la mia capacità di contenermi era solo frutto di una buona preparazione — carattere e concentrazione, aveva detto.

Chi dei due aveva ragione? Potevo fare di più? C’erano una definizione e una categoria per indicare ciò che ero?

«Puoi proiettarlo?», chiese Kate interessata.

«Cioè?», chiesi.

«Estenderlo da te a qualcun altro».

«Non lo so. Non ho mai provato. Non immaginavo di averne bisogno».

«Oh, forse non ne sei capace», tagliò corto Kate. «Io ci provo da secoli e tutto quello che sono riuscita a ottenere è una specie di corrente a fior di pelle».

La fissai, sconcertata.

«Kate possiede un’abilità offensiva», spiegò Edward. «Un po’ come Jane».

Distolsi automaticamente lo sguardo da Kate, battendo le palpebre, e lei rise.

«Però non sono così sadica», mi rassicurò. «È solo una cosa che torna utile in battaglia».

Stavo cominciando a digerire le parole di Kate, a creare collegamenti. Fare scudo a qualcun altro oltre a te. Come se esistesse un modo per portare un’altra persona al riparo della bizzarra barriera mentale che rendeva muti i miei pensieri.

Rividi Edward accasciarsi sulle pietre antiche della torre dei Volturi. Era un ricordo umano, ma più vivido e intenso degli altri, come fosse impresso a fuoco nel tessuto cerebrale.

E se fossi stata in grado di impedire che accadesse di nuovo? Se avessi potuto proteggere Edward? E Renesmee? Ci fosse stata anche solo una vaghissima possibilità...

«Devi insegnarmi come fare!», esclamai, afferrando il braccio di Kate senza rendermene conto. «Devi farmi vedere!».

Kate trasalì. «Forse, se eviti di maciullarmi il radio...».

«Oh, scusami!», esclamai.

«Lo scudo è attivo, a quanto vedo», disse Kate. «La mia reazione avrebbe dovuto farti saltar via il braccio, ma non hai sentito niente, vero?».

«Non ce n’era bisogno, Kate. Non voleva farti male», mormorò Edward, ma noi due non gli prestavamo attenzione.

«No, niente. Hai scatenato la tua... corrente elettrica?».

«Sì. Mmm. Non ho mai incontrato nessuno che non la percepisse, mortale o immortale».

«Hai detto che la proietti? Sulla pelle?».

Kate annuì. «Prima l’avevo solo nel palmo delle mani. Come Aro».

«O Renesmee», puntualizzò Edward.

«Adesso, dopo una lunga pratica, riesco a irradiarla in tutto il corpo. È una buona difesa. Chiunque tenti di toccarmi cade a terra fulminato. Solo per pochi secondi, ma sono più che sufficienti».

L’ascoltavo solo con un orecchio, la mia mente stava già lavorando all’idea che, forse, se solo avessi imparato abbastanza alla svelta, sarei stata in grado di proteggere la mia piccola famiglia. Dentro di me speravo ardentemente di essere in grado di proiettare il mio scudo con la stessa abilità con cui riuscivo, per qualche misterioso motivo, a cavarmela alla grande come vampira. La mia vita da umana non mi aveva abituata a doti spontanee particolari e mi era difficile credere che questa mia abilità durasse.

Mi sembrava di non aver mai desiderato niente con tanta intensità, prima di allora: proteggere ciò che amavo.

Ero così immersa nei miei pensieri che mi accorsi della silenziosa comunicazione fra Edward ed Eleazar solo quando divenne aperta conversazione.

«Ricordi almeno un’eccezione?», chiese Edward.

Lo guardai per cercare di contestualizzare la sua domanda e mi resi conto che tutti gli altri li stavano già fissando. Chini l’uno sull’altro, erano concentratissimi, il volto di Edward un grumo di sospetto, quello di Eleazar una maschera d’infelicità e riluttanza.

«Non mi va di considerarle tali», disse Eleazar fra i denti. L’improvviso cambiamento d’atmosfera mi stupì.

«Se hai ragione...», riprese Eleazar.

Edward lo interruppe. «Era un pensiero tuo, non mio».

«Se ho ragione... non riesco nemmeno a concepirne la portata. Cambierebbe completamente il mondo che abbiamo creato. Il significato della mia vita. Ciò di cui finora ho fatto parte».

«Hai sempre agito con le migliori intenzioni, Eleazar».

«Avrebbe una qualche importanza ciò che ho fatto? Tutte le vite che...».

Tanya gli posò una mano sulla spalla in un gesto di conforto. «Cosa ci siamo persi, amico mio? Voglio saperlo per partecipare alla discussione. Non hai mai fatto nulla per cui tu debba punirti a questo modo».

«Davvero?», mormorò Eleazar. Poi sfilò la spalla da sotto la mano di Tanya e riprese a camminare avanti e indietro, ancora più furioso di prima.

Dopo averlo osservato per mezzo secondo, Tanya si rivolse a Edward. «Spiegaci».

Edward annuì, lo sguardo teso e fisso su Eleazar. «Cercava di capire perché i Volturi dovrebbero venire a punirci così numerosi. Non è nel loro stile. Certo, il nostro è il clan maturo più nutrito con cui abbiano avuto a che fare, ma in passato già altre congreghe si sono coalizzate a scopo difensivo e nonostante il numero non hanno mai rappresentato un problema. Noi siamo più uniti, questo sì, ma non tanto numerosi.

Per questo Eleazar si è messo a passare in rassegna le altre occasioni in cui qualche clan è stato punito, per un motivo o per l’altro, e ha scoperto un certo modus operandi, una costante che il resto della guardia non avrebbe mai notato, perché soltanto Eleazar riferiva personalmente ad Aro. La costante si ripete una volta ogni cent’anni, o giù di lì».

«E in cosa consisterebbe?», chiese Carmen, anche lei con lo sguardo fisso su Eleazar.

«Non capita spesso che Aro prenda parte a una spedizione punitiva», disse Edward. «In passato, però, quando voleva qualcosa in particolare, chissà come saltava sempre fuori che questo o quel clan aveva commesso un crimine imperdonabile. In quel caso gli anziani si aggregavano alla guardia per presenziare all’amministrazione della giustizia. Poi, una volta distrutto il clan, Aro concedeva il perdono a un superstite che, a suo dire, si mostrava particolarmente pentito. Guarda caso, si trattava sempre del vampiro in possesso del dono che interessava ad Aro. Al nuovo arrivato veniva assegnato un posto nel corpo di guardia, il che ovviamente lo colmava d’orgoglio; infatti, l’offerta veniva sempre accettata con somma gratitudine, senza eccezioni».

«Immagino che sia esaltante essere scelti per entrare a far parte della guardia», osservò Kate.

«Ah!», ringhiò Eleazar senza fermarsi.

«C’è una tale Chelsea, nella guardia», riprese Edward per spiegare la reazione rabbiosa di Eleazar, «che riesce a influire sui legami emotivi fra le persone. Può rafforzarli o indebolirli. Può fare in modo che qualcuno si senta legato ai Volturi, che desideri appartenere a loro e compiacerli...».

Eleazar si arrestò di colpo. «Era a tutti evidente l’importanza di Chelsea. Riuscire a spezzare le alleanze, in caso di scontro, significava avere la meglio con maggior facilità. E separare emotivamente i membri innocenti di un clan dai colpevoli significava fare giustizia senza inutili violenze: i colpevoli potevano essere puniti senza interferenze e gli innocenti risparmiati. Se Chelsea non avesse spezzato i legami che tenevano unito il clan, sarebbe stato impossibile impedire loro di combattere come un sol uomo. All’epoca mi sembrava un atto di grande magnanimità da parte di Aro. Sospettavo che Chelsea contribuisse a tenerci più uniti di quanto non saremmo stati altrimenti, ma anche quella mi pareva una buona cosa. Aumentava la nostra efficacia. Rendeva la coesistenza più facile».

Le sue parole mi chiarirono vecchi ricordi. Non avevo mai capito, infatti, come mai il corpo di guardia obbedisse con tanta solerzia, quasi con devozione, ai propri comandanti.

«Quant’è forte il suo dono?», chiese Tanya con voce tagliente. Passò velocemente lo sguardo sui membri della sua famiglia.

Eleazar si strinse nelle spalle. «Io sono riuscito ad andarmene insieme a Carmen», disse e poi scosse la testa. «Ma qualunque legame meno intenso di quello fra partner è a rischio. In un clan normale, perlomeno, perché nella nostra famiglia i legami sono più forti. L’astensione dal sangue umano ci ha reso più civili, ci ha consentito di formare autentici legami d’amore. Dubito che Chelsea riuscirebbe a spezzarli, Tanya».

Tanya annuì, apparentemente rassicurata, mentre Eleazar procedeva nell’analisi.

«Perciò, ai miei occhi, l’unico motivo per cui Aro ha deciso di venire di persona è che non si tratta di una punizione, bensì di un’acquisizione». Poi continuò: «Deve essere presente per tenere sotto controllo gli eventi, ma ha bisogno della guardia al completo per proteggersi da un clan così grande e dotato. In tal modo, però, gli altri anziani resterebbero a Volterra indifesi, alla mercé di qualcuno che potrebbe approfittarne. Quindi si spostano tutti. In quale altra maniera Aro si assicurerebbe i doni su cui ha messo gli occhi? Deve desiderarli parecchio», concluse Eleazar come se riflettesse fra sé.

La voce di Edward fu lieve come un sospiro. «Da quel che ho potuto vedere dei suoi pensieri, la primavera passata, Aro non desidera altro che Alice».

Avvertii la mia bocca spalancarsi al ricordo delle immagini da incubo che mi avevano assalito tanto tempo prima: Edward e Alice con addosso una tunica nera, gli occhi rosso sangue e il volto freddo e lontano, vicini come ombre, la mano di Aro sulle loro... Possibile che Alice avesse visto quelle immagini più di recente? Che avesse visto Chelsea mentre tentava di distruggere il suo amore per noi e legarla ad Aro, Caius e Marcus?

«Per questo Alice se n’è andata?», domandai. La mia voce s’incrinò nel pronunciare il suo nome.

Edward mi accarezzò la guancia. «Credo di sì. Per impedire ad Aro di ottenere la cosa che desidera di più al mondo. Per impedire che metta le mani sul suo potere».

Udii Tanya e Kate mormorare qualcosa con voce alterata e ricordai che loro non sapevano di Alice.

«Aro vuole anche te», sussurrai.

Edward fece spallucce, l’espressione improvvisamente troppo composta. «Ma non con la stessa intensità. Non ho nulla di più da dargli di quanto già non abbia. E naturalmente, deve prima trovare un modo per piegarmi al suo volere. Mi conosce e sa quanto sia improbabile», concluse sardonico, inarcando un sopracciglio.

Eleazar s’incupì di fronte al fare disinvolto di Edward. «Conosce anche i tuoi punti deboli», disse guardandomi.

«Non è una cosa di cui valga la pena discutere ora», si affrettò a replicare Edward.

Eleazar ignorò il tentativo di sviare il discorso e proseguì. «Probabile che Aro voglia anche la tua compagna. Deve essere rimasto affascinato da un talento in grado di tenergli testa nientemeno che in forma umana».

L’argomento metteva a disagio sia me che Edward. Se Aro voleva che facessi qualcosa — qualunque cosa -, gli bastava minacciarlo, e avrei ceduto. E viceversa.

Forse la morte era il minore dei mali? Era la cattura ciò che dovevamo temere di più?

Edward cambiò tema. «Credo che i Volturi stessero aspettando solo di avere un pretesto. Non sapevano che scusa avrebbero trovato, ma il piano era già predisposto. Ecco perché Alice ha visto la loro decisione prima che trovassero un appiglio in Irina. Era già tutto stabilito, mancava soltanto una giustificazione valida».

«Se i Volturi stanno abusando della fiducia che tutti gli immortali ripongono in loro...», mormorò Carmen.

«Ha qualche importanza?», chiese Eleazar. «Chi ci crederebbe? Se anche qualcuno si convincesse che i Volturi approfittano del proprio potere, che differenza farebbe? Nessuno è in grado di tenergli testa».

«Eppure alcuni di noi, a quanto pare, sono così pazzi da volerci provare», sussurrò Kate.

Edward scosse la testa. «Siete qui soltanto come testimoni, Kate. Qualunque cosa voglia Aro, non credo che, per ottenerla, sia disposto a macchiare la reputazione dei Volturi. Se riusciamo a smontare le sue accuse, dovrà lasciarci in pace».

«Naturalmente», mormorò Tanya.

Nessuno sembrava convinto. Per pochi interminabili minuti ci fu solo il silenzio.

Poi sentii il rumore di pneumatici che svoltavano dalla strada principale sullo sterrato che portava a casa Cullen.

«Oh merda, Charlie!», borbottai. «Forse il clan di Denali potrebbe attendere al piano di sopra finché...».

«No», m’interruppe Edward con una voce che sembrava provenire da molto lontano. Aveva lo sguardo vuoto e lo teneva fisso sulla porta. «Non è tuo padre». Mi mise a fuoco. «Sono Peter e Charlotte. A quanto pare Alice è riuscita a convincerli. Prepariamoci al secondo turno».

32 La compagnia

Ormai l’enorme casa dei Cullen conteneva più ospiti di quanti sembrava poter alloggiare. La situazione era gestibile soltanto perché nessuno dei nuovi arrivati aveva bisogno di dormire. I pasti erano rischiosi, però. La nostra compagnia collaborava al meglio. Gli ospiti stavano alla larga da Forks e da La Push e cacciavano solo al di là dei confini dello Stato; Edward era un padrone di casa impeccabile e, senza battere ciglio, prestava le sue automobili a chi ne aveva bisogno. Quel compromesso mi metteva molto a disagio, anche se cercavo di ripetermi che, tanto, sarebbero comunque andati a caccia, da qualche parte nel mondo.

Jacob ne era ancora più sconvolto. I licantropi esistevano proprio allo scopo di evitare perdite di vite umane, ed ecco che si doveva passar sopra al dilagare degli assassinii appena fuori dai confini territoriali del loro branco. Ma date le circostanze, con Renesmee in grave pericolo, tenne la bocca chiusa e guardò in cagnesco il pavimento invece dei vampiri.

Ero stupita della facilità con cui i vampiri in visita tolleravano Jacob: i problemi che Edward aveva previsto non si erano mai concretizzati. Jacob sembrava più o meno invisibile ai loro occhi: non proprio una persona vera, ma nemmeno una potenziale fonte di cibo. Lo trattavano come la gente che non ama le bestie tratta gli animali domestici dei propri amici.

Leah, Seth, Quil ed Embry si erano temporaneamente ricongiunti al branco di Sam e Jacob sarebbe stato felice di unirsi a loro, se fosse riuscito a sopportare la lontananza da Renesmee, impegnata nella conquista dello strano gruppo di amici di Carlisle.

Avevamo ripetuto la scena della presentazione di Renesmee al clan di Denali almeno cinque volte. Prima per Peter e Charlotte, che Alice e Jasper ci avevano mandato senza fornire loro alcun chiarimento: come la maggior parte delle persone che conoscevano Alice, si erano fidati delle sue istruzioni nonostante la mancanza di ragguagli. Alice non aveva raccontato nulla sulla direzione verso cui lei e Jasper avrebbero proseguito il loro viaggio. E non aveva fatto alcuna promessa di rivederli in futuro.

Né Peter né Charlotte avevano mai visto un bambino immortale. Anche se conoscevano la regola, la loro prima reazione negativa non fu decisa come quella del clan di Denali. La curiosità li aveva portati ad accettare la "spiegazione" di Renesmee. Punto. E si erano impegnati a fare da testimoni né più né meno della famiglia di Tanya.

Carlisle aveva convocato amici anche dall’Irlanda, i primi ad arrivare, e dall’Egitto.

Il clan irlandese fu incredibilmente facile da convincere. Il loro capo era Siobhan, una donna imponente con un corpo enorme, bello e affascinante nelle sue movenze sinuose, ma lei e Liam, il suo compagno dal volto severo, erano abituati da parecchio a fidarsi del giudizio dell’ultimo acquisto del loro clan. La piccola Maggie, dagli esuberanti riccioli rossi, non possedeva un fisico massiccio come loro, ma aveva il dono di capire quando qualcuno le mentiva, perciò i suoi verdetti non venivano mai messi in discussione. Maggie decretò che Edward aveva detto la verità, quindi Siobhan e Liam accettarono completamente la nostra versione prima ancora di toccare Renesmee.

Amun e gli altri vampiri egizi furono un altro paio di maniche. Persino dopo che due membri del suo clan, Benjamin e Tia, erano stati convinti dalla spiegazione di Renesmee, Amun si rifiutò di toccarla e ordinò ai suoi di levare le tende. Benjamin, un vampiro stranamente cordiale che sembrava poco più che un ragazzo e aveva un’aria sicura e maldestra al tempo stesso, convinse Amun a restare con l’astuzia, minacciandolo di sciogliere il loro sodalizio. Amun rimase, ma continuò a rifiutarsi di toccare Renesmee e non permise neanche a Kebi, la sua compagna, di sfiorarla. Sembrava una combriccola davvero male assortita, anche se gli egizi si assomigliavano a tal punto, con quei capelli corvini dai riflessi blu e il pallore della loro pelle olivastra, da sembrare una vera famiglia. Amun era il membro più anziano e il capo dichiarato. Kebi non si allontanava mai da lui più della lunghezza della sua ombra, e non la udii mai profferire parola. Tia, la compagna di Benjamin, era a sua volta una donna silenziosa, però, quando parlava, faceva sempre discorsi profondissimi e risolutivi. Eppure sembrava che tutti ruotassero intorno a Benjamin, come se possedesse un magnetismo invisibile da cui dipendeva l’equilibrio degli altri. Vidi Eleazar fissare il ragazzo a occhi spalancati e concludere che il potere di Benjamin doveva essere quello di attrarre a sé le altre persone.

«Non esattamente», mi disse Edward quella sera quando restammo soli. «È dotato di un dono così unico che Amun vive nel terrore di perderlo. Un po’ come noi, che avevamo progettato di non far sapere ad Aro dell’esistenza di Renesmee», disse con un sospiro, «Amun ha cercato di nascondere Benjamin ai suoi occhi. Amun ha creato Benjamin sapendo già che sarebbe stato speciale».

«Cosa sa fare?».

«Qualcosa che Eleazar non ha mai visto. Qualcosa di cui non avevo mai sentito parlare. Qualcosa davanti alla quale persino il tuo scudo sarebbe impotente». Sfoderò il suo sorriso sghembo. «È in grado di influenzare gli elementi atmosferici: la terra, l’aria, l’acqua e il fuoco. Si tratta di vera manipolazione in senso fisico, non di illusioni mentali. Benjamin sta ancora collaudando la sua facoltà e Amun cerca di trasformarlo in un’arma. Ma vedrai con i tuoi occhi quanto Benjamin sia indipendente. Non permetterà di farsi usare».

«Ti è simpatico», dedussi dal tono della sua voce.

«Ha un forte senso di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Mi piace il suo modo di vedere».

Il modo di vedere di Amun divergeva di parecchio e lui e Kebi se ne restavano per conto proprio, anche se Benjamin e Tia si avviavano a diventare grandi amici sia del clan di Denali che di quello irlandese. Noi speravamo che il ritorno di Carlisle contribuisse a stemperare le tensioni con Amun.

Emmett e Rose ci avevano mandato persone isolate: tutti gli amici nomadi di Carlisle che erano riusciti a rintracciare.

Fra i primi arrivò Garrett, un vampiro alto, slanciato, con occhi bramosi color rubino e lunghi capelli biondi che teneva raccolti in un laccetto di pelle, e si capì subito che era un avventuriero. Supposi che, solo per il gusto di mettersi alla prova, avrebbe accettato qualsiasi sfida gli avremmo proposto. Cominciò presto a frequentare le sorelle di Denali e a fare domande infinite sul loro insolito stile di vita. Mi chiesi se intendesse adottare il credo vegetariano come sua prossima sfida, tanto per vedere se era in grado di mantenervi fede.

Arrivarono anche Mary e Randall, che erano già amici, anche se non viaggiavano insieme. Ascoltarono la storia di Renesmee e, proprio come gli altri, rimasero a fare da testimoni. Come il clan di Denali, si chiesero in che modo avrebbero reagito se i Volturi non si fossero fermati ad ascoltare le spiegazioni. Tutti e tre i nomadi si trastullavano con l’idea di prendere le nostre parti.

Naturalmente, man mano che arrivavano i vampiri Jacob diventava sempre più scontroso. Si teneva a distanza se poteva ma, quando non ci riusciva, si lamentava con Renesmee che avrebbero dovuto fornirgli un elenco, se credevano che sarebbe riuscito a ricordarsi i nomi di tutti i nuovi succhiasangue.

Carlisle ed Esme rientrarono una settimana dopo la loro partenza, seguiti a distanza di pochi giorni da Emmett e Rosalie, e quando furono a casa ci sentimmo tutti meglio. Carlisle portò con sé un altro amico, anche se forse amico non era la parola giusta. Alistair era un vampiro inglese misantropo, che riteneva Carlisle il suo conoscente più intimo, anche se sopportava a malapena una visita più di una volta ogni cent’anni. Alistair preferiva di gran lunga vagabondare per proprio conto e Carlisle gli aveva promesso ogni sorta di favori pur di trascinarlo fin da noi. Respingeva ogni compagnia ed era chiaro che non aveva alcun ammiratore in questa congrega.

Il cupo vampiro bruno prese in parola Carlisle sulle origini di Renesmee, rifiutandosi, come Amun, di toccarla. Edward disse a Carlisle, a Esme e a me che Alistair aveva paura di trovarsi fra noi, e ancora più paura di non sapere come sarebbe andata a finire. Nutriva profondi sospetti verso qualsiasi autorità, e quindi anche nei confronti dei Volturi. Ciò che stava accadendo sembrava confermare tutti i suoi timori.

«Ovvio, ora sapranno che sono stato qui», lo sentimmo mugugnare fra sé in soffitta, il suo posto preferito per andare a tenere il broncio. «A questo punto non ha nessun senso nasconderlo ad Aro. Per colpa di questa faccenda mi toccherà darmi alla macchia per secoli e secoli. Metteranno sulla lista nera chiunque abbia parlato con Carlisle nell’ultimo decennio. Come diavolo ho fatto a farmi trascinare in questo pasticcio? Bel modo di trattare gli amici!».

Ma se aveva ragione sul fatto di dover scappare dai Volturi, quantomeno aveva più speranze di riuscirci rispetto a noi. Alistair era un segugio, sebbene non preciso ed efficiente quanto Demetri. A lui capitava di sentire soltanto un’attrazione fuggevole verso l’oggetto delle sue ricerche, però sufficiente a dirgli in quale direzione correre: quella opposta rispetto a Demetri.

Poi arrivò un’altra coppia di amiche: inattese, perché né Carlisle né Rosalie erano riusciti a mettersi in contatto con le amazzoni.

«Carlisle», lo salutò la più alta delle due donne altissime e ferine, al loro arrivo. Sembrava che qualcuno avesse stirato le membra a entrambe: avevano braccia e gambe lunghe, dita lunghe, lunghe trecce nere e lunghi visi con lunghi nasi. Indossavano solo abiti in pelle: gilet di cuoio e pantaloni aderenti allacciati sui fianchi con legacci di pelle. Non erano solo i loro vestiti eccentrici a farle sembrare selvagge, ma tutto ciò che le riguardava, dagli occhi cremisi e inquieti ai movimenti subitanei e guizzanti. Non avevo mai conosciuto vampiri meno civilizzati.

Ma era stata Alice a mandarle da noi, notizia a dir poco interessante. Perché Alice si trovava in Sudamerica? Solo perché aveva già visto che nessuno sarebbe riuscito a entrare in contatto con le amazzoni?

«Zafrina e Senna! Ma dov’è Kachiri?», chiese Carlisle. «Non vi ho mai visto separate».

«Alice ci ha detto che dovevamo separarci», rispose Zafrina con una voce profonda e roca che ben s’intonava al suo aspetto selvaggio. «È un fastidio stare lontane, ma Alice ci ha garantito che voi avevate bisogno di noi, mentre lei aveva bisogno che Kachiri andasse da un’altra parte. Non ci ha detto altro, se non che era davvero... urgente?». La frase di Zafrina terminò in tono interrogativo e io, i nervi scossi come accadeva a ogni nuova presentazione sebbene ormai avessi già compiuto quell’azione numerose volte, portai Renesmee a incontrarle.

Nonostante il loro aspetto feroce, ascoltarono con molta calma il nostro racconto, poi permisero a Renesmee di dargliene dimostrazione. Restarono molto colpite dalla piccola, proprio come gli altri vampiri, ma vedendo i loro movimenti rapidi e convulsi vicino a lei non riuscivo a fare a meno di preoccuparmi. Senna stava sempre vicina a Zafrina, senza mai parlare, ma non aveva lo stesso rapporto di Kebi con Amun. Kebi sembrava mantenere un atteggiamento di obbedienza, mentre Senna e Zafrina erano più simili a due arti di uno stesso organismo, di cui solo per caso Zafrina fungeva da portavoce.

Quelle informazioni su Alice furono stranamente confortanti. Era evidente che si trovava impegnata in qualche misteriosa missione tutta sua, che l’avrebbe tenuta lontana da qualsiasi cosa Aro avesse in serbo per lei.

Edward era entusiasta della presenza delle amazzoni, perché Zafrina era dotata di un talento enorme, un dono che poteva costituire un’arma molto pericolosa. Non che Edward intendesse chiederle di prendere le nostre parti nello scontro, ma se i Volturi non si fossero fermati vedendo i nostri testimoni, forse un paesaggio diverso sarebbe riuscito a trattenerli.

«È un’illusione molto semplice», mi spiegò Edward quando fu chiaro che, come al solito, non vedevo niente. Zafrina era affascinata e divertita dalla mia immunità, che non le era mai capitato di incontrare prima, e ronzava inquieta intorno a noi mentre Edward mi descriveva quello che mi stavo perdendo. Lo sguardo gli si fece vacuo per un attimo mentre continuava. «Riesce a mostrare ciò che vuole alla maggior parte delle persone: quello e nient’altro. Per esempio, in questo momento mi sembra di trovarmi da solo nel bel mezzo della foresta pluviale. È una visione così nitida che potrei persino crederci, se non fosse che ti sento ancora fra le mie braccia».

Zafrina storse le labbra nella sua versione grossolana di un sorriso. Un secondo dopo, lo sguardo di Edward tornò saldo e lui ricambiò il sorriso.

«Davvero notevole», disse.

Renesmee era affascinata da quel dialogo e si avvicinò impavida a Zafrina.

«Posso vedere?».

«Cosa vuoi vedere?», chiese Zafrina.

«Quello che hai mostrato a papà».

Zafrina annuì e io fissai ansiosa lo sguardo di Renesmee che si perdeva nel vuoto. Ma, un attimo dopo, il viso le si illuminò del suo sorriso smagliante.

«Ancora», ordinò.

Dopo quell’episodio, fu difficilissimo tenere lontana Renesmee da Zafrina e dalle sue belle foto. Io mi preoccupavo, perché ero abbastanza sicura che Zafrina fosse capace di creare pure immagini tutt’altro che piacevoli. Ma attraverso i pensieri di Renesmee riuscivo a vedere anch’io le visioni di Zafrina nitide come nel ricordo di mia figlia, proprio come se fossero vere, e quindi a valutare se fossero appropriate o meno.

Anche se non me ne separavo volentieri, dovevo ammettere che era un bene che Zafrina tenesse impegnata Renesmee. Avevo bisogno di avere le mani libere. Avevo così tanto da apprendere, sia con il corpo che con la mente, e in così poco tempo.

Il mio primo tentativo di imparare a combattere non andò a buon fine.

Edward m’immobilizzò nel giro di due secondi. Ma invece di lasciare che mi liberassi lottando, cosa che ero perfettamente in grado di fare, si allontanò con un fremito. Capii subito che c’era qualcosa di storto: era immobile come una roccia e fissava dall’altra parte del prato su cui ci stavamo allenando.

«Scusami, Bella», disse.

«No, tutto bene», risposi. «Riproviamoci».

«Non posso».

«Come, non puoi? Abbiamo appena cominciato».

Non rispose.

«Senti, lo so che sono una frana, ma non posso migliorare senza il tuo aiuto».

Continuò a tacere. Gli saltai addosso, scherzando. Lui non oppose resistenza e cademmo entrambi a terra. Restò immobile mentre gli premevo le labbra sulla giugulare.

«Ho vinto», annunciai.

Lui socchiuse gli occhi, ma non disse nulla.

«Edward? Cosa c’è che non va? Perché non mi puoi insegnare?».

Passò un minuto prima che lui riaprisse bocca.

«Non riesco proprio a... sopportarlo. Emmett e Rosalie sono bravi quanto me. E Tanya ed Eleazar probabilmente ancora di più. Chiedilo a qualcun altro».

«Non è giusto! Tu sei bravo. Hai già aiutato Jasper, hai combattuto con lui e anche con tutti gli altri. Perché non con me? Cos’ho fatto di male?».

Sospirò, esasperato. Aveva gli occhi scuri, il nero era schiarito solo da qualche rara pagliuzza dorata.

«Guardarti in quel modo, analizzarti come un bersaglio. Vedere tutti i modi in cui potrei ucciderti...». Fece una smorfia. «Rende tutto troppo reale, ai miei occhi. Non abbiamo poi tanto tempo a disposizione, non fa differenza chi sia il tuo insegnante. Chiunque ti può insegnare i fondamenti».

M’imbronciai.

Mi toccò il labbro increspato e sorrise. «E poi non serve. I Volturi si fermeranno. Riusciremo a fargli capire come stanno le cose».

«E se non si fermano? Devo assolutamente imparare».

«Trovati un altro maestro».

Quella non fu la nostra ultima conversazione sull’argomento, ma non riuscii a spostarlo di un centimetro dalla sua decisione.

Emmett fu più che felice di aiutarmi, anche se i suoi insegnamenti mi sembravano molto simili a una vendetta per tutti gli incontri di braccio di ferro persi. Se avessi potuto ancora avere dei lividi, sarei stata viola dalla testa ai piedi. Rose, Tanya ed Eleazar furono tutti molto pazienti e utili. Le loro lezioni mi ricordavano le istruzioni per la lotta impartite agli altri da Jasper il giugno precedente, sebbene quei ricordi fossero confusi e indistinti. Certi ospiti trovavano la mia istruzione molto divertente e alcuni di loro si offrirono persino di dare una mano. Il nomade Garrett si accollò qualche turno, sorprendendomi con la sua bravura di insegnante: interagiva così facilmente con gli altri in generale che mi chiesi perché non avesse mai trovato un clan. Combattei persino con Zafrina una volta, mentre Renesmee assisteva, in braccio a Jacob. Imparai diversi trucchi, ma non le chiesi mai più di aiutarmi. In realtà, anche se Zafrina mi era molto simpatica e sapevo che non mi avrebbe mai fatto del male, quella donna selvaggia mi spaventava a morte.

Imparai molto dai miei insegnanti, ma avevo la sensazione che le mie conoscenze fossero ancora disperatamente inadeguate. Non sapevo quanti secondi sarei durata contro Alec e Jane. Pregavo solo che fosse per il tempo necessario.

Era così difficile. Non c’era niente a cui aggrapparsi, niente di solido su cui lavorare. Sentivo solo il desiderio prepotente di rendermi utile, di riuscire a tenere al sicuro insieme a me Edward, Renesmee e il maggior numero possibile dei miei familiari. Cercavo di spingere al di fuori di me quel mio scudo nebuloso, con successi limitati e sporadici. Era come se stessi lottando per tendere un elastico invisibile, che in un qualsiasi momento poteva trasformarsi, da concreto e tangibile, in fumo impalpabile.

Soltanto Edward era disposto a prestarsi come cavia e riceveva un trauma dopo l’altro da Kate mentre io mi cimentavo inetta con quello che avevo dentro la testa. Lavoravamo per ore e mi sentivo come se avessi dovuto essere ricoperta di sudore per lo sforzo, ma naturalmente il mio corpo perfetto non mi tradiva in quel senso. La stanchezza era solo mentale.

Mi distruggeva il fatto che fosse Edward a dover soffrire, con le mie braccia che lo avvolgevano inutili mentre pativa continuamente per gli attacchi "a bassa intensità" di Kate. Cercavo con tutte le mie forze di spingere il mio scudo intorno a entrambi: a volte ci riuscivo, poi mi scivolava via di nuovo.

Odiavo esercitarmi e avrei tanto voluto che ad aiutarmi ci fosse Zafrina al posto di Kate. In quel caso Edward avrebbe dovuto solo guardare le illusioni indotte da Zafrina finché io non fossi riuscita a impedirgli di vederle. Ma Kate insisteva sul fatto che avevo bisogno di motivazioni più intense, e si riferiva a quanto detestassi l’idea che Edward soffrisse. Stavo cominciando a dubitare dell’affermazione che aveva fatto quando ci eravamo conosciute: che non usava il suo dono in modo sadico. A me sembrava proprio che si divertisse.

«Ehi», disse allegro Edward, cercando di nascondere ogni traccia di tensione dalla voce. Qualsiasi cosa, pur di evitarmi gli allenamenti di lotta. «Sei riuscita a pararlo quasi del tutto, questo. Brava, Bella».

Feci un respiro profondo e cercai di capire cosa fossi riuscita a fare precisamente. Misi alla prova l’elastico, sforzandomi di costringerlo a rimanere solido mentre lo allontanavo da me.

«Di nuovo, Kate», grugnii a denti stretti.

Kate premette il palmo sulla spalla di Edward.

Lui sospirò di sollievo. «Stavolta non ho sentito niente».

Lei alzò un sopracciglio. «Eppure era abbastanza forte».

«Meglio», dissi piccata.

«Tieniti pronta», mi disse lei e si sporse di nuovo verso Edward.

Stavolta lui ebbe un fremito e dai denti gli uscì un sibilo basso.

«Scusa! Scusa! Scusa!», ripetei mordendomi il labbro. Perché non riuscivo a farlo bene?

«Te la stai cavando alla grande, Bella», disse Edward, stringendomi a sé. «È solo da qualche giorno che ci provi e riesci già a proiettare lo scudo ogni tanto. Kate, dille quanto è brava».

Kate storse le labbra. «Non saprei. È ovvio che ha un talento enorme a cui stiamo cominciando appena ad avvicinarci. Può fare di meglio, ne sono sicura. Le mancano solo un po’ di stimoli».

La fissai incredula e le labbra mi scoprirono i denti in un riflesso automatico. Come si permetteva di pensare che mi mancassero stimoli, con lei che lanciava scosse elettriche a Edward lì sotto i miei occhi?

Sentivo i mormorii del pubblico sempre più numeroso che si era raccolto intorno a noi mentre mi allenavo: all’inizio erano solo Eleazar, Carmen e Tanya, ma poi si era avvicinato Garrett, seguito da Benjamin e Tia, Siobhan e Maggie, e ora persino Alistair sbirciava da una finestra del secondo piano. Gli spettatori erano d’accordo con Edward: pensavano che me la stessi già cavando egregiamente.

«Kate...», disse Edward in tono ammonitore mentre lei escogitava un’altra sequenza di azioni che ormai aveva già messo in moto. Sfrecciò lungo la curva del fiume fino al punto in cui Zafrina, Senna e Renesmee passeggiavano lentamente, quest’ultima mano nella mano con Zafrina, mentre si scambiavano immagini a vicenda. Jacob le teneva d’occhio da pochi metri di distanza.

«Nessie», disse Kate — i nuovi arrivati avevano imparato subito a usare quel soprannome fastidioso -, «ti piacerebbe venire ad aiutare tua madre?».

«No», quasi ringhiai.

Edward mi rassicurò con un abbraccio. Me lo scrollai di dosso appena in tempo, perché Renesmee stava attraversando il giardino con balzi leggeri per venire da me, seguita a ruota da Kate, Zafrina e Senna.

«Non se ne parla, Kate», sibilai.

Renesmee si sporse verso di me e io allargai le braccia in un gesto automatico. Mi si rannicchiò addosso, premendo la testolina nell’incavo sotto la mia spalla.

«Ma, mamma, io voglio davvero aiutarti», disse con tono deciso. Mi cingeva il collo con la mano, sottolineava il suo desiderio con immagini di noi due insieme, come una squadra.

«No», dissi, arretrando rapida. Kate aveva già fatto un passo nella mia direzione, la mano tesa verso di noi.

«Non ti avvicinare, Kate», la misi in guardia.

«No». Cominciò ad avvicinarsi a grandi passi. Sorrideva come un cacciatore che ha intrappolato la sua preda.

Spostai Renesmee in modo che si tenesse aggrappata alla mia schiena, continuando ad arretrare seguendo il ritmo di Kate. Adesso avevo le mani libere e, se lei voleva continuare ad avere due mani attaccate ai polsi, era meglio che girasse al largo.

Probabilmente Kate non capi, perché di suo non aveva mai provato l’affetto profondissimo di una madre per un figlio. Probabilmente non si era accorta di essere andata già ben oltre il consentito. Ero così infuriata che la mia vista assunse una strana sfumatura rossastra e sulla lingua sentivo sapore di metallo bruciato. La potenza che di solito mi sforzavo di frenare scorreva libera nei muscoli ed ero consapevole che avrei potuto annientare Kate e ridurla in pietrisco duro come diamante, se solo mi avesse costretta a farlo.

La rabbia mi aiutò a concentrarmi più intensamente su ogni aspetto del mio essere. Percepivo anche l’elasticità dello scudo con maggior precisione: capii che non era un elastico, ma piuttosto uno strato, una pellicola sottile che mi copriva dalla testa ai piedi. Con la rabbia che mi ribolliva in corpo lo sentivo meglio, ne avevo un controllo più saldo. Me lo stesi attorno, poi lo allungai fino ad avvolgere completamente anche Renesmee, nell’eventualità che Kate fosse riuscita a superare la mia vigilanza.

Kate fece un altro passo avanti ben calcolato e dalla gola mi salì un ringhio feroce che sfilò fra i miei denti serrati.

«Stai attenta, Kate», la mise in guardia Edward.

Kate avanzò ancora, poi sembrò che facesse un errore che anche un’inesperta come me era in grado di riconoscere. Ormai a un passo di distanza, distolse lo sguardo, spostando l’attenzione da me a Edward.

Renesmee era al sicuro sulla mia schiena e io mi raggomitolai, pronta a balzare.

«Senti niente che arriva da Nessie?», gli chiese Kate, con voce calma e rilassata.

Edward sfrecciò nello spazio fra noi, bloccando il mio accesso a Kate.

«No, proprio niente», rispose lui. «Ora allontanati e lascia un po’ d’aria a Bella per calmarsi, Kate. Non devi stuzzicarla così. Lo so che sembra più grande, ma è un vampiro solo da qualche mese».

«Non abbiamo tempo per fare le cose con delicatezza, Edward. Dobbiamo costringerla. Restano solo poche settimane e lei ha tutte le potenzialità per...».

«Arretra un attimo, Kate».

Kate fece una smorfia, ma prese l’avvertimento di Edward molto più sul serio del mio.

Renesmee mi teneva la mano sul collo: stava ricordando l’attacco di Kate, mostrandomi che non aveva intenzione di farmi alcun male e che papà ne era al corrente...

Questo non bastò a placarmi. Continuavo a vedere uno spettro di luce macchiato di rosso cremisi. Ma avevo quasi riacquistato il controllo di me stessa e capivo la saggezza delle parole di Kate. La rabbia mi stava aiutando. Avrei imparato molto più in fretta sotto pressione.

Ciò non significava che mi piacesse.

«Kate», ruggii. Posai una mano sul fianco di Edward. Sentivo ancora il mio scudo come un telo forte e flessibile che avvolgeva me e Renesmee. Lo spinsi oltre, costringendolo intorno a Edward. Il tessuto elastico non mostrava difetti né rischi di cedimento. Ansimavo per lo sforzo e le parole mi uscivano deboli anziché rabbiose. «Rifacciamolo», dissi a Kate. «Però tocca solo Edward».

Lei alzò gli occhi al cielo, ma avanzò rapida e premette il palmo della mano sulla spalla di Edward.

«Non sento niente», disse lui. Nella voce gli udivo la sfumatura di un sorriso.

«E ora?», chiese Kate.

«Ancora niente».

«E ora?». Stavolta nella voce di Kate si avvertiva una forte tensione.

«Ancora niente».

Kate grugnì e si allontanò.

«Vedi questo?», chiese Zafrina con la sua voce profonda e selvaggia, fissandoci intensamente tutti e tre. Parlava inglese con uno strano accento, le parole salivano di tono in punti insoliti.

«Non vedo niente di strano», disse Edward.

«E tu, Renesmee?», chiese Zafrina.

Renesmee le sorrise e scosse il capo.

La mia rabbia si era quasi dissolta e serravo i denti, ansimando più forte mentre spingevo lo scudo verso l’esterno: più a lungo lo reggevo, più mi sembrava pesante. Si ritirò, trascinandosi verso l’interno.

«Niente paura», disse Zafrina avvertendo il gruppetto che mi guardava. «Voglio capire quanto riesce a estenderlo».

Tutti emisero un’esclamazione terrorizzata: Eleazar, Carmen, Tanya, Garrett, Benjamin, Tia, Siobhan, Maggie; tutti tranne Senna, che sembrava preparata all’azione successiva di Zafrina, quale che fosse. Gli altri avevano lo sguardo vacuo e l’espressione ansiosa.

«Alzate la mano quando vi ritorna la vista», li istruì Zafrina. «Ora, Bella, vedi un po’ quante persone riesci a riparare con lo scudo».

Il fiato mi uscì con uno sbuffo. A parte Edward e Renesmee, Kate era la persona più vicina, però si trovava ad almeno tre metri di distanza. Serrai la mascella e spinsi, cercando di estendere quella difesa resistente ed elastica. Centimetro per centimetro la spinsi verso Kate, lottando contro la reazione che scattava a ogni minimo avanzamento. Mentre ero all’opera cercai di guardare solo l’espressione ansiosa di Kate ed emisi un lieve suono di sollievo quando batté le palpebre e mise a fuoco lo sguardo. Alzò la mano.

«Affascinante!», sussurrò Edward. «Come uno specchio unidirezionale. Posso leggere tutto quello che pensano, ma qui dietro sono irraggiungibile. E sento Renesmee, mentre da fuori non ci riuscivo. Immagino che Kate potrebbe mandarmi una scarica elettrica adesso, perché anche lei è sotto l’ombrello. Però continuo a non sentire te... mmm. Come funziona? Chissà se...».

Continuò a borbottare fra sé, ma non ce la facevo a prestare attenzione alle parole. Digrignai i denti cercando di estendere lo scudo fino a Garrett, che era il più vicino a Kate. Lui alzò la mano.

«Ottimo», si congratulò Zafrina. «Ora...».

Aveva parlato troppo presto: un secco rantolo e sentii il mio scudo schizzare all’indietro come un elastico troppo tirato, che torna di scatto alla sua forma originale. Renesmee, che sperimentò per la prima volta la cecità che Zafrina aveva scagliato sugli altri, tremava sulla mia schiena. Lottai stancamente contro la forza elastica, spingendo lo scudo in modo che tornasse ad avvolgerla.

«Mi date un minuto di pausa?», chiesi ansante. Da quando ero diventata una vampira, non mi era mai capitato che avessi bisogno di riposare. Era snervante sentirsi al tempo stesso così svuotata e così forte.

«Certo», disse Zafrina e gli spettatori si rilassarono appena restituì loro la vista.

«Kate», gridò Garrett mentre gli altri si allontanavano un poco mormorando, infastiditi da quel momento di cecità: i vampiri non erano abituati a sentirsi vulnerabili. Garrett, alto e con i capelli biondo rossicci, era l’unico immortale privo di doni che sembrava attratto dalle mie sedute di allenamento. Mi chiedevo cosa potesse affascinare quell’avventuriero.

«Fossi in te non lo farei, Garrett», lo ammonì Edward.

Garrett proseguì in direzione di Kate nonostante l’avvertimento, con le labbra corrucciate dai pensieri. «Dicono che sei in grado di stendere un vampiro».

«Sì», confermò lei. Poi, con un sorrisino astuto, gli fece un cenno scherzoso con le dita. «Sei curioso?».

Garrett alzò le spalle. «È una cosa che non ho mai visto. Mi sembra un po’ un’esagerazione...».

«Forse», rispose Kate, facendosi improvvisamente seria. «Forse funziona solo con i deboli o i giovani. Non sono sicura. Però tu mi sembri forte. Forse riusciresti a resistere al mio potere». Stese la mano aperta verso di lui a palmo in su: un chiaro invito. Ebbe un fremito delle labbra, e fui abbastanza sicura che la sua gestualità solenne fosse un tentativo di fregarlo.

Garrett rispose alla sfida con un sorriso. Molto fiducioso, le toccò il palmo con l’indice.

Poi, con un rantolo sonoro, le ginocchia gli cedettero e stramazzò all’indietro. Con la testa colpì un pezzo di granito e si sentì un crepitio secco. Era uno spettacolo sconvolgente. I miei istinti inorridivano all’idea di vedere un immortale ridotto in quel modo: era una cosa profondamente incoerente.

«Te l’avevo detto», borbottò Edward fra i denti.

A Garrett tremarono le palpebre per qualche secondo, poi spalancò gli occhi. Alzò lo sguardo verso Kate, che sogghignava compiaciuta, e un sorriso di stupore gli illuminò il volto.

«Perbacco!», esclamò.

«Ti è piaciuto?», chiese lei scettica.

«No, non sono mica pazzo», rispose ridendo, e scosse il capo mentre si rialzava piano fino a mettersi in ginocchio. «Ma di sicuro era qualcosa di speciale!».

«Così si dice in giro».

Edward alzò gli occhi al cielo.

Poi dal giardino anteriore arrivò del trambusto. Sentii Carlisle parlare sopra un brusio di voci sorprese.

«Vi ha mandati Alice?», chiese lui a qualcuno, con voce malferma, vagamente turbato.

Un altro ospite inatteso?

Edward si precipitò in casa e la maggior parte degli altri lo imitò. Io lo seguii più lentamente, con Renesmee ancora appollaiata sulla schiena. Dovevo lasciare a Carlisle il tempo di accogliere il nuovo ospite e preparare anche lui, lei o loro all’idea di ciò che li attendeva.

Presi Renesmee fra le braccia mentre giravo cauta intorno alla casa per entrare dalla porta della cucina, ascoltando ciò che non potevo vedere.

«Non ci ha mandati nessuno», rispose in un sussurro una voce profonda. Mi ricordai subito delle voci antiche di Aro e di Caius e mi bloccai nel bel mezzo della cucina.

Sapevo che il soggiorno era affollato: quasi tutti erano rientrati per vedere i nuovi ospiti, eppure non si sentiva alcun rumore. Solo respiri leggeri, nient’altro.

Carlisle rispose con voce guardinga: «Allora cosa vi porta qui proprio adesso?».

«La gente mormora», rispose una voce diversa, impalpabile quanto la prima. «Abbiamo sentito dire che i Volturi stavano per attaccarvi. Girano voci segretissime sul fatto che non siete soli. Ovviamente le voci sono vere. Avete radunato una brigata notevole».

«Non stiamo sfidando i Volturi», rispose Carlisle con voce tesa. «C’è stato un equivoco, tutto qui. Un equivoco molto grave, certo, ma speriamo di riuscire a chiarirlo. Quelli che vedete sono testimoni. Vogliamo solo che i Volturi ci ascoltino. Non abbiamo...».

«Non ci importa di cosa vi accusano», lo interruppe la prima voce. «Non ci importa se avete infranto la legge».

«E quanto sia madornale la vostra infrazione», s’intromise il secondo.

«Da millecinquecento anni aspettiamo che qualcuno sfidi quella feccia di italiani», disse il primo. «Se c’è la minima possibilità che vengano sconfitti, staremo qui ad assistere».

«Oppure, persino ad aiutarvi a stroncarli», aggiunse il secondo. Parlavano l’uno dopo l’altro in tono sommesso e le voci si assomigliavano talmente tanto che qualcuno con un udito meno sensibile li avrebbe scambiati per un’unica persona. «Se riteniamo che abbiate qualche possibilità di riuscita».

«Bella?», mi chiamò Edward con voce brusca. «Porta qui Renesmee, per favore. Forse dovremo mettere alla prova le affermazioni dei nostri visitatori rumeni».

Mi rincuorava sapere che probabilmente metà dei vampiri nell’altra stanza si sarebbe precipitata a difendere Renesmee se i rumeni avessero avuto una reazione violenta. Non mi piacevano il suono della loro voce e il tono di oscura minaccia delle loro parole. Mentre entravo nella stanza, vidi che non ero l’unica a pensarla così. La maggior parte dei vampiri immobili li fissava con occhi ostili e alcune, cioè Carmen, Tanya, Zafrina e Senna, senza averne l’aria, si erano piazzate in atteggiamento difensivo fra i nuovi arrivati e Renesmee.

I vampiri sulla soglia erano smilzi e bassi al tempo stesso; uno aveva i capelli scuri e l’altro, invece, talmente biondi da sembrare grigio chiaro. La pelle aveva lo stesso aspetto polveroso di quella dei Volturi, anche se, secondo me, un po’ meno pronunciato. Non ne ero sicura: dato che avevo visto i Volturi solo con occhi umani, non ero in grado di fare un paragone. Gli occhi penetranti erano di un bordeaux scuro, senza pellicola lattiginosa. Indossavano vestiti neri molto semplici che potevano passare per moderni, ma riprendevano motivi antichi.

Quello scuro di capelli sorrise quando mi vide. «Bene, bene, Carlisle. Hai fatto proprio il briccone, vero?».

«Lei non è affatto quello che credi, Stefan».

«In ogni caso non ce ne importa niente», rispose il biondo. «Proprio come abbiamo detto prima».

«Quindi restate pure a osservare, Vladimir, ma sta’ sicuro che non abbiamo in programma di sfidare i Volturi, come abbiamo detto prima».

«Allora ce ne staremo qui con le dita incrociate», iniziò la frase Stefan.

«E speriamo di avere fortuna», finì Vladimir.


Alla fine avevamo radunato diciassette testimoni: gli irlandesi Siobhan, Liam e Maggie; gli egizi Amun, Kebi, Benjamin e Tia; le amazzoni Zafrina e Senna; i rumeni Vladimir e Stefan; e i nomadi Charlotte e Peter, Garrett, Alistair, Mary e Randall, oltre agli undici membri della nostra famiglia. Tanya, Kate, Eleazar e Carmen insistevano perché le considerassimo tali.

A parte i Volturi, si trattava probabilmente della più grande adunata amichevole di vampiri adulti nella storia degli immortali.

Stavamo cominciando a nutrire un po’ di speranza. Contagiava persino me. Renesmee aveva attirato dalla propria parte così tanta gente in un tempo così breve. Sarebbe bastato che i Volturi la ascoltassero anche solo per un millisecondo...

Gli ultimi due rumeni superstiti, tutti concentrati sull’acre risentimento per coloro che avevano rovesciato il loro impero millecinquecento anni prima, se la presero con molta calma. Non toccavano Renesmee, ma non le dimostravano alcuna avversione. Sembravano misteriosamente deliziati della nostra alleanza con i licantropi. Mi guardavano esercitare il mio scudo con Zafrina e Kate, osservavano Edward rispondere a domande silenziose, vedevano Benjamin scatenare geyser nel fiume e folate di vento dall’aria immobile con la sola forza del pensiero, e a entrambi brillavano gli occhi per la violenta speranza che i Volturi avessero finalmente trovato pane per i loro denti.

Non speravamo tutti le stesse cose, ma speravamo tutti.

33 Il falsario

«Charlie, tutte le informazioni sulla compagnia sono ancora top secret, per motivi di riservatezza. So che è passata più di una settimana da quando hai visto Renesmee, ma in questo momento non è una buona idea venirla a trovare. Che ne dici se porto lei da te?».

Charlie tacque talmente a lungo da farmi temere che avesse percepito la tensione che si nascondeva dietro l’apparenza.

Ma poi borbottò: «Top secret, puah!», e io capii che era solo la sua diffidenza nei riguardi del soprannaturale a rallentarne le reazioni.

«Va bene, piccola», disse Charlie. «La puoi portare stamattina? Sue mi prepara il pranzo. La mia cucina le fa orrore, proprio come a te quando eri appena arrivata».

Charlie rise, poi sospirò ricordando i vecchi tempi.

«Stamattina è perfetto». Prima era, meglio era. Rimandavo già da troppo tempo.

«Jake viene con voi?».

Anche se Charlie non sapeva niente dell’imprinting dei licantropi, era difficile ignorare l’affetto esistente fra Jacob e Renesmee.

«Probabile». Jacob non si sarebbe perso di sua volontà un pomeriggio con Renesmee senza succhiasangue intorno.

«Forse allora dovrei invitare anche Billy», ponderò Charlie. «Ma... mmm. Un’altra volta, magari».

Prestavo solo un orecchio a quanto diceva Charlie: abbastanza da notare la strana esitazione nella sua voce quando nominò Billy, ma non sufficiente perché me ne preoccupassi. Charlie e Billy erano adulti: se avevano dei problemi fra loro, li potevano benissimo risolvere da soli. Io ero già assillata da molte altre incombenze ben più importanti.

«A fra poco», gli dissi e riagganciai.

Il fatto che fossi io a muovermi non serviva soltanto a proteggere mio padre dai ventisette vampiri male assortiti, che avevano tutti giurato di non uccidere nessuno nel raggio di cinquecento chilometri, anche se... non si poteva mai sapere. Ovvio, era meglio che nessun essere umano si avvicinasse al gruppo. Era quella la scusa che avevo fornito a Edward: portavo Renesmee da Charlie in modo che lui non si risolvesse a venire da noi. Era un buon motivo per allontanarmi da casa, ma non era affatto quello vero.

«Perché non possiamo prendere la tua Ferrari?», si lamentò Jacob quando ci trovammo in garage. Ero già salita sulla Volvo di Edward con Renesmee.

Finalmente Edward si era deciso a svelarmi quale sarebbe stata la mia automobile per il "dopo": come aveva sospettato, non ero stata capace di dimostrare l’entusiasmo che meritava. Certo, era bella e veloce, ma a me piaceva correre con le mie gambe.

«Dà troppo nell’occhio», risposi. «Potremmo andare a piedi, però Charlie uscirebbe di testa».

Jacob brontolò ma si sedette davanti. Renesmee si spostò dalle mie ginocchia alle sue.

«Come stai?», gli chiesi mentre uscivo dal garage.

«Come credi che stia?», chiese Jacob sarcastico. «Sono stufo di tutti quei succhiasangue puzzolenti». Vide la mia espressione e parlò prima ancora che potessi rispondergli. «Sì, lo so, lo so. Loro sono i buoni, sono venuti in nostro soccorso, ci salveranno eccetera eccetera. Però, di’ pure quello che vuoi, ma io continuo a pensare che Dracula Uno e Dracula Due facciano proprio senso».

Sorrisi mio malgrado. Neanch’io andavo matta per i due ospiti rumeni. «Non posso darti torto».

Renesmee scosse la testa ma non disse nulla: al contrario di noi, trovava che i due rumeni avessero uno strano fascino. Si era sforzata di parlare con loro ad alta voce, dato che non le permettevano di toccarli. Aveva fatto una domanda sulla loro pelle insolita e, anche se avevo temuto che si potessero offendere, ero stata quasi felice che gliel’avesse chiesto. Ne ero curiosa anch’io.

Non erano sembrati particolarmente turbati dal suo interesse. Tutt’al più, un po’ addolorati.

«Siamo rimasti seduti immobili per molto tempo, piccolina», le aveva risposto Vladimir, mentre Stefan annuiva senza proseguire le frasi dell’amico come faceva spesso. «A contemplare la nostra divinità. Il fatto che tutto arrivasse fino a noi era un segno del nostro potere. Le prede, i diplomatici, quelli che cercavano di conquistarsi i nostri favori. Stavamo seduti sui nostri troni e ci credevamo dèi. Per molto tempo non ci siamo accorti che stavamo cambiando, ci stavamo quasi pietrificando. Tutto sommato i Volturi ci hanno fatto un grosso favore quando hanno bruciato i nostri castelli. Almeno io e Stefan non abbiamo continuato a pietrificarci. Ora i Volturi hanno gli occhi rivestiti di porcherie polverose, mentre i nostri non ne hanno traccia. Immagino che questo rappresenterà un vantaggio quando glieli caveremo dalle orbite».

Da quel momento cercai di tenerli alla larga da Renesmee.

«Quanto possiamo restare da Charlie?», chiese Jacob, interrompendo il flusso dei miei pensieri. Era evidente che si stava rilassando mano a mano che ci allontanavamo dalla casa e da tutti i suoi nuovi inquilini. Mi rendeva felice capire che per lui non ero davvero una vampira. Continuavo a essere Bella e basta.

«Per un bel po’, a dire la verità».

Il tono della mia voce attirò la sua attenzione.

«Devi combinare qualcos’altro oltre alla visita a tuo padre?».

«Jake, hai presente quanto sei bravo a controllare i pensieri in presenza di Edward?».

Alzò un folto sopracciglio scuro: «Ah sì?».

Annuii, spostando lo sguardo verso Renesmee. Guardava fuori del finestrino e non capivo se le interessasse la nostra conversazione, ma decisi di non arrischiarmi a proseguire.

Jacob aspettò che aggiungessi qualcos’altro, e poi sporse il labbro inferiore mentre rifletteva sul poco che gli avevo detto.

Mentre guidavo in silenzio, strizzavo gli occhi per le fastidiose lenti a contatto, per vedere meglio nella pioggia gelida, anche se non faceva ancora abbastanza freddo perché nevicasse. I miei occhi non erano più mostruosi come all’inizio: erano sicuramente più simili a un arancio rossastro sbiadito che a un cremisi vivace. Presto avrebbero assunto un colore ambrato sufficiente per smettere le lenti a contatto. Speravo che il cambiamento non turbasse troppo Charlie.

Quando arrivammo, Jacob ruminava ancora sulla nostra conversazione interrotta. Procedemmo in silenzio, a velocità da umani, sotto la pioggia.

Mio padre ci aspettava: aveva aperto la porta ancor prima che potessi bussare.

«Ciao, ragazzi! È una vita che non ci vediamo! Ehi, guarda, Nessie! Vieni dal nonno! Mi sa che sei cresciuta più di dieci centimetri. E sei magra, Ness». Mi lanciò un’occhiataccia. «Non ti danno da mangiare lì dentro?».

«È solo la crescita», borbottai. «Ciao, Sue», gridai rivolta verso la cucina, da cui usciva odore di pollo, pomodori, aglio e formaggio; probabilmente per tutti gli altri aveva un profumo ottimo. Percepivo anche tracce di pino fresco e di polvere di imballaggi.

Renesmee fece un sorrisone e apparvero le sue fossette. Non parlava mai davanti a Charlie.

«Cosa ci fate là fuori al freddo, ragazzi? Entrate! Dov’è mio genero?».

«È a casa a ricevere i suoi amici», disse Jacob, poi sbuffò. «Sei troppo fortunato a essere fuori dal giro, Charlie. E non dico altro».

Diedi un pugno a Jacob, piano, sulle reni, mentre Charlie fremeva di disgusto.

«Ahi!», si lamentò Jacob sottovoce; be’, se non altro ero convinta di averglielo dato piano, il pugno.

«A dire la verità, Charlie, devo fare alcune commissioni».

Jacob mi scoccò un’occhiataccia, ma non disse nulla.

«Sei indietro con i regali di Natale, Bells? Mancano solo pochi giorni, lo sai».

«Eh già, i regali di Natale», dissi poco convinta. Ecco perché c’era odore di polvere: Charlie doveva aver tirato fuori le vecchie decorazioni.

«Non preoccuparti, Nessie», le sussurrò in un orecchio. «Ci penso io a te, se non ci riesce tua madre».

Lo guardai alzando gli occhi al cielo, ma a dire il vero non avevo pensato per nulla alle festività imminenti.

«È pronto in tavola», chiamò Sue dalla cucina. «Su, venite».

«A dopo, papà», dissi, con una rapida occhiata in direzione di Jacob. Se per caso non fosse riuscito a fare a meno di pensarci quando era vicino a Edward, perlomeno non avrebbe avuto molte informazioni da condividere: non aveva la minima idea di dove mi stessi dirigendo.

Ovviamente, riflettei mentre salivo in macchina, non è che io ne sapessi più di lui.

Le strade erano viscide e buie, ma ormai guidare non mi faceva più paura. I miei riflessi si occupavano piuttosto bene di quel compito e prestavo sì e no attenzione alla strada. Il problema era evitare che la mia velocità attirasse l’attenzione quando c’era gente. Volevo portare a termine la missione, risolvere il mistero in modo da potermi di nuovo dedicare al compito cruciale di apprendere. Apprendere a proteggerne alcuni e a ucciderne altri.

Stavo perfezionando sempre di più lo scudo. Kate non sentiva più il bisogno di motivarmi: non mi era difficile trovare motivi per arrabbiarmi, ora che conoscevo il trucco, perciò mi esercitavo soprattutto con Zafrina. Era contenta della mia estensione: riuscivo a coprire una zona di quasi tre metri per più di un minuto, anche se farlo mi sfiancava. Quella mattina aveva cercato di scoprire se riuscivo a separare lo scudo dalla mia mente. Non capivo l’utilità di quella prova, ma Zafrina pensava che mi avrebbe resa più forte, un po’ come allenare anche i muscoli della pancia e della schiena invece delle sole braccia. Alla fine si è capaci di sollevare pesi maggiori quando tutti i muscoli sono più forti.

Non ero bravissima. Avevo visto solo di sfuggita il fiume amazzonico che stava cercando di mostrarmi.

Ma c’erano altri modi di prepararsi a ciò che sarebbe accaduto e con due sole settimane davanti mi preoccupai di aver trascurato il più importante. Quel giorno, però, avrei corretto la svista.

Avevo memorizzato le mappe giuste e non ebbi alcuna difficoltà a localizzare l’indirizzo che in rete non esisteva, quello di J. Jenks. Il passo successivo sarebbe stato cercare Jason Jenks all’altro indirizzo, quello che non mi aveva dato Alice.

Dire che non era un bel quartiere sarebbe stato un eufemismo. L’automobile più anonima fra tutte quelle possedute dai Cullen dava comunque nell’occhio in quella via. Ci sarebbe stato bene il mio vecchio Chevy. Fossi stata ancora umana, avrei chiuso le sicure e sarei fuggita sgommando il più veloce possibile. Adesso, invece, ne ero un po’ affascinata. Cercai di immaginarmi Alice in quel posto, per un qualche motivo, ma non ci riuscii.

I palazzi — tutti di tre piani, tutti stretti, tutti leggermente inclinati come se la pioggia battente li avesse piegati — erano soprattutto vecchie case divise in appartamenti multipli. Difficile stabilire di quale colore fosse in origine la vernice scrostata. Tutto si era sbiadito in sfumature di grigio. Alcuni edifici erano occupati da negozi al piano terra: un bar lercio con le vetrine dipinte di nero, un negozio di forniture per sensitivi con mani fosforescenti e carte dei tarocchi che brillavano intermittenti sulla porta, un tatuatore e un asilo con la vetrina tenuta insieme dal nastro isolante. Nei locali non c’erano lampadine, anche se fuori il tempo era brutto a sufficienza da far sì che gli umani avessero bisogno di luce. Sentivo borbottare piano qualche voce distante: sembrava un televisore.

In giro c’era un po’ di gente, due persone che arrancavano sotto la pioggia in direzioni opposte e un’altra seduta sulla bassa veranda di uno studio legale da due soldi, tutto sbarrato con assi: leggeva un giornale bagnato e fischiettava. Quel suono era troppo allegro per l’ambiente.

Ero talmente sconcertata dal tizio che fischiava spensierato, da non accorgermi sulle prime che l’edificio abbandonato era il punto preciso in cui avrebbe dovuto trovarsi l’indirizzo che stavo cercando. Sul palazzo in rovina non c’erano numeri civici, ma il tatuatore lì di fianco era a soli due numeri di differenza.

Mi accostai al marciapiede e rimasi lì col motore al minimo per un po’. Sarei entrata in quel buco in un modo o nell’altro, ma come ci potevo riuscire senza farmi notare dal tipo che fischiettava? Magari parcheggiando nella strada parallela ed entrando dal retro... Ma forse da quel lato avrei trovato ancora più testimoni. Forse dai tetti? Era abbastanza buio per fare una cosa del genere?

«Ehi, signora», mi chiamò il tizio che fischiettava.

Abbassai il finestrino dal lato del passeggero, come se non l’avessi sentito.

Il tizio mise da parte il giornale e restai sorpresa, ora che vedevo i suoi abiti. Sotto lo spolverino lungo e stracciato, era vestito un po’ troppo bene. Non c’era vento che mi portasse l’odore ma, a giudicare dalla lucentezza, la camicia rosso scuro sembrava di seta. I capelli neri e ricci erano arruffati e in disordine, ma la pelle scura era liscia e perfetta, e i denti bianchi e dritti. Una contraddizione.

«Mi sa che non è il massimo lasciare lì la macchina, signora», disse. «Potrebbe non ritrovarla quando torna».

«Grazie dell’informazione», risposi.

Spensi il motore e scesi dall’auto. Forse il mio amico che fischiettava poteva darmi le risposte di cui avevo bisogno in modo molto più pratico che non scassinando quella casa. Aprii il mio grande ombrello grigio, anche se non m’importava più di tanto di proteggere il vestito di cachemire. Feci quello che avrebbe fatto un essere umano.

Il tipo socchiuse gli occhi per vedermi in faccia dietro la pioggia, poi li sgranò. Deglutì, e sentii il battito del suo cuore accelerare mentre mi avvicinavo.

«Sto cercando una persona», cominciai.

«Io sono una persona», disse sorridendo. «Cosa posso fare per te, bellezza?».

«Per caso sei J. Jenks?», chiesi.

«Oh», disse e la sua espressione passò dall’attesa alla comprensione. Si alzò in piedi e mi studiò con gli occhi socchiusi. «Perché cerchi J.?».

«Questi sono affari miei». E poi non ne avevo la minima idea. «Ma sei tu J.?».

«No».

Restammo così a lungo, mentre lui percorreva con lo sguardo vivace l’abito aderente color grigio perla che indossavo. Finalmente arrivò con gli occhi all’altezza del mio viso. «Non sembri una dei suoi soliti clienti».

«Sì, probabilmente sono insolita», confessai, «ma devo davvero vederlo al più presto».

«Non so cosa posso fare», ammise lui a sua volta.

«Perché non mi dici come ti chiami?».

Sorrise, sarcastico. «Max».

«Piacere, Max. E adesso perché non mi spieghi cosa intendi con quel soliti?».

Il sorriso si trasformò in una smorfia. «Be’, i clienti soliti di J. non ti assomigliano per niente. La gente come te non viene nell’ufficio qui in centro. Normalmente andate dritti nel suo ufficio di lusso nel grattacielo».

Ripetei l’altro indirizzo che avevo, recitando l’elenco di numeri in tono interrogativo.

«Sì, è lì», rispose, di nuovo sospettoso. «Perché non ci sei andata direttamente?».

«Mi hanno dato questo indirizzo. Era una fonte molto affidabile».

«Se tu non stessi combinando qualche guaio, non saresti qui».

Increspai le labbra. Non ero mai stata troppo brava a bluffare, ma Alice non mi aveva lasciato molte alternative. «Forse sto combinando qualche guaio».

Max fece un’espressione contrita. «Senti, signora...».

«Bella».

«Va bene, Bella. Senti, questo lavoro mi serve. J. mi paga piuttosto bene per starmene qua a fare poco o niente tutto il giorno. Voglio aiutarti, davvero, però... E naturalmente parlo da un punto di vista del tutto ipotetico, giusto? O in via ufficiosa, o come preferisci, ma se lo metto in contatto con qualcuno che può farlo finire nei pasticci, io ho chiuso. Capisci il mio problema, vero?».

Ci riflettei per un attimo, mordendomi il labbro. «Mai visto qualcuno che mi somiglia, da queste parti? Be’, che m’assomiglia solo un pochino. Mia sorella è molto più bassa di me, e ha i capelli neri arruffati».

«J. conosce tua sorella?».

«Credo di sì».

Max rimuginò su quell’informazione per un attimo. Gli sorrisi e rimase senza fiato. «Senti un po’ cosa ho pensato di fare: adesso chiamo J. e gli faccio la tua descrizione. E poi decide lui».

Ma cosa sapeva J. Jenks? La mia descrizione gli avrebbe fatto venire in mente qualcosa? Era un pensiero inquietante.

«Di cognome faccio Cullen», dissi a Max, e mi chiesi se per caso non gli stessi dando troppe informazioni. Cominciavo ad arrabbiarmi con Alice. Dovevo proprio andare così alla cieca? Avrebbe potuto dirmi qualcosa in più...

«Cullen, ho capito».

Lo osservai mentre componeva il numero, che riuscii a leggere facilmente. Almeno, se non funzionava così, potevo telefonare direttamente io a J. Jenks.

«Ehi J., sono Max. So che devo chiamarti a questo numero solo in caso di emergenza...».

C’è un’emergenza?, sentii pronunciare debolmente all’altro capo della cornetta.

«Be’, non proprio. C’è una ragazza che vuole vederti...».

Non capisco che emergenza c’è. Perché non hai seguito la procedura normale?

«Non l’ho seguita perché lei non mi sembra affatto normale...».

Non sarà mica uno sbirro?!

«No...».

Non si sa mai. Sembra uno degli uomini di Kubarev...?

«No... fammi parlare, va bene? Dice che conosci sua sorella, o qualcosa del genere».

Improbabile. Lei com’è?

«È...». Mi squadrò dalla testa ai piedi con uno sguardo elogiativo. «Be’, sembra una top model, che cavolo, ecco com’è». Sorrisi e lui mi fece l’occhiolino, poi proseguì. «Corpo da urlo, pallida come un lenzuolo, capelli castano scuro lunghi fino alla vita, ha l’aria di aver bisogno di una bella dormita... ti ricorda qualcuno?».

Niente affatto. Non mi fa piacere che, a causa del tuo debole per le belle donne, tu abbia interrotto...

«Sì, va bene, mi piacciono le ragazze carine, e allora? Che male c’è? Mi spiace di averti disturbato, bello. Lasciamo perdere».

«Il nome», bisbigliai.

«Ah, giusto. Aspetta», disse Max. «Dice che si chiama Bella Cullen. Ti ricorda qualcosa?».

Per un attimo calò un silenzio tombale, poi la voce all’altro capo della cornetta di botto si mise a gridare, usando una serie di vocaboli degni di un’area di servizio per camionisti. Max cambiò completamente espressione: l’aria scherzosa sparì del tutto e le labbra impallidirono.

«Non te l’ho detto perché non me l’hai chiesto!», gli rispose Max urlando, in preda al panico.

Ci fu un’altra pausa, durante la quale J. si ricompose.

Carina e pallida?, chiese J., ora un po’ più calmo.

«Te l’avevo detto, no?».

Carina e pallida? Che ne sapeva quell’uomo dei vampiri? Era uno dei nostri? Non ero pronta a un confronto di quel tipo. In quale guaio mi aveva cacciata Alice?

Max aspettò un minuto mentre subiva un’altra scarica di insulti e istruzioni gridati a gran voce, poi mi guardò con un’espressione quasi spaventata. «Ma il giovedì incontri solo i clienti del centro... Va bene, va bene! Mi ci metto subito». Chiuse il cellulare.

«Vuole vedermi?», chiesi allegra.

Max mi guardò in cagnesco. «Potevi dirmi che eri una cliente con la precedenza».

«Non sapevo di esserlo».

«Credevo fossi uno sbirro», mi confessò. «Cioè, non è che lo sembri. Ma ti comporti in modo strano, seducente».

Feci spallucce.

«Sei del cartello dei narcos?», tirò a indovinare.

«Chi, io?», chiesi.

«Sì. O il tuo ragazzo, o chi ti pare».

«No, mi dispiace. La droga non esalta me e nemmeno mio marito. Se la conosci la eviti, eccetera eccetera, hai presente?».

Max imprecò sottovoce. «Sposata. Mi sa che non ho proprio nessuna chance».

Sorrisi.

«Sei della mafia?».

«Nooo!».

«Traffico di diamanti?».

«Smettila! È questa la gente con cui hai a che fare di solito, Max? Forse è il caso che ti trovi un altro lavoro».

Dovevo ammettere che un po’ mi stavo divertendo. Non avevo ancora interagito con molti umani, a parte Charlie e Sue. Era divertente vederlo in difficoltà. Ero anche soddisfatta di quanto mi riuscisse facile non ucciderlo.

«Devi essere dentro a qualcosa di grosso. E di pericoloso», disse fra sé.

«Non proprio».

«Dicono tutti così. Ma a chi servono i documenti, se no? Chi può permettersi di pagare i prezzi a cui li vende J.? Forse questa è la domanda giusta, ma comunque non sono affari miei», disse, poi borbottò di nuovo: «Sposata».

Mi diede un ulteriore indirizzo, del tutto nuovo, con indicazioni sommarie, poi, con uno sguardo sospettoso e amareggiato, mi osservò mentre mi allontanavo.

A quel punto ero pronta ad aspettarmi qualsiasi cosa: già immaginavo un covo ad alta tecnologia come quello dei cattivi di James Bond. E quindi pensai che Max doveva avermi dato l’indirizzo sbagliato per mettermi alla prova. O forse il covo era sotterraneo, sotto un banalissimo centro commerciale, annidato sul fianco della collina boscosa in un bel quartiere residenziale.

Parcheggiai nella prima piazzola libera e alzai lo sguardo verso un cartello molto elegante con la scritta «JASON SCOTT, PROCURATORE LEGALE».

All’interno l’ufficio era beige con tonalità verde sedano, inoffensivo e irrilevante. Non si sentiva odore di vampiro e questo mi aiutò a rilassarmi. Solo aromi di umani sconosciuti. Nel muro era installato un acquario e dietro alla scrivania sedeva una segretaria bionda, bella quanto insipida.

«Salve», mi salutò. «Cosa posso fare per lei?».

«Devo vedere il signor Scott».

«Ha un appuntamento?».

«Non proprio».

Sfoderò un sorrisetto affettato. «Allora potrebbe volerci un bel po’. Perché non si siede, intanto che...».

April!, strillò perentoria una voce maschile dal telefono sulla sua scrivania. Fra poco deve arrivare una certa signora Cullen.

Sorrisi e indicai la mia persona.

La faccia entrare subito da me. Ha capito? Non importa se m’interrompe.

Nella sua voce sentivo altre sfumature oltre all’impazienza. Stress. Nervosismo.

«È proprio qui», disse April, appena lui la lasciò parlare.

Come? La faccia entrare! Cosa sta aspettando?

«Subito, signor Scott!». Si alzò in piedi, agitando le mani mentre mi faceva strada lungo un breve corridoio e mi offriva caffè, tè o qualsiasi altra cosa desiderassi.

«Prego», disse, e mi fece entrare in un ufficio da dirigente, con tanto di scrivania in legno massiccio e diplomi alle pareti.

«Si chiuda la porta alle spalle», ordinò la stridula voce tenorile.

Studiai l’uomo dietro la scrivania, mentre April si ritirava in fretta. Era basso e stempiato, sui cinquantacinque anni e panciuto. Portava una cravatta di seta rossa con una camicia a righe bianche e azzurre, e il blazer blu era appeso allo schienale della poltrona. E poi tremava, era così pallido da aver assunto un malsano colorito giallastro, con la fronte imperlata di sudore: m’immaginai la sua ulcera che ribolliva sotto il salvagente di lardo.

J. si ricompose e si alzò malfermo dalla sedia. Mi porse la mano sopra la scrivania.

«Signora Cullen. È davvero un piacere».

Gli andai incontro e gli strinsi la mano rapidamente, una volta sola. Rabbrividì leggermente al contatto della mia pelle fredda, ma non parve particolarmente sorpreso.

«Signor Jenks. O preferisce che la chiami Scott?».

Fece un’altra smorfia. «Come desidera, naturalmente».

«Che ne dice se lei mi chiama Bella e io la chiamo J.?».

«Come vecchi amici», accettò lui, tamponandosi la fronte con un fazzoletto di seta. Mi fece cenno di sedermi e fece altrettanto. «Devo proprio chiederglielo: sto facendo conoscenza, finalmente, con l’adorabile moglie del signor Jasper?».

Soppesai l’informazione per un secondo. E così quell’uomo conosceva Jasper, non Alice. Lo conosceva, e aveva anche l’aria di temerlo. «Con la cognata, a dire il vero».

Increspò le labbra, come se cercasse disperatamente un senso a tutta la faccenda, proprio come lo cercavo io.

«Il signor Jasper sta bene, immagino?», chiese, cauto.

«Gode di ottima salute. Al momento si è preso una lunga vacanza».

L’affermazione sembrò chiarire un po’ la confusione di J., che annuì fra sé e giunse le mani. «Per l’appunto. Avrebbe dovuto venire nel mio ufficio principale. Le segretarie l’avrebbero condotta direttamente da me, facendole evitare canali meno ospitali».

Annuii e basta. Chissà perché Alice mi aveva dato quell’indirizzo nel ghetto.

«Be’, comunque, ora è qui. Cosa posso fare per lei?».

«Documenti», dissi, cercando di avere la voce di una che sapeva il fatto suo.

«Ma certo», accettò subito J. «Parliamo di certificati di nascita, di morte, patenti, passaporti, tessere sanitarie...?».

Inspirai profondamente e sorrisi. Avevo un grosso debito con Max.

Poi il sorriso svanì. Alice mi aveva mandata qui per un motivo ed ero sicura che fosse per proteggere Renesmee. L’ultimo dono che mi faceva. L’unica cosa di cui era certa che avrei avuto bisogno.

La sola eventualità per cui Renesmee poteva avere bisogno di un falsario era quella di una fuga. E l’unica eventualità che l’avrebbe costretta alla fuga era la nostra sconfitta.

Se insieme a lei fossimo fuggiti anche io ed Edward, i documenti non le sarebbero occorsi subito. Ero certa che Edward sapesse come procurarsi una carta di identità, o che addirittura fosse capace di fabbricarla, ed ero certa che conoscesse qualche modo per fuggire anche senza. Potevamo scappare con lei per migliaia di chilometri. Potevamo attraversare l’oceano a nuoto con lei.

A patto di essere nei paraggi per salvarla.

E la segretezza serviva a tenere la cosa al di fuori della memoria di Edward, perché c’erano buone possibilità che Aro venisse a conoscenza di ciò che lui sapeva. Se avessimo perso, prima di distruggere Edward, avrebbe sicuramente ottenuto le informazioni che tanto bramava.

Proprio come avevo sospettato. Non avremmo mai potuto vincere. Ma dovevamo tentare con ogni mezzo di uccidere Demetri prima di perdere, lasciando a Renesmee la possibilità di fuggire.

Mi sentivo il cuore immobile e pesante come una pietra nel petto: un peso che mi annientava. Tutte le mie speranze erano svanite come nebbia al sole. Gli occhi mi bruciavano.

A chi avrei potuto accollare una situazione del genere? A Charlie? Troppo umano e indifeso. E come avrei fatto a portargli Renesmee? Non si sarebbe certo trovato nelle vicinanze dello scontro. Restava solo una persona. In realtà era sempre stata l’unica.

Avevo fatto quelle riflessioni così in fretta che J. non si era accorto della mia pausa.

«Due certificati di nascita, due passaporti, una patente», dissi con voce bassa e nervosa.

Se si era accorto che avevo cambiato espressione, non lo diede a vedere.

«A nome di chi?».

«Jacob... Wolfe. E... Vanessa Wolfe». Nessie sembrava un soprannome accettabile per una che si chiamava Vanessa. E Jacob si sarebbe divertito un sacco con la storia di Wolfe.

Scrisse rapido su un bloc notes giallo. «E i secondi nomi?».

«Si inventi lei qualcosa di generico».

«Come preferisce. Le età?».

«L’uomo ha ventisette anni, la bambina cinque». Jacob poteva benissimo passare per un venticinquenne: era un bestione. E, a giudicare dalla velocità con cui cresceva Renesmee, era meglio fare una stima per eccesso. Avrebbero potuto scambiare Jacob per il suo patrigno...

«Se preferisce dei documenti completi, mi servono le foto», disse J., interrompendo le mie riflessioni. «Di solito il signor Jasper li finiva personalmente».

Ecco perché J. non sapeva che faccia avesse Alice.

«Aspetti un attimo», dissi.

Era un colpo di fortuna. Nel portafoglio tenevo varie foto di famiglia, e quella perfetta — Jacob che abbracciava Renesmee sotto il portico davanti a casa — aveva solo un mese. Alice me l’aveva data appena qualche giorno prima... O forse, dopotutto, non era questione di fortuna. Alice sapeva che avevo quella foto. Forse aveva anche ricevuto qualche vaga premonizione del fatto che ne avrei avuto bisogno, prima di darmela.

«Ecco».

J. studiò la foto per un attimo. «Sua figlia le somiglia molto».

M’irrigidii. «Somiglia di più a suo padre».

«Che non è quest’uomo». Toccò il viso di Jacob.

Strinsi gli occhi e sulla fronte di J. spuntarono nuove perle di sudore.

«No. È un carissimo amico di famiglia».

«Scusi», borbottò e ricominciò a scrivere. «Quando le servono i documenti?».

«Ce la fa in una settimana?».

«È un ordine urgente. Costerà il doppio... anzi no, scusi. Mi sono dimenticato che stavo parlando con lei».

Conosceva Jasper, ovviamente.

«Mi dica la cifra».

Sembrava avere qualche esitazione a pronunciarla a voce alta e tuttavia ero sicura che, avendo già avuto a che fare con Jasper, sapesse che il prezzo non era un problema. Senza neanche considerare i conti strapieni di soldi intestati in vario modo ai Cullen in tutto il mondo, in casa c’era abbastanza denaro da mantenere a galla una piccola nazione per dieci anni: era un po’ come Charlie, che in fondo a ogni cassetto teneva centinaia di ami da pesca. Secondo me, nessuno si sarebbe accorto delle mazzette che avevo prelevato quel giorno per sbrigare la commissione.

J. scrisse il prezzo in fondo al bloc notes.

Annuii, calmissima. Avevo portato con me ben più di quanto servisse. Aprii di nuovo la borsetta e contai il denaro; lo avevo diviso in mazzette da cinquemila dollari con alcuni fermagli, quindi ci impiegai poco.

«Ecco».

«Ah, Bella, non occorre che mi dia subito tutta la somma. Di solito il cliente ne conserva la metà per garantirsi la consegna».

Sorrisi languidamente a quell’uomo nervoso. «Ma io mi fido di lei, J. E poi, le darò un bonus: la stessa cifra appena ricevo i documenti».

«Le assicuro che non è necessario».

«Non si preoccupi». Non potevo tenere tutti quei soldi con me. «Ci vediamo qui la settimana prossima alla stessa ora?».

Mi guardò con aria sofferente. «A dire il vero, preferisco svolgere certe transazioni in luoghi che non abbiano a che fare con il mio impiego abituale».

«Capisco. So già che non mi sto comportando come lei si aspettava».

«Sono abituato a non avere aspettative quando si tratta della famiglia Cullen». Fece una smorfia e si ricompose rapidamente. «Vediamoci alle otto fra una settimana al Pacifico, va bene? Si trova sul lago Union e si mangia divinamente».

«Perfetto». Ma non avrei certo cenato con lui. Non credo avrebbe gradito molto se l’avessi fatto.

Mi alzai e gli strinsi di nuovo la mano. Stavolta non batté ciglio. Ma sembrava avere una nuova preoccupazione in testa. Aveva la bocca serrata e la schiena tesa.

«Avrà grossi problemi a rispettare la scadenza?», gli chiesi.

«Come?». Alzò lo sguardo, preso alla sprovvista dalla mia domanda. «La scadenza? Oh, no. Non si preoccupi. Le farò avere i documenti in tempo, di sicuro».

Sarebbe stato bello che ci fosse Edward, per conoscere le vere preoccupazioni di J. Sospirai. Era già abbastanza brutto dover tenere segreto qualcosa a Edward, ma stargli lontana era quasi insopportabile.

«Ci vediamo fra una settimana, allora».

34 Dichiarazioni

Mi accorsi della musica prima di uscire dall’auto. Edward non toccava il pianoforte dalla sera della partenza di Alice. Mentre chiudevo la portiera, sentii la canzone passare a un inciso e trasformarsi nella mia ninna nanna. Edward mi stava dando il bentornato.

Lentamente presi Renesmee, che dormiva come un sasso dopo che eravamo stati via tutto il giorno, per portarla fuori dell’auto. Avevamo lasciato Jacob da Charlie: diceva che si sarebbe fatto dare un passaggio da Sue. Mi chiedevo se stesse cercando di riempirsi la testa di pettegolezzi sufficienti a scacciare l’immagine dell’espressione che avevo sul viso entrando in casa di Charlie.

Mentre avanzavo piano verso casa Cullen, capii che la speranza e l’incoraggiamento morale che formavano un’aura quasi tangibile intorno alla grande villa bianca quella mattina erano appartenute anche a me, eppure adesso me ne sentivo estraniata.

Mi venne di nuovo voglia di piangere ascoltando Edward che suonava per me. Ma cercai di tirarmi su. Non volevo insospettirlo. Non volevo lasciare alcuna traccia per Aro nella sua mente, se possibile.

Quando entrai Edward si girò e sorrise, senza smettere di suonare.

«Bentornata a casa», disse, come se si trattasse di una giornata qualsiasi e nella stanza non si trovasse un’altra decina di vampiri impegnati in varie attività, oltre a un’altra decina sparpagliata in giro. «Ti sei divertita oggi con Charlie?».

«Si. Scusa se sono stata via così tanto. Sono uscita a comprare un po’ di regali di Natale per Renesmee. So che non festeggeremo in grande stile, però...». Mi strinsi nelle spalle.

Edward curvò le labbra verso il basso. Smise di suonare e si girò sullo sgabello, in modo che si trovasse con tutto il corpo di fronte a me. Mi posò una mano sulla vita e mi attirò a sé. «Non ci avevo pensato granché. Se vuoi proprio festeggiarlo in grande stile...».

«No», lo interruppi. Trasalii dentro di me all’idea di dover fingere più entusiasmo dello stretto necessario. «Semplicemente, non volevo lasciarlo passare senza farle un regalino».

«Posso vedere?».

«Se vuoi. È una sciocchezza».

Renesmee era profondamente addormentata e sentivo il suo respiro lieve sul mio collo. La invidiavo. Sarebbe stato bello sfuggire alla realtà, anche solo per poche ore.

Pescai attentamente il sacchettino di velluto del gioielliere dalla mia pochette, solo socchiudendola, perché Edward non vedesse i soldi che mi erano rimasti.

«L’ho visto nella vetrina di un antiquario passandoci davanti in macchina».

Gli scrollai il piccolo medaglione d’oro nel palmo della mano. Era rotondo, con incisa una bordura sottile di piante rampicanti.

Edward apri quel meccanismo minuscolo e vi guardò dentro. C’era lo spazio per una piccola foto e, dalla parte opposta, un’iscrizione in francese.

«Sai cosa vuol dire?», mi chiese con un tono diverso, più pacato di prima.

«Il negoziante mi ha detto che significa qualcosa del tipo: "più della mia stessa vita". È così?».

«Sì, è vero».

Alzò verso di me uno sguardo indagatore con gli occhi color topazio. Lo incrociai per un attimo, poi finsi di lasciarmi distrarre dalla televisione.

«Spero che le piaccia», mormorai.

«Certo che le piacerà», disse leggero, con naturalezza, e in quel secondo fui sicura che sapesse che gli stavo nascondendo qualcosa. Ero sicura anche che non avesse la minima idea di che cosa si trattasse.

«Portiamola a casa», suggerì, alzandosi e circondandomi le spalle con un braccio.

Esitai.

«Che c’è?», chiese.

«Volevo allenarmi un po’ con Emmett...». Avevo perso tutta la giornata per quella commissione importantissima e mi sentivo in arretrato.

Emmett, che era sul divano con Rose e come sempre teneva il telecomando, alzò lo sguardo e sorrise pregustando quel momento. «Fantastico. Il bosco ha bisogno di una spuntatina».

Edward lanciò un’occhiataccia prima a Emmett, poi a me.

«Avete tutto il tempo di farlo domani», disse.

«Non essere ridicolo», mi lamentai. «Lo sai benissimo che non esiste più il concetto di "tutto il tempo". Non esiste più. Ho molte cose da imparare e...».

M’interruppe. «Domani».

Aveva un’espressione tale che nemmeno Emmett osò discutere.


Mi sorpresi di quanto fosse difficile tornare a una routine che, dopotutto, era nuova di zecca. Ma la perdita dell’ultimo briciolo di speranza che avevo nutrito faceva sembrare tutto impossibile.

Cercai di concentrarmi sugli aspetti positivi. C’erano buone probabilità che mia figlia sopravvivesse a ciò che stava per succedere, e anche Jacob. La certezza che loro due avessero un futuro era già una specie di vittoria, no? Il nostro gruppetto doveva tenere duro, se volevamo dare a Jacob e Renesmee la possibilità di fuggire. Sì, la strategia di Alice aveva senso solo se avessimo tenuto molto impegnato il nemico nello scontro. Anche quella sarebbe stata una piccola vittoria, se si pensava al fatto che da millenni i Volturi non venivano sfidati sul serio.

Non era la fine del mondo, ma solo dei Cullen. La fine di Edward, la mia fine.

Preferivo che fosse così, almeno per quanto riguardava l’ultima parte. Non avrei mai voluto vivere senza Edward: se lui abbandonava questo mondo, l’avrei seguito a ruota.

Ogni tanto mi chiedevo con scarsa convinzione se avremmo trovato qualcosa dall’altra parte. Sapevo che Edward non ci credeva più di tanto, ma Carlisle sì. Io non riuscivo a immaginarlo. D’altro canto, non riuscivo a immaginare che Edward non esistesse da qualche parte, in un modo o nell’altro. Ovunque fosse, se fossimo riusciti a restare insieme, sarebbe stato comunque un lieto fine.

E così continuava la sequenza delle mie giornate, con quel pensiero che le rendeva più difficili di prima.

Il giorno di Natale io, Edward, Renesmee e Jacob andammo a trovare Charlie. C’era tutto il branco di Jacob, oltre a Sam, Emily e Sue. Rincuorava vederli tutti radunati nella stanza, con quei loro corpaccioni tiepidi incuneati negli angoli intorno all’albero di Natale dalle scarse decorazioni — si vedevano i punti precisi in cui Charlie si era annoiato e aveva lasciato perdere — e più alti del mobilio. Si poteva sempre contare sull’esaltazione dei licantropi per una battaglia imminente, anche se era un’impresa suicida. L’elettricità della loro eccitazione trasmetteva una corrente piacevole, che mascherava il mio pessimo umore. Come sempre, Edward era un attore migliore di me.

Renesmee portava il medaglione che le avevo dato all’alba e nella tasca del giubbotto aveva il lettore MP3 che le aveva regalato Edward: un oggettino minuscolo che poteva contenere cinquemila canzoni, già riempito con le preferite di Edward. Al polso sfoggiava un bracciale intrecciato della tribù Quileute, l’equivalente di un anello di fidanzamento. Edward aveva stretto i denti vedendolo, ma la cosa non mi turbava.

Presto, prestissimo l’avrei affidata a Jacob perché la tenesse al sicuro. Come poteva infastidirmi il simbolo dell’impegno su cui facevo tanto affidamento?

Edward aveva salvato la situazione ordinando un regalo anche per Charlie. Era comparso il giorno prima — spedizione prioritaria notturna — e Charlie aveva passato tutta la mattina a leggere il voluminoso manuale di istruzioni per il suo nuovo sistema di pesca con il sonar.

Il pranzo imbandito da Sue doveva essere buono, a giudicare da come i licantropi lo spazzolarono. Mi chiesi come sarebbe sembrato quel nostro raduno agli occhi di un estraneo. Recitavamo abbastanza bene la nostra parte? Uno sconosciuto ci avrebbe creduti un gruppo di amici spensierati, che si godevano la festività in allegria?

Credo che Edward e Jacob fossero sollevati quanto me al momento di andarsene. Sembrava strano sprecare energie per mantenere la nostra apparenza umana quando c’erano altre incombenze molto più importanti di cui occuparsi. Facevo molta fatica a concentrarmi. Ma, al tempo stesso, forse quella era l’ultima volta che avrei visto Charlie. Poteva essere un bene che fossi talmente stordita da non rendermene davvero conto.

Era dal mio matrimonio che non vedevo mia madre, ma pian piano scoprii che dovevo apprezzare la distanza che gradualmente si era creata nei due anni precedenti. Lei era troppo fragile per il mio mondo. Non volevo che ne facesse parte per forza. Charlie era più forte.

Forse ora era persino abbastanza forte per un addio, ma non lo ero io.

In macchina regnava il silenzio; fuori la pioggia era ridotta a una nebbiolina semighiacciata. Renesmee stava in braccio a me e giocava con il medaglione, aprendolo e richiudendolo. La guardavo e immaginavo cosa avrei detto a Jacob in quel momento, se non avessi temuto che le mie parole rimanessero presenti nella memoria di Edward.

Se la situazione ritorna sicura, portala da Charlie. E a lui racconta tutta la storia, un giorno. Digli quanto bene gli volevo, digli che non ho sopportato l’idea di lasciarlo nemmeno dopo che la mia vita da umana era finita. Digli che è stato il padre migliore del mondo. Digli di far sapere a Renée quanto le volessi bene, e che le mando tutti i miei auguri di felicità e fortuna...

Avrei dovuto dare i documenti a Jacob prima che fosse troppo tardi. E gli avrei lasciato anche un biglietto per Charlie. E una lettera per Renesmee. Qualcosa che potesse leggere quando mi sarebbe stato impossibile ripeterle che l’amavo.

Mentre sbucavamo nel prato non notai niente di strano all’esterno di casa Cullen, ma percepii un vago brusio all’interno. Molte voci basse che mormoravano e ringhiavano. Era un suono forte e sembrava un litigio. Distinsi la voce di Carlisle e quella di Amun più frequenti delle altre.

Edward parcheggiò davanti alla casa, invece di fare il giro fino al garage. Ci scambiammo uno sguardo circospetto prima di scendere dall’auto.

Jacob cambiò atteggiamento: sul viso gli si dipinse un’espressione seria e attenta. Evidentemente era entrato nella modalità alfa. Di sicuro era successo qualcosa e intendeva procurarsi le informazioni di cui lui e Sam avevano bisogno.

«Alistair è sparito», mormorò Edward mentre ci precipitavamo su per i gradini.

Dentro il salone, i segni del dissidio in corso erano evidenti. Addossata alle pareti stava una folla di spettatori: tutti i vampiri che si erano uniti a noi, tranne Alistair e i tre coinvolti nel litigio. Esme, Kebi e Tia si mantenevano vicine ai tre vampiri al centro della stanza: Amun sibilava rivolto a Carlisle e Benjamin.

Edward serrò le mascelle e si precipitò a fianco di Esme, trascinandomi per mano. Strinsi forte Renesmee al petto.

«Amun, se vuoi andartene nessuno ti costringe a restare», disse calmo Carlisle.

«Mi stai rubando metà del mio clan, Carlisle!», gridò Amun, tormentando Benjamin con un dito. «Mi avete chiamato qui per questo? Per derubarmi?».

Carlisle sospirò e Benjamin alzò gli occhi al cielo.

«Sì, Carlisle ha litigato con i Volturi e ha messo in pericolo tutta la sua famiglia solo per attirarmi fin qui e uccidermi», disse sarcastico Benjamin. «Cerca di essere ragionevole, Amun. Mi sto solo impegnando a fare la cosa giusta, non sto entrando in un altro clan. Ma tu puoi fare quel che vuoi, naturalmente, come ti ha appena detto Carlisle».

«Non andrà a finire bene», ruggì Amun. «Alistair era l’unico che avesse un minimo di buonsenso qui. Dovremmo fuggire tutti quanti».

«Guarda un po’ a chi attribuisci del buonsenso», commentò Tia mormorando fra sé.

«Ci massacreranno tutti!».

«Non ci sarà nessuno scontro», disse Carlisle con voce ferma.

«Questo lo dici tu!».

«Ma, anche in quel caso, puoi sempre cambiare parte, Amun. Sono sicuro che i Volturi gradiranno moltissimo il tuo aiuto».

«Forse è questa la risposta giusta», lo schernì Amun.

La risposta di Carlisle fu dolce e sincera. «Non te ne farei una colpa, Amun. Siamo amici da tanto tempo, ma non ti chiederei mai di morire per me».

Ora anche Amun aveva una voce più controllata. «Però porti il mio Benjamin a morire con te».

Carlisle posò la mano sulla spalla ad Amun, che la scrollò via.

«Resterò, Carlisle, ma la cosa potrebbe volgersi a tuo sfavore. Se si tratterà di sopravvivere, non esiterò a unirmi a loro. Siete pazzi a credere di poter sfidare i Volturi». Si accigliò, poi sospirò, fissò me e Renesmee e aggiunse, in tono esasperato: «Testimonierò che la bambina è cresciuta. È la pura verità. Chiunque può confermarlo».

«Non abbiamo mai chiesto altro».

Amun storse la bocca: «Però rischiate di ottenere anche altro». Si girò verso Benjamin. «Io ti ho dato la vita e tu la stai sprecando».

Il viso di Benjamin era più freddo che mai, un’espressione in forte contrasto con i suoi tratti di adolescente. «Peccato che tu non sia riuscito a sostituire la mia volontà con la tua nel farlo: forse in quel caso saresti stato contento di me», rispose.

Amun socchiuse gli occhi. Fece un gesto brusco a Kebi, poi ci superò a grandi passi e usci dalla porta principale.

«Non se ne va», mi disse piano Edward, «però ora terrà ancor più le distanze. Non stava bluffando quando ha parlato di passare dalla parte dei Volturi».

«Perché Alistair se n’è andato?», domandai in un sussurro.

«Nessuno lo sa con certezza: non ha lasciato messaggi. A giudicare da quello che borbottava di solito, è chiaro che secondo lui lo scontro è inevitabile. Nonostante il suo comportamento, in realtà tiene troppo a Carlisle per schierarsi con i Volturi. Immagino abbia deciso che il pericolo è troppo grande», disse Edward stringendosi nelle spalle.

Anche se la nostra conversazione, chiaramente, si teneva solo fra noi due, era ovvio che tutti la potevano sentire. Eleazar rispose all’osservazione di Edward come fosse destinata a tutti i presenti.

«Dal suono dei suoi mugugni, c’era qualcosa di più. Non abbiamo parlato molto delle intenzioni dei Volturi, ma Alistair temeva che, per quanto possiate dimostrare in modo decisivo la vostra innocenza, non vi ascolteranno. È convinto che cercheranno una scusa per realizzare qui i loro progetti».

I vampiri si scambiarono occhiate inquiete. L’idea che i Volturi manipolassero la loro legge sacrosanta per motivi di opportunismo non era molto amata. Solo i rumeni restavano composti, con i loro sorrisini ironici. Sembravano divertiti del fatto che gli altri insistessero nel pensare tutto il meglio possibile dei loro vecchi nemici.

Cominciarono molte discussioni a bassa voce contemporaneamente, ma io mi concentrai soltanto su quella dei rumeni. Forse perché il biondo Vladimir continuava a lanciare occhiate nella mia direzione.

«Spero tantissimo che Alistair abbia ragione», mormorò Stefan a Vladimir. «Comunque vada a finire, si spargerà la voce. È ora che il nostro mondo veda i Volturi per ciò che sono diventati. Non cadranno mai se tutti credono a quell’assurdità secondo cui proteggono il nostro stile di vita».

«Almeno, quando comandavamo noi, siamo stati onesti su quello che eravamo», rispose Vladimir.

Stefan annuì. «Non ci siamo mai dati una patina di correttezza e non ci siamo mai definiti dei santi».

«Credo sia giunta l’ora di combattere», disse Vladimir. «Non pensi che non troveremo mai una forza migliore con cui allearci? Un’altra occasione così buona?».

«Niente è impossibile. Forse un giorno...».

«Sono ben millecinquecento anni che aspettiamo, Stefan. E in tutto questo tempo loro non hanno fatto altro che rafforzarsi». Vladimir fece una pausa e mi guardò di nuovo. Non mostrò alcuna sorpresa nel vedere che anch’io lo stavo osservando. «Se i Volturi vincono questa contesa, ne usciranno ancora più potenti di prima. Ogni conquista aumenta la loro forza. Pensa a cosa potrebbero semplicemente ricavare da quella neonata», fece un cenno verso di me con il mento, «e sta scoprendo i suoi talenti solo adesso. E poi c’è quello che sposta la terra». Vladimir fece un cenno in direzione di Benjamin, che s’irrigidì. Ormai quasi tutti, come me, stavano origliando i discorsi dei rumeni. «Con i loro gemelli stregati, non hanno nessun bisogno dell’illusionista o del tocco infuocato». Il suo sguardo sfrecciò da Zafrina a Kate.

Stefan guardò Edward. «E non gli serve nemmeno quello che legge nel pensiero. Ma ho capito cosa vuoi dire. In effetti, se vincono guadagneranno davvero molto».

«Più di quanto possiamo concedere loro, non trovi?».

Stefan sospirò. «Temo di dover concordare con te. E ciò significa che...».

«Che dobbiamo schierarci contro di loro finché c’è ancora speranza».

«Se potessimo anche solo neutralizzarli, o smascherarli...».

«Così, un giorno, saranno altri a completare l’opera».

«E l’affronto che abbiamo subito per tutti questi secoli finalmente sarà vendicato».

Si guardarono negli occhi per un attimo e poi mormorarono all’unisono: «Sembra l’unico modo».

«Quindi ci batteremo», disse Stefan.

Malgrado si leggessero in loro il dubbio e il conflitto interiore fra istinto di conservazione e brama di vendetta, il sorriso che si scambiarono fu pieno di attesa.

«Ci batteremo», concordò Vladimir.

Immagino che fosse un bene: come Alistair, ero sicura che fosse impossibile evitare lo scontro. In quel caso, altri due vampiri che si battessero al nostro fianco ci sarebbero stati solo d’aiuto. Tuttavia la decisione dei rumeni mi dava i brividi.

«Ci batteremo anche noi», disse Tia, con la voce grave ancora più solenne del solito. «Secondo noi, i Volturi eccederanno nell’uso della loro autorità. Non abbiamo alcuna intenzione di appartenergli». E con gli occhi indugiò sul suo compagno.

Benjamin sorrise e lanciò uno sguardo ammiccante ai rumeni. «A quanto pare sono una merce molto ricercata. Sembra proprio che mi debba guadagnare il diritto di essere libero».

«Non sarà certo la prima volta che combatto per difendermi dal dominio di un re», disse Garrett in tono canzonatorio. Si avvicinò e diede una pacca sulla schiena a Benjamin. «Evviva la libertà dagli oppressori».

«Noi stiamo con Carlisle», disse Tanya. «E ci battiamo insieme a lui».

La dichiarazione dei rumeni, a quanto pareva, aveva creato negli altri il bisogno di schierarsi a loro volta.

«Noi non abbiamo ancora deciso», disse Peter. Abbassò lo sguardo verso la sua minuscola compagna: Charlotte aveva un’espressione insoddisfatta sulle labbra.

A quanto pareva, una decisione l’aveva già presa. Chissà quale.

«Vale anche per me», disse Randall.

«E per me», aggiunse Mary.

«I nostri branchi si batteranno insieme ai Cullen», disse repentino Jacob. «Non abbiamo paura dei vampiri», aggiunse con un sorrisino.

«Bambini», borbottò Peter.

«Infanti», lo corresse Randall.

Jacob sorrise sarcastico.

«Anch’io ci sto», disse Maggie, scrollandosi di dosso la mano di Siobhan che la tratteneva. «So che la verità è dalla parte di Carlisle. E non posso ignorarlo».

Siobhan fissò il membro più giovane del suo clan con sguardo preoccupato. «Carlisle», disse come se fossero da soli, negando che l’atmosfera di quella riunione fosse stata resa improvvisamente formale dalla serie di dichiarazioni inattese, «non voglio che si arrivi a uno scontro».

«Neanch’io, Siobhan. Sai che è l’ultima cosa che vorrei». Abbozzò un sorriso. «Forse dovresti concentrarti sul mantenimento della pace».

«Sai che non servirà a niente», disse.

Mi ricordai la discussione fra Rose e Carlisle sul capo dei vampiri irlandesi: Carlisle era convinto che Siobhan avesse il dono nascosto, ma potente, di far andare le cose come desiderava, eppure la stessa Siobhan non ci credeva.

«Male non farà», disse Carlisle.

Siobhan alzò gli occhi al cielo. «Devo immaginare il risultato che desidero?», chiese sarcastica.

Ora Carlisle rideva apertamente. «Se non ti dispiace».

«Allora, visto che non ci sarà alcuno scontro, non c’è nessun bisogno che il mio clan si schieri apertamente, no?», ribatté. Appoggiò di nuovo la mano sulla spalla di Maggie, attirandola più vicino a sé. Liam, il compagno di Siobhan, restò in silenzio, impassibile.

Quasi tutti nella sala sembravano spiazzati dallo scambio di battute chiaramente giocoso fra Carlisle e Siobhan, ma i due non si persero in spiegazioni.

E fu così che si conclusero i discorsi impegnativi per quella sera. Il gruppo si sparpagliò gradualmente, alcuni uscendo a caccia, altri per ammazzare il tempo con i libri di Carlisle, la televisione o i computer.

Io, Edward e Renesmee andammo a caccia. Jacob si aggregò.

«Stupide sanguisughe», borbottò fra sé quando uscimmo. «Si credono tanto superiori», sbuffò.

«Ci rimarranno di sasso quando gli infanti salveranno le loro esistenze di esseri superiori, no?», disse Edward.

Jake sorrise e gli diede un pugno sulla spalla. «Ci puoi scommettere!».

Quella non sarebbe stata la nostra ultima battuta di caccia. Ne avremmo fatta un’altra a ridosso del momento in cui ci aspettavamo l’arrivo dei Volturi. Poiché la data dell’ultimatum non era precisa, avevamo in programma di trattenerci per qualche notte all’aperto nella radura grande come un campo da baseball che Alice aveva visto, per precauzione. Sapevamo solo che sarebbero arrivati il giorno in cui la neve avrebbe attecchito al suolo. Non volevamo che i Volturi si avvicinassero troppo alla città e Demetri li avrebbe condotti dovunque ci trovassimo.

Mi chiesi chi avrebbe scelto come obiettivo della propria ricerca e ipotizzai che si trattasse di Edward, dato che non poteva rintracciare me.

Mentre cacciavo, riflettei su Demetri, prestando scarsa attenzione alla mia preda o ai fiocchi di neve vaganti che alla fine erano apparsi, ma che si scioglievano ancor prima di toccare il suolo roccioso. Demetri si sarebbe accorto che non era in grado di individuarmi? Che conclusioni ne avrebbe tratto? E Aro? E se Edward si sbagliava? Magari c’era qualche piccola eccezione a quanto ero in grado di reggere, piccoli modi di aggirare il mio scudo. Tutto ciò che si trovava al di fuori della mia mente era vulnerabile, preda potenziale dei poteri di Jasper, Alice o Benjamin. Forse anche il talento di Demetri funzionava in modo un po’ diverso dagli altri.

Poi pensai a una cosa che mi fece bloccare di colpo. L’alce che avevo quasi dissanguato mi sfuggì di mano e cadde sul suolo roccioso. I fiocchi di neve si scioglievano a pochi centimetri dal suo corpo tiepido con minuscoli sfrigolii. Mi fissai le mani insanguinate, con sguardo vacuo.

Edward notò la mia reazione e si affrettò a raggiungermi, senza finire di dissanguare la sua preda.

«Cosa c’è?», chiese sottovoce, passando in rassegna il bosco intorno a noi in cerca di quella che poteva essere la causa del mio scatto.

«Renesmee», dissi con voce soffocata.

«È appena al di là di quegli alberi», mi rassicurò. «Sento i suoi pensieri e quelli di Jacob. Sta benone».

«Non intendevo questo», dissi. «Pensavo al mio scudo: tu credi che valga veramente qualcosa, che ci possa aiutare in qualche modo? So che gli altri sperano che io riesca a riparare sotto lo scudo Zafrina e Benjamin, anche se ce la faccio a mantenerlo attivo solo per qualche secondo alla volta. E se invece ci sbagliassimo? Se la tua fiducia in me fosse la causa della nostra sconfitta?».

La mia voce rasentava l’isteria, anche se avevo mantenuto il controllo sufficiente a parlare piano. Non volevo turbare Renesmee.

«Bella, cosa ti ha scatenato questi pensieri? Naturalmente è meraviglioso che tu possa proteggere te stessa, ma non sei responsabile della salvezza di nessuno. Non ti angosciare inutilmente».

«E se non riuscissi a proteggere nulla?», sussurrai singhiozzando. «Questa cosa che faccio è approssimativa, è incostante! È priva di logica. Forse sarà del tutto inutile contro Alec».

«Sssh», mi zittì. «Non farti prendere dal panico. E non preoccuparti di Alec. Quello che fa non ha niente di diverso da quello che sanno fare Jane o Zafrina. È pura illusione: non riesce a entrare nella tua testa più di quanto ne sia capace io».

«Ma Renesmee ci riesce!», sibilai fra i denti, sconvolta. «Sembrava una cosa talmente naturale che non me lo ero mai chiesto prima. È sempre stata una parte di lei e basta. Ma lei m’infila i suoi pensieri nel cervello proprio come fa con tutti gli altri. Il mio scudo ha delle falle, Edward!».

Lo fissai disperata, aspettando che comprendesse la gravità della mia rivelazione. Aveva le labbra increspate, come se stesse studiando il modo di dire qualcosa. L’espressione era perfettamente rilassata.

«Ci stavi già pensando da un pezzo, vero?», chiesi perentoria, mentre mi sentivo una sciocca per tutti i mesi in cui avevo sottovalutato ciò che era ovvio.

Annuì e all’angolo della bocca gli spuntò un sorriso vago. «Dalla prima volta che ti ha toccata».

Sospirai pensando alla mia stupidità, ma la sua calma mi aveva un po’ acquietata. «E la cosa non ti turba? Non la vedi come un problema?».

«Ho due teorie, una più probabile dell’altra».

«Dimmi prima la meno probabile».

«Be’, è tua figlia», mi fece notare. «Dal punto di vista genetico, per metà è come te. Ti ho sempre presa in giro per il fatto che la tua mente viaggia su una frequenza diversa dalla nostra. Forse è la stessa che usa lei».

Per me quella tesi non funzionava. «Ma anche tu senti benissimo la sua mente. La sentono tutti. E se per caso anche Alec viaggia su una frequenza diversa? Cosa succederebbe se...?».

Mi chiuse le labbra con un dito. «Ci ho pensato. Per questo penso sia più probabile la seconda teoria».

Strinsi i denti e aspettai.

«Ti ricordi cosa mi ha detto di lei Carlisle, subito dopo che Renesmee ti ha mostrato quel primo ricordo?».

Certo che me lo ricordavo. «Ha detto: "È un interessante capovolgimento. Sembra che faccia esattamente l’opposto di ciò che sai fare tu"».

«Sì. E quindi mi sono chiesto se, per caso, non abbia preso anche il tuo talento e l’abbia ribaltato».

Riflettei un attimo.

«Tu sai bloccare tutti all’esterno», m’imbeccò lui.

«Mentre nessuno è in grado di impedire a lei di entrare?», completai la frase, esitante.

«Questa è la mia teoria», disse. «E se lei sa entrare nella tua mente, dubito che al mondo esista uno scudo in grado di tenerle testa. Questo ci sarà d’aiuto. Da quello che ho visto, nessuno mette in dubbio la verità dei suoi pensieri una volta che le ha permesso di mostrarglieli. E credo che nessuno possa impedirle di mostrarglieli, se si avvicina a sufficienza. Se Aro la lascia spiegare...».

Al pensiero di Renesmee che si avvicinava agli occhi avidi e appannati di Aro, mi vennero i brividi.

«Be’», mi disse, massaggiandomi le spalle contratte, «quantomeno niente può impedirgli di vedere la verità».

«Ma la verità può bastare a fermarlo?», mormorai.

A quello Edward non seppe rispondere.

35 L’ultimatum

«Esci?», mi chiese Edward, con tono noncurante. La sua espressione sembrava forzatamente neutra. Si strinse Renesmee appena un po’ più forte al petto.

«Sì, un paio di commissioni dell’ultimo momento...», risposi, altrettanto indifferente.

Sfoderò il mio sorriso preferito. «Torna presto da me».

«Come sempre».

Presi di nuovo la sua Volvo, chiedendomi se avesse letto il contachilometri dopo la mia ultima commissione. Quante tessere del puzzle era riuscito a mettere insieme? Di sicuro sapeva che gli stavo nascondendo un segreto. Aveva dedotto il motivo per cui non glielo potevo confidare? Intuiva che presto Aro avrebbe saputo tutto ciò che lui sapeva? Forse Edward era già arrivato a quella conclusione, il che avrebbe spiegato perché non mi avesse mai chiesto conto di niente. Immaginai che stesse cercando di non rifletterci troppo e di escludere il mio comportamento dai suoi pensieri. Aveva fatto dei collegamenti con il mio strano gesto, la mattina dopo la partenza di Alice, quando avevo bruciato il libro nel camino? Forse non aveva compiuto così tanti progressi.

Era un pomeriggio uggioso, faceva già buio come al crepuscolo. Attraversai veloce quella tetraggine, osservando i nuvoloni carichi. Quella notte avrebbe nevicato abbastanza da attecchire al suolo e creare la scena della visione di Alice? Secondo Edward mancavano altri due giorni. Allora ci saremmo installati nella radura, attirando i Volturi nel posto che avevamo scelto.

Mentre attraversavo la foresta che si rabbuiava, riflettei sul mio ultimo viaggio a Seattle. Forse avevo capito qual era lo scopo di Alice nel mandarmi alla centrale dello spaccio in quel posto decrepito, sede degli appuntamenti di J. Jenks con i suoi clienti più loschi. Se fossi andata in uno degli altri uffici più formali, avrei mai capito cosa dovevo chiedergli? Se l’avessi conosciuto come Jason Jenks o Jason Scott, avvocato con tutti i crismi, avrei mai stanato J. Jenks, fornitore di documenti falsi? Dovevo percorrere la strada per cui fosse evidente che stavo combinando qualcosa di grosso. Era quello il mio indizio.

Faceva già buio pesto quando entrai nel parcheggio del ristorante con qualche minuto di anticipo, ignorando le attenzioni degli inservienti all’ingresso. Indossai le lenti a contatto e andai ad aspettare J. dentro il ristorante. Anche se avevo fretta di risolvere al più presto quell’incombenza deprimente e tornare dalla mia famiglia, J. sembrava molto attento a non contaminarsi con le sue attività più meschine: avevo la sensazione che uno scambio nel parcheggio buio avrebbe urtato la sua sensibilità.

Entrando diedi il cognome Jenks e l’ossequioso maitre mi guidò di sopra, in una saletta privata con un fuoco che crepitava in un caminetto di pietra. Prese lo spolverino a mezza gamba color avorio che portavo per nascondere il fatto che indossavo una tenuta che Alice avrebbe trovato adatta all’occasione e restò a bocca aperta davanti al mio abito da cocktail color écru. Non riuscii a evitare di sentirmi un po’ lusingata: non ero ancora abituata a essere ritenuta bella da tutti, oltre che da Edward. Il maitre aveva balbettato mezzi complimenti mentre usciva goffo dalla stanza.

Restai in attesa vicino al fuoco, accostando le dita alla fiamma per scaldarle un po’ prima dell’inevitabile stretta di mano. Per quanto J. sospettasse sicuramente che i Cullen avessero qualcosa da nascondere, era comunque una buona abitudine da mantenere.

Per mezzo secondo mi chiesi cosa avrei provato mettendo la mano nel fuoco. Cosa avrei sentito mentre bruciavo...

L’ingresso di J. mi distolse da quei pensieri morbosi. Il maitre prese anche il suo cappotto e risultò evidente che non ero l’unica a essermi vestita elegante per quell’incontro.

«Mi scusi tanto per il ritardo», disse J. appena ci trovammo soli.

«No, è in perfetto orario».

Mi porse la mano e mentre ce la stringevamo sentivo che comunque le sue dita erano molto più calde delle mie. Ma non ne sembrava turbato.

«Se posso permettermi, la trovo splendida, signora Cullen».

«Grazie, J. Per favore, mi chiami Bella».

«Devo dire che trattare con lei è un’esperienza diversa che con il signor Jasper. È molto meno... inquietante». Fece un sorrisino vago.

«Davvero? Ho sempre trovato che la presenza di Jasper abbia un effetto calmante».

Avvicinò le sopracciglia. «Veramente?», mormorò per educazione, anche se era palese che dissentiva. Che strano. Cosa aveva mai fatto Jasper a quell’uomo?

«Conosce Jasper da molto?».

Sospirò e parve a disagio. «Lavoro con il signor Jasper da più di vent’anni, e il mio vecchio socio lo conosceva già da quindici anni... Non cambia mai». J. rabbrividì appena.

«Sì, Jasper è un po’ strano da quel punto di vista».

J. scosse il capo come se potesse scrollarsi di dosso quei pensieri fastidiosi. «Vuole sedersi, Bella?».

«A dire il vero ho un po’ fretta. La strada fino a casa è lunga». Mentre parlavo estrassi dalla borsa la spessa busta bianca con i soldi in più destinati a lui e gliela porsi.

«Oh», disse con una lieve sfumatura di delusione. S’infilò la busta in una tasca interna della giacca senza fermarsi a controllare l’importo. «Speravo che potessimo dirci due parole».

«A proposito di cosa?», domandai incuriosita.

«Be’, si faccia consegnare prima gli oggetti che mi ha chiesto. Voglio essere certo che sia soddisfatta».

Si girò, mise sul tavolo la ventiquattrore e aprì le chiusure a scatto. Ne tirò fuori una busta imbottita in formato protocollo.

Anche se non avevo idea di quello che avrei dovuto ricevere, aprii la busta e diedi un’occhiata sommaria al contenuto. J. aveva girato la foto di Jacob e ne aveva modificato i colori in modo che passaporto e patente non riportassero un’identica immagine. Che a me apparissero perfetti non importava. Per una frazione di secondo osservai la foto sul passaporto di Vanessa Wolfe e poi distolsi rapida lo sguardo, con un groppo che mi saliva in gola.

«Grazie», gli dissi.

Socchiuse un poco gli occhi e capii che il mio esame poco accurato lo aveva deluso. «Le posso assicurare che i pezzi sono perfetti. Supererebbero gli esami più rigorosi degli esperti».

«Ne sono certa. Apprezzo molto quello che ha fatto per me, J.».

«È stato un piacere, Bella. In futuro, mi contatti pure per qualsiasi cosa di cui i Cullen abbiano bisogno». Non lo diceva sul serio, ma la frase sembrava un invito esplicito a prendere il posto di Jasper come contatto.

«Voleva parlarmi di qualcosa?».

«Ehm, sì. È una questione un po’ delicata...». M’indicò il focolare con aria interrogativa. Mi sedetti sul bordo in pietra e lui si mise al mio fianco. Aveva di nuovo la fronte ricoperta di sudore; tirò fuori di tasca un fazzoletto di seta azzurra e cominciò a tamponarsela.

«Lei è la sorella della moglie del signor Jasper? O è la moglie di suo fratello?», chiese.

«Sono la moglie di suo fratello», chiarii, chiedendomi dove volesse andare a parare.

«Quindi è sposata con il signor Edward?».

«Sì».

Sorrise imbarazzato. «Vede, ho visto i nomi di tutti parecchie volte. Congratulazioni in ritardo. Mi fa piacere che il signor Edward, dopo tutto questo tempo, abbia trovato una compagna così adorabile».

«La ringrazio molto».

Fece una pausa, tamponandosi il sudore. «Come può immaginare, nel corso degli anni ho sviluppato un discreto livello di rispetto per il signor Jasper e tutta la sua famiglia».

Annuii, cauta.

Lui inspirò profondamente, poi espirò senza parlare.

«J., per favore, vada al sodo».

Prese fiato un’altra volta e poi borbottò in fretta, farfugliando. «Se potesse assicurarmi che non ha intenzione di rapire quella bambina a suo padre, stanotte dormirei molto meglio».

«Oh», dissi sbalordita. Mi bastò un attimo per capire qual era la conclusione sbagliata che aveva tratto. «No, no. Non si tratta affatto di questo». Abbozzai un sorriso, cercando di rassicurarlo. «Sto solo cercando di garantirle un rifugio sicuro nel caso in cui a me e mio marito succeda qualcosa».

Affilò lo sguardo. «E cosa dovrebbe succedere?». Arrossì, poi si scusò. «Ovviamente non sono affari miei».

Osservai il rossore che si diffondeva dietro la superficie delicata della sua pelle e fui felice, come mi capitava spesso, di non essere una normale vampira neonata. J. sembrava un tipo a posto, a parte i reati che perpetrava, e sarebbe stato un peccato ucciderlo.

«Non si può mai sapere». Sospirai.

Si accigliò. «Allora le faccio tanti auguri. E, scusi se la scoccio ancora, ma... se il signor Jasper dovesse venire a chiedermi che nomi ho messo su quei documenti...».

«Naturalmente glieli deve dire subito. Mi farebbe molto piacere che il signor Jasper fosse a conoscenza di tutta la nostra transazione».

Sembrava che il mio sincero desiderio di trasparenza avesse allentato un po’ la sua tensione.

«Molto bene», disse. «Non riesco proprio a convincerla a fermarsi per cena?».

«Mi dispiace, J. Al momento ho pochissimo tempo».

«Allora le rinnovo tanti auguri di salute e felicità. E, per favore, si faccia pure viva per qualsiasi necessità della famiglia Cullen, Bella».

«Grazie, J.».

Me ne andai con la mia merce illecita e guardandomi indietro vidi che J. mi seguiva con gli occhi e aveva un’espressione a metà fra l’ansia e il rimpianto.

Il viaggio di ritorno durò molto meno. La notte era nera, così spensi i fari e andai a tavoletta. Quando arrivai a casa, mancava la maggior parte delle auto, comprese la Porsche di Alice e la mia Ferrari. I vampiri tradizionali si erano allontanati il più possibile per saziare la propria sete. Cercai di non pensare a quella caccia notturna e rabbrividii immaginandomi le loro vittime.

Nel salone c’erano solo Kate e Garrett, che discutevano scherzosi sul valore nutritivo del sangue animale. Ne dedussi che Garrett aveva tentato una caccia vegetariana e l’aveva trovata difficile.

Edward doveva aver portato Renesmee a casa, a dormire. Jacob, senza dubbio, era nei boschi vicino alla nostra casetta. Il resto della mia famiglia probabilmente era a caccia. Forse erano fuori insieme agli altri di Denali.

Il che, sostanzialmente, mi lasciava la casa tutta per me e, svelta, ne approfittai.

Dall’odore capii che ero la prima a entrare nella stanza di Alice e Jasper da un bel po’, forse dalla notte in cui ci avevano lasciati. Frugai in silenzio nella loro enorme cassapanca finché non trovai la borsa giusta. Doveva essere appartenuta ad Alice: era uno zainetto di cuoio nero, del tipo che di solito si usa come borsetta, abbastanza piccolo da poterlo mettere in spalla a Renesmee senza che desse troppo nell’occhio. Poi depredai il loro fondo cassa, prendendo una cifra equivalente al doppio del reddito annuale di una famiglia americana media. Pensai che lì sarebbe stato più difficile accorgersi del mio furto, dato che quella stanza rattristava tutti. Infilai la busta con i passaporti e le carte d’identità false nella borsa, sopra i soldi. Poi mi sedetti sul bordo del letto di Alice e Jasper e guardai quel pacchetto misero e insignificante, tutto ciò che potevo dare a mia figlia e al mio migliore amico per contribuire a salvare le loro vite. Crollai affranta sulla colonna del baldacchino, sentendomi impotente.

Ma che altro potevo fare?

Restai lì seduta diversi minuti a testa china, prima che mi arrivasse il barlume di una buona idea.

E se...

Se la supposizione della fuga di Jacob e Renesmee si fosse rivelata giusta, ciò avrebbe anche implicato la morte di Demetri. Questo lasciava ai superstiti, compresi Alice e Jasper, un po’ di spazio per respirare.

Allora, perché non potevano essere Alice e Jasper ad aiutare Jacob e Renesmee? Se si fossero incontrati, Renesmee avrebbe goduto della migliore protezione possibile. E non c’erano motivi perché questo non succedesse, tranne il fatto che Jake e Renesmee erano entrambi punti ciechi per Alice. Come sarebbe riuscita a trovarli?

Riflettei un attimo, poi uscii dalla stanza, attraversai il corridoio ed entrai nella suite di Carlisle ed Esme. Come al solito la scrivania di Esme era ricoperta di planimetrie e progetti, tutti impilati in alti mucchi ordinati. Sopra il piano di lavoro c’era un casellario; in una delle caselle c’era una scatola di carta da lettere. Presi un foglio bianco e una penna.

Poi fissai la pagina bianca color avorio per cinque minuti buoni, concentrandomi sulla mia decisione. Forse Alice non era in grado di vedere Jacob o Renesmee, ma poteva vedere me. Me la immaginai mentre aveva la visione di quel momento, con la disperata speranza che non fosse troppo impegnata in altro per prestarmi attenzione.

Lentamente, apposta, scrissi le parole «RIO DE JANEIRO» in maiuscolo a tutta pagina.

Rio sembrava il posto migliore dove mandarla. Era lontano da qui e, a quanto risultava dagli ultimi avvistamenti, Alice e Jasper si trovavano già in Sudamerica, d’altronde, non è che i nostri vecchi problemi avessero smesso di esistere solo perché ora avevamo problemi peggiori. Aleggiava ancora il mistero del futuro di Renesmee, il terrore per la sua crescita così veloce. Per cui, comunque, ci saremmo diretti a sud. Ora il compito di cercare l’origine delle leggende sarebbe passato a Jacob, e magari anche ad Alice.

Chinai di nuovo il capo per combattere il repentino bisogno di scoppiare in lacrime e strinsi i denti. Era meglio che Renesmee proseguisse senza di me. Ma sentivo già la sua mancanza in modo insopportabile.

Feci un lungo respiro e infilai il biglietto in fondo allo zaino, dove Jacob l’avrebbe trovato facilmente.

Incrociai le dita e sperai che Jacob avesse almeno studiato spagnolo, dato che ritenevo improbabile la presenza di un insegnante di portoghese nella sua scuola.


Ormai non restava altro che aspettare.

Per due giorni Edward e Carlisle si fermarono nella radura dove Alice aveva visto arrivare i Volturi. Era lo stesso campo di battaglia in cui i neonati di Victoria ci avevano attaccato l’estate precedente. Mi chiesi se per Carlisle fosse un’esperienza ripetitiva, come un déjà vu. Per me sarebbe stato tutto nuovo. Stavolta io ed Edward saremmo stati lì insieme alla nostra famiglia.

Tutto ci induceva a pensare che il segugio dei Volturi avrebbe preso di mira Edward o Carlisle. Chissà se trovarsi di fronte a una preda che non fuggiva li avrebbe colti di sorpresa. Li avrebbe resi prudenti? Non riuscivo a immaginare che i Volturi potessero pensare di agire con cautela.

Avevo buone speranze di essere invisibile per Demetri, tuttavia restai con Edward. Ovvio. Ci restavano solo poche ore da passare insieme.

Io ed Edward non ci eravamo scambiati un’ultima scena tragica di addio, e non era nei miei programmi. Pronunciare quella parola equivaleva a renderla definitiva. Sarebbe stato come scrivere la parola FINE sull’ultima pagina di un manoscritto. Quindi non ci dicemmo addio e restammo vicini, sempre a contatto. Quale che fosse la fine che ci aspettava, non ci avrebbe trovati separati.

Montammo una tenda per Renesmee qualche metro più indietro, al riparo nel bosco, e provammo un altro déjà vu nel vederci di nuovo accampati al freddo con Jacob. Era quasi impossibile credere quanto la situazione fosse cambiata dal giugno precedente. Sette mesi prima sembrava che il triangolo dei rapporti che ci legavano avesse un destino segnato, fatto soltanto di cuori spezzati. Ora tutto era in perfetto equilibrio. Per un’orribile ironia della sorte, le tessere del puzzle si incastravano alla perfezione poco prima di venire distrutte.

Ricominciò a nevicare la sera prima di Capodanno. Stavolta i fiocchi minuscoli non si sciolsero sul terreno petroso della radura. Mentre Renesmee e Jacob dormivano — e lui russava così forte che non so come facesse Renesmee a non svegliarsi — la neve formò un primo strato sottile ghiacciato sul terreno, poi si accumulò in mucchi più spessi. All’alba la scena della visione di Alice era completa. Io ed Edward ci tenevamo per mano mentre guardavamo il campo bianco che riluceva, e nessuno dei due parlò.

Per tutta la mattina gli altri si radunarono, le tracce silenziose dei loro preparativi ben visibili negli occhi: alcuni di color oro chiaro, altri di un cremisi intenso. Poco dopo esserci ritrovati tutti insieme, sentimmo i lupi muoversi nei boschi. Jacob uscì dalla tenda, lasciando Renesmee ancora addormentata, per unirsi a loro.

Edward e Carlisle stavano schierando gli altri in una specie di formazione, con i testimoni ai lati, come spettatori.

Li osservavo da lontano mentre aspettavo vicino alla tenda il risveglio di Renesmee. Poi l’aiutai a indossare i vestiti che avevo scelto attentamente due giorni prima. Vestiti femminili e vaporosi all’apparenza, ma in realtà abbastanza resistenti da non mostrare tracce di usura, nemmeno dopo un viaggio oltre i confini di un paio di Stati in groppa a un gigantesco licantropo. Sopra il giubbotto le infilai lo zainetto di pelle nera con i documenti, i soldi, l’indizio e i miei biglietti d’addio per lei e Jacob, Charlie e Renée. Era abbastanza forte da portarlo senza fatica.

Osservava la sofferenza sul mio viso a occhi sgranati. Ma aveva intuito quel che bastava e non mi chiese cosa stessi facendo.

«Ti voglio bene», le dissi. «Più di ogni altra cosa».

«Anch’io ti voglio tanto bene, mamma», rispose. Toccò la medaglietta che portava al collo, che adesso conteneva una piccola foto di lei, me ed Edward. «Staremo sempre insieme».

«Nel nostro cuore staremo sempre insieme», la corressi con un sussurro tenue come un respiro. «Ma oggi, quando verrà il momento, mi devi lasciare».

Spalancò gli occhi e accostò la mano alla mia guancia. Quel suo No muto fu più forte che se lo avesse gridato.

Mi sforzai di deglutire: sentivo la gola gonfia. «Lo farai per me? Per favore?».

Mi premette ancora più forte le dita sul viso. Perché?

«Non te lo posso dire», sussurrai. «Ma presto capirai. Te lo prometto».

Nella mente vedevo il viso di Jacob.

Annuii, poi allontanai le sue dita. «Non ci pensare», le sussurrai nell’orecchio. «Non dire niente a Jacob finché non ti dico di fuggire, va bene?».

Questo lo capì. Annuì anche lei.

Dalla tasca tirai fuori un’ultima cosa.

Mentre facevo i bagagli per Renesmee, un’inattesa scintilla di colore aveva attirato la mia attenzione. Un raggio di sole ramingo dal lucernario aveva colpito i gioielli sopra l’antica e preziosa scatola riposta su un alto scaffale, in un angolo nascosto. L’avevo guardato per un attimo e poi avevo fatto spallucce. Dopo aver messo insieme gli indizi di Alice, non potevo sperare che lo scontro imminente si sarebbe risolto in modo pacifico. Ma perché non provare a iniziare tutto nel modo più amichevole possibile? Che male poteva fare? Forse dopotutto mi restava un po’ di speranza, sebbene cieca e insensata, visto che mi arrampicai sugli scaffali per prendere il regalo di nozze di Aro.

Mi legai intorno al collo lo spesso cordone d’oro e sentii il peso di quel diamante enorme che si posava nell’incavo della gola.

«Bello», sussurrò Renesmee. Poi mi serrò le braccia intorno al collo come in una morsa. Io la strinsi al petto. Stando così allacciate, la portai fuori dalla tenda, nella radura.

Edward inarcò un sopracciglio quando mi avvicinai, ma non fece altri commenti sui miei accessori o quelli di Renesmee. Si limitò a stringerci forte per un attimo eterno e poi, con un sospiro, ci lasciò andare. Nei suoi occhi non c’era un addio. Forse sperava in qualcosa dopo la morte, più di quanto avesse lasciato intendere.

Prendemmo posto e Renesmee si arrampicò agile sulla mia schiena per lasciarmi libere le mani. Io rimasi qualche metro dietro la prima linea formata da Carlisle, Edward, Emmett, Rosalie, Tanya, Kate ed Eleazar. Più vicini a me c’erano Benjamin e Zafrina: il mio compito era proteggerli fino a quando ci fossi riuscita. Erano le nostre migliori armi offensive. Se erano i Volturi quelli impossibilitati a vedere, anche solo per pochi attimi, sarebbe cambiato tutto.

Zafrina era severa e spietata, e Senna al suo fianco ne era quasi il riflesso speculare. Benjamin era seduto per terra, con i palmi premuti al suolo, e borbottava qualcosa a proposito delle linee di faglia. La sera prima aveva sparpagliato mucchi di sassi in tutta la parte posteriore del campo, disponendoli a formare un paesaggio dall’apparenza naturale, e ora erano ricoperti di neve. Non bastavano a fare del male a un vampiro, ma forse a distrarlo, almeno lo speravamo.

I testimoni si disposero a grappolo alla nostra destra e alla nostra sinistra, alcuni più vicini degli altri: quelli che si erano dichiarati erano i più vicini. Vidi che Siobhan si strofinava le tempie, con gli occhi chiusi per concentrarsi meglio. Stava compiacendo Carlisle, cercando di visualizzare una conclusione diplomatica della vicenda?

Nel bosco dietro di noi, i lupi invisibili erano silenziosi e pronti: sentivamo solo il loro forte ansimare e il battito dei cuori.

Il cielo si coprì di nuvole che smorzarono la luce, avrebbe potuto essere sia mattina che pomeriggio. Edward forzò lo sguardo per esaminare il panorama ed ero sicura che avesse già visto una volta questa stessa scena: nella visione di Alice. L’arrivo dei Volturi sarebbe stato esattamente identico. Ora ci mancavano solo pochi minuti o secondi.

Tutta la nostra famiglia e gli alleati si prepararono agli eventi.

Dalla foresta emerse l’enorme alfa rossiccio, che si mise al mio fianco: probabilmente era troppo difficile per lui mantenere le distanze da Renesmee quando si trovava in un pericolo così imminente.

Renesmee si sporse ad affondare le dita nella pelliccia sopra la sua schiena robusta e rilassò un poco il corpo. Era più calma, con Jacob vicino. Anch’io mi sentivo un po’ meglio. Finché Jacob era con Renesmee, non le sarebbe successo niente.

Senza arrischiarsi a guardare indietro, Edward si girò verso di me. Stesi il braccio in modo da potergli afferrare la mano. Mi strinse le dita.

Passò un altro minuto, mentre mi sforzavo di sentire i rumori che tradissero il loro avvicinamento.

Poi Edward s’irrigidì e sibilò piano fra i denti serrati. Con gli occhi si concentrò sulla foresta a nord del punto in cui ci trovavamo.

Fissammo anche noi lo sguardo in quella direzione, aspettando che trascorressero gli ultimi secondi.

36 Sete di sangue

Arrivarono con grande sfarzo, non senza una certa bellezza.

Arrivarono in formazione rigida, solenne. Si muovevano all’unisono, ma non era una marcia: affluirono con perfetta sincronia dagli alberi. Una sagoma scura e ininterrotta che sembrava sospesa di qualche centimetro sopra la neve bianca, tanto fluida era la sua avanzata.

Le ali esterne erano grigie: il colore si scuriva a ogni fila di corpi, fino ad arrivare al cuore della formazione, che era del nero più intenso. Tutti i visi erano ricoperti da cappucci e in ombra. Il vago fruscio dei piedi era così regolare da sembrare musica, un ritmo complicato che non mostrava mai esitazione.

A un segnale che non notai — o forse non vi fu alcun segnale, ma solo millenni di esercizio — la struttura si allargò verso l’esterno. Il movimento era troppo rigido, troppo geometrico per ricordare lo schiudersi di un fiore, anche se il colore poteva suggerirlo: fu come un ventaglio che si apriva, aggraziato ma molto spigoloso. Le figure con il mantello grigio si disposero sui fianchi, mentre quelle più scure avanzarono con precisione fino al centro, misurando al millimetro ogni movimento.

La loro avanzata era lenta ma decisa, senza fretta, senza tensione, senza ansia. Era l’andatura degli invincibili.

Coincideva quasi alla perfezione con il mio vecchio incubo. L’unica cosa che mancava era il desiderio perverso che avevo visto sui volti del mio sogno, i sorrisi di vendetta compiaciuta. Fino ad allora, i Volturi erano stati troppo disciplinati per tradire alcuna emozione. Non diedero il minimo segno di sorpresa o di sgomento nel vedere il gruppo di vampiri che li aspettava: sembrava disorganizzato e impreparato, in confronto a loro. Non batterono ciglio nemmeno di fronte al lupo gigante che stava fra noi.

Non riuscii a trattenermi dal contarli. Erano in trentadue. Anche escludendo le due figure incerte e derelitte che stavano in fondo a tutto il gruppo, che pensai fossero le mogli, e la cui posizione protetta suggeriva che non sarebbero state coinvolte nell’attacco, eravamo comunque in svantaggio numerico. Solo diciannove di noi avrebbero combattuto, di fronte ad altri sette che avrebbero assistito alla nostra distruzione. Anche contando i dieci lupi, eravamo spacciati.

«Arrivano le giubbe rosse, arrivano le giubbe rosse», borbottò Garrett misteriosamente fra sé e poi ridacchiò. Fece un passo per avvicinarsi a Kate.

«Sono venuti, alla fine», sussurrò Vladimir a Stefan.

«Le mogli», gli rispose Stefan con un sibilo. «Tutto il corpo di guardia. Tutti insieme. Meno male che ci siamo tenuti lontano da Volterra».

Poi, come se non bastasse la loro schiera, mentre i Volturi avanzavano lenti e maestosi, altri vampiri cominciarono a entrare nella radura al loro seguito.

I volti di quell’affluire apparentemente infinito di vampiri erano l’antitesi della disciplina asettica dei Volturi: vi si leggeva un caleidoscopio di emozioni. Inizialmente ci fu lo shock, e persino un po’ di ansia, nel vedere quella forza inattesa che li aspettava. La preoccupazione passò presto: si sentivano sicuri del loro numero soverchiante, sicuri nella loro posizione dietro alla forza inarrestabile dei Volturi. I loro tratti tornarono all’espressione iniziale.

Da quei visi eloquenti era piuttosto facile capire la loro disposizione d’animo. Era una banda di gente infuriata, esaltata fino al parossismo e assetata di giustizia. Prima di leggere quei volti non avevo mai capito in pieno l’atteggiamento del mondo dei vampiri verso i bambini immortali.

Era chiaro che quell’orda eterogenea e disorganizzata, composta da più di quaranta vampiri, fosse considerata dai Volturi l’equivalente dei nostri testimoni. Dopo la nostra morte, avrebbero sparso la voce che i criminali erano stati estirpati, che i Volturi si erano comportati nel modo più imparziale possibile. La maggior parte dei vampiri, però, sembrava sperare in qualcosa di più: volevano partecipare a distruzioni e roghi.

Non avevamo scampo. Anche se in qualche modo fossimo riusciti a neutralizzare i più pericolosi, i Volturi ci erano comunque superiori in numero. Anche se avessimo ucciso Demetri, Jacob non sarebbe stato in grado di fuggire.

Percepii che la stessa riflessione si faceva strada nelle persone intorno a me. L’aria, appesantita dalla disperazione, mi spingeva giù con ancora più forza di prima.

Tra le forze avversarie, c’era un vampiro che sembrava non appartenere a nessuna delle due parti: riconobbi Irina, che esitava fra le due compagnie, con un’espressione unica fra le altre. Il suo sguardo atterrito era fisso su Tanya schierata in prima linea. Edward ringhiò, con un suono basso ma deciso.

«Alistair aveva ragione», mormorò a Carlisle.

Guardai Carlisle che fissava Edward con aria interrogativa.

«Alistair aveva ragione?», sussurrò Tanya.

«Loro — Aro e Caius — sono venuti per distruggerci e assimilarci», rispose Edward, quasi in un sospiro perché solo quelli della nostra parte lo udissero. «Hanno già studiato buona parte delle strategie possibili. Si erano già impegnati a cercare un altro motivo per offendersi, se l’accusa di Irina si fosse dimostrata in qualche modo falsa. Ma ora vedono Renesmee, quindi sono ottimisti sull’andamento della situazione. Potremmo comunque tentare di difenderci dalle altre accuse premeditate che ci rivolgeranno, ma devono prima fermarsi e ascoltare la verità su Renesmee». Concluse a voce ancora più bassa: «E non hanno la minima intenzione di farlo».

Jacob fece uno strano sbuffo.

Poi, inaspettatamente, due secondi dopo, la processione si fermò. La musica bassa dei movimenti sincronizzati alla perfezione si trasformò in silenzio. La disciplina impeccabile non venne meno: i Volturi si bloccarono nell’immobilità assoluta come un sol uomo. Si trovavano a un centinaio di metri da noi.

Ai lati, dietro di me, sentii avvicinarsi il battito di grossi cuori. Mi arrischiai a guardare a sinistra e a destra con la coda dell’occhio e vidi cosa aveva fermato l’avanzata dei Volturi.

I lupi si erano uniti a noi.

I lupi formavano lunghi bracci che delimitavano ciascun lato della nostra linea irregolare. Dedicai solo una frazione di secondo a notare il fatto che erano più di dieci e a distinguere i lupi che conoscevo da quelli che non avevo mai visto. Ce n’erano sedici distribuiti regolarmente intorno a noi; un totale di diciassette, contando Jacob. Dall’altezza e dalle zampe troppo grandi dei nuovi arrivi, traspariva con evidenza la loro età giovanissima. Immaginai che avrei dovuto prevederlo. Con tanti vampiri accampati nei paraggi, un’impennata della popolazione di licantropi era inevitabile.

Altri ragazzini che sarebbero morti. Mi chiesi perché Sam lo avesse permesso, ma poi capii che non aveva avuto altra scelta. Se uno qualunque dei lupi si fosse schierato con noi, era certo che i Volturi sarebbero andati a cercare anche gli altri. Avevano messo a rischio tutta la loro specie prendendo posizione.

E avremmo perso.

Improvvisamente, mi ritrovai infuriata. Anzi, ben più che infuriata: ero in preda a una rabbia omicida. La mia disperazione sconsolata era del tutto scomparsa. Un vago bagliore rossastro evidenziava le figure scure che mi erano di fronte e in quel momento non desideravo altro che affondargli i denti nel corpo, strappargli le membra e ammucchiarle per poi appiccarvi il fuoco. Ero talmente infuriata che avrei potuto danzare intorno alla pira mentre bruciavano vivi: avrei riso davanti alle loro ceneri ardenti. Le labbra mi si tesero automaticamente all’indietro e un ringhio basso e feroce mi si fece strada nella gola, dalla bocca dello stomaco. Mi accorsi che avevo gli angoli della bocca curvati in un sorriso.

Al mio fianco, Zafrina e Senna imitarono il mio ruggito soffocato. Edward mi strinse la mano che ancora teneva, mettendomi in guardia.

I visi celati dei Volturi erano in gran parte privi di espressione. Solo due paia di occhi tradivano una qualche emozione. Al centro, con le mani in contatto, Aro e Caius si erano fermati per studiare la situazione e tutto il corpo di guardia sostava insieme a loro, in attesa dell’ordine di uccidere. I due non si guardavano, ma era evidente che stavano comunicando. Marcus, anche se toccava l’altra mano di Aro, non sembrava assorto nella conversazione. L’espressione non era vacua come quella del corpo di guardia, ma quasi altrettanto vuota. Come l’ultima volta che l’avevo visto, sembrava incredibilmente annoiato.

I corpi dei testimoni dei Volturi erano inclinati nella nostra direzione, con gli sguardi furiosi fissi su me e Renesmee, ma si erano fermati vicino al limitare della foresta, tenendosi alla larga dai soldati della guardia. Solo Irina si aggirava dietro i Volturi, a pochi passi dalle donne anziane — entrambe dai capelli chiari, la pelle fragile e gli occhi velati — e dalle loro massicce guardie del corpo.

Nascosta da uno dei mantelli di un grigio più scuro, subito dietro ad Aro, c’era una donna. Non ero sicura, ma sembrava gli stesse toccando la schiena. Era lei Renata, l’altro scudo? Come Eleazar, mi chiesi se sarebbe riuscita a respingermi.

Ma non avrei sprecato la mia vita per arrivare a Caius e Aro. Avevo bersagli molto più importanti.

Esaminai le loro file per cercarli e scorsi con facilità i due minuscoli mantelli grigio scuro vicino al centro dello schieramento. Alec e Jane, che probabilmente erano i membri più minuti del corpo di guardia, erano al fianco di Marcus e dall’altro lato avevano Demetri. I visi adorabili erano dolci e non rivelavano nulla; portavano i mantelli della gradazione più scura prima di quella nerissima degli anziani. «Gemelli stregati», li aveva chiamati Vladimir. Sui loro poteri si basava tutta l’offensiva dei Volturi. Erano i gioielli della collezione di Aro.

Flettei i muscoli e nella bocca mi sgorgò il veleno.

Gli occhi rossi screziati di Aro e Caius guizzarono fra le nostre file. Lessi la delusione sul volto di Aro mentre con lo sguardo ci perlustrava i volti più e più volte, in cerca di quello assente. Aveva le labbra strette per il disappunto.

In quel momento ero solo grata del fatto che Alice fosse fuggita.

Mentre la pausa si allungava, sentii il respiro di Edward che accelerava.

«Edward?», chiese Carlisle, ansioso, a bassa voce.

«Non sanno bene come procedere. Stanno soppesando le possibilità, scegliendo gli obiettivi più importanti: me, naturalmente, te, Eleazar, Tanya. Marcus decifra la forza dei legami che ci uniscono, in cerca di punti deboli. La presenza dei rumeni li irrita. Sono preoccupati per i visi che non riconoscono, Zafrina e Senna in particolare, e naturalmente i lupi. È la prima volta che vengono messi in minoranza. È stato questo a fermarli».

«In minoranza?», sussurrò Tanya incredula.

«Per loro i testimoni non contano», bisbigliò Edward. «Sono nullità, così come il corpo di guardia. È solo che ad Aro piace avere pubblico».

«Devo parlare?», chiese Carlisle.

Edward esitò, poi annuì. «Non credo avrai altre occasioni».

Carlisle drizzò le spalle e a passi lenti avanzò oltre la nostra linea di difesa. Era terribile vederlo solo, inerme.

Allargò le braccia, con i palmi rivolti verso l’alto in segno di saluto. «Aro, amico mio. Sono secoli che non ci vediamo».

Per un lungo attimo, nella radura imbiancata scese un silenzio di tomba. Sentii l’agitazione di Edward tendersi mentre ascoltava Aro che valutava le parole di Carlisle. La tensione saliva con il passare dei secondi.

Allora Aro uscì dal centro della formazione dei Volturi. Renata, lo scudo, si mosse con lui come se avesse la punta delle dita cucita al suo mantello. Per la prima volta le schiere dei Volturi reagirono. Le loro file furono percorse da un brontolio sommesso, le sopracciglia si aggrottarono, le labbra si arricciarono a scoprire i denti. Alcuni del corpo di guardia si sporsero in avanti, accucciati.

Aro alzò una mano nella loro direzione. «Veniamo in pace».

Fece qualche altro passo, poi inclinò la testa da un lato. Gli occhi velati brillavano di curiosità.

«Parole giuste, Carlisle», disse con quella voce esile e sottile. «Sembrano fuori posto, visto l’esercito che hai radunato per uccidere me e i miei cari».

Carlisle scosse la testa e gli offrì la mano, come se non ci fossero ancora un centinaio di metri a dividerli. «Basta che mi tocchi la mano per capire che non ho mai avuto quell’intenzione».

Gli occhi scaltri di Aro si strinsero in una fessura. «Ma come può avere qualche importanza la tua intenzione, caro Carlisle, di fronte a ciò che hai fatto?». Fece una smorfia e un’ombra di tristezza gli attraversò il viso: non avrei saputo dire se era sincera.

«Non ho commesso il crimine per il quale sei venuto a punirmi».

«Allora fatti da parte e lasciami punire chi ne è responsabile. Sul serio, Carlisle, nulla mi farebbe più piacere che risparmiarti la vita, oggi».

«Nessuno ha infranto la legge, Aro. Lasciami spiegare». E Carlisle gli porse di nuovo la mano.

Prima che Aro riuscisse a rispondere, Caius arrivò veloce al suo fianco.

«Quante regole inutili, quante leggi superflue ti crei, Carlisle», sibilò l’anziano canuto. «Come è possibile che difendi la violazione dell’unica che conti davvero?».

«La legge non è stata violata. Se solo mi ascoltassi...».

«Vediamo la bambina, Carlisle», rispose Caius con un ringhio. «Non prenderci per stupidi».

«Lei non è affatto un’immortale. Non è una vampira. Te lo posso dimostrare facilmente in pochi attimi di...».

Caius lo interruppe. «Se non è una dei proibiti, allora perché avete raggruppato un battaglione per proteggerla?».

«Sono testimoni, Caius, proprio come quelli che avete portato voi». Carlisle accennò all’orda furiosa appostata al limitare del bosco. Alcuni di loro ringhiarono in tutta risposta. «Uno qualsiasi di questi amici ti può dire la verità sulla bambina. Oppure puoi guardarla con i tuoi occhi, Caius. Guarda la vampata di sangue umano che ha sulle guance».

«È un espediente!», gridò Caius in tono aspro. «Dov’è l’informatrice? Portatela qui!». Scrutò con impazienza attorno a sé finché non vide Irina che indugiava dietro le mogli. «Tu! Vieni!».

Irina lo fissò sconcertata, con l’aria di chi non si è ancora svegliata da un incubo funesto. Caius schioccò le dita con impazienza. Una delle enormi guardie del corpo delle mogli al fianco di Irina la spinse rozzamente sulla schiena. Irina batté le palpebre un paio di volte, poi, stordita, si avviò lenta verso Caius. Si fermò a vari metri da lui, fissando ancora le proprie sorelle.

Caius le si avvicinò e con uno schiaffo la colpì in pieno viso.

Era impossibile che le avesse fatto male, ma in quell’azione c’era qualcosa di davvero umiliante. Era come guardare qualcuno che prendeva a calci un cane. Tanya e Kate sibilarono all’unisono.

Il corpo di Irina s’irrigidì e infine fissò lo sguardo su Caius, il cui dito rapace indicò Renesmee, che si abbarbicò alla mia schiena, stringendo ancora convulsamente con una mano un ciuffo del pelo di Jacob. Dentro il mio sguardo furioso Caius diventò tutto rosso. Nel petto di Jacob tuonò un ruggito.

«È quella la bambina che hai visto?», chiese perentorio Caius. «Quella che, evidentemente, era più che umana?».

Irina ci guardò con attenzione, esaminando Renesmee per la prima volta da quando era entrata nella radura. Inclinò il capo da un lato e sul viso le si dipinse una certa confusione.

«Ebbene?», chiese Caius con acredine.

«Io... non ne sono sicura», disse con tono perplesso.

Caius ebbe uno spasmo a una mano, come se volesse schiaffeggiarla di nuovo. «Cosa vuoi dire?», le chiese in un sussurro inflessibile.

«Non è uguale, ma credo sia la stessa bambina. Cioè, è cambiata. Questa bambina è più grande di quella che ho visto, ma...».

Il rantolo furioso di Caius crepitò fra i suoi denti improvvisamente scoperti e Irina s’interruppe senza finire. Aro svolazzò al fianco di Caius e gli posò una mano sulla spalla per bloccarlo.

«Stai calmo, fratello. Abbiamo tutto il tempo di risolvere la questione. Non c’è fretta».

Con un’espressione astiosa, Caius voltò le spalle a Irina.

«Dunque, tesoruccio», disse Aro con un mormorio caldo e insinuante. «Mostrami quello che stai provando a dirci». Porse la mano alla vampira sconcertata.

Irina gliela prese, esitante. Lui la tenne per soli cinque secondi.

«Vedi, Caius?», chiese. «È un modo semplice per ottenere quello di cui abbiamo bisogno».

Caius non gli rispose. Con la coda dell’occhio, Aro lanciò un’occhiata fugace al suo pubblico, la sua orda, poi tornò a rivolgersi a Carlisle.

«E così, a quanto pare, dovremo farci carico di un mistero. Si direbbe che la bambina è cresciuta. Eppure il primo ricordo di Irina era chiaramente quello di un bambino immortale. Curioso».

«È proprio quello che sto cercando di spiegare», disse Carlisle e dal tono mutato della sua voce intuii quanto si sentisse sollevato. Questa era l’esitazione su cui avevamo riposto tutte le nostre deboli speranze.

Io non provai alcun sollievo. Aspettai, resa quasi insensibile dalla rabbia, di vedere all’opera le strategie di cui aveva parlato Edward.

Carlisle porse di nuovo la mano.

Aro esitò per un attimo: «Preferirei avere una spiegazione da una persona più coinvolta nella storia, amico mio. Mi sbaglio a pensare che questa infrazione non è stata opera tua?».

«Non c’è stata alcuna infrazione».

«Sia come sia, io voglio conoscere ogni sfaccettatura della verità». La voce morbida di Aro s’indurì. «E il modo migliore per ottenerla è chiedere le prove al tuo abile figliolo». Inclinò il capo in direzione di Edward. «Dato che la bambina sta aggrappata alla compagna neonata di Edward, immagino proprio che lui sia coinvolto».

Era ovvio che volesse Edward. Una volta che fosse riuscito a leggergli nella mente, avrebbe conosciuto tutti i nostri pensieri. Tranne i miei.

Edward si girò per dare un rapido bacio sulla fronte a me e Renesmee, senza guardarmi negli occhi. Poi attraversò a grandi passi il prato innevato, dando una pacca sulla spalla a Carlisle quando gli arrivò di fianco. Sentii un debole lamento dietro di me: era il terrore di Esme che faceva breccia.

L’alone rosso che vedevo attorno all’esercito dei Volturi era più acceso di prima. Non sopportavo la vista di Edward che attraversava da solo quello spazio bianco e vuoto, ma al tempo stesso non avrei tollerato che Renesmee si avvicinasse anche di un solo passo ai nostri avversari. Ero divisa in due fra quei bisogni opposti: bloccata in modo talmente rigido che le mie ossa avrebbero potuto frantumarsi sotto quella pressione.

Vidi Jane sorridere, mentre Edward oltrepassava la metà della distanza che ci divideva, trovandosi così più vicino a loro che a noi.

Fu quel sorrisetto insolente la goccia che fece traboccare il vaso. La mia ira raggiunse l’apice, superò la furiosa sete di sangue che avevo provato nel momento in cui i lupi si erano impegnati in questo scontro dall’esito tragico. Sulla lingua sentivo il sapore della furia: lo sentivo fluire in me come un’ondata. I muscoli contratti, agivo per automatismi. Scagliai il mio scudo con tutta la forza che avevo nella mente, lo gettai come un giavellotto al di là della distesa immensa del campo, una lunghezza impossibile, dieci volte la distanza migliore che avessi mai raggiunto. Il respiro mi uscì rapido, sbuffando, per lo sforzo.

Lo scudo fuoriuscì da me in una bolla di energia pura, un fungo atomico di acciaio liquido. Pulsava come una creatura vivente: lo sentivo alla perfezione, dalla sommità fino ai bordi.

Il tessuto elastico non subì alcun contraccolpo: in quell’istante di forza cruda, capii che il rinculo che vi era stato in altre occasioni era opera mia: mi ero aggrappata a quella parte invisibile di me per autodifesa, rifiutando di lasciarla libera nel mio inconscio. In quel momento la sprigionai tutta e lo scudo esplose a una cinquantina di metri da me senza alcuno sforzo, prendendosi solo una minima parte della mia capacità di concentrazione. Lo sentivo flettersi, un muscolo come tanti che obbediva alla mia volontà. Lo spinsi e gli diedi la forma di un lungo ovale appuntito. Improvvisamente tutto quello che si trovava sotto lo scudo di ferro flessibile era diventato parte di me: sentivo la forza vitale di tutto ciò che copriva sotto forma di punti di calore luminoso, scintille di luce abbagliante che mi circondavano. Scagliai lo scudo per tutta la lunghezza della radura e sospirai di sollievo quando avvertii la luce brillante di Edward all’interno della mia protezione. Restai lì, a contrarre quel nuovo muscolo in modo che circondasse Edward da vicino, formando un velo sottile ma infrangibile fra il suo corpo e i nostri nemici.

Era passato sì e no un secondo. Edward stava ancora camminando in direzione di Aro. Tutto era cambiato, ma nessuno si era accorto dell’esplosione, a parte me. Dalle labbra mi uscì una risatina sorpresa. Vidi gli altri che mi fissavano e un occhio nero di Jacob che mi guardava dall’alto come se fossi impazzita.

Edward si fermò a qualche passo di distanza da Aro e con un certo disappunto capii che, anche se sicuramente ne ero in grado, non dovevo assolutamente impedire lo svolgimento di quello scambio. Era il punto cruciale di tutti i nostri preparativi: far sì che Aro ascoltasse la nostra versione della storia. Fu un dolore quasi fisico, ma con riluttanza ritirai lo scudo e lasciai Edward di nuovo scoperto. L’umore ilare era svanito. Mi concentrai totalmente su di lui, pronta a riavvolgerlo con lo scudo all’istante, se qualcosa fosse andato storto.

Edward alzò il mento con arroganza e porse la mano ad Aro come se gli stesse concedendo un grande onore. Aro inizialmente parve divertito dalla sua grinta, ma ciò non valeva per tutti. Renata svolazzava nervosa all’ombra di Aro. E il cipiglio di Caius era talmente profondo da far sembrare la piega una ruga definitiva sulla pelle traslucida come pergamena. La piccola Jane mostrava i denti e al suo fianco Alec stringeva gli occhi per la concentrazione. Immagino che fosse preparato, come me, ad agire in capo a un secondo.

Aro coprì la distanza senza pause: dopo tutto, cosa aveva da temere? Le sagome massicce con i mantelli di un grigio più chiaro — i combattenti muscolosi, come Felix — erano a pochi metri di distanza. Jane e il suo dono incandescente avrebbero potuto scagliare a terra Edward, lasciandolo in preda a spasmi di sofferenza. Alec poteva accecarlo e assordarlo prima ancora che facesse un passo in direzione di Aro. Nessuno sapeva che avevo la forza di fermarli, nemmeno Edward.

Aro, con un sorriso imperturbabile, prese la mano di Edward. Chiuse gli occhi immediatamente, poi curvò le spalle sotto il peso di tante informazioni.

Tutti i pensieri segreti, tutte le strategie, tutte le intuizioni, tutto ciò che Edward aveva sentito nelle menti che aveva avuto intorno durante l’ultimo mese, ora appartenevano ad Aro. E persino fatti più vecchi: tutte le visioni di Alice, tutti i momenti di armonia con la nostra famiglia, tutte le immagini nella testa di Renesmee, tutti i baci e tutti i contatti fra Edward e me... anche tutto questo ormai apparteneva ad Aro.

Sibilai per l’irritazione e lo scudo ne fu infastidito, cambiò forma e si contrasse intorno alle nostre linee.

«Tranquilla, Bella», mi sussurrò Zafrina.

Strinsi forte i denti.

Aro continuò a concentrarsi sui ricordi di Edward. Anche Edward chinò il capo, i muscoli del collo contratti mentre rileggeva tutto quello che Aro gli aveva sottratto e la reazione che provocava in lui.

Questa conversazione bidirezionale ma non reciproca continuò abbastanza a lungo da far spazientire il corpo di guardia. Fra le file serpeggiarono mormorii a bassa voce, finché Caius non abbaiò l’ordine di stare in silenzio. Jane si sporgeva in avanti come se non riuscisse a trattenersi e Renata aveva il viso rigido per la preoccupazione. Per un attimo, esaminai il suo scudo potente, che sembrava debole e spaventato: anche se era utile ad Aro, capivo che non era una guerriera. Il suo compito non era combattere, ma proteggere. Non aveva sete di sangue. Io, grezza com’ero, capii che se lo scontro fosse stato solo fra me e lei l’avrei annientata.

Ripresi la concentrazione quando Aro si raddrizzò e riaprì gli occhi in preda a un’espressione sbigottita e sospettosa. Non lasciò la mano di Edward.

Edward allentò i muscoli in modo impercettibile.

«Vedi?», disse con un tono calmo nella voce vellutata.

«Certo che vedo», concordò Aro e, sorprendentemente, il suo tono era quasi divertito. «Mi chiedo se un’altra coppia di divinità o di mortali abbia mai visto con tanta chiarezza».

I volti disciplinati del corpo di guardia mostravano la stessa incredulità che provavo io.

«Mi hai dato molti elementi su cui riflettere, giovane amico», Aro continuò. «Molti più di quanti me ne aspettassi». Non lasciava ancora andare la mano di Edward, che aveva l’atteggiamento di una persona tesa in ascolto.

Edward non gli rispose.

«Posso conoscerla?», chiese Aro, improvvisamente interessato e quasi supplice. «Per tutti i secoli in cui ho vissuto, non ho mai nemmeno immaginato che potesse esistere una cosa del genere. Che splendida aggiunta ai nostri annali!».

«Che storia è mai questa, Aro?», chiese aspro Caius, prima che Edward potesse rispondere. Bastò quella domanda a farmi prendere Renesmee fra le braccia, stringendomela al petto con delicatezza per proteggerla.

«Qualcosa che non ti sognavi nemmeno, mio pratico amico. Prenditi un attimo per valutarla, perché la giustizia che intendevamo ristabilire non è mai stata infranta».

A quelle parole, Caius sibilò sorpreso.

«Pace, fratello», lo mise in guardia Aro con tono conciliante.

Doveva essere una buona notizia: quelle erano le parole in cui tutti speravamo, la tregua che non avremmo mai immaginato possibile. Aro aveva ascoltato la verità. Aro aveva ammesso che la legge non era stata infranta.

Ma io avevo gli occhi fissi su Edward e vidi che contraeva i muscoli della schiena. Mi ricordai dell’indicazione che Aro aveva dato a Caius, valutare, e capii il doppio senso.

«Mi presenti tua figlia?», chiese di nuovo Aro a Edward.

Caius non fu l’unico a sibilare sentendo questa nuova rivelazione.

Edward annuì, riluttante. Eppure Renesmee aveva conquistato così tanti estranei. Aro era sempre sembrato il capo degli anziani. Se lui stava dalla sua parte, come avrebbero potuto gli altri attaccarci?

Aro teneva ancora stretta la mano di Edward e rispose a una domanda che nessuno di noi aveva sentito.

«Credo che sia accettabile un compromesso su questo punto, viste le circostanze. Incontriamoci a metà strada».

Gli lasciò andare la mano. Edward si voltò verso di noi e Aro lo seguì cingendogli con naturalezza una spalla, come fossero due amiconi, ma in modo da non perdere il contatto. Si diressero verso di noi.

Tutto il corpo di guardia si mise in marcia dietro di loro. Aro alzò una mano con aria noncurante, senza guardarli.

«Fermi, miei cari. Davvero, non ci faranno del male se siamo pacifici».

Il corpo di guardia ebbe una reazione molto più schietta di prima, con ringhi e fischi di protesta, ma restò al suo posto. Renata, aggrappata sempre più vicina ad Aro, gemette per l’ansia.

«Signore», sussurrò.

«Non agitarti, tesoro», rispose lui. «Va tutto bene».

«Forse è meglio che porti con te alcuni membri della guardia», suggerì Edward. «Li farà sentire più a loro agio».

Aro annuì, come se fosse una saggia osservazione cui avrebbe dovuto pensare lui per primo. Schioccò due volte le dita. «Felix, Demetri».

I due vampiri lo affiancarono subito, precisamente uguali all’ultima volta che li avevo visti. Erano entrambi alti, con i capelli scuri, Demetri spigoloso e sottile come la lama di una spada, Felix imponente e minaccioso come una mazza ferrata.

I cinque si fermarono al centro della radura innevata.

«Bella», esclamò Edward. «Porta Renesmee... e qualche amico».

Respirai a fondo. Il mio corpo si era irrigidito in una posizione di rifiuto. L’idea di mettere Renesmee al centro del conflitto... Però mi fidavo di Edward. Se Aro a quel punto avesse avuto in programma di comportarsi in modo sleale, lui lo avrebbe saputo.

Aro aveva tre protettori dalla sua parte in quell’incontro, quindi io ne avrei portati due con me. Mi bastò un secondo per decidere.

«Jacob? Emmett?», chiesi piano. Emmett, perché moriva dalla voglia. Jacob, perché non avrebbe sopportato di restare al suo posto, lontano da noi.

Entrambi annuirono. Emmett ghignò.

Attraversai il campo con loro al mio fianco. Udii un altro borbottio del corpo di guardia quando videro chi avevo scelto: chiaramente, non si fidavano del licantropo. Aro sollevò una mano, liquidando di nuovo la protesta con un gesto.

«Hai proprio delle compagnie interessanti», mormorò Demetri a Edward.

Edward non rispose, ma dai denti di Jacob sfuggì un basso ringhio.

Ci fermammo a qualche metro di distanza da Aro. Edward si sottrasse all’abbraccio di quest’ultimo e si unì rapido a noi, prendendomi per mano.

Per un attimo ci guardammo in silenzio. Poi Felix mi salutò a bassa voce.

«Ci si rivede, Bella». Rise impudente, senza smettere di controllare ogni movimento di Jacob con la coda dell’occhio.

Feci un sorriso sardonico all’enorme vampiro. «Ciao, Felix».

Ridacchiò. «Stai benissimo. L’immortalità ti sta d’incanto».

«Grazie mille».

«Prego. Peccato che...».

Interruppe il commento a metà, ma non mi serviva il dono di Edward per immaginarmi la fine. Peccato che fra un secondo ti uccideremo.

«Eh sì, è proprio un gran peccato», mormorai.

Felix mi fece l’occhiolino.

Aro non prestò alcuna attenzione al nostro scambio. Teneva la testa inclinata da una parte, affascinato. «Sento battere il suo strano cuoricino», disse con accento quasi musicale. «Mi arriva il suo strano profumo». Poi gli occhi annebbiati si spostarono su di me. «In verità, giovane Bella, l’immortalità ti dona in modo straordinario», disse. «È come se fossi nata apposta per questa vita».

Feci un cenno di riconoscenza per la sua lusinga.

«Ti è piaciuto il mio regalo?», mi chiese, guardando il ciondolo che avevo al collo.

«È bello ed è stato molto, molto generoso da parte tua. Grazie. Avrei dovuto mandare un bigliettino di ringraziamento».

Aro rise divertito. «È solo una sciocchezzuola che avevo da parte. Ho pensato che avrebbe potuto fare pendant col tuo nuovo viso, e così è stato».

Sentii un vago sibilo dal centro delle file dei Volturi. Guardai alle spalle di Aro.

Mmm. A quanto pareva, Jane non era troppo contenta del fatto che Aro mi avesse fatto un regalo.

Aro si schiarì la gola per richiamare la mia attenzione. «Posso salutare tua figlia, adorabile Bella?», mi chiese dolcemente.

Cercai di ricordare a me stessa che questo era proprio ciò che avevo sperato. Lottando contro l’istinto di prendere Renesmee e darmela a gambe, avanzai lentamente di due passi. Il mio scudo ondeggiava dietro di me come una cappa, proteggendo il resto della mia famiglia mentre Renesmee restava esposta. Sembrava una cosa sbagliata, orrenda.

Aro ci venne incontro raggiante.

«Ma è incantevole», mormorò. «Assomiglia così tanto a te e a Edward». E poi, più forte: «Ciao, Renesmee».

Renesmee mi diede un’occhiata rapida. Le feci un cenno affermativo.

«Ciao, Aro», rispose formale con la sua voce acuta e squillante.

Aro aveva l’aria perplessa.

«Cos’è?», gli chiese Caius sibilando da dietro. Sembrava scoppiasse dal bisogno di chiederglielo.

«Mezza mortale, mezza immortale», annunciò Aro a lui e al resto del corpo di guardia, senza distogliere lo sguardo ammaliato da Renesmee. «Concepita nello stesso modo e partorita da questa vampira neonata quando era ancora umana».

«Impossibile», lo schernì Caius.

«Allora pensi che mi abbiano preso in giro, fratello?». Aro aveva un’espressione molto divertita ma Caius trasalì. «E il cuore che senti battere è un trucco, secondo te?».

Caius fece una smorfia, con l’aria mortificata, come se le domande gentili di Aro fossero state colpi in piena faccia.

«Calma e pazienza, fratello», lo mise in guardia Aro, che sorrideva ancora a Renesmee. «So bene quanto tieni alla giustizia, ma non c’è nessuna giustizia nell’agire contro l’origine di questa piccolina unica al mondo. E poi abbiamo così tanto da imparare, così tanto! So che non hai il mio stesso entusiasmo per raccogliere storie, ma sii tollerante con me, fratello, mentre vi aggiungo un capitolo tanto improbabile che ne sono sbalordito. Siamo venuti con l’unica aspettativa di far rispettare la giustizia e di assistere alla triste fine della falsa amicizia, e guarda invece cosa abbiamo guadagnato! Una nuova e fulgida conoscenza di noi stessi e delle nostre potenzialità».

Porse la mano a Renesmee in segno d’invito. Ma non era questo che lei voleva. Si allontanò da me, tendendosi verso l’alto per posare le dita sul volto di Aro.

Lui non reagì con lo sconvolgimento tipico di chiunque altro a quel gesto da Renesmee: era abituato tanto quanto Edward a ricevere il flusso di pensieri e ricordi da altre menti.

Il suo sorriso si allargò e sospirò di soddisfazione. «Fantastico», sussurrò.

Renesmee tornò a rilassarsi fra le mie braccia, con un’espressione molto seria sul visino.

«Lo farai, per piacere?», gli chiese.

Il sorriso di Aro diventò gentile. «Ma certo che non ho la minima intenzione di fare del male ai tuoi cari, carissima Renesmee».

Aro aveva una voce così consolante e affettuosa che per un attimo riuscì quasi a ingannarmi. Poi sentii Edward che digrignava i denti e, molto più indietro di noi, il sibilo indignato di Maggie davanti a quella menzogna.

«Mi chiedo se...», disse cauto Aro, apparentemente ignaro della reazione causata dalle sue parole. In modo inaspettato, spostò lo sguardo verso Jacob e, invece del disgusto con cui l’avevano guardato gli altri Volturi, osservò il lupo gigantesco con occhi pieni di una brama che non capivo.

«Non funziona così», disse Edward, con un tono aspro e improvvisamente privo di tutta l’attenta neutralità di prima.

«Era solo un pensiero come un altro», disse Aro, soppesando apertamente Jacob, poi con lo sguardo si spostò piano lungo le due file di licantropi dietro di noi. Qualsiasi cosa gli avesse mostrato Renesmee, aveva d’un tratto reso i lupi più interessanti.

«Non appartengono a noi, Aro. Non eseguono i nostri ordini in quel modo. Si trovano qui unicamente per volontà loro».

Jacob ruggì minaccioso.

«Però sembrano piuttosto affezionati a te», disse Aro, «alla tua giovane compagna e alla tua... famiglia. Sembrano fedeli». Con la voce accarezzò piano quella parola.

«La loro missione è proteggere vite umane, Aro. Questo ne facilita la coesistenza con noi, ma non con voi. A meno che non mettiate in discussione il vostro stile di vita».

Aro rise, allegro. «Era solo un pensiero come un altro», ripeté. «Sai bene come vanno le cose. Nessuno di noi è in grado di controllare del tutto i desideri inconsci».

Edward fece una smorfia. «So bene come funziona. Conosco anche la differenza fra quel tipo di pensiero e quello che nasconde un secondo fine. Non potrebbe mai funzionare, Aro».

Jacob girò l’enorme testa verso Edward e dai denti gli sfuggì un debole lamento.

«È molto affascinato dall’idea dei... cani da guardia», spiegò Edward mormorando.

Ci fu un attimo di calma tombale e poi l’enorme radura si riempì del suono dei ringhi furiosi che salivano dal branco.

Ci fu un latrato secco di comando — forse veniva da Sam, ma non mi girai a controllare — e quelle rimostranze vennero tacitate, facendo calare un silenzio inquietante.

«Immagino che ciò risponda alla mia domanda», disse Aro, ridendo di nuovo. «Questo gruppo ha scelto da che parte stare».

Edward emise un sibilo e si sporse in avanti. Gli afferrai il braccio, chiedendomi cosa, nei pensieri di Aro, potesse causargli una reazione così violenta, mentre Felix e Demetri si rannicchiarono all’unisono, in guardia. Con un nuovo cenno Aro li tranquillizzò. Si rilassarono, come pure Edward.

«Ci sono così tante cose di cui parlare», disse Aro, assumendo improvvisamente il tono di un uomo d’affari oberato di lavoro, «così tante cose da decidere. Se voi e il vostro protettore peloso mi volete scusare, cari Cullen, devo conferire con i miei fratelli».

37 Stratagemmi

Aro non raggiunse le guardie che, ansiose, lo attendevano sul lato nord della radura. Fece loro cenno di avvicinarsi.

Edward cominciò immediatamente a retrocedere, tirando per il braccio me ed Emmett. Arretrammo spediti, senza distogliere lo sguardo dalla minaccia che avanzava. Jacob fu più lento: aveva il pelo ritto sulle spalle e mostrava le zanne ad Aro. Mentre ci ritiravamo, Renesmee gli afferrò la coda; la teneva come un guinzaglio, costringendolo a restare con noi. Raggiungemmo la nostra famiglia nello stesso momento in cui i mantelli scuri tornarono a circondare Aro.

Restavano solo cinquanta metri a dividerci: la distanza che chiunque di noi poteva superare con un salto in una sola frazione di secondo.

Caius cominciò subito a litigare con Aro.

«Come fai ad accettare questa ignominia? Perché restiamo impotenti davanti a un crimine così scandaloso, coperto da un inganno tanto ridicolo?». Teneva le braccia rigide sui fianchi, le dita chiuse come artigli. Mi chiesi perché non si limitava a toccare Aro per comunicare la sua opinione. C’era già una divisione nei loro ranghi? Eravamo così fortunati?

«Perché è tutto vero», gli disse Aro calmo. «Ogni singola parola. Hai visto quanti testimoni sono pronti a confermare di aver visto crescere e maturare questa bambina miracolosa nel breve tempo in cui l’hanno conosciuta. Di aver percepito il calore del sangue che le pulsa nelle vene». Con un ampio gesto Aro indicò tutta la nostra schiera, da Amun a Siobhan.

Caius reagì in modo strano alle parole rasserenanti di Aro, sussultando lievemente nel sentire la parola "testimoni". La rabbia svanì dai suoi lineamenti, sostituita da una freddezza calcolatrice. Fissò i testimoni dei Volturi con espressione che sembrava vagamente... nervosa.

Anch’io fissai la marmaglia inferocita e vidi subito che non si poteva più descrivere come tale: la frenesia di agire si era trasformata in confusione. Fra la folla ribollivano conversazioni sussurrate che cercavano di dare un significato a quanto era accaduto.

Caius era accigliato, assorto nei suoi pensieri. La sua espressione meditativa attizzava le fiamme della mia rabbia che covava sotto la cenere e al tempo stesso mi preoccupava. E se il corpo di guardia avesse agito di nuovo secondo qualche segnale invisibile, com’era successo quando marciava? Angosciata, ispezionai il mio scudo: mi sembrava impenetrabile quanto prima. Lo flettei a formare una cupola bassa e ampia che modellava un arco sopra la nostra compagnia.

Sentivo i pennacchi di luce acuminati nei punti in cui si trovavano la mia famiglia e i miei amici: ognuno aveva un suo carattere individuale, che immaginavo sarei riuscita a riconoscere successivamente, con un po’ di pratica. Riconoscevo già quello di Edward: era il più brillante di tutti. A preoccuparmi era lo spazio vuoto fra un punto e l’altro: non c’erano barriere fisiche davanti allo scudo e, se uno qualsiasi dei Volturi dotato di poteri fosse riuscito a infilarvisi, avrebbe protetto soltanto me. La fronte mi s’increspò mentre tiravo con attenzione l’armatura elastica per avvicinarla. Carlisle era il più lontano: feci arretrare lo scudo centimetro per centimetro, cercando di avvolgerlo nel modo più aderente possibile intorno al suo corpo.

Il mio scudo aveva l’aria di voler collaborare. Abbracciò la sua figura; quando Carlisle si spostò di lato per stare più vicino a Tanya, l’elastico si estese insieme a lui, guidato dalla sua luce.

Affascinata, attirai verso di me altri fili della struttura, avvolgendola stretta intorno a ogni sagoma luminosa amica o alleata. Lo scudo aderiva di sua spontanea volontà, muovendosi insieme con loro.

Era passato solo un secondo; Caius stava ancora riflettendo.

«I licantropi», mormorò infine.

Con improvviso panico, mi accorsi che la maggior parte dei licantropi non erano protetti. Stavo per estendere lo scudo fino a loro quando capii che, stranamente, percepivo comunque le loro scintille. Incuriosita, provai a ritrarre lo scudo, finché Amun e Kebi, all’estremità più lontana del nostro gruppo, ne furono estromessi, insieme ai lupi. Usciti i due dalla barriera protettiva, le loro luci sparirono. Non esistevano più per quel nuovo senso. I lupi avevano ancora la loro fiamma luminosa; o meglio, metà di loro l’avevano. Mmm... Estesi di nuovo lo scudo e, non appena Sam fu sotto la sua copertura, le scintille dei lupi tornarono a brillare.

A quanto pareva, la loro mente era molto più interconnessa di quanto immaginavo. Se l’alfa era all’interno del mio scudo, la mente di tutti gli altri era altrettanto protetta.

«Ah, fratello...», Aro rispose alla frase di Caius con uno sguardo addolorato.

«Difenderai anche quell’alleanza, Aro?», chiese perentorio Caius. «I Figli della Luna sono nostri nemici giurati dai tempi dei tempi. Li abbiamo cacciati fin quasi a farli estinguere in Europa e in Asia. Eppure Carlisle incoraggia un rapporto familiare con questi parassiti, senza dubbio nel tentativo di spodestarci. Per meglio proteggere il suo guasto stile di vita».

Edward si schiarì la voce rumorosamente e Caius lo guardò torvo. Aro si mise una mano sottile e delicata sul viso, come fosse imbarazzato per l’altro anziano.

«Caius, è pieno giorno», fece notare Edward indicando Jacob. «Questi non sono Figli della Luna, è chiaro. Non hanno alcun rapporto con i tuoi nemici dell’altra parte del mondo».

«Allevate dei mutanti qui in zona», gli ribatté Caius.

Edward contrasse la mascella e poi la rilassò, infine rispose pacato: «Non sono nemmeno licantropi. Aro ti può raccontare tutto, se non mi credi».

Non erano licantropi? Lanciai un’occhiata disorientata a Jacob. Sollevò le spalle enormi, poi le lasciò cadere: il suo modo di fare spallucce. Neanche lui sapeva di cosa parlava Edward.

«Caro Caius, ti avrei chiesto di non insistere su questo argomento se mi avessi messo a parte dei tuoi pensieri», mormorò Aro. «Anche se quelle creature si ritengono dei licantropi, non lo sono. Il termine più appropriato per definirli sarebbe "mutaforma". La scelta della forma di lupo è stata un puro caso. Poteva benissimo essere un orso, un’aquila, o una pantera, quando accadde la prima mutazione. Queste creature non hanno proprio nulla a che vedere con i Figli della Luna. Hanno ereditato dai loro padri solo la capacità di mutare. È genetica: non continuano la loro specie infettando altri, come i veri licantropi».

Caius guardò Aro torvo, con rabbia e anche qualcosa di più: un’accusa di tradimento, forse.

«Conoscono il nostro segreto», disse con voce incolore.

Edward sembrava sul punto di rispondere a quell’accusa, ma Aro lo anticipò. «Sono creature del nostro mondo soprannaturale, fratello. Forse sono ancora più legati di noi alla segretezza: è altamente improbabile che ci denuncino. Stai attento, Caius. Le accuse pretestuose non ci portano da nessuna parte».

Caius respirò a fondo e annuì. Si scambiarono uno sguardo lungo ed espressivo.

Credevo di avere capito ciò che stava dietro le parole formulate con tanta attenzione da Aro. Le false accuse non avrebbero contribuito a convincere i testimoni presenti, da nessuna delle due parti: Aro stava esortando Caius a passare alla strategia successiva. Mi chiesi se il motivo che stava dietro alla tensione tangibile fra i due anziani — il rifiuto di Caius di condividere i suoi pensieri tramite il tatto — fosse che a Caius non importava molto di dare spettacolo, non quanto ad Aro. Se Caius considerasse il massacro imminente molto più essenziale di una reputazione immacolata.

«Voglio parlare con l’informatrice», annunciò Caius all’improvviso, rivolgendo lo sguardo verso Irina.

Irina non prestava attenzione alla conversazione fra Caius e Aro: aveva il viso contorto per la sofferenza, gli occhi fissi sulle sorelle, allineate e pronte a morire. Le si leggeva in faccia che ormai era consapevole della falsità totale della sua accusa.

«Irina», abbaiò Caius, infastidito dal fatto di doverne richiamare l’attenzione.

Lei alzò lo sguardo, scossa e istantaneamente impaurita.

Caius schioccò le dita.

Esitante, lei si spostò dalle frange esterne della formazione dei Volturi per trovarsi di nuovo in piedi davanti a Caius.

«E così, a quanto pare, le tue accuse erano alquanto infondate», esordì Caius.

Tanya e Kate si sporsero in avanti, ansiose.

«Mi dispiace», sussurrò Irina. «Avrei dovuto verificare ciò che vedevo. Ma non avevo la minima idea che...». Fece un gesto debole nella nostra direzione.

«Caro Caius, come credi che potesse indovinare in un attimo qualcosa di così strano e impossibile?», chiese Aro. «Chiunque di noi avrebbe tratto le stesse conclusioni».

Caius schioccò le dita in direzione di Aro per zittirlo.

«Sappiamo tutti che hai fatto un errore», disse lui brusco. «Intendevo parlare delle tue motivazioni».

Irina aspettò nervosa che continuasse, poi ripeté: «Le mie motivazioni?».

«Sì, anzitutto cosa ti ha spinto a spiarli».

Irina sussultò sentendo la parola "spiare".

«Eri in contrasto con i Cullen, vero?».

Lei guardò Carlisle con occhi disperati. «Sì, è così», confessò.

«Perché?», la incalzò Caius.

«Perché i licantropi avevano ucciso il mio amico», sussurrò. «E i Cullen non si sono fatti da parte per lasciarmelo vendicare».

«I mutaforma, si chiamano», la corresse Aro con gentilezza.

«Quindi i Cullen si sono alleati con i mutaforma contro quelli della nostra razza, persino contro l’amico di un’amica», sintetizzò Caius.

Sentii Edward che emetteva un suono nauseato sottovoce. Caius stava spuntando una voce della sua lunga lista, cercando un’accusa che resistesse.

Irina irrigidì le spalle. «Io la vedo così».

Caius aspettò di nuovo, poi la imbeccò: «Se volessi fare un reclamo formale contro i mutaforma, e contro i Cullen per averli sostenuti, questo sarebbe il momento opportuno». Fece un sorrisino crudele, in attesa che Irina gli fornisse la sua prossima scusa.

Forse Caius non capiva le vere famiglie, i rapporti basati sull’amore e non sull’amore per il potere. Forse aveva sopravvalutato la forza trascinante della vendetta.

Irina alzò di scatto la mascella e raddrizzò le spalle.

«No, non ho reclami da fare contro i lupi né contro i Cullen. Oggi voi siete venuti per distruggere una bambina immortale. Ma non esiste nessuna bambina immortale. È stato un mio errore e me ne assumo completamente la responsabilità. Ma i Cullen sono innocenti e non avete più motivo di trovarvi qui. Mi scuso infinitamente», disse rivolta a noi, poi si girò in direzione dei testimoni dei Volturi. «Non c’è stato alcun crimine. Non ci sono più motivi validi per la vostra presenza qui».

Mentre lei parlava Caius alzò la mano, in cui reggeva uno strano oggetto di metallo inciso e decorato.

Era un segnale. La reazione fu talmente veloce che assistemmo tutti increduli e sconvolti a ciò che accadde. Finì prima ancora che ci fosse il tempo di reagire.

Tre soldati dei Volturi fecero un balzo in avanti e Irina fu completamente oscurata dai loro mantelli grigi. Nello stesso istante, dalla radura si levò un orribile stridore metallico. Caius entrò strisciando al centro della mischia grigia, e quel grido stridulo e sconvolgente esplose subito in un sorprendente geyser di scintille e lingue di fuoco. I soldati arretrarono con un balzo da quell’inferno improvviso, riprendendo subito i propri posti nella linea perfettamente retta del corpo di guardia.

Caius restò solo a fianco dei resti ardenti di Irina e l’oggetto di metallo che teneva in mano emanava ancora una densa fiammata in direzione della pira.

Con un lieve scatto, il getto di fuoco che usciva dalla mano di Caius sparì. Dalla massa di testimoni dietro ai Volturi si levò un rantolo.

Noi eravamo troppo sbigottiti per fare alcun rumore. Un conto era sapere che la morte arrivava a velocità incredibile e inarrestabile; un altro vederla in diretta.

Caius sorrise, freddo. «Finalmente si è assunta tutta la responsabilità delle sue azioni».

Il suo sguardo balenò sulla nostra prima linea, soffermandosi rapidamente sulle sagome immobili di Tanya e Kate.

In quell’attimo capii che Caius non aveva mai sottovalutato il legame di una vera famiglia. Era questo lo stratagemma, non altri. Non voleva il reclamo di Irina: voleva la sua sfida. Una scusa per distruggerla, per scatenare la violenza che riempiva l’aria come una foschia spessa e combustibile. Lui aveva gettato il fiammifero.

La pace innaturale di quell’incontro traballava già peggio di un elefante su una fune. Se lo scontro fosse iniziato, non ci sarebbe stato modo di fermarlo. Sarebbe cresciuto fino a che uno dei due contendenti fosse stato annientato del tutto. Nella fattispecie, noi. Caius lo sapeva.

E anche Edward.

«Fermatele!», gridò Edward, precipitandosi ad afferrare per un braccio Tanya, mentre lei saltava verso il sorridente Caius con un folle grido di rabbia cruda. Non riuscì a scrollarsi di dosso Edward solo perché Carlisle le aveva stretto le braccia intorno alla vita.

«È troppo tardi per aiutarla», rifletté pressante mentre lei si dibatteva. «Non dargli quello che vuole!».

Trattenere Kate fu più difficile. Gridando senza parole come Tanya, si lanciò nel primo passo dell’attacco che sarebbe finito con la morte di tutti. Rosalie era la più vicina a lei ma, prima che potesse bloccarla, Kate se la scrollò di dosso con tanta violenza da scaraventarla a terra. Emmett prese Kate per il braccio e la scagliò giù, poi arretrò barcollando, con le ginocchia che cedevano. Kate si rialzò in piedi, sembrava inarrestabile.

Garrett le si avventò addosso, atterrandola di nuovo. La strinse con le braccia, serrando le mani intorno ai propri polsi. Vidi gli spasmi che gli percorrevano il corpo mentre lei gli dava la scossa. Lui alzò gli occhi al cielo, ma non mollò la presa.

«Zafrina», gridò Edward.

Lo sguardo di Kate si fece vacuo e le sue grida si trasformarono in gemiti. Tanya smise di fare resistenza.

«Ridammi la mia vista», sibilò Tanya.

Disperatamente, ma con tutta la delicatezza di cui ero capace, resi lo scudo ancora più attillato intorno alle scintille dei miei amici, togliendolo piano a Kate e cercando, nello stesso tempo, di mantenerlo intorno a Garrett, creando una pellicola sottile fra loro.

Allora Garrett riprese il controllo, tenendo ferma Kate sulla neve.

«Se ti lascio alzare, mi atterri di nuovo, Katie?», le sussurrò.

Per tutta risposta lei ringhiò, dibattendosi ancora come una forsennata.

«Ascoltatemi, Tanya, Kate», disse Carlisle in un sussurro lieve ma partecipe. «Al momento, vendicarla non serve a niente. Irina non vorrebbe vedervi sprecare così la vostra vita. Pensate a quello che state facendo. Se li assalite, moriremo tutti».

Tanya, le spalle incurvate per il dolore, si appoggiò a Carlisle. Kate finalmente restò immobile. Carlisle e Garrett continuarono a consolare le due sorelle con parole troppo pressanti per sembrare di conforto.

Tornai a rivolgere l’attenzione agli sguardi fissi che calavano pesanti sul nostro momento di confusione. Con la coda dell’occhio vedevo che Edward e tutti gli altri, esclusi Carlisle e Garrett, avevano di nuovo assunto la posizione di guardia.

Lo sguardo più truce di tutti arrivava da Caius, che fissava incredulo Kate e Garrett a terra sulla neve. Anche Aro li guardava e sul viso gli si leggeva un’espressione incredula. Sapeva di cosa era capace Kate. Aveva sentito la sua potenza nei ricordi di Edward.

Capiva cosa stava succedendo ora? Capiva che il mio scudo era cresciuto in forza e capacità di penetrazione ben più di quanto Edward mi sapeva capace? O pensava che Garrett avesse sviluppato una propria forma d’immunità?

Il corpo di guardia dei Volturi non era più sull’attenti: erano accucciati, pronti a lanciare il contrattacco appena avessimo agito.

Dietro di loro, quarantatré testimoni assistevano con espressioni molto diverse da quelle che avevano quando erano entrati nella radura. La confusione si era trasformata in sospetto. L’uccisione di Irina, veloce come la luce, li aveva scossi. Che male aveva fatto?

Senza la reazione immediata su cui Caius aveva contato per distogliere l’attenzione dal suo gesto sconsiderato, i testimoni dei Volturi si ritrovavano a chiedersi cosa stesse succedendo. Aro guardò di sfuggita alle sue spalle mentre lo osservavo e il volto tradì un barlume di contrarietà. Il suo bisogno di pubblico si era ritorto contro di lui.

Sentii Stefan e Vladimir mormorare esultanti per il disagio di Aro.

Lui ovviamente era preoccupato di mantenere la sua patina di correttezza, come avevano detto i rumeni. Ma non credevo che i Volturi ci avrebbero lasciati in pace solo per salvarsi la reputazione. Dopo aver finito con noi, sicuramente erano pronti a massacrare i loro testimoni. Provai una pietà strana e repentina per la massa di sconosciuti che i Volturi si erano portati dietro perché ci vedessero morire. Demetri avrebbe dato la caccia a tutti finché anche loro non si fossero estinti.

Per Jacob e Renesmee, per Alice e Jasper, per Alistair e per tutti gli sconosciuti che non avevano saputo quanto avrebbero pagato quella giornata, Demetri doveva morire.

Aro toccò piano la spalla di Caius. «Irina è stata punita per aver fornito falsa testimonianza contro questa bambina». Quindi sarebbe stata quella la loro scusa. Continuò. «Non trovi che dovremmo tornare a occuparci delle questioni più imminenti?».

Caius si raddrizzò e la sua espressione s’irrigidì fino a diventare inintelligibile. Guardava davanti a sé senza dire nulla. Il suo viso, stranamente, mi ricordava quello di una persona che aveva appena scoperto di essere stata declassata.

Aro fluttuò verso le prime file e Renata, Felix e Demetri si mossero automaticamente con lui.

«Tanto per essere precisi», disse, «vorrei parlare con alcuni dei tuoi testimoni. Le formalità le conosci, vero?». Liquidò il discorso con un gesto della mano.

Due fatti successero contemporaneamente. Caius puntò lo sguardo su Aro e sfoderò di nuovo quel suo sorrisino crudele. Ed Edward sibilò, stringendo i pugni così forte da dare l’impressione che le ossa delle nocche potessero spuntare da quella pelle dura come il diamante.

Morivo dal bisogno di chiedergli cosa stesse succedendo, ma Aro era abbastanza vicino da udire anche il sussurro più tenue. Vidi Carlisle che fissava ansioso il viso di Edward, poi anche la sua espressione s’indurì.

Mentre Caius era andato a tentoni usando accuse inutili e tentativi scriteriati per scatenare lo scontro, Aro doveva aver escogitato una strategia più efficace.

Aro si mosse come un fantasma attraversando la neve fino all’estremità occidentale del nostro schieramento, fermandosi a una decina di metri da Amun e Kebi. I lupi vicini rizzarono il pelo, rabbiosi, ma mantennero la posizione.

«Ah, Amun, mio vicino delle terre del Sud!», disse cordiale. «È passato tanto tempo da quando sei venuto a trovarmi».

Amun era immobile per l’ansia, Kebi una statua al suo fianco. «Il tempo non significa molto: non mi accorgo mai del suo trascorrere», disse Amun senza muovere le labbra.

«È verissimo», convenne Aro. «Ma forse c’era un altro motivo per cui vi siete tenuti alla larga?».

Amun non parlò.

«Organizzare i nuovi arrivati per formare un clan richiede davvero molto tempo. Io lo so benissimo! Sono felice di avere altre persone che si occupino di quella seccatura. E sono felice che quelli che si sono aggregati di recente si siano ambientate così bene. Mi sarebbe piaciuto che me li presentassi. Sono sicuro che stavi per venirmi a trovare molto presto».

«Ma certo», disse Amun con un tono talmente privo di emozioni che era impossibile stabilire se il suo assenso contenesse sarcasmo o paura.

«Be’, ora siamo qui tutti insieme! Non è una circostanza squisita?».

Amun annuì inespressivo.

«Ma purtroppo il motivo della tua presenza qui non è altrettanto piacevole. Carlisle ti ha chiamato per fare da testimone?».

«Sì».

«E di cosa sei stato testimone per lui?».

Amun parlò con la stessa gelida mancanza di emozioni. «Ho osservato la bambina in questione. Quasi immediatamente è stato palese che non fosse una bambina immortale...».

«Forse dovremmo definire la nostra terminologia», disse Aro, «ora che, a quanto pare, ci sono nuove classificazioni. Parlando di bambina immortale, naturalmente, intendi una bambina umana che è stata morsa e quindi trasformata in vampiro».

«Intendo proprio questo».

«Che altro hai osservato sulla bambina?».

«Le stesse immagini che di sicuro hai visto nella mente di Edward. Che la bambina è la sua figlia naturale. Che cresce. Che apprende».

«Sì, sì», disse Aro, con una traccia d’impazienza in quel tono altrimenti affabile. «Ma nello specifico, durante le prime settimane passate qui, cosa hai visto?».

Amun increspò la fronte. «Che cresce... in fretta».

Aro sorrise. «E ritieni che dovremmo permetterle di vivere?».

Mi sfuggì un sibilo dalle labbra, e non fui l’unica. Metà dei vampiri fra le nostre file fece eco alla mia protesta. Fu un sordo ribollire di rabbia sospeso nell’aria. Dall’altra parte del prato, alcuni testimoni dei Volturi emisero lo stesso suono. Edward fece un passo indietro e mi strinse il polso con la mano, per trattenermi.

Il rumore non indusse Aro a voltarsi, ma Amun si guardò intorno, a disagio.

«Non sono venuto qui per emettere sentenze», rispose ambiguo.

Aro ridacchiò. «Mi basta la tua opinione».

Amun sollevò il mento. «Secondo me, la bambina non rappresenta un pericolo. Impara ancor più rapidamente di quanto impieghi a crescere».

Aro annuì, meditabondo. Dopo un attimo si girò e se ne andò.

«Aro?», lo chiamò Amun.

Aro tornò indietro con una giravolta. «Sì, amico mio?».

«Ho fornito la mia testimonianza. Il mio compito qui è finito. Io e la mia compagna ora vorremmo congedarci».

Aro sorrise cordiale. «Ma certo. Sono felice che abbiamo avuto l’occasione di conversare. E sono certo che ci rivedremo presto».

Le labbra di Amun erano un’unica riga contratta mentre chinava il capo, prendendo atto di quella malcelata minaccia. Sfiorò il braccio a Kebi, poi i due corsero rapidi verso l’estremità meridionale del prato e sparirono fra gli alberi. Sapevo che non avrebbero smesso di correre tanto presto.

Aro stava ripercorrendo il nostro schieramento con movimenti lievi, diretto a est, mentre le sue guardie incombevano piene di tensione. Si fermò quando si trovò davanti alla figura massiccia di Siobhan.

«Salve, cara Siobhan. Sei carina come sempre».

Siobhan inclinò il capo, in attesa.

«E tu?», le chiese. «Risponderesti alle mie domande come ha fatto Amun?».

«Certo», rispose Siobhan. «Ma forse aggiungerei dell’altro. Renesmee ha una comprensione chiara dei limiti. Non rappresenta un pericolo per gli umani, anzi, s’integra con loro molto meglio di noi. Non rischia di tradire il nostro anonimato in nessun modo».

«Non te ne viene in mente proprio nessuno?», chiese serio Aro.

Edward ringhiò, un suono basso e lacerante che veniva dal fondo della gola.

Gli occhi cremisi e velati di Caius si accesero.

Renata si avvicinò protettiva al suo signore.

Garrett lasciò libera Kate di fare un passo avanti, ignorando la sua mano mentre cercava di trattenerlo.

Siobhan rispose piano: «Non capisco cosa intendi».

Aro arretrò silenzioso e leggero, con noncuranza ma diretto verso il suo corpo di guardia. Renata, Felix e Demetri lo seguivano come un’ombra.

«Non è stata infranta alcuna legge», disse Aro con voce conciliante, ma capivamo tutti che stava per arrivare una precisazione.

Soffocai la rabbia che cercava di risalirmi a unghiate lungo la gola per sfogare in un ringhio la volontà di sfida. Scagliai tutta la furia nel mio scudo, ispessendolo e assicurandomi che tutti fossero protetti.

«Non è stata infranta alcuna legge», ripete Aro. «Ne consegue tuttavia che non c’è pericolo? No». Scosse piano la testa. «Questo è un problema distinto».

L’unica reazione fu il tendersi di nervi già al lumicino e Maggie, al limite della nostra banda di combattenti, scosse il capo con una rabbia lenta.

Aro camminava a grandi passi, riflettendo, e sembrava che fluttuasse invece di toccare la terra con i piedi. Notai che a ogni passaggio si avvicinava sempre più alla protezione del suo corpo di guardia.

«La bambina è unica... Totalmente e assurdamente unica. Sarebbe un tale spreco distruggere una cosa così adorabile. Soprattutto quando ci sarebbe così tanto da imparare...». Sospirò, come se non volesse continuare. «Però un pericolo esiste e non si può semplicemente ignorare».

Nessuno rispose alla sua affermazione. Calò un silenzio di tomba mentre proseguiva in un monologo che sembrava recitare solo per sé.

«Quale ironia della sorte che, al progredire degli umani, mano a mano che la loro fede nella scienza cresce e controlla il loro mondo, su di noi incomba sempre meno il pericolo di farci scoprire. Eppure, mentre diventiamo sempre più disinibiti grazie alla loro incredulità nei confronti del soprannaturale, essi divengono così forti con la loro tecnologia che, se lo volessero, potrebbero davvero costituire una minaccia per noi, e persino distruggere alcuni di noi. Per migliaia e migliaia di anni la nostra segretezza è stata soprattutto una questione di convenienza, di praticità, e non di vera e propria sicurezza. Quest’ultimo secolo rozzo e rabbioso ha dato alla luce armi così potenti da mettere in pericolo persino gli immortali. Oggi la fama di esseri mitologici di cui godiamo, in verità, ci protegge dalle creature deboli cui diamo la caccia. Questa bambina portentosa...», e sollevò il palmo della mano come se avesse dovuto appoggiarlo su Renesmee, anche se si trovava a quaranta metri di distanza da lei ed era quasi rientrato nella formazione dei Volturi. «Ah, se potessimo conoscere le sue potenzialità, sapere con certezza assoluta che resteranno sempre avvolte dall’oscurità che ci protegge. Ma non sappiamo niente di ciò che diventerà! I suoi stessi genitori sono angustiati dalla paura per il suo futuro. Non possiamo sapere con certezza cosa diventerà da grande». Fece una pausa, guardando prima i nostri testimoni, e poi, in modo eloquente, i suoi. La voce imitava molto bene qualcuno che era lacerato dalle proprie parole.

Senza staccare gli occhi dai suoi testimoni, proseguì. «Solo ciò che si conosce è sicuro. Solo ciò che si conosce è tollerabile. Ciò che è sconosciuto è... un punto debole».

Il sorriso di Caius si allargò, malvagio.

«Stai traendo conclusioni affrettate, Aro», disse Carlisle, con voce cupa.

«Pace, amico mio», disse Aro sorridente, il volto gentile e la voce cortese come sempre. «Non precipitiamo le cose. Guardiamole da tutti i punti di vista».

«Posso offrire un mio punto di vista?», supplicò Garrett in tono pacato, facendo un altro passo avanti.

«Prego, nomade», disse Aro, con un cenno di assenso.

Garrett alzò il mento. Gettò lo sguardo sulla massa accalcata in fondo al prato e si rivolse direttamente ai testimoni dei Volturi.

«Sono venuto qui su richiesta di Carlisle, come gli altri, per fare da testimone», disse. «Il che di sicuro non si rende più necessario, per quanto riguarda la bambina. Vediamo tutti che cos’è. Ma sono rimasto a fare da testimone a qualcos’altro. A voi». Puntò il dito verso i vampiri diffidenti. «Conosco almeno due di voi — Makenna e Charles — e vedo che molti altri sono girovaghi, vagabondi come me. Che non rispondono a nessun padrone. Riflettete attentamente su quel che vi dico ora.

Questi anziani non sono venuti qui in cerca di giustizia come vi hanno detto. Noi l’avevamo già sospettato, e ora ce ne danno la prova. Sono arrivati qui fuorviati, eppure con una scusa valida per l’azione che avevano in programma. Ora siate testimoni del fatto che cercano scuse deboli per proseguire con la loro vera missione. Siate testimoni del fatto che si sforzano di trovare una giustificazione per il loro vero scopo: distruggere questa famiglia». Con un cenno indicò Carlisle e Tanya.

«I Volturi sono venuti a eliminare quelli che percepiscono come rivali. Forse anche voi, come me, guardate gli occhi dorati dei membri di questo clan e ne restate stupiti. È vero, è difficile capirli. Ma gli anziani guardano e vedono qualcosa al di là della loro strana scelta. Vedono il vero potere.

Con i miei occhi sono stato testimone dei legami che corrono fra i membri di questa famiglia: e dico famiglia, non congrega. Questi strani vampiri dagli occhi dorati rinnegano la propria stessa natura. Ma in cambio hanno forse trovato qualcosa che vale ancora di più della semplice gratificazione del desiderio? Nel tempo passato qui, li ho studiati un pochino e mi sembra che la qualità intrinseca di questi intensi legami di famiglia, anzi, ciò che li rende possibili, sia il carattere pacifico di una vita fatta di sacrifici. Qui non ci sono aggressioni come abbiamo osservato tutti nei grandi clan meridionali, cresciuti e diminuiti rapidamente a furia di faide selvagge. Non c’è sete di dominio. E Aro lo sa meglio di me».

Osservai il viso di Aro mentre le parole di Garrett lo accusavano, in preoccupata attesa di una reazione di qualche tipo. Ma Aro aveva un’espressione di gentilezza divertita, come se esercitasse la pazienza perché il bambino capriccioso si accorgesse che nessuno prestava attenzione alla sua scenata.

«Carlisle ha garantito a noi tutti, quando ci ha detto cosa ci aspettava, che non ci aveva chiamati qui per combattere. Questi testimoni», Garrett indicò Siobhan e Liam, «hanno accettato di fornire le prove, di rallentare l’avanzata dei Volturi con la loro presenza, così che Carlisle potesse avere modo di perorare la sua causa. Ma alcuni di noi si sono chiesti», e qui scoccò un’occhiata al viso di Eleazar, «se il fatto che Carlisle avesse la verità dalla sua potesse bastare a fermare la cosiddetta giustizia. I Volturi sono qui per proteggere la sicurezza del nostro segreto, o per proteggere il loro potere? Sono venuti a distruggere una creazione illecita, o uno stile di vita? Non potrebbero accontentarsi del fatto che il pericolo si è rivelato un semplice malinteso? Oppure procederanno anche senza la scusa di fare giustizia?

Abbiamo già la risposta a tutte queste domande. L’abbiamo sentita nelle parole mendaci di Aro — una dei nostri ha il dono di sapere per certo chi mente — e ormai la vediamo nel sorriso impaziente di Caius. Il loro corpo di guardia è soltanto un’arma priva d’intelligenza, uno strumento della sete di dominio dei loro padroni.

Ora dunque ci sono altre domande cui voi dovete assolutamente rispondere. Chi vi comanda, nomadi? Rispondete alla volontà di qualcun altro, oltre alla vostra? Siete liberi di scegliere la vostra strada, o saranno i Volturi a decidere delle vostre vite? Io sono venuto per testimoniare. Ora rimango per combattere. Ai Volturi non importa niente che muoia una bambina. Vogliono che muoia il nostro libero arbitrio».

Poi si girò verso gli anziani. «Venite, dunque, vi dico! Finiamola con le false razionalizzazioni. Siate sinceri nelle vostre intenzioni e noi lo saremo nelle nostre. Noi difenderemo la nostra libertà. Voi deciderete se attaccarla o meno. Scegliete ora, e mostrate a questi testimoni qual è il vero problema in discussione qui».

Guardò di nuovo i testimoni dei Volturi, scrutando ogni viso a fondo. Il potere delle sue parole era evidente nelle loro espressioni. «Potreste pensare di unirvi a noi. Se credete che i Volturi vi lasceranno restare vivi a raccontare ciò che è successo qui, vi sbagliate. Potremmo essere tutti annientati», disse alzando le spalle, «oppure no. Forse le nostre forze sono meno impari di quanto credono. Forse i Volturi finalmente hanno trovato qualcuno in grado di tener loro testa. In ogni caso, vi prometto questo: se noi cadremo, sarà lo stesso per voi».

Terminò il suo discorso accalorato facendo un passo indietro per tornare al fianco di Kate e poi saltò in avanti e si rannicchiò in guardia, pronto al massacro.

Aro sorrise. «Proprio un bel discorso, mio rivoluzionario amico».

Garrett rimase in posizione di attacco. «Rivoluzionario?», ruggì. «Contro chi mi starei ribellando, se è lecito chiederlo? Sei forse il mio re? Vuoi che ti chiami Signore anch’io, come quei leccapiedi delle tue guardie?».

«Pace, Garrett», disse Aro tollerante. «Mi riferivo solo ai tempi in cui sei nato. Sei ancora un patriota, vedo».

Garrett gli rispose con un’occhiata feroce.

«Chiediamolo ai nostri testimoni», propose Aro. «Ascoltiamo i loro pensieri prima di prendere una decisione. Dite, amici», ci diede le spalle con naturalezza, avanzando di qualche metro in direzione della sua massa di osservatori nervosi, che ora ondeggiava sempre più vicina al limitare della foresta, «cosa ne pensate di tutto ciò? Posso garantire che la bambina non è quello che temevamo. Ci assumiamo il rischio di lasciarla sopravvivere? Mettiamo in pericolo il nostro mondo per conservare intatta la loro famiglia? Oppure ha ragione lo schietto Garrett? Vi unirete a loro per contrastare la nostra improvvisa sete di dominio?».

I testimoni incrociarono il suo sguardo con espressioni caute. Una donna minuta dai capelli neri diede un’occhiata fugace all’uomo biondo scuro che le stava a fianco.

«Queste sono le uniche scelte che abbiamo?», chiese d’un tratto, tornando con lo sguardo ad Aro. «Dichiararci d’accordo con te, o combattere contro di te?».

«Certo che no, affascinante Makenna», disse Aro, apparentemente scandalizzato al pensiero che qualcuno avesse tratto quella conclusione. «Potete andarvene in pace, naturalmente, come ha fatto Amun, anche se non siete d’accordo con la decisione del consiglio».

Makenna guardò di nuovo il suo compagno in viso e lui ebbe un cenno d’assenso.

«Non siamo venuti qui per combattere». Fece una pausa, espirò, poi aggiunse: «Siamo venuti qui a fare da testimoni. E la nostra testimonianza è che la famiglia sotto processo è innocente. Tutto ciò che Garrett ha affermato è vero».

«Ah», disse Aro triste. «Mi spiace che tu ci veda così. Ma è questa la natura del nostro compito».

«Non è ciò che vedo, ma ciò che sento», disse il biondo compagno di Makenna con voce acuta e nervosa. Guardò Garrett. «Garrett dice che hanno i mezzi per scoprire le bugie. Anch’io so quando sento una verità e quando invece non è così». Con gli occhi spaventati si avvicinò alla sua compagna, in attesa della reazione di Aro.

«Non temerci, amico Charles. Senza dubbio il patriota crede davvero in quello che dice», ridacchiò Aro spensierato, e Charles affilò lo sguardo.

«Questa è la nostra testimonianza», disse Makenna. «Ora ce ne andiamo».

Lei e Charles arretrarono lenti, senza girarsi prima di sparire alla vista fra gli alberi. Un altro sconosciuto cominciò a ritirarsi per quella stessa via, poi altri tre gli corsero dietro.

Studiai i trentasette vampiri rimasti. Alcuni sembravano troppo confusi per prendere una decisione. Ma la maggioranza appariva fin troppo consapevole della direzione presa da questa sfida. Immaginai che stessero rinunciando al vantaggio iniziale per capire con precisione chi li avrebbe poi inseguiti.

Ero sicura che anche Aro lo avesse compreso. Distolse lo sguardo e tornò dal suo corpo di guardia a passi lunghi e misurati. Si fermò davanti a loro e li arringò con voce limpida.

«Siamo in minoranza, carissimi», disse. «Non possiamo aspettarci alcun aiuto dall’esterno. Dobbiamo lasciare la questione irrisolta per salvarci la vita?».

«No, Signore», sussurrarono all’unisono.

«La protezione del nostro mondo può valere la probabile perdita di alcuni di noi?».

«Sì», mormorarono. «Non abbiamo paura».

Aro sorrise e si girò verso i suoi compagni nerovestiti.

«Fratelli», disse cupo, «ci sono molti fattori da valutare».

«Consultiamoci», disse ansioso Caius.

«Consultiamoci», ripeté Marcus, in tono indifferente.

Aro ci voltò di nuovo le spalle, rivolgendosi verso gli altri anziani. Si presero per mano e formarono un triangolo avvolto di nero.

Non appena l’attenzione di Aro fu catturata da quel muto consulto, altri due loro testimoni si dileguarono in silenzio nella foresta. Per il loro bene sperai che fossero molto veloci.

Quindi il momento era giunto. Con cura, mi sciolsi dall’abbraccio di Renesmee.

«Ti ricordi quello che ti ho detto?», le chiesi.

Gli occhi le si riempirono di lacrime, ma annui. «Ti voglio tanto bene», sussurrò.

Ora Edward ci guardava, gli occhi color topazio spalancati. Jacob ci fissava con la coda dell’occhio grande e scuro.

«Anch’io ti voglio tanto bene», dissi, poi toccai il suo medaglione. «Più della mia stessa vita». La baciai sulla fronte.

Jacob gemette, a disagio.

Mi alzai in punta di piedi e gli sussurrai all’orecchio: «Aspetta che siano completamente distratti, poi scappa con lei. Allontanati da questo posto più che puoi. Quando ti sei allontanato il più possibile a piedi, lei ha il necessario per farvi salire su un aereo».

I volti di Edward e Jacob erano maschere d’orrore pressoché identiche, tranne il fatto che una apparteneva a un animale.

Renesmee si sporse verso Edward e lui la strinse fra le braccia. Si abbracciarono forte.

«È questo che mi tenevi nascosto?», mi sussurrò sopra la testa di nostra figlia.

«Non a te, ad Aro», mormorai.

«Per via di Alice?».

Annuii.

Sul suo viso si dipinse una dolorosa smorfia di comprensione. Forse la stessa che era apparsa sul mio volto quando finalmente avevo collegato tutti gli indizi forniti da Alice?

Jacob ringhiava piano, un suono stridulo e basso, ma regolare e ininterrotto come se stesse facendo le fusa. Aveva il pelo del collo ritto e i denti scoperti.

Edward baciò Renesmee sulla fronte e sulle guance, poi la sollevò per issarla sulla schiena di Jacob. Lei salì con agilità, tenendosi alla sua pelliccia, e trovò posto facilmente nell’incavo fra quelle enormi scapole.

Jacob si girò verso di me, gli occhi espressivi pieni di tormento, con quel ruggito tonante che gli straziava ancora il petto.

«Sei l’unico cui potremmo affidarla», gli mormorai. «Se tu non l’amassi tanto, non potrei mai sopportare questo momento. So che sei in grado di proteggerla, Jacob».

Gemette di nuovo e chinò la testa per darmi dei colpetti sulla spalla.

«Lo so», sussurrai. «Anch’io ti voglio tanto bene, Jake. Sarai sempre il mio testimone di nozze».

Sulla pelliccia rossastra sotto l’occhio gli scorreva una lacrima grande quanto una palla da baseball.

Edward posò il capo sulla stessa spalla dove aveva collocato Renesmee. «Addio, Jacob, fratello mio... figlio mio».

Agli altri non sfuggì quella scena d’addio. Avevano gli occhi fissi sul triangolo nero silenzioso, ma capivo che ci stavano ascoltando.

«Allora non c’è speranza?», chiese Carlisle in un sussurro. Nella sua voce non c’erano tracce di paura. Solo risolutezza e rassegnazione.

«Certo che c’è», gli risposi. E potrebbe essere vero, mi dissi. «Io conosco solo il destino che spetta a me».

Edward mi prese la mano. Sapeva che anche lui era compreso in quel destino. Parlando del mio destino, era ovvio che intendessi entrambi. Eravamo le due metà di un intero.

Esme, dietro di me, respirava a fatica. Ci passò davanti, sfiorandoci il viso in una carezza, per andare a mettersi a fianco di Carlisle e stringergli la mano.

Di colpo fummo circondati di mormorii di addio e dichiarazioni di affetto.

«Se sopravviviamo a tutto questo», sussurrò Garrett a Kate, «ti seguirò ovunque, donna».

«Adesso si è deciso a dirmelo», borbottò lei.

Rosalie ed Emmett si diedero un bacio rapido ma appassionato.

Tia accarezzò Benjamin sul viso. Lui ricambiò il sorriso, sereno, trattenendo la sua mano contro la guancia.

Non vidi tutte le espressioni d’amore e di dolore. Mi distrasse un’improvvisa pressione che picchiettava contro l’esterno del mio scudo. Non capivo da dove venisse, ma sembrava diretta verso gli estremi del nostro gruppo, in particolare Siobhan e Liam. La pressione non creò danni e poi sparì.

Non ci fu alcun mutamento nelle forme silenziose e immobili degli anziani a consiglio. Ma forse qualche segnale mi era sfuggito.

«State pronti», sussurrai agli altri. «Si comincia».

38 Il potere

«Chelsea sta cercando di rompere i nostri legami», sussurrò Edward. «Ma non riesce a trovarli. Non ci sente...». Spostò lo sguardo su di me. «Sei tu con il tuo scudo?».

Gli sorrisi risoluta. «Sto dominando tutta la situazione».

Improvvisamente Edward si staccò da me e con la mano si sporse verso Carlisle. Al tempo stesso, accusai una stoccata più forte contro lo scudo, nel punto in cui avvolgeva protettivo la luce di Carlisle. Non fu dolorosa, ma nemmeno piacevole.

«Carlisle? Tutto bene?», gli chiese Edward angosciato.

«Sì. Perché?».

«Jane», rispose Edward.

Nel momento stesso in cui pronunciò il suo nome, lei lanciò una dozzina di attacchi acuminati nel giro di un secondo, che martellarono tutto lo scudo elastico, diretti verso dodici punti luminosi diversi. Poi allentai la presa per verificare che lo scudo non avesse subito danni. A quanto pareva, Jane non era stata in grado di perforarlo. Mi guardai intorno rapida; stavano tutti bene.

«Incredibile», disse Edward.

«Ma perché non aspettano che decidano?», sibilò Tanya.

«È la loro procedura normale», rispose brusco Edward. «Di solito rendono inoffensive le persone sotto processo, in modo che non possano fuggire».

Guardai dalla parte di Jane, che fissava il nostro gruppo furiosa e incredula. Ero piuttosto sicura che, a parte me, non avesse mai visto nessuno restare in piedi dopo un suo attacco feroce.

Probabilmente non fu un gesto molto maturo. Ma immaginai che Aro ci avrebbe messo un secondo a intuire, se già non l’aveva fatto, che il mio scudo era molto più potente di quanto sapesse Edward: avevo già un bersaglio gigantesco disegnato sulla fronte e non c’era più motivo per cercare di mantenere segreto quello che ero capace di fare. Quindi scoccai un sorriso compiaciuto in direzione di Jane.

Lei strinse gli occhi e sentii un’altra fitta di pressione, questa volta diretta in particolare a me.

Schiusi di più le labbra, mostrandole i denti.

Jane si fece sfuggire un grido acuto misto a un ringhio. Tutti sussultarono, persino il disciplinato corpo di guardia. Ma non gli anziani, che non si distolsero minimamente dal loro conciliabolo. Il suo gemello la trattenne per il braccio mentre si accucciava, pronta a balzare.

I rumeni cominciarono a sghignazzare maligni, pregustando quello che sarebbe successo.

«Te l’ho detto che questo era il nostro momento», disse Vladimir a Stefan.

«Guarda un po’ che faccia fa quella strega», ridacchiò Stefan.

Alec confortò la sorella con una pacca sulla spalla, poi la prese sottobraccio. Si girò verso di noi, imperturbato, con aria angelica.

Mi aspettavo una pressione, un qualche segno del suo attacco, ma non avvertii nulla. Continuava a fissare nella nostra direzione, con il bel viso inalterato. Ci stava attaccando? Stava perforando il mio scudo? Ero l’unica che riusciva ancora a vederlo? Strinsi la mano a Edward.

«Tutto bene?», gli chiesi con voce strozzata.

«Sì», sussurrò.

«Alec ci sta provando?».

Edward annuì. «Il suo dono è più lento di quello di Jane. Avanza strisciando. Ci raggiungerà fra qualche secondo».

Fu allora che lo vidi, quando seppi cosa dovevo cercare.

Sopra la neve fluiva lentamente una strana foschia limpida, quasi invisibile sullo sfondo bianco. Mi ricordava un miraggio: una lieve distorsione della vista, un barlume. Allargai lo scudo oltre Carlisle e il resto della nostra prima linea, perché temevo la vicinanza di quella foschia furtiva nel momento in cui ci avrebbe colpiti. E se fosse riuscita a incunearsi attraverso la mia protezione intangibile? Dovevamo forse fuggire?

Un brontolio basso attraversò il terreno sotto i nostri piedi e una folata di vento soffiò via la neve in turbini improvvisi nello spazio fra la nostra postazione e quella dei Volturi. Benjamin aveva visto la minaccia strisciante e stava cercando di dirottare la foschia lontano da noi. La neve rendeva facile vedere in che direzione lui scagliava il vento, ma la nebbia non reagiva in nessun modo. Era come l’aria che soffia senza lasciare traccia attraverso un’ombra: l’ombra era immune.

La formazione triangolare degli anziani finalmente si separò quando, con un atroce cigolio, in mezzo alla radura si aprì una faglia profonda e stretta, una lunga linea a zigzag. Per un attimo la terra mi tremò sotto i piedi. Le folate di neve precipitarono nel buco, ma la foschia riuscì a passarci sopra, immune alla gravità come lo era al vento.

Aro e Caius spalancarono gli occhi a vedere la terra che si apriva. Marcus, invece, non tradiva alcuna emozione.

Tacquero, in evidente attesa che la foschia ci raggiungesse. Il vento sibilava più forte, ma non cambiava il percorso della foschia. Ora Jane sorrideva.

Poi la foschia si scontrò contro un muro.

Ne sentii il sapore appena toccò il mio scudo: aveva un gusto denso, dolce, stucchevole. Mi ricordava vagamente la novocaina quando mi desensibilizzava la lingua.

La foschia si arricciò verso l’alto, cercando una falla, un punto debole. Non ne trovò. Le dita della nebbia perlustrarono in alto e intorno a sé, cercando un modo per entrare, e nel farlo evidenziavano le proporzioni incredibili dello schermo protettivo.

Da entrambi i lati dello squarcio creato da Benjamin la gente rimase a bocca aperta.

«Bel colpo, Bella!», esultò Benjamin a voce bassa.

Mi ritornò il sorriso.

Vedevo gli occhi socchiusi di Alec, il dubbio dipinto per la prima volta su quei lineamenti, mentre la sua foschia mulinava innocua intorno ai bordi del mio scudo.

E fu allora che capii che ce la potevo fare. Ovvio, sarei diventata l’obiettivo numero uno, la prima a dover morire, ma finché resistevo eravamo ben più che superiori rispetto ai Volturi. Noi avevamo ancora Benjamin e Zafrina, loro neppure un aiuto soprannaturale, finché reggevo.

«Dovrò assolutamente concentrarmi», sussurrai a Edward. «Quando arriveremo al corpo a corpo, sarà più difficile mantenere lo scudo intorno alle persone giuste».

«Te li terrò lontani».

«No. Tu devi assolutamente occuparti di Demetri. Sarà Zafrina a tenermeli lontani».

Zafrina annuì seria. «Nessuno toccherà questa ragazza», promise a Edward.

«Mi occuperei io di Jane e Alec, ma sono più utile qui».

«Jane è mia», sibilò Kate. «Ha bisogno di essere ripagata con la sua stessa moneta».

«E Alec è in debito di varie vite con me, ma posso accontentarmi della sua», ruggì Vladimir dall’altra parte. «È tutto mio».

«Io voglio solo Caius», disse pacata Tanya.

Gli altri cominciarono a spartirsi gli avversari a loro volta, ma in breve vennero interrotti.

Aro, fissando calmo la foschia inutile di Alec, finalmente parlò.

«Prima che votiamo...», esordì.

Scossi la testa rabbiosa. Ero stufa di quel balletto. In me si stava riaccendendo la sete di sangue e mi dispiaceva di dover restare ferma, perché così sarei stata molto più utile agli altri. Desideravo disperatamente di combattere.

«...lasciate che vi ricordi», continuò Aro, «che, qualunque sia la decisione del consiglio, non occorre che ne consegua alcuna violenza qui».

Edward proruppe in una risata tetra.

Aro lo fissò triste. «Sarebbe uno spreco deplorevole per la nostra specie perdere qualcuno di voi. Specialmente tu, giovane Edward, e la tua compagna neonata. I Volturi sarebbero felici di accogliere molti di voi fra le loro schiere. Bella, Benjamin, Zafrina, Kate. Avete molte possibilità di scelta davanti a voi. Prendetele in considerazione».

I tentativi di Chelsea per separarci svolazzavano impotenti contro il mio scudo.

Aro passò in rassegna con lo sguardo i nostri occhi inflessibili, in cerca di qualsiasi segnale di esitazione. A giudicare dalla sua espressione, non ne trovò.

Intuivo il suo desiderio ardente di tenersi me ed Edward, di imprigionarci proprio come aveva sperato di ridurre in schiavitù Alice. Ma questa battaglia era troppo importante. Se sopravvivevo, lui non avrebbe vinto. Ero felicissima di essere così potente da obbligarlo a scegliere di uccidermi.

«Votiamo, dunque», disse, con evidente riluttanza.

Caius parlò in fretta, impaziente. «La bambina è una variabile impazzita. Non ci sono motivi per permettere che esista un rischio del genere. Deve essere distrutta insieme a tutti quelli che la proteggono». Sorrise speranzoso.

Repressi un grido di sfida in risposta al suo ghigno crudele.

Marcus alzò gli occhi indifferenti, con l’aria di guardare qualcosa al di là di noi mentre votava.

«Non vedo rischi nell’immediato. La bambina per ora non rappresenta un pericolo. Possiamo sempre giudicarla in seguito. Viviamo in pace». La sua voce era ancora più debole dei sospiri leggeri dei suoi fratelli.

Alle sue parole, discordanti da quelle del fratello, nessuno nel corpo di guardia abbandonò la posizione di allerta. Caius non smise il suo ghigno: era come se Marcus non avesse nemmeno parlato.

«A quanto pare il voto decisivo spetta a me», disse Aro fra sé.

Improvvisamente, Edward s’irrigidì al mio fianco. «Sì!», sibilò.

Mi arrischiai a guardarlo. Il viso gli brillava di un’espressione trionfante che non capivo: quella che potrebbe avere un angelo sterminatore mentre osserva il mondo bruciare. Bello e terrificante.

Ci fu una tenue reazione da parte del corpo di guardia, un mormorio di disagio.

«Aro?», lo chiamò Edward, quasi gridando, con una sfumatura malcelata di vittoria nella voce.

Aro esitò per un secondo, valutando con cautela questo nuovo umore prima di rispondere. «Sì, Edward? Hai qualcos’altro da...?».

«Forse», disse Edward a mezza voce, controllando la sua esaltazione inspiegabile. «Prima di tutto, posso chiarire un punto?».

«Ma certo», disse Aro, inarcando le sopracciglia, e ora il suo tono non tradiva altro che un gentile interessamento. Digrignai i denti: Aro era al massimo della pericolosità quando si dimostrava gentile.

«Il pericolo che vedi rappresentato da mia figlia nasce soltanto dalla nostra incapacità di prevedere la sua crescita? È questo il nodo della questione?».

«Sì, amico Edward», convenne Aro. «Se potessimo solo essere certi... essere davvero sicuri che, quando cresce, sarà capace di restare celata al mondo umano, senza mettere in pericolo la sicurezza del nostro mondo segreto...». La voce gli si affievolì e lui si strinse nelle spalle.

«Quindi se potessimo sapere con certezza cosa diventerà...», insinuò Edward, «non ci sarebbe alcun bisogno di un ulteriore consiglio?».

«Se ci fosse un qualche modo di essere certi al cento per cento», convenne Aro, la voce morbida un poco più stridula. Non capiva dove volesse arrivare Edward. E nemmeno io. «In quel caso, sì: non ci sarebbero più problemi su cui discutere».

«E noi ci saluteremo in pace e saremo di nuovo buoni amici?», chiese Edward con una punta d’ironia.

La voce era ancora più acuta. «Ma certo, mio giovane amico. Niente potrebbe farmi più piacere».

Edward ridacchiò esultante. «Allora ho davvero qualcos’altro da offrirti».

Aro affilò lo sguardo. «Lei è assolutamente unica. Il suo futuro si può solo indovinare».

«Non è assolutamente unica», dissentì Edward. «È rara, di sicuro, ma non proprio unica».

Cercai di combattere lo shock, come se la speranza improvvisa che nasceva costituisse per me una distrazione inutile. La foschia nauseabonda mulinava ancora lungo i bordi del mio scudo. E mentre mi sforzavo di concentrarmi, sentii di nuovo la pressione acuminata e martellante contro il mio involucro protettivo.

«Aro, puoi chiedere a Jane di smettere di attaccare mia moglie?», chiese gentilmente Edward. «Stiamo ancora discutendo delle prove».

Aro alzò una mano. «Pace, miei cari. Ascoltiamolo».

La pressione sparì. Jane mi mostrò i denti e io non riuscii a fare a meno di digrignare i miei per tutta risposta.

«Perché non ci raggiungi, Alice?», chiamò forte Edward.

«Alice», sussurrò Esme, sconvolta.

Alice!

Alice, Alice, Alice!

«Alice!», «Alice!», mormoravano altre voci intorno a me.

«Alice», bisbigliò Aro.

Fui pervasa dal sollievo e da una gioia violenta. Mi ci volle tutta la mia forza di volontà per mantenere lo scudo dove si trovava. La nebbia di Alec lo metteva ancora alla prova, cercando un punto debole; se avessi lasciato qualche buco, Jane lo avrebbe visto.

Poi li sentii correre nella foresta, volando, coprendo la distanza nel modo più rapido possibile, senza badare a rallentare per non creare rumore.

Le fazioni erano immobili in attesa. I testimoni dei Volturi aspettavano torvi, confusi e perplessi.

Poi Alice entrò danzando nella radura da sud-ovest e, se fosse stato possibile, il sollievo di rivedere il suo viso mi avrebbe fatto quasi venire un colpo. Jasper la seguiva a pochi centimetri di distanza, lo sguardo fiero e penetrante. Dietro di loro, tre sconosciuti: la prima era una femmina alta e muscolosa con scuri capelli ingovernabili. Ovviamente si trattava di Kachiri. Aveva le stesse membra e i tratti allungati delle altre amazzoni, nel suo caso ancora più pronunciati.

La successiva era una piccola vampira dalla pelle olivastra con una lunga treccia di capelli neri che le ondeggiava sulla schiena. Aveva occhi di un color bordeaux scuro che si muovevano nervosi osservando la folla coinvolta nella disputa.

L’ultimo era un giovane, che non correva con altrettanta velocità e fluidità. Aveva la pelle di un marrone scuro intensissimo, quasi impossibile. Con uno sguardo cauto degli occhi di un caldo color tek perlustrò l’adunata. Anche lui aveva i capelli neri e intrecciati, come la donna, ma non altrettanto lunghi. Era bellissimo.

Mentre ci si avvicinava, un suono imprevisto diffuse ondate di sconvolgimento nella folla degli astanti: il battito di un cuore, accelerato dallo sforzo.

Alice spiccò un salto leggero per superare i confini della foschia sparsa che lambiva il mio scudo e si fermò sinuosa a fianco di Edward. Mi sporsi a toccarle il braccio; Edward, Esme e Carlisle fecero altrettanto. Non c’era tempo per altri tipi di benvenuto. Jasper e gli altri la seguirono attraverso lo scudo.

Tutto il corpo di guardia osservò con occhi pieni di congetture i nuovi arrivati, che attraversavano senza alcuna difficoltà il confine invisibile. I più robusti, Felix e gli altri come lui, concentrarono lo sguardo improvvisamente speranzoso su di me. Non erano sicuri di cosa il mio scudo sapesse respingere, ma ora era chiaro che non avrebbe fermato un assalto fisico. Non appena Aro avesse dato il segnale, si sarebbe scatenato l’attacco, con me per unico obiettivo. Mi chiesi quanti ne sarebbe riusciti ad accecare Zafrina e se questo li avrebbe rallentati. Abbastanza perché Kate e Vladimir togliessero di mezzo Jane e Alec? Non chiedevo di meglio.

Edward, nonostante la concentrazione nell’assalto che stava per sferrare, s’irrigidì furioso in reazione ai loro pensieri. Si controllò e rivolse di nuovo la parola ad Aro.

«Nelle ultime settimane Alice ha cercato per conto suo dei testimoni», disse all’anziano. «E non è tornata a mani vuote. Alice, perché non ci presenti i testimoni che hai portato con te?».

Caius ringhiò. «È finito il tempo concesso alle testimonianze! Aro, deciditi a votare!».

Aro alzò un dito per tacitare il fratello e incollò gli occhi al viso di Alice.

Alice fece un passo avanti con grazia e presentò gli sconosciuti. «Lei si chiama Huilen e lui è suo nipote Nahuel».

Ah, sentire la sua voce... Era come se non fosse mai partita.

Caius strinse forte gli occhi mentre Alice menzionava il rapporto che intercorreva fra i due nuovi arrivati. I testimoni dei Volturi sibilarono fra sé. Il mondo dei vampiri stava cambiando e tutti lo sentivano.

«Parla, Huilen», le ordinò Aro. «Dacci la testimonianza per la quale sei stata condotta fin qui».

La donna minuta guardò Alice, nervosa. Alice le fece un cenno d’incoraggiamento e Kachiri posò la lunga mano sulla spalla della piccola vampira.

«Mi chiamo Huilen», annunciò la donna in un inglese chiaro, ma con un accento strano. Mentre continuava, era evidente che si era preparata a raccontare questa storia, che si era esercitata. Scorreva alla perfezione, come una favola per bambini. «Un secolo e mezzo fa abitavo con il mio popolo, i Mapuche. Mia sorella si chiamava Pire. I nostri genitori le avevano dato il nome della neve sulle montagne, perché aveva la pelle chiara. Ed era bellissima, fin troppo bella. Un giorno venne da me a confidarmi il segreto dell’angelo che l’aveva scoperta nei boschi e l’andava a trovare di notte. Io la misi in guardia». Huilen scosse la testa, addolorata. «Come se non fossero bastati i lividi che aveva sulla pelle, per metterla in guardia. Sapevo che si trattava del Lobishomen delle nostre leggende, ma lei non voleva ascoltarmi. Era sotto l’effetto di un incantesimo.

Quando fu sicura che il figlio del suo angelo scuro le stava crescendo dentro, me lo disse. Non cercai di scoraggiarla dal suo progetto di fuga: sapevo che persino nostro padre e nostra madre avrebbero convenuto che quel bambino doveva essere ucciso e Pire insieme a lui. L’accompagnai nelle zone più remote della foresta. Lei cercò il suo angelo demonio, ma non trovò nulla. Mi presi cura di lei e cacciai per lei quando le forze le vennero meno. Si cibava di animali crudi, beveva il loro sangue. Non avevo più bisogno di conferme su quello che lei portava nel ventre. Speravo di salvarle la vita prima di uccidere il mostro. Ma lei amava il bambino che le cresceva dentro. Lo chiamò Nahuel, come il giaguaro, quando diventò forte e le spezzò le ossa; e nonostante questo continuava ad amarlo.

Non riuscii a salvarla. Il bambino uscì dal grembo facendo a pezzi il corpo della madre e lei morì presto, mentre mi supplicava senza sosta di prendermi cura del suo Nahuel. Fu il suo ultimo desiderio, e accettai di esaudirlo. Però lui mi morse quando cercai di sollevarlo dal corpo di sua madre. Andai a nascondermi nella giungla a morire. Non mi allontanai di molto perché il dolore era troppo. Ma lui mi trovò: il neonato si era fatto strada a fatica nel sottobosco fino ad arrivare da me e mi aspettò. Quando il dolore finì, trovai il piccolo accoccolato vicino a me che dormiva.

Mi sono presa cura di lui finché non è stato in grado di cacciare da solo. Cacciavamo nei villaggi della nostra foresta, restando in disparte. Non ci siamo mai allontanati tanto dalla nostra casa, ma Nahuel voleva vedere la bambina che c’è qui».

Chinò il capo quando finì di parlare e arretrò in modo da nascondersi in parte dietro Kachiri.

Aro aveva le labbra increspate. Fissò il giovanotto dalla pelle scura.

«Nahuel, hai centocinquanta anni?», gli chiese.

«Sì, decennio più, decennio meno», rispose con una voce calda, limpida e bella. L’accento si notava a malapena. «Noi non li contiamo».

«E a quanti anni hai raggiunto la maturità?».

«Circa sette anni dopo la mia nascita avevo completato la crescita».

«E da allora non sei cambiato?».

Nahuel alzò le spalle: «Non che io sappia».

Sentii il brivido che fece tremare il corpo di Jacob. Io invece preferivo non pormi ancora quel problema. Avrei aspettato che il pericolo fosse passato, in modo da potermi concentrare.

«E di cosa ti nutri?», lo incalzò Aro, interessato suo malgrado.

«Di sangue, soprattutto, ma anche di cibo umano. Posso sopravvivere con entrambi».

«Sei stato capace di creare un’immortale?». Mentre Aro indicava Huilen, improvvisamente la sua voce si fece molto partecipe. Tornai a concentrarmi sullo scudo: forse stava cercando un nuovo pretesto.

«Sì, ma nessuna delle altre sa farlo».

Un mormorio scioccato percorse tutti e tre i gruppi.

Aro alzò bruscamente le sopracciglia: «Le altre?».

«Le mie sorelle», rispose di nuovo Nahuel stringendosi nelle spalle.

Aro lo fissò per un attimo con occhi di brace prima di ricomporsi.

«Immagino che tu ci voglia raccontare il resto della tua storia, visto che a quanto pare non è finita».

Nahuel si accigliò.

«Qualche anno dopo la morte di mia madre, mio padre è venuto a cercarmi». Il suo bel viso si alterò leggermente. «È stato felice di trovarmi». Il tono di Nahuel suggeriva che la simpatia non fosse reciproca. «Aveva due figlie, ma nessun altro figlio maschio. Si aspettava che mi unissi a lui, come avevano fatto le mie sorelle. Si sorprese di non trovarmi solo. Le mie sorelle non sono velenose, ma non so se dipenda dal sesso o dal caso, chi può dirlo? Comunque io avevo già formato una famiglia con Huilen e cambiare non m’interessava», distorse quest’ultima parola. «Ogni tanto lo vedo. Ho una sorella nuova: ha raggiunto la maturità circa dieci anni fa».

«Tuo padre come si chiama?», chiese Caius a denti stretti.

«Joham», rispose Nahuel. «Si considera uno scienziato. È convinto di poter creare una nuova razza eletta». Non si sforzò di nascondere il disgusto.

Caius mi guardò. «Tua figlia è velenosa?», chiese bruscamente.

«No», risposi. Udita la domanda di Caius, Nahuel alzò di scatto la testa e gli occhi color tek sondarono il mio viso.

Caius guardò Aro in attesa di una conferma, ma quest’ultimo era troppo assorto nei propri pensieri. Increspò le labbra e fissò Carlisle, poi Edward, e infine il suo sguardo si fermò su di me.

Caius ringhiò. «Prendiamoci cura dell’anomalia che c’è qui e poi proseguiamo verso sud», incalzò suo fratello Aro.

Aro mi guardò negli occhi per un momento lungo e gravido di tensione. Non avevo la minima idea di cosa stesse cercando, o di cosa avesse trovato, ma, dopo avermi valutata per quell’attimo, qualcosa nella sua espressione cambiò, l’atteggiamento della bocca e dello sguardo variarono leggermente, e capii che aveva preso una decisione.

«Fratello», disse piano a Caius. «Pare proprio che non ci sia pericolo. Questo sviluppo è davvero insolito, ma non vedo alcuna minaccia. Sembra che questi mezzi vampiri siano quasi uguali a noi».

«Questo è il tuo voto?», chiese perentorio Caius.

«Sì».

Caius si accigliò. «E quel Joham? Quell’immortale così appassionato di sperimentazioni?».

«Forse è il caso che andiamo a parlare con lui», convenne Aro.

«Fermate pure Joham se volete», disse Nahuel con tono neutro. «Ma lasciate stare le mie sorelle. Loro sono innocenti».

Aro annuì, con espressione solenne. Poi si girò verso il suo corpo di guardia, con un sorriso cordiale.

«Miei cari», gridò. «Oggi non si combatte».

Il corpo di guardia annuì all’unisono e abbandonò la posizione di difesa. La foschia si disperse rapidamente, ma io continuai a mantenere attivo il mio scudo. Poteva darsi che fosse soltanto l’ennesimo trucco.

Analizzai le loro espressioni mentre Aro tornò a rivolgersi a noi. Aveva il solito viso benevolo, ma, al contrario di prima, avvertivo uno strano vuoto dietro la facciata, come se avesse smesso di tramare. Caius, chiaramente, era furioso, ma ora la sua era una rabbia interiore: si era rassegnato. Marcus aveva l’aria... annoiata: non avrei saputo come descriverla altrimenti. Il corpo di guardia era tornato a essere impassibile e disciplinato: al suo interno non c’erano individui, solo un intero. Si misero in formazione, pronti a partire. I testimoni dei Volturi restavano cauti: uno dopo l’altro se ne andarono, sparpagliandosi nei boschi. Mano a mano che diminuivano di numero, quelli che restavano si affrettavano. Presto non ne rimase più nessuno.

Aro tese le mani verso di noi, quasi per scusarsi. Dietro di lui la maggior parte del corpo di guardia, insieme a Caius, Marcus e alle mogli mute e misteriose, stava già allontanandosi rapidamente, sempre in formazione precisa. Solo i tre che sembravano costituire la sua guardia personale si erano trattenuti con lui.

«Sono così felice che tutto si sia potuto risolvere senza violenza», disse dolcemente. «Carlisle, amico mio, quanto mi fa piacere poterti chiamare di nuovo amico! Spero non ci sia rancore. So che capisci il rigido fardello che il nostro dovere ci pone sulle spalle».

«Vai in pace, Aro», disse secco Carlisle. «Ricorda che qui dobbiamo ancora proteggere il nostro anonimato, quindi fa’ in modo che le tue guardie non si mettano a cacciare in questa regione».

«Ma certo, Carlisle», lo rassicurò Aro. «Mi dispiace che tu disapprovi, caro amico. Forse, col tempo, mi perdonerai».

«Forse, col tempo, se ci dimostrerai di nuovo la tua amicizia».

Aro chinò il capo, il rimorso fatto persona, e arretrò un poco prima di girarsi e andare via. Senza parlare, guardammo gli ultimi quattro Volturi che sparivano fra gli alberi.

Calò il silenzio, ma non mollai la presa sullo scudo.

«È davvero finita?», sussurrai a Edward.

Aveva un sorriso smagliante. «Sì. Si sono arresi. Come tutti i prepotenti, dietro la spavalderia sono dei vigliacchi». Ridacchiò.

Alice si unì alla risata. «Sul serio, gente. Non ritorneranno. Potete rilassarvi tutti, ora».

Ci fu un’altra pausa di silenzio.

«Fortuna sfacciata», borbottò Stefan.

E poi la gente capì.

Eruppero grida di giubilo. Ululati assordanti riempirono la radura. Maggie diede un pugno a Siobhan sulla schiena. Rosalie ed Emmett si baciarono di nuovo, stavolta più a lungo e con maggior passione. Benjamin e Tia erano serrati in un abbraccio, come Carmen ed Eleazar. Esme abbracciava forte Alice e Jasper. Carlisle stava ringraziando con affetto i nuovi arrivati dal Sudamerica che ci avevano salvati tutti. Kachiri era molto vicina a Zafrina e Senna, le dita intrecciate alle loro. Garrett sollevò da terra Kate e la fece girare in cerchio.

Stefan sputò sulla neve. Vladimir digrignò i denti con un’espressione stizzita.

Io quasi mi arrampicai sull’enorme lupo rossastro per strappargli mia figlia dalla schiena e poi stritolarla contro il mio petto. In quello stesso secondo Edward ci strinse in un abbraccio.

«Nessie, Nessie, Nessie», cantilenai.

Jacob rise nel suo modo fragoroso, simile a un latrato, e mi colpì la nuca con il naso.

«Sta’ zitto», gli borbottai.

«Posso restare con voi?», domandò Nessie.

«Per sempre», le promisi.

L’eternità era nostra. E Nessie sarebbe stata bene, sarebbe cresciuta sana e forte. Come il semi-umano Nahuel, a centocinquant’anni sarebbe stata ancora giovane. E noi saremmo rimasti tutti insieme.

Dentro di me la felicità si espandeva come un’esplosione: così estrema, così violenta che non ero sicura di riuscire a sopravvivere.

«Per sempre», mi ripeté Edward nell’orecchio.

Non riuscivo più a parlare. Alzai la testa e lo baciai con una passione che avrebbe potuto incendiare la foresta.

Ma io non me ne sarei accorta.

39 Felici e contenti

«E quindi alla fine ha agito una combinazione di fattori, ma se bisogna sintetizzare è stata... Bella», stava spiegando Edward. La nostra famiglia e gli unici due ospiti rimasti erano seduti nel salone dei Cullen, mentre la foresta imbruniva fuori dalla vetrata.

Vladimir e Stefan erano svaniti prima ancora che avessimo finito di festeggiare. Erano parecchio delusi dal modo in cui si erano risolte le cose, ma Edward disse che si erano goduti la vigliaccheria dei Volturi quasi quanto bastava a compensare la loro frustrazione.

Benjamin e Tia avevano seguito rapidamente le orme di Amun e Kebi, impazienti di metterli a parte dell’esito della contesa; ero sicura che avremmo rivisto gli egizi, quantomeno Benjamin e Tia. Nessuno dei nomadi si trattenne. Peter e Charlotte conversarono brevemente con Jasper, poi partirono anche loro.

Persino le amazzoni, finalmente riunite, non vedevano l’ora di tornare a casa: facevano molta fatica a stare lontane dalla loro adorata foresta pluviale, per quanto fossero più riluttanti a lasciarci di molti altri.

«Devi portare la bambina a trovarmi», aveva insistito Zafrina. «Promettimelo, piccola».

Nessie mi aveva poggiato la mano sul collo, supplicandomi a sua volta.

«Ma certo, Zafrina», avevo confermato.

«Saremo grandi amiche, mia piccola Nessie», aveva dichiarato la donna selvaggia prima di partire con le sorelle.

Il clan degli irlandesi partecipava alla partenza in massa.

«Brava, Siobhan», si congratulò Carlisle mentre si congedavano.

«Ah, il potere delle illusioni», rispose lei sarcastica, alzando gli occhi al cielo. Poi di botto tornò seria. «Naturalmente non è finita. I Volturi non perdoneranno ciò che è successo qui».

Fu Edward a risponderle. «Sono rimasti gravemente scossi: la loro fiducia in se stessi è a pezzi. Però sono sicuro che prima o poi si riprenderanno dal colpo. E allora...». Socchiuse gli occhi. «Immagino che cercheranno di colpirci uno alla volta».

«Alice ci avvertirà quando decideranno di attaccare», disse Siobhan con voce ferma. «E noi ci raduneremo ancora. Forse verrà un momento in cui il nostro mondo sarà pronto a essere del tutto libero dai Volturi».

«Quel momento potrebbe arrivare», rispose Carlisle. «E se arriva, ci troverà uniti».

«Sì, amico mio», assentì Siobhan. «E com’è possibile fallire, quando io desidererò che accada l’opposto?». Scoppiò a ridere forte.

«Proprio così», disse Carlisle. Scambiò un abbraccio con Siobhan, poi strinse la mano a Liam. «Prova a rintracciare Alistair e a raccontargli cos’è successo. Non vorrei proprio che se ne stesse nascosto sotto una roccia per il prossimo decennio».

Siobhan rise di nuovo. Maggie abbracciò sia Nessie che me, infine il clan irlandese se ne andò.

I vampiri di Denali furono gli ultimi a lasciarci e Garrett partì con loro — ero piuttosto sicura che si trattasse di una scelta permanente. L’atmosfera di festeggiamento era eccessiva per Tanya e Kate. Avevano bisogno di tempo per piangere la sorella perduta.

Huilen e Nahuel invece erano rimasti, malgrado mi aspettassi di vederli partire con le amazzoni. Carlisle era immerso in un’intensa conversazione con Huilen; Nahuel le sedeva vicino e ascoltava mentre Edward raccontava a noi la storia della contesa come solo lui poteva saperla.

«Alice ha fornito ad Aro la scusa che gli serviva per uscire dallo scontro. Se non fosse stato tanto terrorizzato da Bella, probabilmente avrebbe portato avanti il piano originale».

«Terrorizzato?», chiesi scettica. «Da me?».

Mi sorrise con uno sguardo che non riconoscevo del tutto: era tenero, ma anche ammirato e persino spazientito. «Quando ti deciderai a vederti in modo chiaro?», disse, dolcemente. Poi parlò ad alta voce, rivolto agli altri oltre che a me. «In duemilacinquecento anni i Volturi non hanno mai combattuto ad armi pari. Men che meno in condizione di svantaggio. Specialmente da quando hanno acquisito Jane e Alec, si sono dedicati solo a massacri nei quali la resistenza del nemico era nulla.

Avresti dovuto vedere che impressione gli abbiamo fatto! Di solito Alec annienta i sensi e le emozioni delle vittime mentre loro fingono di riunirsi a consiglio. In quel modo, nessuno può scappare quando pronunciano il verdetto. Ma noi eravamo lì, pronti, in attesa, in numero superiore al loro, con doni speciali tutti nostri, mentre i loro talenti venivano neutralizzati da Bella. Aro sapeva che, con Zafrina dalla nostra parte, all’inizio sarebbero stati accecati. Sono sicuro che le nostre schiere sarebbero state decimate abbastanza gravemente, ma loro erano certi di subire almeno altrettante perdite. C’era persino una discreta possibilità che perdessero. Non gli è mai capitato di misurarsi con una possibilità simile. E oggi non vi si sono misurati con onore».

«Difficile sentirsi sicuri quando si è circondati da lupi grossi come cavalli», rise Emmett e diede un pizzicotto sul braccio a Jacob.

Jacob gli scoccò un gran sorriso.

«Sono stati i lupi a fermarli, prima di tutto», dissi.

«Di sicuro», convenne Jacob.

«Proprio così», annuì Edward. «Altra visione senza precedenti, per loro. I veri Figli della Luna si muovono raramente in branco, non riescono a controllarsi molto. Non erano preparati alla sorpresa di sedici enormi lupi irreggimentati. Caius ha davvero il terrore dei licantropi. Ha quasi perso uno scontro con uno di loro, qualche migliaio di anni fa, e non l’ha mai dimenticato».

«Quindi esistono dei veri licantropi?», chiesi. «Con la luna piena e le pallottole d’argento e tutte quelle storie?».

Jacob sbuffò. «"Veri". E io cosa sono, immaginario?».

«Hai capito benissimo».

«Sì, la luna piena è una storia vera», disse Edward. «Quella delle pallottole d’argento, no: è solo una leggenda nata perché gli umani si sentissero in grado di fronteggiarli. Non ne rimangono molti. Caius li ha fatti cacciare fin quasi all’estinzione».

«Non ne hai mai parlato perché...?».

«Non ce n’è mai stata occasione».

Alzai gli occhi al cielo e Alice rise, sporgendosi in avanti — era infilata sotto l’altro braccio di Edward — per farmi l’occhiolino.

La ricambiai con un’occhiataccia.

A nessuno volevo bene come a lei, naturalmente. Ma ora che mi rendevo davvero conto che era tornata a casa, e che la sua diserzione era stato un semplice stratagemma per far credere a Edward che ci avesse abbandonati, cominciava a montarmi una certa rabbia. Alice mi doveva delle spiegazioni.

Lei sospirò. «Sputa il rospo, Bella».

«Come hai potuto farmi questo, Alice?».

«Era necessario».

«Necessario!», sbottai. «Eri riuscita a convincermi che saremmo morti! Sono stata uno straccio per settimane».

«Poteva finire così», rispose calma. «Nel qual caso dovevi essere preparata a salvare Nessie».

Per istinto, strinsi più forte la piccola, che ora mi dormiva in braccio.

«Ma sapevi che c’erano anche altre possibilità», l’accusai. «Sapevi che qualche speranza esisteva. Ti è mai venuto in mente che avresti potuto dirmi tutto? Ho capito che Edward, per via di Aro, doveva credere che fossimo spacciati, ma almeno a me avresti potuto dirlo».

Mi guardò per un attimo, meditativa. «Non credo proprio», disse. «Non sei una brava attrice, punto e basta».

«Cioè il problema era il mio talento nella recitazione?».

«Non esagerare, Bella. Hai idea di quanto sia stato complicato organizzare tutto? Non ero nemmeno sicura che esistesse qualcuno come Nahuel: sapevo solo che stavo cercando qualcosa che non avrei potuto vedere! Prova a immaginare di individuare un punto cieco: non è certo la cosa più facile che mi sia capitato di fare. In più dovevamo inviare qui i testimoni principali, come se non avessimo già avuto abbastanza fretta. E poi ho dovuto tenere gli occhi aperti in continuazione, nel caso tu decidessi di mandarmi altre istruzioni. Un giorno o l’altro mi dirai cosa c’è a Rio. Ma, ancora prima, dovevo prevedere tutti i trucchi che avrebbero potuto utilizzare i Volturi e trasmetterti ogni indizio in mio possesso per prepararti alla loro strategia... tutto nelle poche ore che mi rimanevano per abbozzare ogni possibilità. Ma principalmente, dovevo garantirmi che foste tutti convinti che vi avessi mollati: Aro doveva essere certo che non aveste assi nella manica, altrimenti non si sarebbe mai lasciato una scappatoia del genere. E se credi che non mi sia sentita un’idiota...».

«Okay, okay!», la interruppi. «Scusa tanto! Lo so che è stato terribile anche per te. È solo che... be’, mi sei mancata da morire, Alice. Non farmi mai più una cosa del genere».

La sua risata squillante risuonò per la stanza e sorridemmo nel risentire quella musica. «Anche tu mi sei mancata, Bella. Quindi perdonami e cerca di accontentarti di essere la supereroina della giornata».

Adesso ridevano tutti, mentre nascondevo imbarazzata il viso fra i capelli di Nessie.

Edward riprese ad analizzare ogni cambiamento d’intenzioni e di controllo che si era verificato quel giorno nel prato, insistendo col dire che era stato il mio scudo a far fuggire i Volturi con la coda fra le gambe. Il modo in cui tutti mi guardavano mi metteva a disagio. Persino Edward. Era come se nel corso della mattina fossi cresciuta di tre metri. Cercai di ignorare gli sguardi ammirati e di concentrarmi sul visetto di Nessie che dormiva e sull’espressione immutata di Jacob. Per lui sarei sempre stata solo Bella e questa consapevolezza mi dava un grande sollievo.

Lo sguardo che era più difficile ignorare era anche quello che mi confondeva di più.

Nahuel, mezzo umano e mezzo vampiro, non mi aveva mai conosciuto prima. Per lui, me ne andavo in giro a sgominare attacchi di vampiri tutti i giorni e la scena nel prato non era stata niente d’insolito. Eppure quel ragazzo non mi toglieva gli occhi di dosso. O forse guardava Nessie. Anche quella possibilità mi metteva a disagio.

Lui non poteva certo ignorare che Nessie era la sola femmina della sua specie che non fosse sua sorellastra.

Probabilmente Jacob non aveva ancora pensato a quell’aspetto della situazione e speravo che non lo facesse tanto presto. Dopo un giorno come quello, ne avevo più che abbastanza di antagonismi e tensioni.

Alla fine gli altri esaurirono le domande da fare a Edward e la discussione si spezzettò in gruppetti più ridotti.

Mi sentivo stranamente stanca. Non avevo sonno, naturalmente, ma era come se la giornata fosse durata fin troppo. Volevo un po’ di pace, un po’ di normalità. Volevo mettere Nessie a dormire nel suo letto; volevo vedere le pareti della nostra casetta intorno a me. Guardai Edward e per un attimo mi sentii quasi capace di leggere nel pensiero. Capivo che si sentiva proprio nello stesso modo. Pronto per godersi un po’ di pace.

«Portiamo Nessie...».

«Buona idea», convenne rapido. «Sono sicuro che non ha dormito bene la notte scorsa, con tutto quel russare».

Sorrise a Jacob.

Jacob alzò gli occhi al cielo e poi sbadigliò. «È da un po’ che non dormo in un letto. Credo che mio padre si emozionerà tantissimo ad avermi di nuovo sotto il suo tetto».

Gli sfiorai una guancia. «Grazie, Jacob».

«Sai che puoi contare su di me, Bella. L’hai sempre saputo».

Si alzò, si stiracchiò, diede un bacio sulla testa a Nessie e poi a me. Infine, diede un pugno sulla spalla a Edward. «Ci vediamo domani. Mi sa che adesso sarà tutto un po’ noioso, no?».

«Lo spero ardentemente», rispose Edward.

Non appena fu uscito, ci alzammo; mi mossi con attenzione in modo da non sballottare Nessie. Ero profondamente grata di vederla dormire bene. Quelle piccole spalle avevano sopportato un peso immenso. Era ora che potesse essere di nuovo bambina: protetta e al sicuro. Che si godesse ancora qualche anno d’infanzia.

L’idea di pace e di sicurezza mi ricordò qualcuno che non provava sempre quelle sensazioni.

«Ah, Jasper?», gli chiesi mentre ci dirigevamo verso la porta.

Era schiacciato fra Alice ed Esme, e in un certo senso sembrava più essenziale del solito nel quadro familiare. «Sì, Bella?».

«Sono curiosa: perché J. Jenks si spaventa a morte solo sentendo il tuo nome?».

Jasper ridacchiò. «Per la mia esperienza, certi rapporti di lavoro funzionano meglio se sono motivati più dalla paura che dal guadagno».

Feci una smorfia, ripromettendomi che da quel momento in poi certi incarichi sarebbero spettati a me, per risparmiare a J. l’attacco di cuore che era sicuramente in arrivo.

Ci baciarono, ci abbracciarono e noi augurammo la buona notte alla nostra famiglia. L’unica nota stonata era di nuovo Nahuel, che ci guardava intensamente, come volesse seguirci.

Attraversato il fiume, ci incamminammo con un passo appena più veloce di quello umano, senza fretta, tenendoci per mano. Ero stufa di essere ostaggio delle scadenze, volevo prendermela con calma. Edward probabilmente era d’accordo.

«Devo dire che sono davvero colpito da Jacob al momento», disse Edward.

«I lupi fanno la loro figura, vero?».

«Volevo dire un’altra cosa. Oggi non ha mai pensato al fatto che, secondo quello che dice Nahuel, Nessie avrà raggiunto la maturità completa solo fra sei anni e mezzo».

Ci riflettei per un attimo. «Lui non la vede così. Non ha nessuna fretta che cresca. Vuole solo che lei sia felice».

«Lo so. E la cosa mi colpisce, come ti dicevo. Sarà anche una cosa da non dirsi, ma poteva andarle molto peggio».

Mi accigliai. «Non intendo pensarci per i prossimi sei anni e mezzo».

Edward rise, poi sospirò. «Certo, a quanto pare avrà un concorrente di cui preoccuparsi, quando arriverà il momento».

Aggrottai ancora un poco le sopracciglia. «Me ne sono accorta. Sono grata a Nahuel per oggi ma tutto quel fissare era un po’ strano. Non m’importa niente che lei sia l’unica mezza vampira che non è sua parente».

«Ma non stava fissando lei: fissava te».

Era sembrato anche a me, però non aveva alcun senso. «E perché dovrebbe?».

«Perché tu sei viva», disse piano.

«Non ti seguo».

«Per tutta la vita — e ha cinquant’anni più di me...», cominciò a spiegare Edward.

«È decrepito, allora», lo interruppi.

Mi ignorò. «...si è sempre sentito una creatura del male, assassino per natura. Anche le sue sorellastre hanno ucciso le proprie madri, ma non ci avevano mai dato peso. Joham le ha educate nella certezza che gli umani fossero animali, mentre loro erano divinità. Nahuel invece è stato cresciuto da Huilen, che amava sua sorella più di ogni altra cosa. È stata lei a plasmare tutto il modo di pensare del ragazzo. E per certi versi lui si è detestato davvero».

«Che cosa triste», mormorai.

«Poi ha visto noi tre e ha capito per la prima volta che, se anche è mezzo immortale, non vuol dire che sia una creatura malvagia per natura. Mi guarda e vede... ciò che avrebbe dovuto essere suo padre».

«Ma tu sei una figura piuttosto ideale, da tutti i punti di vista», concordai.

Sbuffò, poi tornò serio. «Guarda te e vede la vita che avrebbe dovuto avere sua madre».

«Povero Nahuel», mormorai e poi mi sfuggì un sospiro, perché ero consapevole che non sarei più riuscita a pensar male di lui, per quanto mi mettesse a disagio avere il suo sguardo addosso.

«Non essere triste per lui. Ora è felice. Oggi ha cominciato finalmente a perdonarsi».

Sorrisi per la felicità di Nahuel e poi pensai che quella giornata doveva essere consacrata alla felicità. Anche se il sacrificio di Irina gettava un’ombra buia sopra la luce bianca e impediva a quel momento di essere perfetto, era impossibile negare la gioia. La vita per cui avevo combattuto era di nuovo al sicuro. La mia famiglia era riunita. Mia figlia aveva un bel futuro che si stendeva infinito davanti a lei. L’indomani sarei andata a trovare mio padre: avrebbe visto che la paura del mio sguardo si era trasformata in gioia, e sarebbe stato felice anche lui. Improvvisamente ebbi la certezza che non lo avrei trovato solo. Nelle ultime settimane non ero stata una buona osservatrice come di consueto, ma in quel momento era come se l’avessi sempre saputo. Da Charlie avrei incontrato Sue — la mamma dei licantropi con il papà della vampira — e lui non sarebbe più stato solo. Sorrisi felice di quella nuova intuizione.

Ma il fatto più significativo in quell’ondata di felicità era il più certo di tutti: ero insieme a Edward. Per sempre.

Non che avessi voglia di rivivere le ultime settimane, però dovevo ammettere che erano servite più che mai a farmi apprezzare ciò che avevo.

La nostra casetta era un luogo di pace e perfezione nel blu argentato della notte. Portammo Nessie nel suo lettino e le rimboccammo piano le coperte. Sorrideva nel sonno.

Presi il regalo di Aro che avevo al collo e lo gettai piano neh l’angolo della sua camera. Ci poteva giocare, se voleva: le piacevano gli oggetti luccicanti.

Io ed Edward ci dirigemmo lentamente nella nostra stanza, dondolando le braccia.

«È una notte da festeggiamenti», mormorò e mi posò la mano sotto il mento per sollevarmi le labbra alla sua altezza.

«Aspetta», esitai, ritraendomi.

Mi guardò confuso. Non era da me reagire in quel modo. Anzi, quella era la prima volta che facevo un’eccezione.

«Voglio provare una cosa», lo informai, sorridendo un po’ della sua espressione perplessa.

Gli posai le mani su entrambi i lati del viso e chiusi gli occhi per concentrarmi.

Non ero stata bravissima in passato, quando Zafrina aveva cercato di insegnarmelo, ma ormai conoscevo meglio il mio scudo. Avevo riconosciuto la parte che lottava per non separarsi da me, l’istinto automatico di proteggere me stessa sopra ogni altra cosa.

Era ancora molto più difficile che non riparare sotto lo scudo altre persone insieme a me. Sentii l’elastico rimbalzare di nuovo mentre lo scudo lottava per proteggermi. Dovetti sforzarmi per togliermelo di dosso: ci volle tutta la mia capacità di concentrazione.

«Bella!», esclamò Edward, sconvolto.

In quel momento capii che stava funzionando e mi concentrai ancora di più, ripescando i ricordi specifici che avevo conservato per questo momento, lasciando che m’inondassero la mente, nella speranza che entrassero anche nella sua.

Alcuni ricordi non erano chiari, dei ricordi umani indistinti, visti con occhi deboli e sentiti con deboli orecchie: la prima volta che avevo visto il suo volto... come mi ero sentita quando mi aveva abbracciata nella radura... il suono della sua voce attraverso il buio dell’incoscienza quando mi aveva salvata da James... il suo viso mentre mi aspettava sotto un baldacchino fiorito per sposarmi... tutti i bei momenti passati sull’isola... le sue mani fredde che toccavano nostra figlia attraverso la mia pelle...

E i ricordi più nitidi, perfetti: il suo viso quando avevo aperto gli occhi nella mia nuova vita, davanti all’alba infinita dell’immortalità... quel primo bacio... quella prima notte...

Le sue labbra, improvvisamente bramose contro le mie, interruppero la concentrazione.

Annaspai e il peso ribelle che stavo allontanando da me mi sfuggi. Tornò al suo posto con uno schiocco, come un elastico, a proteggere i miei pensieri.

«Ops, l’ho perso!», sospirai.

«Ma io ti ho sentita», sussurrò. «Come ci sei riuscita?».

«È stata un’idea di Zafrina. Ci siamo allenate qualche volta».

Era sbalordito. Batté due volte le palpebre e scosse il capo.

«Ora lo sai», dissi spensierata, alzando le spalle. «Nessuno ha mai amato tanto qualcuno quanto io amo te».

«Hai quasi fatto centro». Sorrise e aveva ancora gli occhi un po’ più dilatati del solito. «Conosco solo un’eccezione».

«Bugiardo».

Ricominciò a baciarmi, ma si fermò all’improvviso.

«Puoi rifarlo?», mi chiese.

Feci una smorfia. «È molto difficile».

Aspettò, con espressione impaziente.

«Non posso reggerlo se mi distrai anche solo un pochino», lo avvertii.

«Faccio il bravo», promise.

Increspai le labbra, socchiudendo gli occhi. Poi sorrisi.

Premetti di nuovo le mani sul suo viso, sollevai lo scudo dalla mente e ricominciai dove avevo smesso: con il ricordo nitidissimo della prima notte dentro la mia nuova vita... indugiando sui particolari.

Senza fiato, una risatina mi sfuggì quando il suo bacio insistente interruppe di nuovo i miei sforzi.

«Accidenti», ruggì, baciandomi famelico lungo il profilo del mento.

«Abbiamo un sacco di tempo per allenarci», gli ricordai.

«Tutta l’eternità», mormorò.

«Mi sembra convincente».

E poi continuammo a occuparci beati di quella parte piccola, ma perfetta, della nostra eternità.

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