Federico Moccia.
Ho voglia di te.
Capitolo 1.
"Voglio morire." Questo è quello che ho pensato quando sono
partito. Quando ho preso l'aereo, appena due anni fa. Volevo farla
finita. Sì, un semplice incidente era la cosa migliore. Perché
nessuno
avesse colpe, perché io non dovessi vergognarmene, perché nessuno
cercasse un perché... Mi ricordo che l'aereo ha ballato per tutto
il viaggio. C'era un temporale e tutti erano tesi e spaventati. Io
no.
Io ero l'unico a sorridere. Quando stai male, quando vedi nero,
quando
non hai futuro, quando non hai niente da perdere, quando... ogni
istante è un peso. Immenso. Insostenibile. E sbuffi in
continuazione.
E vorresti in tutti i modi liberartene. In qualsiasi modo. Nel più
semplice, nel più vigliacco, senza rimandare a domani di nuovo
questo
pensiero: lei non c'è. Non c'è più. E allora, semplicemente,
vorresti
non esserci più anche tu. Sparire. Puff. Senza troppi problemi,
senza dare fastidio. Senza che qualcuno si preoccupi di dire: "Oh,
ma hai saputo? Sì, proprio lui... Non sai che fine ha fatto...".
Sì, quel
tipo racconterà la tua fine, ricca di chissà quali e quanti
particolari,
si inventerà qualcosa di assurdo, come se ti conoscesse da sempre,
come se solo lui avesse sempre saputo veramente quali erano i tuoi
problemi. Che strano... Quando magari non hai fatto in tempo a
capirlo
neanche tu. E non potrai fare più niente contro quel gigantesco
passaparola. Che palle. La tua memoria sarà vittima di uno stronzo
qualsiasi e tu non potrai farci niente. Ecco, quel giorno avrei
voluto
incontrare uno di quegli strani maghi. Mettono un mantello su
una colomba appena apparsa e, puff, improvvisamente lei non c'è
più. Non c'è più e basta. E tu esci soddisfatto da quello
spettacolo.
Magari hai visto delle ballerine un po' più grasse del dovuto, sei
stato
seduto su una di quelle sedie antiche, un po' rigide, in una sala
ricavata
alla meno peggio da qualche scantinato. Sì, c'era anche odore
di muffa e di umido. Ma una cosa è certa. Che fine ha fatto quella
colomba tu non te lo chiederai mai più. Invece no. Noi non
possiamo
sparire così facilmente. E passato del tempo. Due anni. E ora
sorseggio una birra. E ricordandomi quanto avrei voluto essere
quella
colomba, sorrido e un po' me ne vergogno.
"Ne vuole un'altra?"
Uno steward mi sorride fermo vicino al suo carrello delle bibite.
"No, grazie."
Guardo fuori dal finestrino. Nuvole tinte di rosa si lasciano
attraversare.
Morbide, leggere, infinite. Un tramonto lontano. Il sole
che fa un ultimo occhiolino. Non riesco a crederci. Sto tornando.
A 27. Questo è il mio posto sull'aereo. Fila a destra subito dopo
le ali, corridoio centrale. E sto tornando. Una bella hostess mi
sorride di nuovo mentre mi passa vicina. Troppo vicina. Sembra
mandata dai Nirvana: "If she comes down now, oh, she looks so
good...". Ha un profumo leggero, una divisa perfetta, una camicia
appena trasparente tanto da farti apprezzare quel reggiseno di
pizzo.
Va su e giù per l'aereo, senza problemi, senza preoccupazioni,
sorridendo. "If she comes down now..."
"Eva è un bellissimo nome."
Grazie.
"Lei è un po' come la prima Eva, lei mi tenta..."
Rimane per un attimo in silenzio a fissarmi. La tranquillizzo.
"Ma è una tentazione lecita. Posso avere un'altra birra?"
"Ma è la terza..."
"E certo, se continua a passare così... Io bevo per dimenticarla."
Sorride. Sembra sinceramente divertita.
"Ma conta sempre quello che bevono tutti, o sono io che le sono
rimasto particolarmente impresso?"
"Decida lei. Sappia che è l'unico che ha chiesto una birra."
Se ne va. Ma prima di andarsene sorride di nuovo. Poi rimbalza
allegramente mentre si allontana. Mi sporgo un po'. Gambe
perfette,
calze pesanti, contenitive, velate scure, scarpe serie di serie
come le altre. I capelli tirati su, una coda doppia con qualche
intreccio
di troppo, di un biondo leggermente mesciato. Si ferma. La
vedo parlare con un signore della mia stessa fila ma un poco più
avanti. Ascolta le sue richieste. Annuisce semplicemente, senza
parlare.
Poi dice qualcosa ridendo e lo tranquillizza. Si gira un'ultima
volta verso di me prima di andare via. Mi guarda. Occhi verdi. Una
linea leggera. Una sfumatura alta color ebano e un po' di
curiosità.
Allargo le braccia. Questa volta sono io a sorriderle. Il signore
dice
ancora qualcosa. Lei risponde in maniera professionale e poi si
allontana.
"Molto carina quella hostess."
La signora vicino a me entra disordinata tra i miei pensieri.
Attenta
e sorridente, occhio furbetto dietro occhiali spessi.
Cinquant'anni
portati bene, non come i suoi due orecchini, troppo
grandi, proprio come quell'azzurro pesante sulle palpebre.
"Sì, gnocca."
Cosa?
"È una gnocca. Noi a Roma diciamo così di una hostess come
quella." Veramente diciamo molto di più ma non mi sembra il caso.
"Gnocca..." scuote la testa. "Mai sentito."
"Gnocca, come no... A volte, bella gnocca. È un'espressione
simpatica rubata alla pasta. Ha presente gli gnocchi, no?"
"Eh, come no. Quelli li ho sentiti e mangiati un sacco di volte."
Ride divertita.
"Ecco, e le sono piaciuti?"
"Da morire."
"Vede, allora è facile. Quando a una ragazza le si dice che è
gnocca, vuol dire che è 'buona' come quelli che ha mangiato lei."
"Sì, ma mi fa ridere pensarla come uno gnocco. Mi sa di... come
si dice... ecco: goffo!"
"E no! Lei deve pensare a quegli gnocchi con sopra il sugo caldo,
quel pomodoro dolce, quelli che si sciolgono in bocca, quasi si
incollano tanto che la lingua poi li deve staccare dal palato."
"Sì, insomma ho capito. A lei piacciono da morire gli gnocchi."
"Abbastanza."
"Li mangia spesso?"
"A Roma molto spesso. A New York non ho mai mangiato italiano,
che ne so, così, per principio."
"Strano, dicono che ci sono un sacco di ristoranti italiani
buonissimi.
Oh, ecco, sta tornando la... 'gnocca'."
La signora ride divertita e indica la hostess che arriva
sorridente
con il bicchiere di birra. Sembra quasi una pubblicità talmente è
bella.
"Glielo dica che è una gnocca, vedrà che le fa piacere."
"No, lei mi prende in giro."
"Ma no, le assicuro che è un complimento."
"Allora, glielo faccio?"
"E glielo faccia."
La hostess arriva, mi porge un piccolo vassoio con il bicchiere
sopra un centrino di carta.
"Ecco qua la sua birra. Non gliene posso servire altre perché
stiamo per atterrare. "
"Non glielo avrei chiesto. Sto iniziando a dimenticarla. Anche
se non è facile. "
"Ah sì... Be', grazie."
Assaggio la birra.
"È buonissima, grazie, perfetta, fredda al punto giusto. Portata
da lei poi, sembra proprio quella birra della pubblicità."
"Ma mi tolga una curiosità, qual è la prima cosa che
dimenticherà?"
"Forse com'era vestita..."
"Non le piace la nostra divisa?"
"Molto. È che la immaginerò in maniera diversa..."
Mi guarda un po' perplessa, ma non le lascio il tempo di
rispondere.
"Si ferma molto a Roma?"
"Qualche giorno... Settembre a Roma è il massimo. Voglio andare
in giro e fare un po' di shopping. Magari troverò qualcosa per
non essere dimenticata."
"Oh, ne sono sicuro. Troverà dei vestiti perfetti per lei. Perché
lei è... come posso dire... come si dice?"
Mi giro verso la signora seduta accanto a me.
"Mi aiuti lei."
La signora sembra un po' timorosa, poi si butta: "Lei è... una
gnocca!".
La hostess la guarda perplessa per un attimo, poi guarda me.
Alza il sopracciglio e all'improvviso scoppia a ridere. Meno male.
È andata. Rido anch'io.
"Oh, brava signora, è proprio quello che avrei detto anch'io!"
La hostess di nome Eva si allontana scuotendo la testa.
"Allacciate le cinture per favore."
La sua coda alta si muove perfetta come tutto il resto. Perfetta
come le ali di una farfalla. Una farfalla da prendere. C'era un
pezzo
che mi faceva impazzire negli States, un pezzo inglese di qualche
anno
fa... "I'm gonna keep catching that butterfly..." I Verve. Cerco
di
ricordarla tutta. Non ci riesco. Una voce arriva a distrarmi. La
signora
sta armeggiando con qualcosa. E non lo fa in silenzio.
"Uffa, non riesco mai a trovare la cintura in questi aerei."
Aiuto la signora che ci si è letteralmente seduta sopra.
"Eccola qua, signora, sta qui sotto."
"Grazie, anche se non riesco a capire a cosa possa servire. Mica
ce la fa a tenerci fermi."
"Ah, quello no, di sicuro."
"Sì, insomma... Dico, se sbattiamo, non è mica come stare in
macchina. "
"No, come stare in macchina proprio no... È nervosa?"
"Da morire." Mi guarda e quasi si pente di aver usato
quell'espressione.
"Tanto, signora, se è destino è destino."
"Che vuol dire?"
"Quello che ho detto."
"Sì, ma cosa ha detto?"
"Ha capito benissimo."
"Sì, ma speravo di non capire. Ho il terrore degli aerei."
"Non si era capito." La vedo così preoccupata, mi sorride muovendo
le labbra, salivazione azzerata. Sorseggio la mia birra, e decido
di divertirmi.
"Pensi che la maggior parte dei disastri aerei avviene alla
partenza
oppure..."
"Oppure?..."
"All'atterraggio. Cioè fra poco."
"Ma che sta dicendo?"
"La verità, signora, bisogna sempre dire la verità."
Bevo un lungo sorso di birra, mentre con la coda dell'occhio
mi accorgo che mi guarda fissa.
"La prego, mi dica qualcosa."
"E signora, cosa vuole che le dica?"
"Mi distragga, non mi faccia pensare a quello che potrebbe..."
Mi stringe più forte la mano.
"Mi fa male."
"Ah, mi scusi." Allenta un po', ma non molla. Comincio a
raccontarle
qualcosa. Pezzetti della mia vita un po' confusi, così come
vengono.
"Allora, vuole sapere perché sono partito?" La signora annuisce.
Non riesce a parlare. "Guardi che è una storia lunga..." Fa cenno
di sì con più vigore, vuole solo ascoltare, qualunque cosa pur di
essere un po' distratta. Mi sembra di parlare con un amico, con il
mio amico... "Si chiamava Pollo, ecco. Strano nome, vero?" La
signora
non sa se deve dire sì o no, qualunque cosa purché io continui
a parlare. "Ecco, è l'amico che ho perso più di due anni fa. Stava
sempre insieme alla sua ragazza, Pallina. Una persona troppo
forte, occhi vispi, sempre allegri, fortissima, dalla battuta
facile e
pungente..." Ascolta in silenzio, occhi curiosi, quasi rapiti
dalle mie
parole. Che strano... Con una persona che non conosci a volte ti
trovi meglio, ti racconti più facilmente. Ti apri sul serio. Forse
perché
non ti interessa il suo giudizio. "Io invece stavo con Babi, che
era la migliore amica di Pallina." Babi. Le racconto tutto... Come
l'ho conosciuta, come ho iniziato a ridere, come mi sono
innamorato,
come mi è mancata... La bellezza di un amore la vedi perfettamente
solo quando lo hai perso. Forse si sta così quando si va in
analisi. È una cosa che mi sono sempre domandato. Ma con quelli
lì, si riesce veramente a essere del tutto sinceri? Dovrò
chiederlo
a qualcuno che ci è stato. Penso mentre parlo. Piccole pause ogni
tanto. La signora divertita e curiosa subito ci si infila, più
tranquilla
ora, mi ha lasciato perfino la mano. Ha dimenticato la tragedia
dell'aereo.
Ora, secondo lei, si occupa della mia.
"E questa Babi, l'ha più sentita?"
"No. Ogni tanto ho sentito mio fratello. E mio padre qualche
volta. Ma non troppo spesso, le telefonate da New York costano
una cifra."
"Si è sentito solo?"
Le racconto qualcosa di vago. Non riesco a dirlo. Mi sentivo meno
solo che a Roma. Poi inevitabilmente accenno a mamma. Ci cado
dentro e quasi mi diverte offendere i principi di quella donna.
Mia madre ha tradito mio padre. Io l'ho beccata con quello che
abitava
di fronte a noi. Quasi non ci crede. La notizia l'ha messa
totalmente
a suo agio. L'aereo? Neanche si ricorda che sta in aereo. Mi
fa mille domande... Non faccio quasi in tempo a starle dietro.
Come
mai piace così tanto sguazzare nelle cose degli altri? Argomenti
piccanti,
particolarità vietate, atti quasi oscuri o peccati piacevoli.
Forse
perché così, solo ad ascoltarli, non ci si sporca. La signora
sembra
godere e soffrire del mio racconto. Non capisco se è vero, né mi
interessa. Le dico tutto e senza problemi. La mia violenza
sull'amante
di mamma, i miei silenzi a casa, non aver mai svelato niente a mio
padre e a mio fratello. E poi il processo. Mia madre seduta lì, di
fronte
a me. Lei in silenzio, lei che non ha avuto il coraggio di
ammettere
quello che aveva fatto. Lei che non è riuscita a barattare il suo
tradimento
per giustificare la mia violenza. E io lì, sereno, quasi a ridere
del giudice che mi incolpava di un atto per me così naturale:
massacrare uno stronzo che ha violato il ventre della donna che mi
ha generato. La signora mi guarda a bocca aperta. Signora, guardi
che lo possiamo dire in mille modi... Ma un conto è scherzare come
ha fatto Benigni quando è saltato sulla Carrà. Qui invece si
trattava
di mia madre. La signora se ne rende conto. Improvvisamente torna
seria. Silenzio. Allora cerco di sdrammatizzare.
"Come direbbe Pollo, a me Beautiful mi fa una pippa! "
Invece di scandalizzarsi lei ride, ormai è complice: "E poi?" mi
chiede curiosa della prossima puntata. E io continuo a parlare
senza
problemi, senza canone. Il mio racconto non ha prezzo. Le spiego
il perché dell'America, il voler andar via, nascosto in un corso
di
grafica, laggiù... "E siccome è facile incontrarsi anche in una
grande
città... meglio cambiarla del tutto. Solo nuove realtà, nuove
persone,
e soprattutto nessun ricordo. Un anno di chiacchiere difficili in
inglese,
aiutate dalla presenza di qualche italiano incontrato casualmente.
Tutto molto divertente, una realtà piena di colori, musica,
suoni, traffico, feste, novità. Tutto un gran rumore foderato di
silenzio.
Niente di quello che la gente ti diceva aveva a che fare con lei,
poteva richiamarla, ridarle vita. Babi. Giornate inutili per far
riposare
il mio cuore, il mio stomaco, la testa. Babi. Impossibilità totale
di tornare indietro, di essere in un attimo sotto casa sua, di
incontrarla
per strada. Babi. A New York non c'è pericolo... A New York
non c'è spazio per Battisti. "E se ritorni nella mente basta
pensare
che non ci sei che sto soffrendo inutilmente perché so, io lo so,
io so
che non tornerai. " Falsi accordi per cercare di evitare tutti i
posti che
conosce e frequenta anche lei, Babi. La signora sorride.
"La conosco anch'io quella canzone." Canticchia malamente
qualcosa.
"Sì, è proprio quella." Cerco di dare un taglio a quell'esibizione
da Corrida.
Ma mi salva l'aereo. Sta-tup. Un rumore secco, metallico. Un
movimento duro e un piccolo sussulto dell'aereo.
"Oddio e che è?" La signora si avventa sulla mia mano destra,
l'unica libera.
"È il carrello, non si preoccupi."
"Ma come non mi preoccupo! E fa tutto questo rumore? Sembra
che si è staccato..."
Poco lontano la hostess e gli altri membri dell'equipaggio
prendono
posto sulle poltrone libere e qualche strano posto laterale vicino
alle uscite. Cerco Eva, la trovo, ma non guarda più dalla mia
parte. La signora cerca di distrarsi da sola. Ci riesce. Molla la
mia
mano in cambio di un'ultima domanda.
"Perché è finita?"
"Perché Babi si è messa con un altro. "
"Ma come? La sua ragazza? Con tutto quello che mi ha raccontato?"
Quasi si diverte più lei ora a mettere il dito nella piaga.
L'aereo
e il suo atterraggio sono passati in second'ordine. E mi tempesta
di
domande fino all'ultimo anzi, presa dalla foga, è passata al tu. E
va
giù diretta. Da quando l'hai lasciata, hai più fatto l'amore con
un'altra
donna? E ancora giù in picchiata, come gli Stukas di quei cartoni
animati, Linus il barone rosso. Ci torneresti insieme? Pazienza
e le sue sparatorie. Perdonare è possibile? Ne hai parlato con
qualcuno? O la birra ha fatto effetto o è lei e le sue domande che
mi fanno girare la testa. O il dolore di quell'amore non ancora
dimenticato.
Non capisco più nulla. Sento solo il rullare del motore
dell'aereo e la turbina al contrario in fase di atterraggio. Ecco,
ho
un'idea, posso salvarmi da questo interrogatorio...
"Guardi le luci della pista. Non ce la possiamo fare" le dico
ridendo,
di nuovo padrone del gioco.
"Oddio, è vero, eccole..." Guarda dal finestrino spaventata
l'aereo
e le sue ali che quasi sfiorano terra e ondeggiano indecise. Con
un guizzo da vecchia pantera, mi afferra la mano destra al volo.
Guarda
di nuovo fuori. Ancora un ultimo istante, si butta con la testa
nella
poltrona, spinge con le gambe in avanti quasi volesse frenare lei
con i suoi piedi. Mi stampa le unghie nella carne della mano. Con
qualche morbido rimbalzo l'aereo tocca terra. Subito le turbine
dei
motori girano al contrario, quell'enorme massa di acciaio trema
impazzita
con tutte le sue poltrone, signora compresa. Ma lei non si dà
per vinta. Stringe gli occhi e trema prendendosela con la mia
mano.
"Il comandante informa che siamo arrivati a Roma Fiumicino.
La temperatura esterna..."
Un tentativo di applauso si alza dal fondo dell'aereo spegnendosi
quasi subito. Non è più di moda.
"Be', ce l'abbiamo fatta."
La signora sospira: "Grazie a Dio!".
"Magari ci incontreremo un'altra volta."
"Oh sì, mi ha fatto molto piacere parlare con te. Ma sono tutte
vere quelle cose che mi hai raccontato?"
"Come è vero che lei mi ha stretto la mano." Le mostro la destra
e il segno delle unghie.
"Oh, quanto mi dispiace."
"Non fa nulla."
"Dia qui."
"No, sul serio, è tutto a posto."
Qualche telefonino comincia a squillare. Sorrisi e tranquillità
del dopo atterraggio. Quasi tutti aprono le cappelliere sopra i
loro
posti e tirano giù pacchi di regali portati dall'America, più o
meno
qualcosa di inutile, pronti a mettersi in fila e guadagnare
l'uscita il
prima possibile. Dopo le ore immobili nell'aereo, dove si è
costretti
a fare un bilancio degli anni passati fino a quel momento, si
ritorna
alla fretta del non pensare, ai falsi pensieri, alla corsa verso
l'ultimo
traguardo.
"Arrivederci." "Grazie, buonasera." Hostess più o meno carine
salutano all'uscita dell'aereo. Eva, con fare professionale e un
sorriso stampato, saluta tutti, perfetta.
"Grazie delle birre. "
"Dovere." Mi sorride più naturale, forse.
"Se hai dei problemi..." le lascio un bigliettino.
Lo guarda perplessa: c'è il mio numero di Roma.
"È stato il mio esame al corso di grafica."
"È andato bene?"
"Erano tutti molto soddisfatti. Hanno trovato geniale dividerlo
in bianco e azzurro."
"Carino."
Se lo mette in tasca. Non ho rischiato a dirle che sono della
Lazio.
Poi scendo dalla scala.
Tiepido vento. Settembre. Tramonto, sono appena le otto e
mezzo. In perfetto orario. È bello camminare di nuovo dopo aver
volato per otto ore. Saliamo sul pulmino. Guardo la nostra
compagnia.
Qualche cinese, un robusto americano, un giovane che non
ha smesso di ascoltare uno di quei Samsung YP-T7X da 512 MB che
avevo visto anche a New York. Due amiche in vacanza che non
parlano
più, sature forse della lunga convivenza. Una coppia innamorata.
Ridono, si dicono sempre qualcosa di più o meno utile, si fanno
degli scherzi. Li invidio, o meglio, mi piace guardarli. La mia
compagna di viaggio, la signora cicciotta che ormai sa tutto della
mia vita, mi si avvicina. Mi guarda sorridendo come a dire: "Ce
l'abbiamo fatta, eh?". Annuisco. Quasi mi pento di averle
raccontato
tanto. Poi mi tranquillizzo. Non la vedrò mai più. Controllo
passaporti. Qualche cane lupo tenuto a bada passeggia nervosamente
su e giù cercando un po' di coca o d'erba. Cani a rota
insoddisfatti
ci guardano con gli occhi buoni, strafatti per tenersi in
allenamento. Un poliziotto apre distrattamente il mio passaporto.
Poi ci ripensa, gli sfugge una pagina, la recupera e guarda con
più
attenzione. I miei battiti accelerano un poco. Niente. Non gli
interesso.
Me lo rida, lo richiudo e lo metto nello zaino. Recupero il
mio bagaglio. Esco libero, di nuovo a Roma. Sono stato due anni
a New York e mi sembra di essere partito ieri. Cammino veloce
verso
l'uscita. Incrocio gente che trascina valigie, un tipo corre
affaticato
verso un aereo che forse perderà. Al di là delle transenne parenti
aspettano qualcuno che non arriva. Ragazze belle e ancora
abbronzate
d'estate sono in attesa del loro amore o quello che è stato.
Con le braccia conserte, passeggiando o ferme, con gli occhi
agitati o tranquilli, comunque aspettano. "Taxi, che le serve un
taxi?" Un finto tassinaro mi corre incontro fingendosi onesto: "Le
faccio un buon prezzo". Non rispondo. Capisce che non sono un
buon affare e lascia perdere. Mi guardo in giro. Una signora
bella,
elegante, con un vestito chiaro e dell'oro leggero al collo, tiene
tranquillo
il suo sguardo sulla mia rotta. È bella. Le sorrido. Lei accenna
a una risposta minima che però contiene tutto. Tradimento,
vorrei ma non posso, la sua voglia di libertà. Poi guarda altrove,
rinunciando.
, Continuo a guardarmi in giro. Niente. Che stupido. Ma
certo. Cosa mi aspettavo? Chi sto cercando? È per questo che sei
tornato? Allora non hai capito niente, non hai ancora capito
niente.
Mi viene da ridere sentendomi un cretino.
"Dovrebbe essere arrivato..."
Nascosta dietro una colonna, in silenzio ma con il cuore a mille,
parla sottovoce a se stessa. Forse per coprire il rumore del suo
cuore, che in realtà sta battendo a duemila. Poi prende coraggio.
Un respiro lungo e lentamente si affaccia. "Eccolo. Lo sapevo, lo
sapevo!" Quasi "salta" con i piedi per terra.
"Non ci posso credere... Step. Lo sapevo, lo sapevo, ero sicura
che tornava oggi. Non ci posso credere. Mamma mia, certo che è
dimagrito un sacco. Però sorride. Sì, mi sembra che stia bene.
Sarà
felice? Magari è stato bene fuori. Troppo. Ma che, sono cretina?
Mi
faccio prendere dalle gelosie. Ma che diritto ne ho poi?
Nessuno...
E allora? Mamma, come sto messa. Sul serio, sto troppo male,
troppo.
Cioè, io sono troppo felice. Troppo. È tornato. Non ci posso
credere. Oddio, sta guardando verso di me! "
Si nasconde subito di nuovo dietro la colonna. Un sospiro. Chiude
gli occhi stringendoli forte. Resta appoggiata con la testa al
freddo
marmo bianco, con le mani stese contro la colonna. Silenzio.
Respiro lungo. Fiuuuuu. Inspirare... Fiuuuuu. Espirare... Riapre
gli
occhi. Proprio in quel momento passa un turista che la guarda
perplesso.
Lei accenna un sorriso per cercare di fargli sembrare che
sia tutto normale. Ma non lo è. Non ci sono dubbi.
"Cavoli, mi ha visto, me lo sento. Oddio, Step mi ha visto, lo so.
"
Si riaffaccia. Nulla. Step è passato come se nulla fosse.
"Ma certo, che cretina. E poi, se anche fosse?"
Eccomi qui. Sono tornato. Roma. Fiumicino, per l'esattezza.
Cammino verso l'uscita. Attraverso le porte a vetri ed esco sulla
strada. Davanti ai taxi. Ma proprio in quel momento provo una
strana sensazione . Mi sembra che qualcuno mi stia osservando. Mi
giro di botto. Niente. Non c'è niente di peggio di chi si aspetta
qualcosa...
E non trova niente.
Capitolo 2.
Il tramonto dipinge d'arancio alcune nuvole sparse qua e là.
Una luna già pallida nel cielo si nasconde tra gli ultimi rami di
un
albero fronduto. Rumori stranamente lontani di un traffico un po'
nervoso. Da una finestra arrivano alcune note di una musica lenta
e piacevole, il suono di un pianoforte migliorato nel tempo.
Quello
stesso ragazzo, più grande, prepara i nuovi esami per la
specializzazione.
Poco più sotto, le linee bianche del campo da tennis risplendono
dritte sotto il pallore lunare e il fondo della piscina vuota
aspetta triste come ogni anno la prossima estate. Anche questa
volta è stata svuotata troppo presto da un portiere pignolo. Al
primo
piano del comprensorio, fra piante curate e linee alzate di una
serranda in legno, una ragazza ride.
"Daniela, ma hai finito di stare al telefono? Avete il cellulare,
vostro padre ve lo ricarica praticamente ogni giorno ! Perché
state
sempre a quello fisso di casa? "
"Ma che, non lo sai, mamma, che qui non prende? Prende solo
in salotto e lì ci siete sempre voi a sentire ! "
"Si dà il caso che noi viviamo in questa casa."
"Va bene, mamma. Sto con Giuli. Finisco di dirle una cosa e
attacco."
"Ma se l'hai vista tutta stamattina a scuola. Chissà che può
essere
successo da allora! Eh? Cosa dovrai mai raccontarle! "
Daniela copre con la mano la cornetta.
"Guarda che anche se fosse una cosa stupidissima, mi piacerebbe
che fossi io a decidere se la devo per forza far sapere a tutti
o no, va bene?"
Daniela si gira e dà le spalle a Raffaella pensando così di avere
in qualche modo ragione. La madre alza le spalle e si allontana.
Daniela
controlla con la coda dell'occhio di essere rimasta sola.
"Giuli hai sentito? Devo attaccare."
"Allora come rimaniamo?"
"Che ci vediamo lì."
"No... non intendevo questo!"
"Senti, io ho deciso." Daniela si guarda preoccupata in giro.
"Non è proprio questo il momento di parlarne al telefono con tutti
che girano per casa! "
"Ma Dani, è una cosa troppo importante! Non puoi deciderla
così... a tavolino!"
"Senti, ma non ne possiamo parlare direttamente alla festa?"
"Ok, come vuoi. Allora ci vediamo lì fra tre quarti d'ora. Ce
la fai?"
"No, facciamo almeno un'ora e un quarto!"
"Ok, ciao."
Dani riattacca il telefono. Guarda che Giuli a volte è
impossibile.
Ma che, non lo capisce quando si ha bisogno di quella mezz'ora
in più. Devo essere perfetta, bellissima. Capita raramente nella
vita di potersi preparare per una serata come questa. Anzi, ride
tra
sé, non capita mai. Di solito "quello" accade proprio quando meno
te lo aspetti. Poi va in camera sua indecisa per la prima volta su
cosa mettersi sotto. Si sente diversa, stranamente insicura. Poi
si
tranquillizza. È normale sentirsi così, non si può essere sicuri
su come
andrà la prima volta che si fa l'amore. Fa un respiro lungo. È
vero. L'unica cosa della quale sono sicura è che lo farò stasera e
con
lui. Raffaella la incrocia proprio in quel momento nel corridoio.
"Daniela, ma si può sapere a cosa stai pensando?"
"Ma niente mamma... cretinate."
"E allora se sono cretinate, pensa a cose più importanti! "
Per un attimo Daniela vorrebbe dirle tutto. La sua decisione
importante e soprattutto irrevocabile. Poi ci ripensa. Capisce che
sarebbe finita.
"Certo, mamma, hai ragione."
Tanto non vale la pena discutere con lei. Si sorridono. Poi
Raffaella
guarda il pendolo in salotto.
"Oh, non c'è niente da fare. Avevo chiesto a tuo padre di tornare
prima che dobbiamo andare dai Pentesti che abitano all'Olgiata.
Mai una volta che mi facesse felice..."
Capitolo 3.
"Stefano! " Dritto di fronte a me, al centro della strada, c'è mio
fratello. Sorrido. "Ciao Pa'." Mi fa piacere vederlo. Quasi mi
emoziono,
ma riesco a non farlo vedere più di tanto.
"Allora, come stai? Non sai quanto t'ho pensato."
Mi abbraccia forte. Mi stringe. Mi fa piacere. Per un attimo mi
ricordo l'ultimo Natale che abbiamo passato insieme. Prima che
partissi. E quella pasta che aveva preparato e che pensava che non
mi piacesse...
"Allora... Ti sei divertito giù in America, eh?"
Mi prende di mano una valigia. Naturalmente la più leggera.
"Sì, sono stato bene, giù in America. Ma perché giù?"
"Boh, è un modo di dire."
Mio fratello che conosce i modi di dire. Certo che sono proprio
cambiati i tempi. Mi guarda felice, sorride. È sereno. Mi vuole
bene sul serio. Ma non mi somiglia pe' niente. Mi fa pensare a
Johnny Stecchino.
"Be', che hai da ridere?"
"No, niente." Lo guardo meglio. Tutto tirato, camicia nuova,
perfetta, pantaloni leggeri sul marrone scuro, con risvolto in
fondo,
giacca a quadretti e finalmente...
"Ehi, Paolo, hai perso la cravatta?"
"Be', d'estate non me la metto. Ma perché, sto male?"
Non aspetta neanche la risposta.
"Ecco, siamo arrivati. Guarda che mi sono fatto..." Allarga il
braccio a mostrarmela in tutto quello che è, secondo lui, il suo
splendore: "Audi 4 ultimo modello. Ti piace?".
Come dire di no a tanto entusiasmo?
"Bella, niente male."
Spinge il pulsante che tiene in mano. L'allarme dopo due bip e
le doppie frecce scompare. Paolo apre il cofano: "Vieni, metti qua
le valigie".
Butto dietro le due sacche americane oltre a quella piccola che
ha già ordinatamente messo a posto lui: "Ehi, fai piano".
Mi fa venire subito in mente un'idea: "Che me la fai provare?".
Mi guarda. Il suo viso cambia espressione. Un tuffo al cuore.
Ma l'amore per suo fratello ha il sopravvento.
"Ma certo, tieni." Sorride con un piccolo sforzo e mi lancia le
chiavi con tutto il radiocomando. Pazzo. Mai amare un fratello
come
me. Soprattutto se ti chiede un'Audi 4 come quella. E nuova.
Mi metto alla guida. Profuma di nuovo, macchina impeccabile, solo
un po' stretta. Accendo il quadro e do il via al motore.
"Si guida bene."
"Pensa che è ancora in rodaggio..." Mi guarda preoccupato e si
mette la cintura. E io, forse per il fatto che sono tornato a
Roma,
che vorrei gridare, ma che ne so, che vorrei in qualche modo
liberarmi
di questi due anni di silenzio, della mia rabbia vissuta lontano,
parto all'improvviso dando gas. La Audi 4 sgomma, scodinzola,
si ribella, urla, le sue gomme strepitano sull'asfalto caldo.
Paolo
si attacca con tutte e due le mani alla maniglia vicino al
finestrino.
"Ecco, lo sapevo, lo sapevo! Ma come mai con te finisce sempre
così?"
"Ma che dici! Se la macchina l'ho appena presa! "
"Volevo dire che con te non si può mai stare tranquilli! "
"Ok..." Scalo, prendo la curva e gioco un po' con lo sterzo tanto
da accarezzare quasi il guardrail.
"Va bene adesso?"
Paolo si risistema sul sedile tirandosi giù la giacca.
"Niente da fare, con te non c'è mai un attimo di tranquillità."
"Ma dai, lo sai benissimo che stavo scherzando. Non stare lì a
preoccuparti, sono cambiato."
"Ancora? Ma quanto sei cambiato?"
"Questo non lo so, sono tornato a Roma per verificarlo."
Restiamo in silenzio.
"Si può fumare qui dentro?"
"Preferirei di no."
Mi metto la sigaretta in bocca e spingo il pulsante
dell'accendisigari.
"Ma che fai, l'accendi lo stesso?"
"È il preferirei che ti ha fregato."
"Vedi... Sei cambiato. E in peggio."
Sorrido e lo guardo. Gli voglio bene. E forse lui è cambiato sul
serio, mi sembra più maturo, più uomo. Do un tiro alla Marlboro
medium e faccio per passargliela.
No, grazie.'
Di risposta apre uno spiraglio del finestrino. Poi ritorna
allegro:
"Sai una cosa? Sto con una".
Mio fratello è più grande di me di sette anni. È incredibile, a
volte sembra un ragazzino, ha voglia di raccontarmi le cose che è
un piacere. Decido di dargli soddisfazione.
"E com'è, carina?"
"Carina? È bella! Alta, biondo chiaro, la devi conoscere. Si
chiama Fabiola, si occupa di arredamento, le piace andare solo in
certi posti, ha molto gusto..."
"Eh... Certo, certo, sicuro..."
"Ok, ok. La tua è una battuta scontata, anzi una 'sbattuta', ti
piace questa? La dice sempre lei! "
"Un po' equivoca, non ti pare? Deve stare attenta, quando la dice.
Comunque adesso ho capito perché vi trovate tanto bene insieme. "
"Be', comunque ci vado molto d'accordo."
Molto d'accordo. Ma che vorrà dire poi. L'accordo è qualcosa
che ha a che fare con la musica. O peggio coi contratti. L'amore
invece
è quando non respiri, quando è assurdo, quando ti manca,
quando è bello anche se è stonato, quando è follia... Quando solo
all'idea di vederla con un altro attraverseresti a morsi l'oceano.
"Be', se andate d'accordo, questo è l'importante. E poi..."
Cerco di chiudere alla meglio. "Fabiola è un bel nome."
Chiusura banale. Ma non ho trovato altro. Fondamentalmente
non me ne frega niente, ma se gli dicessi che il nome fa cagare,
per come è lui non sarebbe felice. Paolo ha bisogno dell'opinione
di tutti. La cazzata più grande che si può fare. Tutti chi, poi.
Neanche
i nostri sono stati tutti per noi.
Mi legge quasi nel pensiero: "Anche papà sta con una, sai?".
"Come posso saperlo se non me lo dice nessuno."
"Monica, una bella donna. Cinquant'anni, ma se li porta benissimo.
Gli ha rivoluzionato la casa. Ha levato un po' di antichità,
l'ha svecchiata."
"Anche a papà?"
Paolo ride come un pazzo: "Troppo forte questa".
Mio fratello e il suo entusiasmo deficiente. Ma prima era così?
Quando torni da un viaggio, tutto ti sembra un po' diverso.
"Vivono insieme, devi conoscerla."
Devi. Che vuol dire devi? Do un colpo secco al volante per
scansare uno che non ne vuole sapere di togliersi di mezzo. E
spostati!
Lampeggio, niente. Do gas, scalo. La macchina scatta sulla
destra per superarlo.
Paolo spinge con le gambe in avanti e si tiene al bracciolo tra
me e lui. Poi rientro a sinistra e lo tranquillizzo.
"Tutto a posto. In America non potevo mai farlo, ti controllano
al millimetro."
"E invece sei tornato apposta per sbizzarrirti con la mia
macchina,
vero?"
"Mamma come sta?"
"Bene."
"Che vuol dire bene?"
"E allora che vuol dire come sta?"
"Quanto la fai difficile. È tranquilla? Sta con qualcuno? Tu la
senti? Si vede e si sente con papà?"
Non riesco a fargli quell'ultima domanda: ha chiesto di me?
"Mi ha chiesto spesso di te." È l'unica alla quale risponde:
"Voleva
sapere se ti sentivo da New York, come andava il corso eccetera
eccetera".
"E tu?"
"E io le ho detto quel poco che sapevo. Che il corso andava bene,
che stranamente non avevi ancora fatto a botte con nessuno e
poi mi sono inventato un po' di cose."
"Tipo?"
"Che stavi da due mesi con una ragazza, italiana però. Se avessi
detto americana si sarebbe capito subito che era falso, non vi
sareste
capiti."
"Ah, ah. Avvisami quando si ride. Anche questa è una 'sbattuta'?"
"Poi gli ho detto che ti divertivi, la sera uscivi spesso, niente
droga però, ma un sacco di amici. Insomma, che non avevi
intenzione
di tornare e che comunque stavi bene. Come sono andato?"
"Più o meno."
"Cioè?"
"Sono stato con due americane e ci siamo capiti benissimo."
Non fa in tempo a ridere, scalo ed esco tagliando a destra. Giù
dalla tangenziale, in curva do gas, le ruote stridono, una
macchina
vecchia suona alle mie spalle, continuo la curva come se niente
fosse
ed entro sul raccordo. Paolo si risistema sul sedile. Si tira giù
la
giacca. Poi tenta di dire la sua.
"Non hai messo la freccia."
"Già." Guido per un po' in silenzio. Paolo guarda spesso fuori,
poi di nuovo verso di me cercando di attirare la mia attenzione.
Che ce?
"Com'è finita la storia del processo?"
"Sono stato graziato."
"Cioè?" mi guarda incuriosito. Mi giro e sostengo per un po'
il suo sguardo. Resta in silenzio. Mi guarda tranquillo. Sereno.
Non
credo che menta. Oppure è un attore formidabile. Paolo è un buon
fratello, ma tra i suoi ipotetici pregi non si rintraccia il
formidabile.
Riguardo la strada.
"Niente, sono stato graziato, punto e basta."
"Cioè, spiegami meglio."
"Tu che non sai di queste cose? Hai presente quei condoni per
le tasse o per l'edilizia che vengono fatti apposta quando si va a
qualche elezione? Ecco, questo è uno di quei casi lì, i reati come
il
mio vengono dimenticati e ci si ricorda invece di un presidente. "
Sorride.
"Sai, è un sacco di tempo che mi chiedo perché hai menato
quello che abitava di fronte a noi. "
"E sei riuscito a sopravvivere a questo incredibile
interrogativo?"
"Sì, ho avuto anche altro da fare."
"In America non dureresti un giorno. Non hai tempo per farti
domande."
"Ma siccome stavo a Roma tra un cappuccino e un aperitivo,
ci ho pensato. E sono arrivato anche a una conclusione."
"Che meraviglia! E cioè?"
"Che il nostro vicino infastidiva in qualche modo mamma,
apprezzamenti
pesanti e una battuta di troppo. Tu, non so come, lo
sei venuto a sapere e patapuff, l'hai mandato all'ospedale..."
Rimango in silenzio. Paolo mi fissa. Vorrei evitare il suo
sguardo.
"Però c'è una cosa che non capisco, che mi sfugge... Ma scusa,
mamma era al processo e non ha detto niente, non ha raccontato
cosa era successo, cosa le poteva aver detto quel tipo o insomma
perché tu avevi reagito così. Se solo avesse parlato, il giudice,
magari,
poteva capire."
Paolo. Cosa sa veramente Paolo. Lo guardo per un attimo, poi
ritorno a guardare la strada. Linee bianche per terra, una dopo
l'altra,
tranquille sotto la Audi 4. Una dopo l'altra, a volte leggermente
sbafate. Il rumore della strada. Batum, batum, la Audi 4, morbida,
si alza e si abbassa a ogni piccolo dosso. Le giunture dei pezzi
di
quella strada si sentono tutte, ma non danno fastidio. È giusto
dire
la verità? Far conoscere sotto una luce diversa una persona a
un'altra. Paolo ama mamma così com'è. La ama come crede che
sia. O come vuole credere che sia.
"Paolo, ma perché me lo chiedi?"
"Ma così, per sapere..."
"Non ti tornano i conti, vero?"
"Be' sì, insomma."
"E per un commercialista come te è un incubo."
Giovanni Ambrosini era il nome del nostro vicino, l'ho scoperto
solo al processo. Anzi no, il cognome prima. Quando ho suonato
alla sua porta era scritto sul campanello. E venuto ad aprire in
boxer.
Quando mi ha visto ha chiuso al volo la porta. Io ero entrato solo
per parlare. Per chiedergli educatamente di abbassare la musica.
Poi
un tuffo al cuore. Nello spiraglio della porta, incorniciato da
quello
stipite il suo volto. Quello sguardo che ci ha unito e diviso per
sempre.
Non lo dimenticherò mai. Nuda come non l'avevo mai vista, bella
come l'ho sempre amata... Mia mamma. Tra le lenzuola di un altro.
Non ricordo altro se non quella sigaretta che aveva in bocca. E
il suo sguardo. Come la voglia di consumare qualcos'altro dopo
lui,
quella sigaretta e infine... Me. Guarda, figlio mio... questa è la
realtà,
questa è la vita. Ancora mi bruciano le guance del cuore. E poi
Giovanni
Ambrosini. L'ho tirato fuori da casa sua, per i capelli. È finito
a terra. Gli ho fracassato due zigomi con un calcio dietro la
nuca. Si
è infilato tra la ringhiera delle scale, e ho continuato a
colpirlo con il
tacco sull'orecchio destro, sulla faccia, tra le costole, sulle
dita delle
mani, fino a spappolargliele. Su quelle mani che l'avevano
toccata.
E... Basta. Basta. Basta per favore. Non ce la faccio più. Quei
ricordi
che non ti abbandonano mai. Mai. Guardo Paolo. Un respiro lungo.
Calma. Più lungo. Calma e bugie.
"Mi dispiace, Paolo, ma a volte i conti non tornano. Quello lì mi
stava sul cazzo, tutto qua. Mamma non c'entra niente, figurati."
Sembra soddisfatto. Gli fa piacere sentire questa versione.
Guarda fuori dal finestrino.
"Ah, non ti ho detto una cosa."
Lo guardo preoccupato.
"Che cosa?"
"Ho cambiato casa. Sto sempre alla Farnesina, ma ho preso un
attico."
Finalmente una notizia tranquilla. "Bello?"
"Fortissimo. Lo devi vedere. Stanotte dormi da me tanto, no?
Il numero di telefono è rimasto lo stesso. Sono riuscito a farmelo
ridare da un amico alla Telecom."
Sorride soddisfatto di quel suo piccolo potere. Cavoli, non ci
avevo pensato! Meno male che ha mantenuto lo stesso numero. È
quello che ho messo sul mio biglietto da visita. Quello che ho
dato
alla hostess. A Eva, la gnocca. Sorrido tra me. Corso Francia,
Vigna
Stelluti, su verso piazza Giochi Delfici. Passo davanti via
Colajanni, la traversa che porta a piazza Jacini. Un motorino si
ferma
improvvisamente allo stop. Una ragazza. Oddio. Lei. Capelli biondo
cenere, lunghi, sotto il casco. Porta anche un cappellino con la
visiera. Ha l'i-pod azzurro e un giubbotto sul celeste proprio
come
i suoi occhi. Sì, sembra proprio lei... Rallento. Balla con la
testa
a tempo di musica e sorride. Mi fermo. Lei parte. La lascio
passare.
Gira allegra davanti alla nostra macchina. Mi dice grazie solo
con le labbra... Il mio cuore ora rallenta. No, non è lei. Ma un
ricordo mi assale. Come quando stai in acqua, in mare, di mattina
presto, fa freddo. Qualcuno ti chiama. Ti giri, lo saluti... Ma
quando
ti volti, per riprendere a camminare, arriva un'onda improvvisa.
E allora senza volerlo mi ritrovo lì, naufrago da qualche parte,
in qualche giorno di appena due anni fa. È notte. I suoi sono
fuori.
Mi ha telefonato. Mi ha detto di andarla a trovare. Salgo le
scale.
La porta è aperta. L'ha lasciata accostata. La apro lentamente.
"Babi... Ci sei? Babi..."
Non sento niente. Chiudo la porta. Cammino per il corridoio.
In punta di piedi verso le camere da letto. Una musica leggera
arriva
dalla camera dei suoi genitori. Strano, aveva detto che erano al
Circeo. Dalla porta semichiusa si intravede una luce fioca. Mi
avvicino.
Apro la porta. Vicino alla finestra improvvisamente appare lei.
Babi. Ha addosso i vestiti della madre, una camicetta di seta
leggera
color sabbia, trasparente e sbottonata. Sotto si intravede un
reggiseno
color crema. Poi una gonna lunga con dei disegni sul cachemire.
Ha i capelli tirati su tutti intrecciati. Sembra più grande, vuole
essere più grande. Sorride. Ha in mano un flûte pieno di
champagne.
Ora ne sta versando uno per me. Poggia la bottiglia dentro
un secchiello pieno di ghiaccio, posato sul comodino. Intorno ci
sono
delle candele e un profumo di rose selvagge che piano piano ci
avvolge. Poggia un piede su una sedia. La gonna apre il suo
spacco,
cade di lato, scoprendo uno stivaletto, e la sua gamba, coperta
da una calza leggera, in microrete color miele, autoreggente. Babi
mi aspetta con i due flûte in mano e i suoi occhi improvvisamente
cambiano. Come se fosse cresciuta all'improvviso.
"Prendimi, come se fossi lei... Lei che non ti vuole, lei che ogni
giorno mi sfinisce cercando di dividerci..." Mi passa il
bicchiere.
Lo bevo tutto di un sorso. È freddo, è buono, è perfetto. Poi le
do un bacio intenso come il desiderio che provo. Le nostre lingue
sanno di champagne, addormentate, perse, ubriache,
anestetizzate...
Improvvisamente si svegliano. Le passo la mano tra i capelli
e rimango prigioniero di ciocche strette, di capelli lavorati. Le
tengo
la testa così, persa tra le mie mani, mia, perdutamente mia...
mentre un suo bacio diventa più avido. Del tutto padrona nella
mia bocca, sembra che voglia entrarmi dentro, divorarmi, arrivare
al mio cuore. Ma che fai? Ferma. È già tuo. Poi Babi si stacca
e mi guarda. Sembra sul serio sua madre. E mi fa paura l'intensità
che avverto, che non avevo mai visto. Allora mi prende una mano,
si alza un po' la gonna di lato e me la infila. Poi mi guida su,
più su... lungo le gambe insieme a lei. Abbandona la testa
all'indietro.
A occhi chiusi. Un suo sorriso. Nascosto. Un suo sospiro,
forte e chiaro. La mia mano, la porta ancora più su. Senza fretta,
sulle sue mutandine. Eccole. Le sposta leggermente e mi perdo
con le dita nel suo piacere. Babi ora sospira più forte. Mi apre i
pantaloni e me li tira giù veloce, avida anche qui, come non mai.
E dolcemente lo trova. Si ferma. Mi guarda negli occhi. E sorride.
Mi lecca la bocca. Mi morde. Ha fame. Ha fame di me. Si appoggia,
mi spinge, tiene la sua fronte contro la mia, sorride, sospira,
comincia a muoversi con la mano su e giù, perdendosi affamata
nei miei occhi e io nei suoi... Poi si sfila le mutandine, mi
dà un ultimo bacio leggero e mi fa una carezza con la mano sotto
il mento. Si mette sul letto a quattro zampe, si scopre da dietro
alzandosi
la gonna. Se la poggia sulla schiena e si gira verso di me.
"Step, ti prego, prendimi con forza, come se io fossi mia madre,
fammi male... Ti prego, ti giuro, ne ho voglia."
E mi sembra incredibile. Ma lo faccio. Ubbidisco, e lei comincia
a urlare come non aveva mai fatto, e quasi svengo dal piacere,
dal desiderio, dall'assurdo di quella situazione, dall'amore di
ciò
che non credevo possibile. Sono ancora affannato di piacere nel
ricordo
e quasi mi manca il respiro...
"Ehi, Step!"
"Sì?"
Improvvisamente torno. È Paolo.
"Ma che succede? Ti sei fermato in mezzo alla strada."
"Eh?"
"Ma così mi sorprendi. Siamo diventati gentili? Non ti avevo
mai visto fare una cosa del genere: dare la precedenza a una
ragazza
che neanche ce l'ha! Incredibile. O l'America ti ha fatto
veramente
bene e sei cambiato sul serio. Oppure..."
"Oppure?"
"Oppure quella ragazza ti sembrava qualcun altro."
Si gira verso di me e mi guarda.
"Ehi... Non ti dimenticare che siamo fratelli."
"Appunto, è questo quello che mi preoccupa... È una 'sbattuta',
se non l'hai capita."
Paolo ride. Io riprendo a guidare cercando di nuovo il controllo.
Lo trovo. Poi un respiro lungo. Più lungo. E il dolore di sapere
che quell'alta marea non mi abbandonerà mai.
Capitolo 4.
La Z4 è una macchina meravigliosa. Darei non so cosa per farmela.
Claudio Gervasi è a Porta Pinciana, fermo davanti alla vetrina
della concessionaria BMW. La guarda come se fosse un bambino,
estasiato, desideroso, dispiaciuto perché non la può avere. Se
solo
Raffaella sapesse cosa sta desiderando, sarebbero dolori. Se poi
sapesse
tutto il resto, sarebbe morto. Preferisce non pensarci. Non
lo saprà mai. A questo punto visto che è arrivato fino lì, tanto
vale
entrare. Non c'è niente di male ad avere un desiderio. O anche
questo
rientra nel novero dei peccati sociali? Claudio cerca di
convincersi.
Tanto mica m'impegno in qualche modo... voglio solo sapere
anche quanto mi danno per un'ipotesi di permuta. Magari mi
calcolano bene la mia Mercedes 200. Certo che ne ha fatti di
chilometri.
Però l'ho tenuta così bene... Gira intorno alla macchina.
Tranne quella piccola strusciatura dovuta a Babi e a Daniela e
soprattutto
a come posteggiano la loro Vespa. Be', sentiamo cosa mi
dicono... Entra nel negozio. Gli si avvicina subito un giovane
commesso,
impeccabile, con una cravatta bella grossa, blu come il suo
completo dalla giacca misurata e i pantaloni perfetti a tubo, col
risvolto
che si accompagna morbido ai suoi mocassini scuri, semplici,
ma perfettamente lucidi. Proprio come quella macchina. Vista
da vicino sembra ancora più bella. Un celeste pallido e l'interno
un
po' più scuro, con le rifiniture di un beige leggero e della pelle
nera
che in maniera morbida riveste ogni punto, dal volante al cambio.
Irresistibile.
"Buonasera, posso aiutarla?"
"Sì, vorrei sapere quanto viene questa BMW. È la Z4, vero?"
"Certo, signore. Allora, full optional, chiavi in mano con l'ABS
completo e i cerchi naturalmente in lega... vediamo un po'...
Signore,
lei è fortunato, siamo in un periodo di promozione. Per lei,
sono 42.000 euro. Euro più, euro meno, s'intende."
Sicuramente più. Meno male che sono fortunato e che è il periodo
di promozione. Allora il commesso che lo vede leggermente
deluso gli sorride.
"Guardi che questa è stata la macchina di James Bond."
Claudio non crede ai propri occhi.
"Proprio questa?"
"Ma no, non questa!" Il commesso lo guarda cercando di capire
se lo sta prendendo in giro apposta. "Anche perché credo che
quella che hanno usato in quel film sia la Z3, la BMW della serie
precedente e, per essere precisi, sarà anche stata demolita o
messa
a qualche asta! Però questa è ancora più precisa, è stata usata
anche nel film Ocean's Twelve, o Eleven?, ora non mi ricordo bene.
Comunque l'hanno portata: George Clooney, Matt Damon,
Andy Garcia, Brad Pitt e ora... lei! "
Claudio abbozza un sorriso.
"Forse..."
Il commesso capisce che ha davanti a sé un indeciso cronico.
Non sa la verità. Ha davanti a sé un'ombra spietata, un ologramma
terribile, una proiezione a laser, Claudio avvolto dal pensiero
di sua moglie. Il ragazzo decide di riscaldare il possibile
cliente con
un po' di informazioni. Gira intorno alla macchina dando dati:
velocità,
consumo, prestazioni d'ogni tipo e naturalmente eventualità
d'ogni ipotesi di leasing.
"A proposito..." a questo ultimo dato Claudio acquista un po' di
speranza, "ma nel caso, voi prendete indietro una macchina, no?"
"Certo, come no! Anche se adesso, in questo momento, il mercato
dell'usato è un po' debole, signore."
Claudio non aveva dubbi.
"Gli può dare un'occhiata? Ce l'ho qui fuori."
"Certo, andiamo a vederla."
Claudio esce dal negozio accompagnato dal commesso.
"Eccola, è questa."
Mostra fiero la sua Mercedes 200 grigio scuro metallizzata. Il
ragazzo ora è attento, serio, minuzioso. La guarda toccandola ogni
tanto, controllando eventuali lavori di riparazione subdolamente
nascosti. Claudio cerca di rassicurarlo.
"Ho fatto sempre tutti i tagliandi, ho cambiato da poco anche
le gomme..."
Il commesso gira attorno alla macchina e guarda l'altra fiancata,
quella rovinata dalla Vespa. Claudio allora cerca di distrarlo.
"E ho fatto anche la revisione completa proprio l'altra
settimana."
Ma a un commesso come quello non sfugge nulla.
"Sì... però qui ha preso una bella botta, eh! "
"Eh, le mie figlie. Gliel'ho detto mille volte d'incollare la
Vespa
al muro, niente! "
Il commesso alza le spalle come a dire "E io che ci posso fare?
.
"Be', comunque andrà rimessa a posto. Il motore poi lo dobbiamo
controllare, eh? La vedrà il capo tecnico. Be', se non ci fossero
problemi io credo che il suo valore sia sui... 4.000, 4.500 euro."
"Ah..." Claudio rimane senza parole. Sperava almeno nel doppio.
"Ma è del'99."
"Veramente io pensavo del 2000, comunque il prezzo che le ho
detto glielo confermo, va bene?"
Va bene? Va bene sì! E ti credo che va bene. A voi dovrei dare
37.500 euro, euro più, euro meno. Ma Claudio decide di non
pensarci.
"Sì, bene... certo..."
"Allora la saluto. Noi per qualsiasi cosa siamo qui."
Il giovane commesso gli stringe con forza la mano, certo di averlo
più o meno convinto. Poi gli dà un bigliettino con tanto di
nominativo
e marchio BMW. Claudio lo guarda allontanarsi. Quando
ormai il commesso è dentro il negozio e non lo può più vedere,
Claudio strappa il biglietto e lo butta in un cestino lì vicino.
Ci manca
solo che Raffaella trovi questa traccia. Sale sulla sua Mercedes.
Poggia le mani sul volante. Cara, lo sai che io non ti tradirei
mai!
Poi prende il telefonino, si guarda intorno, e scrive un sms. Lo
invia
e naturalmente un secondo dopo lo cancella. Infine, come ultimo
gesto di grande libertà, si accende una Marlboro.
Capitolo 5.
"Ecco Step, è il 237. Aspetta che apro il cancello. Posteggia qui.
Il numero 6, è il mio." Paolo ne è fiero. Prendiamo le borse.
"L'ascensore
parte direttamente dal garage." È fiero anche di questo.
Arriviamo al quinto piano. Apre la porta come se fosse una
cassaforte.
Allarme, due serrature, porta blindata. Sopra c'è il suo nome.
Paolo Mancini, un bigliettino stampato su una piccola targa
bordata d'oro. Orribile, ma non glielo dico.
"Hai visto? Ho messo uno dei miei bigliettini nella targa. C'è
anche il numero di telefono. Buona idea, no? Ma perché ridi? Non
ti piace, vero?"
"Come no. Ma secondo te, perché dovrei dirti sempre bugie? Mi
piace sul serio, fidati." Sorride un po' più rilassato e mi fa
entrare.
"Ok, vieni, allora guarda, ecco..."
La casa non è male all'interno, parquet nuovo, colori chiari,
muri bianchi.
"Manca un po' d'arredamento ma pensa che l'ho fatta tutta rifare.
Guarda, ho messo dei dimer così le luci le puoi regolare quanto
vuoi, vedi?"
Ne prova una alzando e abbassando una luce. "Forte, no?"
"Fortissimo." Rimango all'entrata con le sacche in mano. Paolo
sorride felice della sua idea.
"Ti faccio vedere dove puoi stare."
Apre una camera in fondo al corridoio. "Dadan! "
Paolo rimane sulla porta con la faccia sorridente.
"Eh..." Ci deve essere qualche sorpresa. Entro.
"Ho recuperato la tua roba e te l'ho portata qui. Qualche
maglione,
le magliette, le felpe. E guarda qui..." Mi mostra un quadro
attaccato al muro.
"Era rimasta una tavola di Andrea Pazienza. Questa non l'hai
bruciata."
Mi ricorda, senza volerlo, quel Natale di due anni e mezzo fa.
Forse lo capisce e un po' se ne dispiace.
"Be', io vado in camera mia. Sistemati come ti pare."
Poggio la sacca sul letto, apro la zip e comincio a tirare fuori
la roba. Maglioni, giubbotti. Un track jacket Abercrombie. Jeans
scoloriti, marca Junya. Una felpa color sabbia Vintage 55. Camicie
ben piegate Brooks Brothers. Le metto dentro un armadio bianco.
Ha diversi cassetti. Apro anche l'altra valigia e li riempio
tutti.
In fondo alla sacca c'è un pacco incartato. Lo prendo e vado di
là. Paolo è in camera sua disteso sul letto con i piedi che
sbucano
fuori.
"Tieni" gli lancio il pacco sulla pancia. Lo prende come se fosse
un cazzotto e si piega in due accogliendo il pacco sul letto.
"Grazie, e perché?" Cerca sempre una spiegazione.
"È l'ultima moda americana."
Lo scarta e lo stende davanti ai suoi occhi. E un po' perplesso.
"È il giubbotto della Fire. Lì lo mettono quelli che sono
arrivati."
Ora che gliel'ho detto gli piace di più.
"Me lo provo ! " Se lo infila sopra la giacca e si guarda allo
specchio.
Cerco di non ridere.
"Cazzo, è forte! " Quell'espressione non è da lui. Gli è piaciuto
sul serio.
"Hai azzeccato pure la misura."
"Tienilo bene. Vale un pezzetto della tua casa."
"Sul serio costa così tanto?"
"Ehi, la tua camera però è più bella, più grande."
"Sì, lo so Step, ma..."
"Paolo... stavo scherzando."
Paolo tira un sospiro di sollievo.
"No, sul serio, comunque l'hai veramente messa su bene."
"Non sai quanto ci ho speso."
Ecco che risbuca fuori il commercialista. Me ne torno in camera.
Comincio a spogliarmi. Ho voglia di una doccia. Paolo entra
in camera, ha ancora il giubbotto addosso con il cartellino che
gli penzola dal collo e un pacchetto in mano. "Anch'io ho una
sorpresa
per te." Fa per lanciarmelo, ma poi ci ripensa e me lo passa
piano. "Non si può lanciare. È delicato."
Lo apro incuriosito. "È per il tuo compleanno." Riesce a
imbarazzarmi.
"Cioè veramente è per il compleanno che hai passato
in America. Abbiamo potuto farti solo una telefonata. "
"Sì, l'ho trovata in segreteria." Continuo a scartare il regalo.
Cerco di non pensare a quel giorno. Ma non ci riesco. 21 luglio...
Stare fuori apposta tutto il giorno per non aspettare inutilmente
davanti al telefono. Poi tornare a casa e vedere la segreteria
lampeggiare.
Un messaggio, due, tre, quattro. Quattro messaggi, quattro
telefonate ricevute. Quattro possibilità. Quattro speranze. Via
con la prima. "Pronto, ciao Stefano, sono papà... Auguri! Credevi
che me ne fossi dimenticato, eh?"
Mio padre. Deve sempre aggiungere un po' di umorismo a
quello che fa. Spingo il tasto e mando avanti. "Tanti auguri a te.
Tanti auguri a Step... " Mio fratello. Mio fratello che
addirittura mi
canta gli auguri per telefono. Che gaggio! Ne rimangono due. Un
altro messaggio, il penultimo. "Ciao Stefano..." No. E mia madre.
Lo ascolto in silenzio. La sua voce scorre morbida, lenta, piena
di
amore, un po' affaticata forse. Allora stringo gli occhi. E i
pugni.
E fermo quelle lacrime. E ci riesco. Oggi è il mio compleanno,
mamma. Voglio essere allegro, voglio ridere, voglio stare bene,
mamma... Sì, anche tu mi manchi. Sono tante le cose che mi
mancano...
Ma oggi ho voglia di non pensarci. Ti prego. "Ancora auguri,
Stefano, e mi raccomando, chiamami quando puoi. Un bacio."
Rimane così un ultimo messaggio. La luce verde lampeggia
silenziosa. La guardo in silenzio. Lentamente si accende e si
spegne.
Quella luce verde potrebbe essere il più bel regalo della mia
vita. La sua voce. L'idea di poterle mancare anch'io. Di poter in
un attimo tornare indietro, ad allora, di ricominciare... Sogno
ancora
per un attimo. Poi spingo il tasto. "Ciao mitico! Ma come
stai? Oh, che piacere assurdo sentire la tua voce, anche se solo
in
segreteria. Non sai quanto mi manchi... Da morire. Roma è vuota
senza di te. Ma mi hai riconosciuto, vero? Sono Pallina. Certo
ormai
la mia voce è un po' più da donna. Allora, ti devo raccontare
una marea di cose. Da dove cominciamo? Vediamo un po'... Tanto
me la posso prendere comoda, i miei stanno fuori, telefono da
casa e spendo che è una meraviglia visto che mi hanno pure fatto
arrabbiare. Così li punisco un po', va'..." Mi fa ridere, mi fa
piacere.
La ascolto con un sorriso. Ma non posso mentire, non a me
stesso. Non era questa la telefonata che aspettavo. Non è un
compleanno
senza la sua voce. Non mi sembra neanche di essere nato.
E invece ora, dopo più di due anni, sono di nuovo qui.
"Allora che ne dici, ti piace?"
Finisco di scartare e poi guardo la scatola.
"Oh, guarda che questo è l'ultimo modello: un Nokia fantastico."
"Un telefonino?"
"Forte, eh? Prende dappertutto. Pensa che l'ho avuto grazie a
un amico, perché ancora non si trova nei negozi. È un N70, ha
tutto
ed è pure piccolo. Entra nella tasca della giacca. " Se lo infila
per
farmi vedere quant'è vero quello che dice.
"Certo che ne hai di amici attivi, eh?"
"Et voilà, visto? E poi si apre così e si può escludere il suono e
vibra soltanto. Tieni." Nemmeno ha sentito la mia battuta. Aspetta
solo la mia reazione.
"Grazie" è l'unica cosa che riesco a dire. "Un telefonino mi
mancava proprio."
"Hai già il numero: 335 808080, facile no? Sempre il mio amico
della Telecom."
È ancora più soddisfatto. Mio fratello e i suoi amici. Ora ho un
numero. Sono bollato. Identificato. Raggiungibile. Forse.
"Bellissimo, ora però devo assolutamente fare una doccia."
Lancio il telefonino sul letto.
Paolo esce scuotendo la testa: "Capirai, durerà poco quel
telefonino
se lo lanci così".
Mio fratello. Non c'è niente da fare. Che noioso! Eppure siamo
tutti e due nati dallo stesso seme, quello di mio padre, almeno
spero. Accendo la radio lì sul comodino e la sintonizzo. Mentre mi
spoglio mi metto a ridere da solo. Mia madre che ha messo al mondo
Paolo con un altro. Sarebbe il massimo. Almeno avrei una
spiegazione.
Ma questo lo escludo. Erano altri tempi. Tempi d'amore.
Mi piace questo pezzo. Mi metto a canticchiare qualcosa.
Sono sotto casa di Paolo. Ho visto le luci che si accendevano.
So che questa è la nuova casa di suo fratello. Ecco, lo vedo. Step
passa davanti alla finestra. Quella deve essere la sua camera.
Ehi,
ma si sta spogliando. E sta canticchiando qualcosa. Mi metto gli
auricolari. Accendo la radio del mio telefonino. Cambio canale
fino
a quando non mi sembra di trovare quello che Step canticchia.
Guardo la stazione. Ram power 102.70. Uno lo vivi, uno lo ricordi.
Chissà cosa preferisce Step... Guardo l'ora. È tardi, devo tornare
a casa. I miei mi stanno aspettando di sicuro.
"Paolo, che hai un asciugamano?"
"Te li ho già messi in bagno. Guarda li trovi in ordine di colore,
quello azzurro più chiaro per il viso, quello più scuro per il
bidè
e infine un accappatoio blu dietro la porta. "
E certo, in confronto Furio è un pazzo sregolato.
"Ehi, Step, fatti un po' vedere?"
Compaio davanti alla porta.
"Mazza come stai bene. Sei dimagrito?"
"Sì. In America fanno un altro tipo di allenamento in palestra.
Moltissimo pugilato. Ai primi incontri ho capito quanto siamo
lenti
qui a Roma. "
"Sei definitissimo."
"E da quando in qua ti sei imparato 'sti termini?"
Mi lascio andare volutamente al mio ruvido romano.
"Mi sono iscritto in palestra."
"Non credo alle mie orecchie. Era ora! Ma come, mi facevi tutte
quelle storie. Ma che perdi tempo in palestra, che ti importa del
fisico e tutte... E alla fine che fai?"
"Mi ha convinto Fabiola."
"Ah, ecco. Vedi, Fabiola già mi piace."
"Ha detto che stavo seduto troppo e che un uomo deve decidere
chi è fisicamente a trentatré anni. "
"A trentatré anni?"
"Ha detto così."
"Allora avevi ancora due anni di libertà."
"Ho preferito non essere nella regola perfetta."
"E brava Fabiola." Vado in bagno. "E dove ti sei iscritto?"
"Alla Roman Sport Center." Silenzio. Ricompaio dalla porta.
"Anche questo l'ha deciso Fabiola?"
"No" sorride fiero, secondo lui, della sua scelta. "Io... be', la
verità è che anche lei era già iscritta là."
"Ah, ecco..." Me ne torno in bagno e chiudo la porta. Non ci
posso credere. Non c'è niente di peggio che andare in palestra con
la propria donna. Stai lì che pensi a lei anche sotto i pesi, che
controlli
chi le si avvicina, che cosa le dicono, quello magari negato che
invece fa finta di insegnarle il movimento giusto... e cosa fa lei
e come
risponde. Terribile. Le vedo ogni tanto quelle coppie. Un bacio
alla fine di ogni serie. E poi alla fine dell'allenamento la
domanda
d'obbligo: "Che facciamo stasera?".
Perché una coppia deve già avere il suo programma. E certo,
sennò che coppia è. Eh... Se invece sei uno "scoppiato" allora la
Roman è perfetta. Automaticamente il muscolo lavora doppio, deve
mettersi in mostra lui stesso per acchiappare. Le macchine e i
bilancieri fingono quasi di lavorare, silenziosi spettatori di
chissà
quanti amori calcolati. Eh sì, perché finita ogni serie ci si
guarda,
ci si spizza, un sorriso e poi vai con la chiacchiera inutile. Chi
sei,
dove sei stato ieri, che locale è stato aperto oggi, che progetti
hai
per la serata, cosa fai domani e quanti soldi hai. Insomma, se
vale
o no la pena di scoparti.
Apro l'acqua della doccia e mi ci infilo sotto. Acqua fredda.
Poggio le braccia contro il muro e spingo fino a cercare
inutilmente
di abbatterlo. Mi si gonfiano le spalle e l'acqua rimbalza
ora più tiepida. Poi porto la testa all'indietro, bocca
semiaperta...
E l'acqua cambia improvvisamente corso. Piccolo fiume impetuoso
che trova anse e nascondigli tra i miei occhi, tra il naso e la
bocca, tra i denti e la lingua. La sputo fuori dalla bocca,
respirando.
Mio fratello. Mio fratello che va alla Roman Sport Center.
Mio fratello con la sua Audi 4 nuova. Mio fratello con la sua
donna.
Mio fratello che si allena con lei e tra una risata e l'altra
decide
cosa fare per la serata. Ora è tutto chiaro. Lui è papà, senza
ombra di dubbio. Più cresce e più la fotocopia si definisce. Io
invece
rimango sbiadito in un angolo. Vorrei sapere chi si è fottuto
il mio toner. Esco dalla doccia. Mi infilo l'accappatoio e mi
asciugo i capelli con l'asciugamano azzurro proprio come vuole
lui. Mi friziono forte i capelli corti appena rasati e in un
attimo
sono asciutti. Mi lascio l'asciugamano poggiato sulla testa e vado
in camera. Paolo mi vede.
"È impressionante come somigli a mamma. Chiamala, la farai
felice."
"Sì, più tardi." Oggi non ho voglia di far felice nessuno.
Capitolo 6.
Dal fondo del corridoio, si sente il rumore delle chiavi che
girano
nella toppa della porta di casa. Raffaella si volta.
"Oh... ecco Claudio!"
La porta in fondo al corridoio si apre lentamente. E in tutta la
sua nuova bellezza invece entra Babi.
Raffaella le corre incontro.
"Ma che hai fatto!"
"Come che ho fatto?"
"Sì, hai fatto tardi e in più hai tagliato i capelli! "
"Oddio mamma, mi hai fatto prendere un colpo! Chissà che
pensavo! Sì, me li sono tagliati stamattina. Sto bene? Ha detto
Arturo,
che me li ha fatti, che così mi donano molto di più."
"Sì... ma avevamo impostato un po' tutto sui tuoi capelli lunghi!
"Mamma, ma sono solo scalati," Babi le sorride, "lo sapevo che
avresti detto così. Guarda..." Apre una piccola borsa di Furia e
tira
fuori tre polaroid. "Ecco, ho fatto apposta i provini. Allora? Non
sto meglio?"
Raffaella le guarda. Poi sorride contenta e soddisfatta della
figlia
e del suo nuovo taglio di capelli insieme a tutto il resto in
quelle
foto. Ma non vuole dargliela vinta. No, non vuole essere esclusa
da nessuna decisione, soprattutto per una cosa così importante.
"Sì, stai bene. Ma la scelta che avevamo fatto mi sembrava più
giusta... quella coi capelli lunghi."
"Ma dai, non fare la difficile! Mamma, vedrai che per allora
saranno
anche ricresciuti. Piuttosto, sono tornata prima perché stasera
abbiamo la cena da Mangili, giusto?"
"No, l'ho spostata alla settimana prossima."
"Ma mamma, scusa, allora potevi avvisarmi! Ho fatto presto
apposta perché dovevamo andare da lui! Fammi una telefonata,
no? Ho sempre il telefonino dietro! Mi chiami per le cose più
stupide
e poi non mi chiami per questo! "
"Non ti chiamo mai per cose stupide."
"Sì, lo so, ma ci tenevo un sacco a risolvere questo problema."
Babi sbuffa, si mette le mani sui fianchi. Quando perde la calma
torna proprio bambina. Ci manca solo che si metta a battere i
piedi.
"Babi, non fare così, dai, da Mangili ci andiamo la settimana
prossima..."
"Sì, ma subito! Io voglio essere sicura di questo Mangili, non
lo abbiamo mai provato. Non lo conosce nessuno."
"Ma se organizza pure le cene per il Vaticano."
"Sì, lo so, ma quelli non escono mai, non sono abituati a
mangiare!
Che ne sanno se è buono o no quello che gli passano lì in
convento?"
"Babi, non fare così. Vedrai che andrà tutto benissimo."
Raffaella cerca di tranquillizzarla.
"E una semplice cena..."
"Sì, ma è la mia cena e per me è importante! E uno si augura
che non sia l'ultima cena ma che, in questo caso, sia almeno
l'unica
cena!"
E così dicendo Babi se ne va, si chiude in camera sua e sbatte
la porta. Raffaella alza le spalle. È normale essere nervosi in
questa
situazione. Proprio in quel momento si apre la porta di casa ed
entra
Claudio.
"Amore, eccomi!"
"E meno male. Ma che hai fatto fino adesso?"
Claudio la bacia frettolosamente sulle labbra.
"Scusami, ho dovuto controllare delle pratiche in ufficio." Non
le può certo dire che invece ha controllato ogni possibile
optional, i
consumi e le fantastiche prestazioni della Z4. Non solo. Ha anche
fatto fare una valutazione praticamente irrisoria della sua
Mercedes.
"Cambiati la camicia e mettiti anche un'altra cravatta. Veloce.
Ti ho preparato tutto sul letto."
"Ma scusa, non dobbiamo andare a provare il catering del mio
amico Mangili? Che bisogno c'è che mi cambio?"
"Claudio, ma dove hai la testa? Ti ho chiamato apposta stamattina
in ufficio. Mi ero completamente dimenticata che stasera
dovevamo andare dai Pentesti. Mangili l'ho spostato alla settimana
prossima! Forza, preparati, che siamo già in ritardo."
Ah già, e vero.
Claudio va in camera e cerca di recuperare il tempo perduto.
Si spoglia veloce, si leva la giacca. Proprio in quel momento un
suono
insistente arriva dal telefonino. Claudio lo prende dalla tasca
della giacca. Ecco la risposta al suo messaggio. Lo legge,
sorride,
fa appena in tempo a cancellarlo quando entra Raffaella.
"Sbrigati, che cosa perdi tempo con quel telefonino. Chi era?"
"Sì, scusa, era Filippo Accado che mi aveva mandato un messaggio."
"Filippo? E da quando in qua vi scrivete messaggi?"
"Oh, per fare prima."
Claudio si leva la camicia e s'infila quella pulita, sbottonando
solo il colletto per fare più veloce, ma anche per nascondere il
viso.
"Niente, mi diceva che lunedì non si gioca a bridge, non so cos'è
successo."
"Meglio. Vuol dire che allora organizziamo per lunedì la prova
del catering da Mangili. Forza sbrigati, che t'aspetto in
salotto."
Claudio finisce d'infilarsi la camicia e s'accascia stravolto sul
letto.
Non se l'era mai vista così brutta. Ecco, è saltato pure il
bridge.
Be', è stata la prima cosa che m'è venuta in mente, a qualcosa
bisogna
pur rinunciare. Si mette la cravatta, alza il colletto della
camicia
e prepara il nodo. E se dai Pentesti ci fossero anche gli Accado?
Cazzo, a questo non c'avevo proprio pensato. E se Filippo, che è
un
coglione, non capisse al volo? Già gli sembra di sentire la sua
voce:
"Ma Claudio che dici? Io veramente non t'ho mandato nessun
messaggio".
E in quel momento vorrebbe non andare a quella festa. Si
stringe intorno al collo l'elegante cravatta blu scelta da
Raffaella. Poi
si guarda allo specchio. E per un attimo quella cravatta gli
sembra
una terribile corda da impiccato.
Capitolo 7.
Paolo è lì che guarda la tv mentre parla al telefono, steso sul
suo letto con le gambe che sporgono un po' fuori e il suo pollice
che saltella sul telecomando cercando qualcosa che lo interessi
più
di chi sta dall'altra parte del telefono.
"Ciao, io esco."
"Dove vai?"
Lo guardo per una volta senza sorridere: "A fare un giro".
Si pente di avermelo chiesto e cerca subito di recuperare.
"Il doppio delle chiavi lo trovi in cucina dentro l'armadio a
sinistra
prima della porta in un vasetto di cotto." La sua solita
precisione.
Poi spiega a chi sta dall'altra parte del telefono cosa sta
facendo, per chi e perché. Sono il fratello tornato dall'America.
Poi mi urla da lontano. "L'hai trovato?" Mi metto le chiavi in
tasca
e ripasso davanti a lui. "Trovato." Sorride. Sta per riprendere
a parlare quando copre d'improvviso la cornetta con la mano
sinistra,
poi teso come una corda: "Ma... Vuoi che ti presto la macchina?".
È preoccupatissimo nel dirlo, pentito nell'averlo proposto,
disperato all'idea di un mio sì. Lascio passare apposta qualche
secondo. E ne godo. D'altronde non gliel'avevo mica chiesta io.
"No, lascia perdere."
"Ah, ok, ok." Fa un sospiro. Ora è più rilassato. Poi cerca
comunque
in qualche modo di risolvere la mia vita. "Hai visto, Step?
Ho fatto portare la tua moto qui sotto in garage. "
"Sì, l'ho vista, grazie." Ma la mia vita non si risolve così
facilmente.
Prendo l'ascensore e scendo in garage. Sotto un telo grigio,
lì in fondo al cortile, vedo spuntare una ruota. La riconosco.
Leggermente consumata ma ancora viva, un po' di polvere e tanti
chilometri fatti. Con una mossa da torero sfilo via il telo.
Eccola.
L'Honda Custom VF 750 blu metallizzata. Accarezzo il serbatoio.
La mia mano dipinge un segno morbido nella polvere che
dorme su quel blu. Poi alzo la sella, attacco i cavi della
batteria, e
la richiudo. Ci monto sopra. Tiro fuori le chiavi dal giubbotto e
le
infilo lì sotto. Vicino al motore. Il portachiavi penzola leggero,
oscilla, rimbalza, toccando ogni tanto il freddo motore. Più su,
una
luce fioca colora di verde e rosso il dispositivo dell'accensione.
La
batteria è scarica. Provo per sfizio, ma sarà impossibile
accenderla.
Spingo il pulsante rosso con la mano destra. Vane speranze ora
confermate. Niente da fare. Devo spingere. Esco fuori dal garage
con la moto inclinata, poggiata al corpo, sulla mia destra, contro
le gambe. I quadricipiti si gonfiano. Uno dopo l'altro, passi
leggeri,
sempre più veloci. Il battito dei passi si alterna al rumore del
brecciolino, uno, due, tre, sempre più veloce. Esco dal cortile e
la
spingo per la strada. Ora più veloce. Ancora qualche passo. La
seconda
è già inserita. Tengo con la sinistra la frizione. Ecco, è il
momento.
Lascio andare la frizione. La moto frena quasi di colpo.
Ma io continuo a spingere, e lei borbotta. Tiro la frizione e la
lascio
di nuovo. E lei tossisce. Ora, ancora, con forza. Sto sudando.
Un'ultima spinta, me lo sento. E infatti si accende di botto. Fa
uno
scatto in avanti. Tiro la frizione e do gas con la destra. Il
motore
prende vita e ruggisce nella notte, sotto le case, nella strada
buia.
Ancora gas. Esce fumo vecchio dalle marmitte, grandi nuvole che
tossiscono di passato, di lungo riposo. Ancora gas. Ci monto sopra
e accendo le luci. Poi lascio andare la frizione e via nel vento
notturno. Sudato mi asciugo correndo via veloce per la Farnesina.
Passo sotto il cavalcavia. Affronto la curva scalando piegato,
senza frenare. Levo un po' di gas per ridarlo a metà curva e
stringere
di nuovo. La moto scodinzola. Do ancora gas e come un cane
ubbidiente lei corre via con me verso Ponte Milvio, dopo la
chiesa, il Parlotta, le mille pizze mangiate lì, il Gianfornaio
sulla
sinistra e quel fioraio lì vicino. Cazzo, quanti fiori mandati da
quel
fioraio, quello che fa più sconti di tutti. Tanti fiori, sempre
diversi,
sempre per la stessa lei. Non ci penso, non ci voglio pensare.
Pistola, il cocomeraio, è lì fuori che prova un telefonino. Due
clacsonate e mi guarda. Lo saluto ma non mi riconosce. Lo andrò a
trovare più tardi per ricordargli chi sono. Me ne frego, do gas, e
scivolo via nella notte. Cazzo... Che bella, Roma. Mi sei mancata.
Do ancora gas e giù per il Lungotevere. Dribblo le macchine.
Destra,
sinistra... Infine allargo portandomi veloce sul bordo della
strada. Sfioro i pini del Foro italico. Qualche mignotta sta
prendendo
posto accanto al suo fuocherello ancora spento. Gambe
grasse rotolano giù frenate solo da qualche gambaletto troppo
stretto. Una, finta o vera colta, legge un giornale. Ride con una
bocca sgangherata per qualche idiozia trovata tra quelle pagine.
Magari è una notizia triste e non l'ha capita. Un'altra e già
seduta
su una piccola sedia pieghevole, ha in mano le parole crociate e
con una penna le riempie veloce. O scrive a caso o sa veramente
quelle risposte. Do ancora gas e contemporaneamente scalo. Quinta,
quarta, terza, curva a gomito a destra. Freno poco più in là
davanti
al cineporto. Metto il cavalletto e scendo dalla moto. Gruppi
di ragazze ridono divertite fumando una sigaretta non viste da
qualche illuso genitore. Una bionda con i capelli corti e il
trucco
troppo pesante mi guarda, dà di gomito alla sua amica. Bruna,
occhi
nocciola, capelli a caschetto, seduta a gambe incrociate su un
SH 50 grigio petrolio. Quest'ultima mi guarda sbigottita e rimane
a bocca aperta. Mi tocco i capelli corti dietro la testa. Sono
abbronzato,
magro, sorrido, mi sento bene. Sono tranquillo. Ho voglia
di una birra fredda e di vedermi un film. Ho voglia di un'altra
cosa a essere sincero ma so di non poterla avere.
"Step, non ci posso credere!"
La bruna scende dall'SH 50 e mi corre incontro gridando come
una pazza. La guardo cercando di metterla a fuoco. Poi a un tratto
la riconosco: Pallina. Non ci credo... Pallina. Pallina, la donna
del mio amico, del mio migliore amico. Di Pollo, il compagno delle
prime sbornie, delle prime donne, di mille cazzate, di risate e
cazzotti, e lotte per terra, nella pioggia, nel fango, nelle
notti, nel
freddo, nel caldo, nelle vacanze della vita. E sigarette a mezzi e
centinaia
di litri di birra, sì, Pollo delle mille corse in moto e di
quell'ultima...
"Pallina." Mi salta al collo abbracciandomi con forza. E con
quella forza che mi ricorda proprio lui, il mio amico che non c'è
più. Cerco di non pensarci. La stringo forte, più forte, e respiro
tra
i suoi capelli, cercando di riprendere fiato, di ritornare al
presente,
alla vita. "Pallina." Si stacca e rimane a guardarmi con gli occhi
lucidi. Mi viene da ridere.
"Cazzo, ma sei diventata una strafiga!"
"Oh, ce l'hai fatta a capirlo!"
Ride divertita, ride e piange, al solito, pazza com'è, bella com'è
diventata.
E si asciuga con la mano il naso e tira su.
"E chi ti riconosceva! "
Gira davanti a me sorridendo, con amore negli occhi. Mi fa una
specie di sfilata.
"Allora come sto? Sono dimagrita eh, e il capello corto ti piace?
Che ne dici? Questo taglio lo conosci?"
"No assolutamente."
"Cazzo! Ma dai, questa è l'ultima moda! Ma come, proprio tu
che sei stato in America e non lo sai ! " Ride come una pazza.
"Sono fashion! L'ho copiato da 'Cosmopolitan' e 'Vogue'. Hai
presente Angelina Jolie e Cameron Diaz, ecco, le ho mischiate e
superate!"
È passato il momento difficile. Mi dà un cazzotto.
"Quanto mi sei mancato, Step." E mi abbraccia di nuovo.
"Anche tu."
"Ehi, pure tu stai una favola. Fatti vedere. Sei dimagrito. Questi
ci sono ancora?"
Mi tocca la maglietta e mi passa la mano sugli addominali.
"Eccome se ci sono... E più che mai! "
Mi fa il solletico.
"Ahia, ferma."
Ride.
"Mazza come stai messo. Vieni che ti presento. Questa è la mia
amica Giada."
"Ciao."
"Lui è Giorgio e lei Simona." Ci guardiamo facendo cenni di
saluto. Mi fermo per un attimo di troppo sul viso di Giada che
arrossisce
dando quell'ultimo tocco di fard alle sue guance già troppo
truccate. Pallina se ne accorge.
"Andiamo bene. Manco sei arrivato che già fai una strage."
Giada si gira facendo cadere i capelli sul viso. Si nasconde,
sorride,
gli occhi verdi spuntano tra le foglie chiare di un capello
divertito.
Alla Bambi. Pallina scuote la testa.
"Mah... Eccola lì... È andata. Andiamo anche noi, va'. Noi
entriamo
a farci una birra. Oh, caso mai dopo ci raggiungete, eh? Che
dobbiamo parlare dei tempi passati."
Non faccio in tempo a salutare, che Pallina mi trascina via:
"Cavoli,
ti devo raccontare mille cose. Oh, m'avessi scritto due righe,
una telefonata, una cartolina. Ma almeno il numero mio te lo
ricordi?".
Glielo dico perfettamente a memoria. Poi mi tradisco: "È lì che
cercavo sempre Pollo". Cazzo, vorrei non averlo detto. Per fortuna
siamo al cancello. Pallina mi salva. O non ha sentito o fa finta.
Saluta
un buttafuori mingherlino: "Ciao Andrea. Che, ci fai entrare?".
"Certo Pallina, stai sola con il tuo amico?"
"Sì, ma sai chi è lui?"
Andrea non risponde.
"Dai, è Step, ti ricordi, ti ho raccontato..."
"Come no." Sorride: "Cazzo, ma sono vere tutte le cose che ho
sentito su di te?".
"Riduci al sessanta per cento e qualcosa di buono c'è."
Pallina scuote la testa, mi tira per un braccio ed entra.
"E modesto." Pallina gli dà una pacca sulla spalla: "Grazie
Andrea".
La seguo divertito.
"Certo che sono proprio cambiati i tempi..."
"Perché?"
"Ma è così che li prendono i buttafuori adesso?"
Pallina guarda Andrea che ci segue con lo sguardo incerto. Forse
non è del tutto convinto che io sia quello Step di cui ha tanto
sentito parlare.
"Ma guarda, Step, che quello è uno preciso."
"Sì, preciso. Che vuol dire preciso? Ai bei tempi, prima di stare
su una porta ti facevano vedere i sorci verdi per capire se te la
cavavi o no. Sai che una volta al Green Time mi hanno detto di
consegnare
i soldi in una stanza in fondo... Sono entrato e mi sono
piombati addosso in tre." Comincio a raccontare. C'era anche
Pollo.
Stavolta però riesco a tenerlo fuori, a farlo stare tranquillo, al
suo posto, dovunque sia. Spero solo che stia ascoltando, e che si
diverta a questo ricordo.
"Insomma, col cavolo che mi hanno preso i soldi. Mi sono tolto
la cinghia al volo e pum ! In faccia a tutti e tre. A uno l'ho
preso
con la fibbia e gli ho spaccato uno zigomo. Gli altri due poca
roba.
Ma certe sganassate in faccia. E da quel giorno ho fatto quattro
mesi filati sulla porta del Green Time. 100 a sera. Era un sogno
e rimorchiavi che era una meraviglia."
"Pollo aveva un segno sulla faccia sotto lo zigomo sinistro. Mi
ha detto che era stata una cinghiata. "
Non le sfugge niente: "Forse sarà stato il padre".
Mi guarda e sorride. "Bugiardo. Non sei cambiato."
Ci sediamo a un tavolino di plastica con delle sedie bianche
e rimaniamo in silenzio. Mi giro a guardare intorno. Dietro di noi
c'è una specie di gommone gigante riparato alla meno peggio che
funziona da piscina. Persone di tutti i tipi schiamazzano e si
schizzano
là dentro. Uno dal bordo, urlando come un pazzo, raccoglie
le gambe e si lancia in mezzo a bomba. Schizza tutt'intorno.
Una signora grassa con un costume blu si copre i capelli come
può: "E santissima...". Impreca alzando le mani verso il ragazzo
che ride tra i suoi amici. La donna blatera qualcos'altro e
riprende
la sua passeggiata in quella piscina dall'acqua calda e schiumosa.
Il marito al bordo opposto, mezzo pelato e obeso, ride
guardandola.
Scuote la testa e fuma una sigaretta. Sicuramente sta anche
pisciando. Poi comincia a tossire. La sigaretta gli cade in acqua
e si spegne, gli dà una botta leggera con la mano spingendola più
in là nell'acqua dove un bambino nuota tentando un goffo stile
libero.
"Allora come stai?"
"Benissimo e tu?"
"Bene. Bene." Rimaniamo un po' in silenzio, imbarazzati per
quel tempo che non c'è più. Per fortuna, dalle casse distribuite
ovunque arrivano le note di una canzone, The lion sleeps tonight.
E chissà chi è adesso il leone tra noi. E, soprattutto, se dorme
davvero.
Un cameriere viene a prendere le ordinazioni.
"Aspetta, fammi indovinare. Una Corona con una fettina di limone."
Sorrido: "No, adesso Bud".
"Ma dai, anche a me piace un casino. Due Bud, grazie."
Chissà se l'ha detto sul serio.
"Sai, ti ho pensato spesso mentre stavi laggiù... A New York,
vero?"
"Sì." Mi fa ridere, non è cambiata, parla a raffica e a volte
tanto
per farlo. Mi ha pensato così spesso che non era neanche sicura
dov'ero. Cazzo Step, è Pallina. Lasciala stare. È la donna del tuo
amico Pollo. Non giudicare anche lei, non analizzare le sue parole
in continuazione. Dai, molla. Mi schiaffeggio il cervello: "Sì, a
New
York. E mi sono divertito un casino".
"Lo immagino. Hai fatto bene ad andartene. È stato tutto così
difficile qui." Arrivano le Bud. Le alziamo. Sappiamo a cosa
stiamo
per brindare.
"A lui..." Lo dico a bassa voce. E lei annuisce. Ha gli occhi
velati
d'amore, di ricordi, del passato. Ma qui è presente. E le Bud si
urtano con violenza. Poi la butto giù gelata che è una meraviglia.
Vorrei non staccarmi più, ma a metà freno e prendo fiato. Poggio
la Bud sul tavolo. "Buona." Cerco nel giubbotto. Pallina è più
veloce
di me. Tira fuori un pacchetto di Marlboro light dalla camicia
verde chiara con spalline militari e tasche con zip. Ne tira fuori
una
e mi passa il pacchetto. Ne prendo una e mi accorgo che non c'è
più la sigaretta girata. Quella del desiderio. Sogni finiti? Mi
prende
la tristezza. Richiudo il pacchetto e glielo do. Me la metto in
bocca. Poi lei mi allunga un accendino, anzi no, insiste per
accendere.
Ha le mani fredde, ma sorride. "Sai che da allora non sono
più stata con nessun uomo." Tiro una boccata e la mando giù,
piena,
pesante.
"Uomo? Ragazzo!" cerco di banalizzare.
"Va be', insomma, quello che è." Forse la Bud, la sigaretta, il
casino, tutto quello sporco intorno a noi. Ridiamo. E tutto
diventa
come un tempo, senza problemi. Ci raccontiamo di tutto, ricordi,
novità nostre, degli altri. Cazzate. Solite cazzate. Ma stiamo
bene.
Mi informa di fatti romani. "Eh dai, quella lì, te la ricordi, no?
Non sai che è diventata! "
"Bona?"
"'Na botte." Risate.
"Frullino, invece, è finito dentro di nuovo."
"No, giura!"
"Sì, ha fatto a botte col Papero perché s'era messo con la donna
sua e quello l'ha denunciato."
"Non ci posso credere, ma non c'è più religione."
"Telo giuro."
Ridiamo.
"I fratelli Bostini hanno aperto una pizzeria."
"Dove?"
"Al Flaminio."
"E com'è?"
"Buona, ci trovi un po' tutti ma anche un sacco di gente nuova.
È forte sai, e poi non spendi molto. Giovanni Smanella invece
non s'è preso ancora la maturità."
"No, non ci posso credere, ma che c'ha nel cervello?"
"Boh, pensa che quest'inverno mi veniva dietro."
"Ma dai... Che pezzo di merda! "
Riaffiorano i bei tempi. Pallina mi guarda preoccupata.
"Ma no, era una cosa carina. Eravamo diventati amici, mi faceva
compagnia. Mi parlava spesso di Pollo. "
"Pure!" Rimango in silenzio.
"Cazzo, Step," Pallina dà un lungo sorso alla birra, "ma non
sei cambiato di una virgola! "
Sto teso, ma poi lascio perdere. Ma sì, che mi frega. Non ha fatto
niente di male. In fondo la vita continua.
"Sono cambiato." Sorrido.
"Eh, meno male, allora si possono toccare anche altri argomenti?"
sorride e mi fa la faccia furba, indimenticabile. "Ahia..."
Si capisce che cambio faccia. "Ecco la nota dolente. Oh, te la sei
cercata. " Si scola l'ultimo sorso di birra, poi appare
completamente
donna: "Allora... l'hai più sentita? Quant'è che non la senti? Hai
provato a chiamarla da laggiù?".
È una macchinetta, sembra non fermarsi.
"Ehi calma, cazzo. Neanche fossi la pula che m'ha beccato!"
Cerco di non sembrare più di tanto toccato dal discorso. Ma non
so se ci riesco: "No, mai sentita".
"Più?"
''Più."
"Giura!"
"Giuro."
"Non ci credo."
"E che cavolo. Ma pensi che ti dico le bugie? Allora l'ho
sentita."
"No, no, va bene, ci credo. Io invece l'ho incontrata."
Poi fa una pausa. Lunga. Troppo lunga. Non dice niente. Lo fa
apposta. Mi guarda e sorride. Vuole che io dica qualcosa. Aspetta
ancora, troppo. Ma perché? Che palle. Che stronza. Non resisto.
"Allora dai, Pallina, forza. Sputa. Racconta."
"Sempre molto carina ma..."
"Ma?"
"Diversa. Non so come dire. Ecco, è cambiata."
"Be', su questo non avevo dubbi, tutti siamo cambiati."
"Sì, lo so... Ma lei... Lei è cambiata in un modo... Che ne so,
ecco,
in un modo diverso."
"Ma l'hai già detto! Ma che vuol dire 'sto modo diverso?"
"Senti, non lo so. È diversa e basta. È così, non so come dirlo.
O lo capisci o la devi vedere per capirlo. "
E grazie.
Poi non so come ma faccio la domanda. Mi viene normale. L'ho
pensata ma non volevo dirla. Eppure mi sfugge, mi esce così, senza
volerlo, che quasi non la dico io.
"Ma... era da sola?"
"Sì. E sai dove stava andando? A fare shopping."
Mi viene da ridere. La ricordo, la immagino e improvvisamente
la vedo. Babi. "Tu aspetta qui. Non ti muovere Step, non mi
sparire
come al solito. No, sul serio, non te ne andare che poi voglio il
tuo consiglio..." Mi lascia davanti alla vetrina. Entra, guarda,
sceglie,
poi mi chiama. "Guarda, ho deciso, prendo questo. Ti piace?"
Ma non mi dà il tempo di rispondere. Ci ripensa, cambia il
modello.
Ne prova un altro, le sta bene. Ora sembra di nuovo decisa. Fa
una specie di sfilata, poi mi guarda: "Allora?... Eh, che ne
dici?".
"Mi sembra che ti stia benissimo."
Si riguarda allo specchio. Ma trova qualcosa che non va, che
solo lei sa.
"Mi scusi ma voglio pensarci ancora un po' su."
Allora esce dal negozio e mi abbraccia.
"No, no, ho deciso di no. Viene troppo."
E si sente felice perché comunque ha deciso per il meglio. E alla
fine glielo regalavo io qualche giorno dopo. E lei rideva. Ed era
diventato un gioco. Un altro gioco. Babi, perché hai voluto
smettere
di giocare? Ma non faccio in tempo a trovare la risposta.
"Oh, ma lo sai che non sta più con quello?"
"No, non lo so. Come potrei saperlo poi? Te l'ho detto che non
l'ho più sentita. E che, c'ho gli informatori segreti?"
"Credo che non stia con nessuno." Lo dice apposta, sorridente,
pensa di farmi piacere. Non so cosa pensa o non lo voglio pensare:
"Be', Babi non mi interessa".
Fa la faccia incredula alla mia risposta. "Cosa?"
"Non mi interessa. Sul serio. D'altra parte qualcuno ha detto
che se ce la fai a New York, ce la puoi fare ovunque. E io credo
d'avercela
fatta."
"Ho capito. Non era qualcuno. Era Qualcosa è cambiato. Va
be', ti credo." Sorride e alza il sopracciglio. Mi bevo un altro
sorso
di birra.
"Guarda che non mi interessa veramente."
"Ma perché me lo ripeti, scusa."
Un telefonino comincia a squillare. Non è uno squillo normale.
Sembra una suoneria polifonica, ma bassa, distorta, brutta. Un
ragazzo seduto al tavolo vicino al nostro lo tira fuori dalla
tasca e
lo avvicina all'orecchio. Non è il suo. Continua a parlare con la
ragazza
seduta di fronte a lui, leggermente arrossito. Chissà quale
telefonata
poteva ricevere. La ragazza fa finta di niente. Il telefonino
continua a squillare. La suoneria insiste e diventa più alta. Un
uomo
grasso tira fuori un telefonino minuscolo dalla camicia e lo
guarda.
Non ci vede bene e se lo porta vicino all'orecchio. No, non è il
suo. Quasi lo butta sul tavolo. "Che palle 'sti telefonini."
"Io l'ho lasciato a casa," fa Pallina, "quindi non può essere il
mio. Qualche volta, quando non c'ho voglia, lo stacco, ma stasera
me lo sono proprio dimenticato." Lo squillo insiste.
"Guarda che mi sa che è il tuo." Finisco l'ultimo sorso di birra
che quasi mi va di traverso. Cazzo, è vero, non c'avevo pensato.
Lo tiro fuori dalla tasca. È lui. Ora suona più forte. La suoneria
deve
averla scelta Paolo. La gente mi guarda. Anche Pallina. Cerco
di giustificarmi. "Me l'ha regalato stasera Paolo." Pallina
annuisce.
"Pronto." E proprio il mio.
"Meno male, credevo fossi in discoteca. Ma non sentivi?" Una
bella voce di donna che alla fine si mette a ridere. "Ti starai
chiedendo
chi può avere il tuo telefonino. Tuo fratello mi ha spiegato
tutto.
Spero solo di essere stata io la prima a inaugurarlo. Sono Eva. "
Rimango per un attimo in silenzio. Eva? Ma certo... Eva, la
hostess. Eva che mi porta le birre, Eva che saltella su e giù per
l'aereo.
Eva la gnocca. Ecco quando serve un fratello. E un telefonino.
"Allora... Ci sei?"
"Come no."
"Hai capito chi sono o sei riuscito sul serio a dimenticarmi?"
"Come posso dimenticare..." Vorrei dire Eva la gnocca ma capisco
che non è il caso. "Eva. È che credevo che questo telefonino
non funzionasse. Non aveva ancora chiamato nessuno."
"Perché a quante hai già dato il tuo numero?"
Leggermente già gelosa. Rido: "A nessuna...".
"Dove sei?"
"Sono qui con una mia amica."
Silenzio dall'altra parte. "Qui dove?"
"Qui in giro..."
La cosa strana del telefonino è che sei dappertutto e da nessuna
parte.
"E com'è questa tua amica?"
"Una mia amica."
"La tua amica cosa dice che stai così a lungo al telefono?"
Pallina si guarda in giro e saluta degli amici che sono appena
entrati.
"Non dice. Te l'ho detto. E un'amica." La sento più sollevata.
"Senti, se ti va, ci incontriamo da qualche parte. Magari andiamo
a fare un giro."
"C'è un problema."
"La tua amica?"
"No, la mia moto. Sono in moto."
"Ah, allora sì che è un problema."
"Hai paura?"
"Non ho paura, dovrei averne?"
"No." Mi piace questa ragazza.
"Il problema è che non posso andarci. Ho il divieto
dell'assicurazione
di volo. "
Non so se crederle. Ma non è importante.
"E certo, se fai un volo in moto loro non pagano."
"Perché non vieni a trovarmi? Sono all'Hotel Villa Borghese."
Pallina mi guarda e fa un segno con la mano come a dire "Oh,
ma quanto dura 'sta telefonata?".
"E dopo usciamo in taxi? O non sei assicurata neanche per
quelli?"
Eva ride: "E dopo decidiamo".
Chiudo la telefonata.
"E meno male. Discussione con donna?"
"Sei diventata curiosa, eh?"
Mi alzo e prendo lo scontrino.
"Che fai, te ne vai?"
si, ma pago.
Pallina rimane un po' delusa: "Ci vediamo uno di questi giorni
o riparti subito?".
"No, resto."
"Dammi il numero, così ti rintraccio io."
"Non lo so a memoria."
Mi guarda con la sua faccia buffa. La piega da un lato. E mi
fissa.
È più carina, più donna. E le voglio bene. Ma non c'è niente da
fare. Non mi crede.
"Dai, allora ti faccio uno squillo io. Oppure telefona a casa, mi
trovi lì, sto da mio fratello, il numero è sempre lo stesso."
Si tranquillizza. Si alza e mi dà un bacio: "Ciao Step.
Bentornato".
E raggiunge gli amici.
Capitolo 8.
La moto si accende subito. La batteria si è ripresa senza
problemi.
Prima, seconda, terza. In un attimo sono sotto il cavalcavia
di corso Francia. Mi viene in mente una cosa e torno indietro. A
una come Eva forse può piacere. E soprattutto ne ho voglia io.
Cinque minuti dopo. Corso Francia, piazza Euclide, viale Parioli.
Una casba di ristoranti e macchine in doppia fila. Finti
posteggiatori
eleganti, probabili polacchi dall'italiano stentato. Una signora
più o meno negata tenta una manovra per posteggiare bene. Secondo
lei. In realtà ha bloccato un'intera curva. Ragazzi e ragazze
fuori dal Duke ostacolano il traffico. Svicolo veloce fra le
macchine,
evito un tentativo di curva a U e sono a piazza Ungheria. A
destra e poi dritto fino allo zoo. In fondo a sinistra e poi di
nuovo
a destra. Hotel Villa Borghese. Posteggio la moto e scendo con
la busta. "Buonasera." Cazzo, non ci avevo pensato. Non so il
cognome.
"Buonasera..." Ci riprovo. Chissà da dove può arrivarmi
l'ispirazione. Il portiere, un uomo sui sessant'anni dall'aria
pacioccona
e simpatica, decide di salvarmi.
"La signorina l'aspetta. Camera 202, secondo piano."
Vorrei chiedergli perché pensa che io vada proprio da lei. E se
volevo invece una stanza o qualcos'altro? Una semplice
informazione,
per esempio. Ma capisco che è meglio stare zitti. "Grazie."
Mi guarda andar via. Fa un mezzo sorriso, poi sospira. Fa su e giù
con la testa. Invidia per Eva o per quegli anni ormai passati, più
belli
perfino di lei. Salgo le scale. 202. Mi fermo e busso.
"È lo champagne?" chiede divertita venendo verso la porta.
"No, la birra."
Apre: "Ciao, entra". Mi bacia due volte sulla guancia. Cammina
tranquilla, leggermente altera ma più morbida di come passeggiava
sull'aereo. E un'altra cosa. Ha i capelli sciolti.
"A parte gli scherzi, vuoi qualcosa da bere? Me la faccio portare
da giù."
"Sì, te l'ho detto. Della birra."
"Quella è nel frigo." Mi indica un piccolo frigorifero nell'angolo
opposto al suo. Vado a prenderla. Quando mi giro è già seduta
sul divano. Ha le braccia aperte, poggiate sul bracciolo e sul
cuscino. Le gambe lasciate andare giù, con le ginocchia che si
stringono
vicine. "Sono stravolta. Ho fatto un giro per fare shopping
come mi avevi detto tu."
"E come è andata?"
"Bene. Ho comprato una camicia da notte e un completo molto
carino di un blu particolare, 'blu perso', così l'ho chiamato io.
Ti piace?"
"Molto."
Sorride, si tira su, sedendosi più dritta: "Vuoi vedere come mi
sta?".
Vivace, attenta, divertita. E mi sorride. Mi guarda in maniera
più intensa. Con una strana malizia. Per dimostrare qualcosa, la
sua
ipotetica eleganza o chissà cos'altro. È una sfida? L'accetto. "Ma
certo."
Prende una busta. Mi guarda, poi alza il sopracciglio e divertita
si allontana. Ma so che vuole sentirselo dire.
"Dove vai?"
"In bagno. Che pensavi?" E chiude dietro di lei la porta con
un ultimo sorriso della serie: "Ma tra poco sono qui, cosa credi".
Finisco la birra appena in tempo. Eccola. Eva.
"Come sto?" Ha la camicia da notte trasparente che le scivola
sul corpo come un'onda leggera, così leggera che mi sembra quasi
di sentire quel mare. È color blu polvere. Blu perso, come ha
detto
lei. Ha pettinato anche i capelli. Perfino il sorriso, non so, è
cambiato.
"Carina. Molto. Se questa è la camicia da notte... ora vorrei
vedere
il completo."
Ride. Poi cambia espressione e si avvicina con fare professionale.
È tornata hostess. "È lei che ha suonato? Cosa desidera?"
Non mi vengono battute. Me ne affiora una: "Come direbbe la
signora:
'Te, gnocca' ". Ma la trovo pessima. E l'abbandono. E faccio
bene.
Ma lei insiste.
È vicinissima al mio viso. E mi torna in mente per un attimo
quella canzone dei Nirvana, "If she ever comes down now...".
"Allora, cosa desideri?"
"Perdermi nel tuo blu perso."
E questa le piace. Eva ride. Me la dà buona. La battuta. Decide
di sì, di farmi perdere subito. Mi bacia. Meravigliosamente bene,
tranquilla, morbida, a lungo. Gioca con il mio labbro inferiore
succhiandomelo, lo tira leggermente a sé, alla sua bocca. Poi, a
un
tratto, lo lascia andare. Ne approfitto.
"Ti ho portato una cosa."
D'altronde non c'è fretta. Non è previsto l'atterraggio. Non
adesso. Mi stacco da lei e prendo la busta. Rimane sorpresa a
guardarmi.
Ha i capezzoli che affiorano tra le pieghe leggere della sua
camicia da notte. Ma non voglio perdermi ora tra quelle correnti.
Apro la busta sotto i suoi occhi.
"No, stupendo. Due fette di cocomero!"
"Le ho prese da un mio amico a Ponte Milvio. Era una vita che
non lo vedevo, me le ha regalate."
Gliene passo una.
"Ha i cocomeri più buoni di Roma." Dopo i tuoi, vorrei aggiungere.
Ma sarebbe peggio dell'altra. Addenta la fetta e subito
con un dito raccoglie un po' di succo che le scivola dalle labbra
e
succhia cercando di non perderne neanche una goccia. Rido. Sì.
Non c'è fretta. Addento la mia anch'io. È fresca, dolce, buona,
compatta,
non farinosa. Eva continua a mangiare. Le piace. Le divoriamo
guardandoci, sorridendo. Diventa quasi una gara. Le mezze
lune rosate alla fine ci rimangono in mano. Mentre con la bocca
continuiamo a masticare. Il succo ci scivola giù fino al mento.
Lei
poggia la sua fetta finita sul tavolo e, senza asciugarsi la
bocca, mi
bacia di nuovo.
"Ora sei tu il mio cocomero." Mi morde sul mento e mi dà una
leccata tutt'intorno alla bocca, frenata solo dalla mia barba
ancora
leggera. E lei decisa, affamata, divertita. Ancora più donna.
"Sai, ti ho desiderato in aereo e ti desidero adesso..."
Non so cosa risponderle. Mi fa strano sentirla parlare. Rimango
in silenzio mentre lei mi sorride. "È la prima volta che vado con
un passeggero."
Tranquillo tiro fuori il telefonino dalla tasca. Penso alla
suoneria
e lo spengo. Certo, visto come stanno andando le cose, è il più
bel regalo che Paolo mi potesse fare.
"Invece tu eri l'unica hostess che mi mancava."
Prova a darmi uno schiaffo. Le blocco al volo la mano e la bacio,
dolcemente. Si arrabbia, fa la finta imbronciata, sbuffa.
"Però sei anche il cocomero più buono che abbia mai assaggiato."
Scuote la testa divertita e si libera dalla presa. Si siede
davanti
a me con le gambe incrociate. Decisa, sfrontata, spavalda. Mi
infila
apposta la mano lì davanti. Lentamente, con dolcezza. Dove sa
lei. Dove so io. Mi guarda negli occhi, con sfida, senza pudore. E
io la guardo, senza cedere, sorridendo. Allora mi tira a sé, con
desiderio,
avida, aggrappandosi quasi alle mie spalle. E mi lascio andare,
così. Mi perdo in quell'ex blu perso, piacevolmente rapito
dalla dolcezza del tutto, cocomero compreso.
Capitolo 9.
Lontano. Sull'Aurelia, prima di Fregene, a Castel di Guido. Un
vecchio castello abbandonato è stato tirato a nuovo. Cinquanta
writer hanno passato due giorni a graffitarlo. Cinque americane
tirate
su con lampade d'ogni tipo, tanto da poterlo, in un attimo,
illuminare
a giorno. All'interno, tre consolle con duecento casse da
100 kw sparse lungo i saloni abbandonati, su, nelle rocche, nelle
stanze con gli antichi affreschi ormai scoloriti dal tempo e
perfino
nelle cantine. Cinquemila candele disseminate a caso tra il
giardino
e gli interni. E come se non bastasse, due camion con più di
duecento
materassi ancora coperti dal cellophane. Sì, perché non si sa
mai... E quel non si sa mai Alehandro Barberini non se lo lascia
certo
scappare. Questa è la sua serata. Per i suoi vent'anni il padre
gli
ha regalato una carta nera della Diners. E quale migliore
occasione
per inaugurarla se non questa? 200.000 euro, una strisciata et
voilà, il gioco è fatto. E Gianni Mengoni non si è certo lasciato
scappare
l'occasione di un evento come questo. È lui che ha preso in
mano la situazione. Ha ordinato più di mille bottiglie di alcolici
e
trecento di champagne, quarantacinque vasche gonfiabili piene di
ghiaccio eventi camerieri... d'altronde, perché andarci cauti?
Lui,
solo per l'organizzazione, si è fatto staccare un assegno da
30.000
euro. Già incassato. "Sai, con questi nobili un po' decaduti un
po'
no, non si sa mai" ha detto al povero Ernesto, che si è dovuto
occupare
sul serio di tutta l'organizzazione. Per Ernesto invece 1800
euro e una faticata che dura da più di un mese. Ma per lui quei
1800 sono una manna dal cielo. Vuole colpire al cuore la bella
Madda.
È un mese che trescano ma ancora non gliel'ha data. Stasera
sente di poter andare sul sicuro. Le ha comprato il giubbotto che
le piaceva tanto. 1000 euro suonati per della pelle rosa anticata
graffiata.
Ma contenta lei... contento pure lui. Il pacchetto l'ha nascosto
in macchina e quando tornerà a fine serata, all'alba... o quando
sarà, sarà... è già sicuro di quel suo sorriso. Di quel sorriso
che
l'ha tanto colpito, che l'ha convinto a prenderla come aiutante
anche
per questa serata. E per "soli" 500 euro. Insomma, se tutto va
bene, alla fine della serata Ernesto si metterà in tasca 300 euro
ma
avrà qualcosa in cambio che non ha prezzo. Certe felicità non
fanno
caso agli zeri.
"Dani, ma dov'eri finita? E un'ora che t'aspetto qua fuori."
"Lo so, ma abbiamo dovuto lasciare la macchina in fondo. Ha
sempre paura che gliela rigano."
"Ma perché, con chi sei venuta?"
"Come con chi? Te lo avevo detto, con Chicco Brandelli!"
"Non ci credo!"
"Guarda che quando io dico una cosa è quella."
"Ma ancora gira... Guarda che quello t'ha puntato solo per
vendicarsi
di tua sorella ! "
"Sentila. Ma quanto sei acida. Con me è carino invece. Ma poi
che ne vuoi sapere tu. Ma perché, scusa, Giovanni Franceschini,
quello che ha sempre fatto il filo a cosa... a quella della III A,
come
si chiama?"
"Cristina Gianetti."
"Eh. Non si è messo poi con la sorella più piccola, quando l'ha
conosciuta?"
"E grazie, la prima è una suora patentata, l'altra dicono che fa
dei numeri che in confronto Eva Henger è noiosa! "
"Be', a me Brandelli mi piace un casino e poi te l'ho già detto,
tra quattro giorni è il mio compleanno e ormai ho deciso."
"Ancora con questa storia? Guarda che non è che a diciott'anni
scadi! Tu ti sei fissata. Anche se la tua prima volta ce l'hai fra
due
anni, ma che ti frega?"
"Due anni? Ma che sei matta? E quando recupero? Ma come,
ora che ho preso coraggio, tu mi sfondi così? E poi scusa, tu
quando
l'hai fatto?"
"Sedici."
"Vedi e ti credo che parli come ti pare."
"Ma che c'entra, io con Luigi ci stavo già da due anni."
"Senti, non rompere. A me Chicco Brandelli mi piace un casino
e io stasera ho deciso che lo faccio con lui. Cavoli e fai l'amica
per una volta ! ! "
"Ma infatti, è proprio perché ti sono amica."
Dani si gira e lo vede da lontano.
"Dai basta, basta. Eccolo che arriva. Dai, adesso entriamo e
non ne parliamo più."
"Ciao Giuli." Chicco Brandelli la saluta con un bacio sulla
guancia. "Come stai bene, è una cifra che non ti vedevo. Stai
proprio
un fiore... Allora? Sono stato bravo a trovare i biglietti per
questa serata? Siete contente, bambole? Dai, andiamo dentro."
Chicco Brandelli prende per mano Daniela e va verso l'entrata.
Alle sue spalle Giuli incrocia lo sguardo di Daniela e fa il verso
a Brandelli mimandolo... "bambole". Poi fa una smorfia di schifo
come a dire "mamma, ma è terribile". Daniela da dietro, senza
farsi
vedere, prova a tirarle un calcio. Giuli si sposta ridendo. Chicco
tira di nuovo a sé Daniela.
"Ma che fate? Dai, state buone, state sempre a giocare. Adesso
entriamo." Si avvicina ai quattro buttafuori, dei tipi enormi, di
colore, dai capelli rasati e rigorosamente vestiti di nero. Il
tipo controlla
i biglietti. Poi annuisce vedendo che è tutto a posto. Sposta
una corda dorata facendoli passare. La piccola comitiva entra,
seguita
da altri ragazzi appena arrivati.
Capitolo 10.
Poco più tardi o forse molto più tardi. Quando ci si addormenta
su un letto non si sa più che ora è. Mi sveglio, è li accanto. I
capelli
sciolti le sprofondano tra le pieghe del cuscino, lì dove la sua
bocca
imbronciata cerca respiro. Mi comincio a vestire in silenzio.
Mentre
mi infilo la camicia Eva si sveglia. Allunga veloce la mano vicino
a lei.
Vede che non ci sono. Poi si gira. Sorride trovandomi ancora lì.
"Vai via?"
"Sì, devo andare a casa."
"Mi è piaciuto molto il cocomero."
"Anche a me."
"Sai qual è una cosa che mi è piaciuta moltissimo?"
Mi ricordo tutte quelle che abbiamo fatto e mi sembrano tutte
perfettamente belle. E poi perché sbilanciarsi?
"No, qual è?"
"Che non mi hai chiesto come sono stata."
Rimango zitto.
"Sai, è una cosa che tutti mi chiedono sempre e mi sembra così...
stupida, non so come dire."
Tutti. Tutti chi? vorrei dire. Ma non è poi così importante.
Quando
fai solo sesso non cerchi ragioni. È quando non fai solo quello
che cerchi tutto il resto.
"Non te l'ho chiesto perché so che sei stata bene."
"Cretino! " Me lo dice con troppo amore. Mi preoccupo. Si avvicina
e mi stringe le gambe, baciandomi subito dopo la schiena.
"Perché, come sei stata?"
"Benissimo."
"Hai visto?"
Lei rincara: "Di più".
"Lo so" e le do un bacio veloce sulle labbra, poi infilo la porta.
"Ti volevo dire che rimango ancora qualche giorno..."
Donna leggermente dispiaciuta.
"Per fare shopping?"
"Sì..." Sorride ancora un po' intontita di piacere. "Anche..."
Non le do il tempo di aggiungere altro.
"Chiamami, il mio numero ce l'hai" poi esco in fretta. Rallento
giù per le scale. Di nuovo solo. Mi infilo il giubbotto e tiro
fuori
una sigaretta dalla tasca. Faccio il punto della situazione. Sono
le tre e mezzo. Nella hall il portiere è cambiato. È uno più
giovane.
Sonnecchia appoggiato alla sedia. Esco per strada e accendo la
moto. Ho ancora addosso il profumo del cocomero e di tutto il
resto.
Peccato. Avrei voluto ringraziare il portiere che c'era prima.
Che ne so, lasciargli una mancia o ridere con lui, fumarmi una
sigaretta.
Magari gli avrei raccontato qualcosa, quelle solite cazzate
che si raccontano su quello che si è combinato. Chissà, nel
passato
l'avrà fatto anche lui con qualche amico. Non c'è niente di più
divertente che raccontare i dettagli a un amico. Soprattutto se
lei
non ha preso il nostro cuore. Non come allora. Lei. Di lei non ho
mai raccontato nulla a nessuno, nemmeno a Pollo. Ma è un attimo.
Niente, non c'è niente da fare. Quando fai solo del sesso, l'amore
di un tempo ti viene a cercare. Ti trova subito. Non bussa alla
porta.
Entra così, all'improvviso, maleducato e bello come solo lui può
essere. E in un attimo infatti sono di nuovo perso in quel colore,
nell'azzurro dei suoi occhi. Babi. Quel giorno.
"Dai muoviti, ma quanto ci metti."
Sabaudia. Lungomare. La moto è ferma sotto un pino, vicino
alle dune.
"Allora? Step, non ho capito. Ma tu lo vuoi o no il gelato?"
Sono piegato, sto chiudendo la moto con la catena.
"Ma come non hai capito, ma guarda che sei forte. Ti ho detto
di no, Babi, grazie no."
"Ma sì che lo vuoi, lo so."
Babi, dolce testarda.
"Ma allora scusa, perché me lo chiedi? Ma poi ti pare, Babi,
che se lo volessi non me lo prenderei? Non costa niente."
"Ecco, vedi come sei... Pensi subito al denaro, sei venale."
"Ma no, lo dicevo nel senso che il ghiacciolo costa poco. Che
ti frega Babi, uno lo prende lo stesso e al massimo lo butta. "
Babi si avvicina con due ghiaccioli in mano.
"E infatti ne ho presi due. Tieni, uno per me all'arancia e uno
per te alla menta. "
"Ma a me non mi piace per niente alla menta."
"Ma scusa prima non lo volevi per niente e ora ti lamenti pure
per il gusto! Ma guarda che sei forte. E poi comunque vedrai che
ti piacerà."
"Ma lo saprò o no se una cosa mi piace! "
"Adesso fai così perché ti sei impuntato. Dai, ti conosco bene."
Prima scarta il mio e comincia a leccarlo. Poi me lo passa dopo
averlo assaggiato.
"Uhmm... Il tuo è buonissimo."
"E allora prendi il mio! "
"No, ora mi va quello all'arancia."
E lecca il suo ghiacciolo, guardandomi, ridendo. E poi diventa
spinta, perché il ghiacciolo si scioglie velocemente e se lo mette
tutto
in bocca. E ride. E poi vuole assaggiare per forza di nuovo il
mio.
"Dai, dammi un po' del tuo" e lo dice apposta, ridendo, e si
struscia,
e siamo poggiati sulla moto, e allargo le gambe, e lei ci si
infila
dentro, e ci baciamo. I ghiaccioli cominciano a sciogliersi, lungo
il
palmo delle mani giù per il braccio. E ogni tanto andiamo con la
lingua
a raccogliere un po' d'arancia, un po' di menta. Sulle mani, tra
le dita, lungo i polsi, lungo l'avambraccio. Morbida. Dolce.
Sembra
una bambina. Ha un pareo lungo, celeste chiaro, coi disegni più
scuri.
Lo tiene avvolto in vita. Ha i sandali azzurri e sopra solo un due
pezzi, azzurro pure quello, e una collana lunga con delle
conchiglie
bianche, arrotondate, alcune più piccole, altre più grandi. Si
perdono
e ballano tra i suoi seni caldi. Mi bacia sul collo.
"Ahia! " Mi ha poggiato apposta il ghiacciolo sulla pancia.
"Piccolino mio, ahia..." Mi fa il verso. "Ma che, ti ho fatto
male?
Hai freddo?"
Irrigidisco i muscoli e lei si diverte ancora di più. Fa scivolare
il
ghiacciolo sui miei addominali, uno dopo l'altro. Ma io mi
vendico.
"Ahi."
"Ecco, tieni un po' di menta sui tuoi fianchi." E continuiamo
così, a pennellarci di arancia e menta sulla schiena, dietro il
collo,
sulla gamba e poi tra i suoi seni. Il ghiacciolo si spezza. Un
pezzo
s'infila dentro il bordo del costume.
"Ahia, ma che sei cretino, è gelato! "
"E certo che è gelato, è un ghiacciolo! "
E ridiamo. Persi in un bacio freddo sotto il sole caldo. E nelle
nostre bocche arancia e menta si trovano mentre noi naufraghiamo.
"Dai, Babi, vieni con me."
"Ma dove?"
"Vieni..."
Guardo a destra e a sinistra, poi attraverso la strada velocemente
tirandola via con me e lei corre, quasi inciampa, strappando
i sandali all'asfalto caldo. Lasciamo il mare, la strada, per
salire
su, tra le dune. E correre ancora verso l'interno. Poi, poco
lontani
da un campeggio di turisti stranieri, ci fermiamo. Lì, nascosti
tra la macchia bassa, tra il verde brullo, sulla sabbia quasi
rarefatta,
sotto un sole guardone, mi distendo sul suo pareo. Ora siamo
a terra. E lei viene su di me, senza il costume, mia. E con il
caldo, gocce di sudore scivolano giù, portate da rivoli di capelli
biondo cenere, perdendosi sulla sua pancia già abbronzata, più
giù, tra i suoi riccioli più scuri e ancora più giù, tra i miei...
E quel
dolce piacere, il nostro. Babi si muove su di me, su e giù,
lentamente.
Poi lascia andare indietro la testa, sorridendo verso il sole.
Felice di essere amata. Bella, in tutta quella luce. Menta.
Arancia.
Menta. Arancia. Menta... Aranciaaaaa...
Basta. Sono fuori. Dai ricordi. Dal passato. Ma sono anche fuori
di testa. Prima o poi le cose che hai lasciato indietro ti
raggiungono.
E le cose più stupide, quando sei innamorato, te le ricordi
come le più belle. Perché la loro semplicità non ha paragoni. E mi
viene da gridare. In questo silenzio che fa male. Basta. Lascia
stare.
Metti tutto di nuovo a posto. Ecco. Chiudi. Doppia mandata.
In fondo al cuore, lì dietro l'angolo. In quel giardino. Qualche
fiore,
un po' d'ombra e poi dolore. Mettili lì, ben nascosti, mi
raccomando,
dove non fanno male, dove nessuno li può vedere. Dove
tu non li puoi vedere. Ecco. Di nuovo sotterrati. Ora va meglio.
Molto meglio. E mi allontano dall'albergo. E guido piano. Via
Pinciana,
via Paisiello, dritto verso piazza Euclide. Non c'è nessuno in
giro. Una macchina della polizia è ferma davanti all'ambasciata.
Uno dorme. L'altro legge chissà cosa. Accelero. Supero il
semaforo,
poi giù per via Antonelli. Sento il vento fresco che mi accarezza.
Chiudo gli occhi per un attimo e mi sembra di volare. Un respiro
lungo. Bello. Il servizio della hostess poi è stato impeccabile.
Eva. Persa in quel "blu perso". Bella. Ha un corpo perfetto. E poi
mi piace una donna che non si vergogna del suo desiderio. Dolce.
Dolce come un cocomero. Anzi, di più. Imbocco corso Francia. È
notte fonda. Allungo sul cavalcavia. Ora fa quasi freddo. Alcuni
gabbiani si alzano in volo dal Tevere. Si affacciano sul ponte. È
come
se timidi salutassero. Poi si rituffano giù, verso il fiume. Fanno
dei versi leggeri, un richiamo, una richiesta. Piccoli gridi
soffocati,
quasi avessero paura di svegliare qualcuno. Scalo e giro su per
via
di Vigna Stelluti. Poi mi metto a ridere da solo. Eva... Che
strano.
Non so neanche il suo cognome.
Capitolo 11.
A Castel di Guido la festa impazza. All'interno la musica è
assordante.
Luci rosse, viola, blu. Delle cubiste ballano su balle di
fieno, completamente nude. Un culturista incatenato con un
cappuccio
in testa, dal corpo oliato coperto solo da un perizoma
grecoromano, finge di ringhiare, di staccarsi dalle catene del
muro per
cercare di prenderle. Dani e Giuli gridano divertite. Un cavaliere
e la sua donna nuda attraversano il salotto a cavallo. Su un
divano
abbandonati ragazzi e ragazze bevono, ridono, si baciano nascosti
dalla penombra, illuminati a tratti da un piccolo faro verde che
attraversa
le stanze seguendo la musica. Camerieri in perfetta giacca
bianca passano con vassoi servendo da bere a tutti alcolici al
top,
dal rum John Bally al gin Sequoia. Chicco ne prende al volo due e
se li scola. Poi balla sul posto alzando le braccia al cielo.
"Ma questo posto è stupendo! È l'inferno per soli ricchi, quindi
è solo per noi... Grande! " Poi prende Daniela e le fa fare un
giro
a tempo di musica, ride con lei, l'abbraccia e la bacia
delicatamente
sulle labbra. Poi la lascia andare così, con un piccolo volteggio
di danza più o meno azzeccato.
"Aspettate qui, bambole, che vado a prendervi qualcos'altro
da bere!"
Giuli lo guarda andare via, poi si gira verso Daniela e la fissa
in
silenzio.
"Dani... ma sei veramente decisa?"
"Non ce la posso fare..."
"Ah, ecco!"
"Ma no, mi piace un casino, è solo che mi devo lasciare andare,
e tu mi rendi tutto ancora più difficile."
"Io?"
"E chi sennò! Mi devo stonare. Solo che se bevo, poi mi sento
male."
"Dani guarda, ma quello non è Andrea Palombi?"
"Sì, è lui. Mamma! È una vita che non lo vedo! "
"Si è trasformato. Ma che gli hanno fatto? Gli hanno menato?"
"No, da quando ci siamo lasciati ha avuto un crollo."
"Totale! Ecco, con lui dovevi avere la tua prima volta, con uno
che almeno ti amava sul serio, ma quanto siete stati insieme?"
"Sei mesi."
"E in sei mesi non c'è stata occasione?"
"Ci sarà pure stata, ma se sto così vuol dire che alla fine non
c'è stata! Quindi... E comunque non è che sono cose che si possono
stabilire a tavolino ! "
"Ma che dici! Ma se stasera stai facendo tutto a tavolino! "
"Basta, mi stai intonando. Non ce la farò mai. Devo prendere
un'ecstasy! Ecco, quello mi ci vorrebbe."
"Sì, fichissimo. Io l'ho presa alla festa di Giada, quella sì che
t'aiuta"
"Che t'ha fatto?"
"Niente^ Stavo benissimo. C'era pure Giovanni e abbiamo fatto
l'amore. È stato bellissimo con lui."
"E ti credo, stavi sotto ecstasy."
"Ma che c'entra, io con Giovanni sto sempre benissimo! Mi sono
sempre trovata bene con lui da quel punto di vista, abbiamo una
grande intesa sessuale, che ti credi?"
"Certo, lui l'intesa sessuale ce l'ha con chiunque respiri! "
"Be', adesso l'acida sei tu, eh. Allora scusa potevi andare con
Giovanni direttamente invece di farti tanti problemi, no? ! "
"Basta, dai, non litighiamo. Ma dove la trovo?"
"Che cosa?"
"Giovanni?! Macché... un'ecstasy! Ma oh, ti sei rincoglionita?"
"Guarda, lì c'è una gangsta."
"Chi?"
"Una gangsta. Sei proprio out. Le gangste sono quelle toste,
quelle che hanno la roba. La vedi quella lì coi capelli a
treccine?
Dai cavoli! È lì vicino alla consolle? Ecco, lei c'ha di tutto.
L'ho vista
all'entrata. Hai capito qual è? Eccola là, l'hai vista?"
"Sì, ma sta vicino a Madda."
"A chi?"
"A Madda Federici. Quella che ha fatto a botte con mia sorella
due anni fa."
"Ma che ti frega. Ma tu poi che c'entri, scusa? E comunque
quelle lavorano insieme. Tu salutala e vedrai che non ci saranno
problemi. "
"Dici?"
"Vai."
Daniela prende coraggio e attraversa il salone. Madda da lontano
la vede arrivare. E la riconosce. Non le ha mai dimenticate.
Nessuna delle due. Si rivolge alla gangsta.
"Sophie, che t'è rimasto?"
"Un'ecstasy e uno scoop."
"Oh, vedi quella che arriva adesso?"
La gangsta guarda verso Daniela.
"Sì, embe'?"
"Be', se ti chiede qualcosa dalle comunque lo scoop."
"E quanto le chiedo?"
"Cazzi tuoi."
Daniela arriva. Si ferma davanti alle due. La gangsta alza il
mento
come a dire "cerchi qualcosa?". Daniela saluta per prima Madda.
"Ciao, come stai?"
Madda non risponde. Daniela continua.
"Scusa, volevo sapere se hai un'ecstasy."
"E io voglio sapere se hai i soldi" fa la gangsta.
"Quanto ti dovrei dare?"
"50 euro."
"Ok, tieni." Daniela li prende dalla tasca dei pantaloni e glieli
passa. La gangsta li fa sparire in un attimo nelle sue saccocce
davanti.
Poi tira fuori dal bracciale una pasticca bianca. Daniela la
prende e fa per andarsene.
"Ehi, ferma. " Madda la blocca. "Quella roba non la porti in giro.
La prendi ora e qui. Tieni" e le allunga la mezza bottiglia di
birra
che stava bevendo.
Daniela la guarda preoccupata.
"Ma non mi farà male con la birra?"
"Se sei venuta fino qua, non può che farti bene! "
Daniela s'infila la pasticca in bocca e dà un lungo sorso. Poi
torna giù e riprende fiato. Deglutisce e sorride.
"Fatto."
Madda la ferma.
"Fai vedere? Alza la lingua."
Daniela ubbidisce. Madda controlla per bene. Sì, ha preso sul
serio la pasticca.
"Ok, ciao e divertiti."
Daniela si allontana proprio mentre Chicco Brandelli ha raggiunto
Giuli con due bottiglie di champagne. Madda e Sophie restano
a guardarla.
"Capirai, quella va fuori di testa. Se non hai mai preso nulla,
uno scoop ti sfonda. Non ti ricordi neanche quello che hai fatto."
"Je sta bene. Così porta i miei saluti a sua sorella! "
"Mai mettersi contro di te, eh?"
"Mai. È solo questione di tempo."
"Be', Madda, io vado."
"E con l'ultima ecstasy che ci fai?"
"Me la frullo a casa. C'è Damiano che torna presto stasera. Almeno
facciamo un po' di sesso."
"Ok, godi sore'. Mi fai un ultimo piacere? Hai presente la
macchina
di Ernesto?"
"Sì, quella blu sfondata."
"Ecco, vieni che ti spiego cosa devi fare."
La musica sembra salire. Lo scoop sta facendo effetto. Dani
balla sfrenata davanti a Giuli.
"Come stai?"
Da sogno.
"E che effetto ti fa?"
"E che ne so? Non lo so. Non capisco più niente, so solo che
voglio scopare! Voglio scopare!"
Daniela salta come una pazza gridando, coperta a volte dal suono
della musica, a volte no. Proprio come quando finisce davanti
ad Andrea Palombi.
" Io voglio scopare ! " urla Daniela a squarciagola. Andrea le
sorride.
"Finalmente!" Le fa eco. "Anch'io!"
"Sì, ma io non con te! "
E Daniela continua a correre urlando, saltando di gioia, facendo
casino, persa tra le braccia che la toccano, bevendo bicchieri
che le passano davanti, ballando con sconosciuti, fino a trovare
quelle mani, quelle labbra, quel viso, quel sorriso... Ecco.
Cercavo
te. Mi piaci. Sei proprio bello. E lo vede biondo e poi bruno
e poi non lo vede più. E poi si trova in una camera e lo vede
spogliarsi.
E si vede spogliarsi. Il cellophane del materasso viene sfilato
via come la carta di un gelato, di un gelato da leccare. Ed è
quello che lei fa. Poi si perde distesa su quel materasso freddo.
Delle mani la prendono da sotto, le allargano le gambe. E piano
piano si sente accarezzare. Ahi, mi fa male... Fa male... Ma deve
far male? È così, pensa. Sì, è così. È bello anche perché fa male.
E
continua a vedere quello strano mare intorno a sé. E tutto
ondeggia.
E su e giù. E su e giù. Come quel corpo su di lei. E poi sorride.
E ride. E ha un'unica domanda. Ma domani mattina qualcuno
scriverà qualcosa sul muro per me? È così che funziona, no?
Una scritta d'amore solo per me... E sorride. Addormentandosi.
Non sapendo che non ci sarà nessuna scritta, di nessun genere. E
neanche un nome, se è per questo.
Più tardi. È l'alba.
"No, non ci posso credere!" Ernesto corre distrutto verso la
sua macchina blu.
"Mi hanno sfondato il finestrino! "
"Capirai," fa Madda salendo in macchina, "è già tutta sfondata! "
"No, ma non hai capito, m'hanno fregato un bellissimo regalo
che avevo preso per te! Non sai, avevo speso un sacco di soldi.
Era
quel giubbotto rosa, quello che ti piaceva tanto ! "
"Sì e tu hai scucito ben 1000 euro per me?! E cosa volevi mai
in cambio? Eh? A furbo! Domani ce credo. Portami a casa, va', che
sono stanca e ho sonno! "
"Te lo giuro, Madda! Te l'avevo preso."
"Sì sì, va bene. Senti, io devo andare a casa che domani mattina
parto presto."
"Per dove?"
"Firenze, starò fuori una settimana. Magari ci sentiamo quando
torno."
"A fare che?"
"Ma, per lavoro, altre serate, altre cose. Ma che, me stai a fa'
l'interrogatorio? Senti, oh, guarda che così mi stressi... mi stai
sempre
addosso, e mollami! "
E così Madda scende al volo e sale sulla prima macchina che
passa. È quella di Mengoni ed è ancora più felice di andare via
con
lui. Ernesto le corre dietro gridando.
"Dove vai? Aspetta!"
Madda sorride tra sé. Ma aspetta che? Il giubbotto rosa è già a
casa che m'aspetta. E senza dartela. Che serata. Da sogno! Ho pure
conciato per le feste la Gervasi piccola. È stato veramente un
sogno!
E Madda non sa, invece, a quale incubo ha dato vita.
Capitolo 12.
Dormiveglia. Sento i rumori di Paolo dalla cucina. Mio fratello.
Muove le cose cercando di non fare rumore, lo capisco da come
vengono poggiati i piatti sul tavolo e richiusi i cassetti. Mio
fratello
è una donna. Ha le stesse attenzioni che aveva mia madre. Mia
madre. Sono due anni che non la vedo, chissà come avrà adesso i
capelli. Li cambiava spesso nell'ultimo anno. Seguiva la moda, i
consigli delle amiche, una foto su un giornale. Non ho mai capito
perché una donna è sempre così fissata sui capelli. Mi viene in
mente
un film con Lino Ventura e Françoise Fabian, Una donna e una
canaglia. 1970. Lui finisce in prigione. Lei va a trovarlo. Buio.
Si
sentono solo le loro voci.
"Cosa c'è?... Perché mi guardi così?"
"Hai cambiato taglio di capelli."
"Non ti piaccio?"
"No, è che quando una donna cambia taglio di capelli vuol dire
anche che sta per cambiare uomo."
Sorrido. Mia madre ha visto molte volte quel film. Magari ha
preso sul serio quelle parole. Una cosa è sicura: ogni volta che
la
incontro non ha mai lo stesso taglio. Paolo compare sulla porta,
la
apre piano, attento a non farla cigolare: "Stefano, vieni a fare
colazione?".
Mi giro verso di lui: "Hai preparato roba buona?".
Rimane un momento perplesso: "Sì, credo di sì".
"Va bene, allora vengo." Non capisce mai quando scherzo. In
questo non ha preso da mia madre. Mi infilo una felpa e rimango
in mutande.
"Ammazza come sei dimagrito."
"Di nuovo... Già me lo hai detto."
"Dovrei trasferirmi anch'io per un anno in America. Si tocca
un rotolo della pancia prendendolo tra due dita: "Guarda qui".
"Il potere e la ricchezza regalano la pancia."
"Allora dovrei essere magrissimo. " Cerca di buttarla sullo
scherzo.
Anche in questo è diverso da mamma perché non gli riesce.
"A che pensi?"
"Che sei forte ad apparecchiare."
Si siede soddisfatto: "Be' sì, mi piace..." . Mi passa il caffè.
Io lo
prendo e a occhio ci aggiungo un po' di latte freddo, senza
neanche
provarlo, poi addento un grosso biscotto al cioccolato: "Buono".
"È cacao amaro. Li ho presi per te. A me non piacciono. Sono
troppo amari. Mamma te li prendeva sempre quando stavamo a casa
tutti insieme."
Rimango in silenzio a bere del caffellatte. Paolo mi guarda. Per
un attimo vorrebbe aggiungere qualche cosa. Ma ci ripensa e si
prepara
il suo cappuccino.
"Ah, ieri sera ti ha chiamato quella ragazza, Eva Simoni, ti ha
trovato sul telefonino?"
Eva. Ecco come si chiama: Simoni. Mio fratello sa pure il cognome.
"Sì, mi ha trovato."
"E l'hai vista?"
"Che sono tutte queste domande?"
"Sono curioso, aveva una bella voce."
"All'altezza del resto."
Finisco di bere il caffellatte: "Ciao Pa', ci vediamo".
"Beato te che stai così."
"Che vuol dire?"
Paolo si alza e comincia a mettere tutto a posto: "Dai, che stai
così, libero, te la diverti, fai quello che ti pare. Sei stato
fuori, sei
ancora sul sospeso, non definito".
"Sì, sono fortunato." Me ne vado. Gli dovrei dire troppe cose.
Gli dovrei spiegare in maniera gentile che ha detto un'ignobile,
grande, terribile cazzata. Che uno cerca la libertà solo quando si
sente prigioniero. Ma sono stanco. Ora non mi va, non mi va
proprio.
Entro in camera, guardo la sveglia sul comodino e riesco di
botto.
"Cazzo, ma tu mi hai svegliato e sono solo le nove?"
"Sì, fra poco devo stare in ufficio."
"Ma io no!"
"Sì, lo so, ma visto che devi andare da papà..." Mi guarda
perplesso.
"Ma... non te l'avevo detto?"
"No, non me l'avevi detto."
Continua a mantenere una certa sicurezza. Poi mi guarda col
dubbio di averlo fatto o meno. E veramente sicuro di avermelo
detto,
oppure è un grande attore.
"Be', comunque ti aspetta alle dieci. Ho fatto bene a svegliarti,
no?
"E certo, come no. Grazie Paolo."
"Figurati."
Niente. Ironia zero. Continua a mettere le tazze e la caffettiera
nel lavabo tutto ordinatamente nella vasca a destra, sempre e solo
in quella a destra.
Poi torna sull'argomento.
"Ehi, ma non mi chiedi perché papà ti vuole vedere alle dieci,
non sei curioso?"
"Be', se mi vuole vedere immagino che poi me lo dirà."
"E già, certo."
Vedo che è rimasto un po' male.
"Ok. Allora... Perché mi vuole vedere?"
Paolo smette di lavare le tazze e si gira verso di me asciugandosi
le mani su uno straccio. È entusiasta.
"Non dovrei dirtelo perché è una sorpresa."
Si accorge che mi sto incazzando.
"Però te lo dico perché mi fa piacere. Credo ti abbia trovato
un lavoro! Sei felice?"
"Moltissimo."
Però, sono migliorato. Riesco a fingere bene anche davanti a
una domanda così.
"Allora che ne dici?"
"Che se continuo a chiacchierare con te faccio tardi."
Vado a prepararmi.
Sei felice? La domanda più difficile. "Per essere felici," dice
Karen Büxen, "ci vuole coraggio." Sei felice... Una domanda così
poteva farla solo mio fratello.
Capitolo 13.
Dieci meno un minuto. Guardo il mio cognome scritto sul
campanello.
Ma è casa di mio padre. È scritto a penna in modo irregolare,
senza fantasia, senza calore, allegria neanche a parlarne. In
America non sarebbe passato. Ma cosa importa. Siamo a Roma, in
una piccola piazza a corso Trieste, vicino a un negozio che vende
roba di finta classe. La accatasta in vetrina al prezzo di 29,90
euro.
Come se un coglione qualsiasi non capisse che avere quella roba
da schifo equivale ai suoi 30 euro. Animo da commercianti, finti
furbi e un sorriso obbligato. Suono.
"Chi è?"
"Ciao papà, sono io."
"Sei puntuale. L'America ti ha cambiato." Ride.
Vorrei tornarmene a casa, ma ormai sono qui: "A che piano
stai?".
"Al secondo."
Secondo piano. Entro e mi chiudo il cancello alle spalle. Che
strano,
il secondo piano non mi è mai piaciuto. L'ho sempre considerato
una via di mezzo tra l'attico e il giardino, un posto al buio per
chi
sopravvive. Spingo il due. Il discorso vale anche per l'ascensore.
Un
tragitto corto a metà. Inutile per chi vuole fare un po' di sport,
scomodo
comunque per chi non ce la fa. Papà è sulla porta che mi aspetta:
"Ciao". È emozionato e mi stringe forte. Un po' a lungo, troppo
a lungo. Mi viene un piccolo nodo alla gola ma lo prendo a calci.
Non ci voglio pensare. Mi dà un cazzotto leggero sulle spalle:
"Allora...
come va?".
"Benissimo." I calci sono serviti. Parlo normalmente: "E tu?
Come stai?".
"Bene. Che te ne sembra di questa casetta? Mi sono spostato
da sei mesi ormai e mi ci trovo bene, l'ho arredata io."
Vorrei dire "e si vede", ma lascio stare. Non che me ne freghi
niente.
"Poi è comoda, non è tanto grande, sarà un'ottantina di metri
quadri, ma per me va benissimo, ci sto quasi sempre da solo."
Mi guarda. Crede o spera che quel "quasi sempre" porti da
qualche parte. Invece no. Se è per me... Giace lì, insabbiato.
Sorride
inutilmente, poi riprende: "Ho trovato quest'occasione e l'ho
presa, poi la sai una cosa? ho sempre pensato che un secondo piano
non mi piacesse invece è meglio, è più... coibentata".
Spero che non mi chieda cosa significhi. L'avrò sentito migliaia
di volte. È uno di quei termini che odio.
"E poi è più comoda, più tranquilla."
Troppi aggettivi sono quasi sempre per giustificare una scelta
sbagliata.
Mi ricorda una frase di Sacha Guitry: "Ci sono persone che
parlano,
parlano... finché non trovano qualcosa da dire".
"Sì, sono d'accordo con te." Magari lo fosse sulla citazione, ma
non può. L'ho solo pensata. Non gliela dirò.
Mi sorride.
"Allora?"
Lo guardo sconfortato. Allora? Cosa vuol dire la domanda
"allora?".
Mi ricordo che quando stavo in classe al liceo c'era Ciro
Monini, quello del primo banco, che diceva sempre: "Allora?
Allora?".
E Innamorato, quello dietro a lui, rispondeva sempre: "Allora?
Sessanta minuti!". E rideva. E la cosa terribile è che rideva
anche l'altro. Andavano avanti così quasi ogni giorno. Non so se
si
vedono ancora. Ma temo che facciano lo stesso gioco magari con
qualcun altro... Allora? Allora io voglio bene a mio padre. Cazzo,
sto male e scomodo in questa poltrona. Ma mi sforzo. "Non sai
quanto sono stato bene a New York, benissimo."
"C'era gente?" Lo guardo. "Dico, italiani." Per un attimo mi
ero preoccupato.
"Sì, molti, ma tutta gente diversa da quella che uno è abituato
a incontrare qui."
"In che senso diversa?"
"Ma, non lo so. Più intelligenti, più attenti. Dicono tutti meno
cazzate. Girano, parlano senza problemi, si raccontano..."
"Che vuol dire si raccontano?"
Se almeno fossimo a cena. A tavola perdonerei chiunque. Anche
i miei parenti. Chi l'ha detto? Ero al liceo e mi ha fatto ridere.
Forse Oscar Wilde. Non credo di farcela. Ma ci provo.
"Che non si nascondono. Affrontano la loro vita. E poi...
ammettono
le loro difficoltà. Non a caso hanno quasi tutti uno
psicanalista."
Mi guarda preoccupato: "Ma perché, tu ci sei andato?".
Mio padre, sempre la domanda sbagliata al momento giusto.
Lo tranquillizzo. "No papà, non ci sono andato." Vorrei aggiungere
"Ma forse avrei dovuto. Forse quello psicanalista americano
avrebbe capito i miei problemi italiani". O forse no. Vorrei
dirglielo, ma lascio stare. Non so quanto dureremo. Cerco di
semplificare.
"Io non sono americano. E noi italiani siamo troppo orgogliosi
per ammettere di aver bisogno di qualcuno. "
Rimane in silenzio. Si preoccupa. Mi dispiace. Allora cerco di
aiutarlo, di non fargli credere che abbia lui qualche colpa.
"E poi scusa che facevo, buttavo i miei soldi? Andare da uno
psicanalista e non capire quello che ti dice in inglese... allora
sì che
hai problemi di testa! " Ride.
"Ho preferito spenderli in un corso di lingue, almeno li ho
buttati,
ma senza sperare di stare meglio! "
Ride di nuovo. Ma mi sembra che si sforzi. Chissà cosa vorrebbe
che gli dicessi.
"Comunque, a volte non siamo capaci di raccontare i nostri
problemi neanche a noi stessi."
Diventa serio.
"Questo è vero."
"È la stessa ragione per la quale ho letto che sono sempre meno
quelli che in chiesa si confessano."
"Già..."
Non ne è convinto. "Ma dove l'hai letta?"
Come sospettavo. "Non me lo ricordo."
"Allora torniamo a noi."
Perché dove eravamo andati? Torniamo a noi... Che modo di
dire. Sto male. Sto scomodo. Mio padre. Mi sto innervosendo.
"Ti ha detto niente Paolo?"
"Di cosa?" Mentire al padre. Io non rientro in quell'articolo
sulla confessione. Non vado in chiesa. Non più. "No, non mi ha
detto niente."
"Be'..." Mi sorride superentusiasta. "Ti ho trovato un lavoro."
Cerco di fingere alla meglio: "Grazie". Sorrido. Dovrei fare
l'attore.
"Potrei sapere di che si tratta?"
"Ma certo. Che sciocco. Allora, ho pensato, visto che sei stato
a New York e hai fatto un corso di computer grafica e di
fotografia,
giusto?"
Andiamo bene. Non è sicuro neanche lui su cosa ha fatto suo
figlio a New York. E dire che la scuola la pagava proprio lui ogni
mese.
"Sì, giusto."
"Ecco, l'ideale era che ti trovassi qualcosa che ha a che fare con
quello che hai studiato. E l'ho trovato! Ti hanno preso in un
programma
televisivo come addetto alla computer grafie e alle immagini!"
Lo dice con un tono che sembra la traduzione italiana dell'oscar
americano: And the winner is... il vincitore è... sono io?
"Be', naturalmente sarai l'assistente, cioè la persona che segue
chi fa tutti i disegni grafici al computer e cura le varie
immagini,
credo."
Quindi non sono il vincitore. Solo un secondo classificato.
"Grazie papà, mi sembra un'ottima cosa."
"O qualcosa del genere, insomma, non so spiegarti."
Approssimativo come sempre. Impreciso. Vicino alla verità o
qualcosa del genere. Mio padre. Ma ha mai capito sul serio quello
che è successo con mamma? Credo di no. A volte mi domando cosa
c'è di lui in me. Mi immagino la scopata che mi ha generato. Lo
guardo, lui sopra la mamma. Mi viene da ridere. Se sapesse cosa
sto
pensando. Suona il citofono. "Ah, deve essere per me." Si alza
frettoloso,
leggermente imbarazzato. E certo, per chi può essere? Io non
abito più qui, come Alice. Papà ritorna ma non si siede. Rimane lì
in
piedi, muove le mani in modo nervoso: "Sai, non so come dire, ma
c'è una persona che vorrei farti conoscere. È strano dirlo al
proprio
figlio, ma diciamo che siamo fra uomini, no? È una donna". Ride
per
sdrammatizzare. Non voglio rendergliela difficile.
"Certo papà, che problema c'è... siamo tra uomini."
Resto in silenzio. Rimane lì in piedi a guardarmi. Non so che
dire.
Vedo che evita il mio sguardo. Suonano alla porta e va ad aprire.
"Ecco, lei è Monica."
E bella. Non tanto alta, troppo truccata. Ha un profumo forte,
un vestito di media eleganza, i capelli troppo bombati, sulle
labbra
troppa matita. Sorride, i denti non sono un granché. Non è poi
così bella. Mi alzo in piedi come mi ha insegnato mia madre e ci
stringiamo la mano.
"Piacere."
"Mi ha tanto parlato di te, sei tornato da poco vero?"
"Ieri."
"Come sei stato fuori?"
"Bene, molto bene."
Si siede tranquilla e accavalla le gambe. Gambe lunghe, molto
belle, scarpe leggermente consumate, un po' troppo. Dalle scarpe,
ho letto, si riconosce la vera eleganza di una persona. Leggo un
sacco
di cose ma non mi ricordo mai dove. Ah sì, era "Class",
sull'aereo.
Era un'intervista a un buttafuori. Diceva che dalle scarpe decide
sempre se far entrare una persona nel suo locale o no. Lei sarebbe
rimasta fuori.
"E quanto tempo sei stato a New York?"
"Due anni."
"Tanto" sorride guardando mio padre.
"Ma sono passati così, senza problemi."
Spero non faccia altre domande. Forse lo capisce. E si ferma.
Tira fuori dalla borsa un pacchetto di sigarette. Diana blu. Anche
su questo il buttafuori sarebbe rimasto indeciso. Poi se ne
accende
una con un Bic colorato e dopo aver dato la prima tirata si guarda
in giro. Lo fa solo per far capire, non cerca niente in realtà.
"Ecco, Monica" si precipita vicino a lei mio padre con un
portacenere
preso al volo da un comò lì dietro.
"Grazie" tenta di far cadere della cenere nel portacenere. Ma
è ancora troppo presto. Sulla sigaretta c'è stampata mezza sua
bocca
sotto forma di rossetto rosso, con tutte le sue zigrinature. Odio
il rossetto sulla sigaretta.
"Be', io vado, arrivederci."
"Ciao Stefano, mi ha fatto piacere conoscerti" sorride un po'
troppo. E mi segue mentre mi allontano.
"Aspetta, ti accompagno."
Vado con mio padre verso la porta.
"Ci conosciamo da qualche mese. Sai, in fondo sono quattro
anni che non uscivo con una donna." Ride. Ogni volta che deve far
passare qualcosa che gli sembra difficile, ride. Ma che cazzo
c'avrà
da ridere? E poi si giustifica troppo. Sembra sempre che cerchi di
convincere se stesso delle scelte che fa. Comunque non me ne frega
niente. Non vedo l'ora di farla finita.
"Sai, è simpatica..."
Mi racconta qualcosa di lei. Ma non lo sto a sentire. Vedo che
parla, parla, parla. Ma penso ad altro. Mi ricordo che ero piccolo
e mia madre scherzava con lui in camera da pranzo. Poi ha
cominciato
a correre e lui subito dietro nel corridoio, inseguendola
fino alla porta della camera da letto e io correvo dietro a papà e
gridavo:
"Sì, prendiamola, catturiamola!". Poi hanno lottato un po'
sulla porta. Mamma rideva e si voleva chiudere dentro e lui invece
cercava di entrare. Alla fine mamma ha lasciato andare la porta
ed è corsa verso il bagno. Ma lui l'ha raggiunta e l'ha buttata
sul
letto e papà rideva perché lei ha iniziato a fargli il solletico.
Ridevo
anch'io quel giorno. Poi è arrivato Paolo. Allora mamma e papà
ci hanno fatto uscire dalla stanza. Hanno detto che dovevano
parlare
ma ridevano mentre lo dicevano. Allora io e Paolo siamo andati
in camera nostra a giocare. Poi, un po' più tardi anche loro
due sono venuti da noi. Ma chiacchieravano piano, lenti, erano
come
morbidi in viso. Li ricordo con una luce diversa, come se fossero
luminosi. Perfino nei capelli, negli occhi, nel sorriso. E si sono
messi a giocare con noi e mamma mi abbracciava e rideva e mi
pettinava sempre i capelli. Me li mandava indietro, un po' con
forza,
per scoprire il viso. Mi dava fastidio ma glielo lasciavo fare.
Perché
le piaceva. E perché era la mia mamma.
"Scusa papà, ma devo proprio scappare..." Tronco chissà quale
discorso.
"Ma mi hai sentito? Hai capito allora? Alle due da Vanni. Ti
aspetta
il signor Romani per il programma." Stava parlando di questo.
"Sì, certo, ho capito. Il signor Romani alle due da Vanni. "
Sbuffo.
"Scusami, eh?"
Poi scendo veloce per le scale, non mi fermo a guardare indietro.
Poco dopo sono sulla moto. Ho fretta di allontanarmi. Ho voglia
di andare lontano. Cambio le marce e la velocità, non so perché,
mi piace più del solito.
Capitolo 14.
Babi, che fine hai fatto? Una bella canzone diceva che è facile
incontrarsi anche in una grande città. Sono giorni che giro. Non
volendo, la cerco. Mi ha preso in giro quella canzone. Non c'è
traccia
di lei. Senza accorgermene, mi ritrovo sotto casa sua. Fiore, il
portiere, non c'è. C'è la sbarra abbassata. Un nuovo negozio di
vestiti
lì vicino, dove prima c'era un'autorimessa. Perfino Lazzareschi
non c'è più. C'è un nuovo ristorante, Jacini. Elegante, tutto
bianco.
È come se qualcuno volesse quasi costringerci a migliorare. Ma
io resto così, come sono, con il mio giubbotto Levi's un po'
strappato
e la moto con le marmitte allentate.
"Ehi, ma tu non sei Step?"
Mi giro e non ci credo. E mo', chi è questa qua? Sono seduto
sulla moto davanti al giornalaio quando mi si avvicina questa
strana
"sgnappetta" castana chiara, con la faccia divertente, da
impunita,
le mani sui fianchi come se non avessi capito.
"Allora? Sei tu o no?"
"Ma tu chi sei?"
"Mi chiamo Martina, abito qui agli Stellari. Potresti rispondere?"
"Perché me lo chiedi?"
"E tu rispondi... che, hai paura?"
Mi fa quasi ridere, è forte. Avrà sì e no undici anni.
"Sì, sono io Step."
"Veramente sei Step? Non ci credo. Non ci credo. Non ci posso
credere... Non ci credo."
La guardo divertito. Sono io che non riesco a crederci.
"Allora?"
"Tu forse non ti ricordi di me, sarà stato due anni fa, ero sulle
scalette del comprensorio con due mie amiche e stavo mangiando
la pizza rossa e tu salivi di corsa e hai detto 'Mmmh, mi sembra
buona quella pizza' e io non ti ho risposto, ma ho pensato un
sacco
di cose, e te l'avrei fatta assaggiare! "
"Forse avevo fame..."
"No, ma questo non c'entra."
"Non ci sto capendo più niente."
"No, ti volevo dire che per me, anzi per noi, c'è una cosa
pazzesca
che tu hai fatto. Ne parliamo sempre con le mie amiche, ti
giuro, quella scritta sul ponte di corso Francia... Io e te... Tre
metri
sopra il cielo. Mamma, lo pensiamo sempre. Ma come ti è venuto
in mente? Cioè, ma veramente l'hai fatta tu?"
Non so cosa rispondere, ma non importa. Tanto non me ne dà
neanche il tempo.
"Cioè, per me quella è la scritta più bella del mondo. Quando
mamma mi accompagnava a scuola la guardavo. Ma poi lo sai che
qualcun altro ha fatto quella stessa scritta? Cioè, ti hanno
copiato!
C'è quella scritta anche in altri posti di Roma, ti giuro, è
pazzesco,
sta in un sacco di posti! E una mia amica quest'estate al mare mi
ha detto che l'ha vista anche nella sua città! "
"Veramente non volevo lanciare una moda."
Immagino per un attimo se ora passassero i miei amici, quelli
di un tempo e mi vedessero stare qui intrattenuto da questa specie
di "sgnappetta"... Eppure mi piace.
"Be', comunque è pazzesco, noi tutte sogniamo un ragazzo che
faccia una scritta così per noi. Ma mica è facile trovare un tipo
così! "
Mi guarda e sorride. Mi ha fatto un complimento secondo lei.
"Ecco, lo vedi quello lì..."
Mi indica, senza farsi vedere troppo, un ragazzino vicino
all'uscita
del comprensorio. È seduto sulla catena che va da un pilastro
all'altro. Si dondola dandosi una spinta con le sue grosse scarpe
da
ginnastica. Ha i capelli lunghi, una specie di codino con un
nastro
colorato alla fine, ed è un po' cicciotto.
"Si chiama Thomas, mi piace un casino e lo sa." Il tipo la vede.
Sorride da lontano. Alza il mento come per salutarla. Sembra
anche incuriosito che Martina parli con un ragazzo più grande.
"Sì, secondo me lo sa. Fa apposta il cretino con le mie amiche,
e mi dà un fastidio! Se becco chi gliel'ha detto... Ma fino a
quando
non sono sicura... Ma a quello lì quando gli verrebbe in mente
una scritta bella come la tua, eh?"
Guardo Martina e penso a tutto quello che ha ancora da vivere.
Alla bellezza del suo primo amore, di quello che sarà, di quello
che non pensi mai possa finire.
"Al massimo fa una scritta da deficiente per la sua squadra. E
poi la sai una cosa? Questa te la devo proprio raccontare. Una
volta
mio padre e mia madre, che stanno insieme da un sacco di tempo,
almeno da poco prima che nascessi io, be' un giorno stavano
litigando
come pazzi per casa, io stavo in camera mia e li sentivo
benissimo,
e mia madre a un certo punto ha detto a mio padre: 'Il tuo
non è amore, ti sei fatto due conti, hai visto che ero una brava
ragazza
e che potevo andar bene... ma l'amore non è questo, hai capito?
L'amore non è come fare i conti dall'alimentari. L'amore è quando
fai una cosa pazza, come quella scritta sul ponte. Io e te... Tre
metri
sopra il cielo. Ecco, quello è amore'. Così gli ha detto, hai
capito?
Bello, no? Eh? Che pensi Step, ha ragione mia madre, vero?"
"Quella scritta era per una ragazza."
"Oh lo so, come no, era per Babi. Abita qui agli Stellari, nella
palazzina D, la conosco e la vedo ogni tanto, Io so che era per
lei,
che ti credi, so tutto."
Inizia a infastidirmi. Cosa può sapere? Cosa sa? Non voglio
sapere.
"Be', grazie Martina, ora devo proprio andare."
"Lo dicevamo sempre noi amiche che lei era fortunatissima.
Una scritta così poi. Io un ragazzo che mi fa una scritta così non
lo
lascerei mai. Ti posso fare una domanda?"
Non mi dà il tempo di rispondere.
"Ma perché vi siete lasciati?"
Rimango per un po' in silenzio. Poi accendo la moto. È l'unica
cosa che posso fare.
"Non lo so. Se avessi la risposta ti giuro che te la darei."
Sembra dispiaciuta sul serio. Poi viene rapita di nuovo dalla sua
allegria.
"Be', comunque, se passi un'altra volta da queste parti magari
ci mangiamo insieme un pezzo di quella pizza rossa, eh?"
La guardo e le sorrido. Io e Martina, undici anni, che ci mangiamo
la pizza. I miei amici impazzirebbero. Ma non glielo dico.
Almeno lei, con la sua età, che si tenga stretta i suoi sogni.
"Certo, Martina, se passo di qua."
Capitolo 15.
Paolo non è tornato. Forse non torna per pranzo. La casa è
perfettamente
in ordine. Troppo in ordine. Preparo la sacca. Calzettoni,
maglietta, pantaloncini, una felpa e mutandine. Mutandine.
Pollo mi prendeva sempre in giro perché usavo i diminutivi per
ogni cosa. "Facciamo un giretto. Ti va un caffettino? Mi
andrebbero
due pennette..." Questa cosa deve avermela attaccata mia madre.
Gliel'ho detto una volta a Pollo. Lui si è messo a ridere. "Quanto
sei donna," mi diceva, "hai una donna dentro." E mia madre ha
riso quando gliel'ho raccontato. Chiudo la zip della borsa. Mi
manchi,
Pollo. Mi manca il mio migliore amico. E non posso far niente
per farlo tornare. Non posso incontrarlo. Prendo la sacca ed esco.
Affanculo, non voglio pensare. Mi guardo allo specchio mentre
l'ascensore
scende. Sì. Non voglio pensare. Mi metto a cantare una
canzone americana. Non mi ricordo le parole. Era l'unica che
sentivo
sempre a New York. Una vecchia di Bruce. Cazzo, cantare fa
bene. E io voglio star bene. Esco dall'ascensore con la sacca
sulle
spalle. Canticchio: "Needs a local hero, somebody with the right
style...". Sì, era qualcosa del genere. Ma non importa. Pollo non
c'è
più. Piccolo eroe. "Lookin' for a local hero, someone with the
right smile..." Vorrei tanto parlare un po' con lui ma non è
possibile.
Mia madre invece abita da qualche parte ma non ho voglia di
parlare con lei. Ci provo di nuovo... "Lookin' for a local hero."
Cazzo
non ho imparato niente di quella canzone.
Flex Appeal, la mia palestra, la nostra palestra. Nostra, dei
nostri
amici. Scendo dalla moto. Sono emozionato. Cosa sarà cambiato?
Ci saranno altre macchine? E poi chi incontrerò? Mi fermo
un attimo nella piazzetta prima dell'ingresso. Guardo nella
vetrata
appannata dalla fatica e dal sudore.
Delle ragazze ballano al ritmo di una canzone americana nella
sala grande. Tra loro ci sono solo due uomini che tentano
disperatamente
di andare a tempo con il bodywork di Jim. Così leggo
sul foglio attaccato all'entrata che indica la speciale lezione o
quel che deve essere. Indossano scarpe, body, tutine e top quasi
tutte di marca. Pare una sfilata. Arabesque, Capezio, Gamba,
Freddy, Magnum, Paul, Sansha, So Danca, Venice Beach, o Dimensione
Danza. Come se nascoste dietro un nome potessero ballare
meglio. Come cazzo fanno due uomini a non vergognarsi per
quel miserabile tentativo di ginnastica. In mezzo a tutte quelle
donne poi. Body stretti e colorati, trucchi perfetti, calzamaglie
nere, pantaloncini o tute aderenti... e poi, due uomini in
calzoncini.
Uno pelato, l'altro quasi. Hanno la maglietta larga che nasconde
la pancia. Saltano scoordinati, affannati, disperatamente
alla rincorsa del ritmo. Ma non lo trovano. Anzi, qualcuno deve
averglielo nascosto per bene fin dall'infanzia. Insomma, fanno
pena.
Vado oltre ed entro. In segreteria c'è un ragazzo mezzo tinto,
capello lungo, faccia abbronzata. Parla sommessamente al cellulare
con un'ipotetica donna. Mi vede e continua per un po' a
chiacchierare,
poi alza lo sguardo e si scusa con una certa "Fede" al telefono.
"Prego?"
"Vorrei fare la tessera. Tutto il mese."
"Sei già stato qui da noi?"
Mi guardo in giro, poi guardo lui.
"Ma non c'è Marco Tullio?"
"No. È fuori. Lo puoi trovare domani mattina."
"Ok, allora mi iscrivo domani, sono un suo amico."
"Come vuoi..."
Non gliene frega più di tanto, d'altronde i soldi non sono suoi.
Vado nello spogliatoio. Due ragazzi si stanno cambiando per
allenarsi.
Ridono e scherzano. Parlano del più e del meno e di una certa
ragazza. "Niente, siamo stati a cena alla Montecarlo, la pizzeria.
Oh, non sai... Ogni due minuti le squillava il cellulare. Era
l'uomo
che sta facendo il militare. E lei giù che gli raccontava
cazzate."
"Ma no, giura!"
"Te lo giuro."
Ascolto mentre mi cambio, ma già immagino come va a finire:
"E lei che diceva 'ma no, no, sto a cena con Dora. Dai, te la
ricordi
quella che c'ha il negozio, è una parrucchiera'...".
"Ma dai, e lui?"
"E lui che poteva fare? Le credeva. Alla fine siamo andati a casa
sua e mentre lei mi faceva un pompino, ha squillato di nuovo il
suo telefonino."
"No! E tu che hai fatto?"
"Io? Ho risposto, che dovevo fare?"
"E che gli hai detto?"
"Mi dispiace ma in questo momento non può proprio rispondere,
sta discutendo con Dora! "
"Ma dai! Troppo forte." E giù risate.
"Da allora Dora è il soprannome che ho dato al mio uccello.
Eccolo qui..." lo tira fuori e lo mostra all'amico. "Ciao Dora,
saluta
Mario!"
Ridono come pazzi mentre il tipo con "Dora" in mano saltella
a piedi nudi sul bagnato. Alla fine scivola e cade per terra.
L'altro
ride ancora di più mentre io vado ad allenarmi.
"Tienimi le chiavi, le metto qui." Infilo le chiavi con le quali
ho
chiuso l'armadietto in un portapenne sulla scrivania. Il tipo alla
segreteria
mi fa un cenno con la testa e continua a chiacchierare al
telefonino. Poi ci ripensa. Mette la mano sopra il telefonino e
decide
di dirmi qualcosa.
"Ehi capo, per oggi puoi allenarti, ma domani devi fare la
tessera.
"
Mi guarda soddisfatto con la faccia un po' da paraculo, un po'
da duro. Poi con un sorriso ebete torna a parlare. Si gira e mi dà
le
spalle. Si vanta. Ride. Sento le sue ultime parole: "Hai capito,
Fede?
È arrivato e crede di stare a casa sua".
Non fa in tempo a finire. Lo prendo per i capelli. A mano piena.
Quasi lo alzo dalla seggiola. Si mette sull'attenti con la testa
leggermente
piegata verso di me. I capelli tirati in gruppo fanno un
male cane. Lo so. Me lo ricordo. Ma ora sono i suoi.
"Chiudi il telefonino, coglione." Abbozza un "Ti richiamo eh,
scusami". E chiude.
"Allora, per prima cosa questa è casa mia. E poi..." gli tiro i
capelli
più forte. "Ahia, ahia mi fai male."
"Invece io voglio che senti bene: non chiamarmi mai più capo
in vita tua. Hai capito?"
Cerca di fare un sì con la testa ma accenna solo un piccolo
movimento.
Tiro più forte per esserne sicuro.
"Non ho sentito... Hai capito?"
"Ahia, ahia... Sì."
"Non ho sentito."
"Sì" quasi urla dal dolore. Ha le lacrime agli occhi. Mi fa anche
un po' pena. Lo lascio andare con una piccola spinta. Si accascia
sulla sedia. Si massaggia subito la testa.
"Come ti chiami?"
"Alessio."
"Ecco, sorridi," gli do due schiaffetti leggeri sulla guancia,
"ora
puoi richiamarla se ti va, dille pure che hai reagito, che mi hai
cacciato
dalla palestra, che mi hai menato, di' pure quello che ti pare,
ma... non te lo dimenticare. Non mi chiamare mai più capo."
Poi una voce alle mie spalle.
"Anche perché dovresti saperlo. Lui si chiama Step." Mi giro
sorpreso, anche leggermente in difesa. Non mi aspettavo di sentire
il mio nome. Non ho visto nessuno dei miei amici, nessuno che
possa sapere il mio nome. E invece c'è qualcuno. Lui. È magro,
anzi
magrissimo. Alto, braccia lunghe, capelli con un taglio comune,
sopracciglia un po' folte, unite al centro sopra un naso lungo che
sporge su delle labbra strette di una bocca larga. Forse è così
larga
perché sorride. Sembra un francese. Sicuro di sé, tranquillo, ha
le mani in tasca e lo sguardo divertito. Porta i pantaloni lunghi
della
tuta e una felpa sbrindellata sul rosso stinto. Sopra ha un
giubbotto
Levi's chiaro. Non so classificarlo.
"Non ti ricordi di me, vero?" No, non mi ricordo. "Guardami
bene, forse sono cresciuto." Lo guardo meglio. Ha un taglio sopra
la fronte, nascosta dai capelli, ma niente di grave. Si accorge
cosa
sto guardando. "È stato l'incidente in macchina, dai, sei anche
venuto
a trovarmi all'ospedale."
Cazzo come facevo a non ricordarmi!
"Guido Balestri! È una vita... Stavamo alle medie insieme."
"Sì e abbiamo fatto i due anni del liceo. Poi ho abbandonato."
"Sei stato bocciato? Non mi ricordo proprio tutto."
"No, ho seguito mio padre."
Ah, è vero. Come no! Balestri. Il padre è un grande non so che,
uno che sta sempre in mezzo a tutte quelle cose, società per
azioni
o roba del genere. Stava sempre in giro per il mondo.
"Allora... come stai?"
"Bene e tu?"
"Bene anch'io. Bello rivederti. Ho sentito tanto parlare di te,
Step, qui a Vigna Clara ormai sei un mito."
"Be', non direi proprio."
Rivolgo lo sguardo ad Alessio. Sta mettendo a posto dei fogli e
fa finta di non sentire. Non riesce a non toccarsi i capelli.
Guido
ride divertito.
"Che c'entra, sei un mito per chi conosce le nostre storie. Si
parla ancora di quelle risse mitiche... Mi ricordo di quando hai
fatto
a botte col Toscano dietro a Villa Flaminia nel boschetto."
"Eravamo dei ragazzini..."
Guido rimane un po' deluso.
"So che sei stato a New York."
"Sì, sono stato fuori due anni."
"Stasera ci vediamo. Siamo un po' di gente, andiamo a mangiare
una pizza. Perché non vieni anche tu?"
"Chi siete?"
"Un po' di gente del Villa Flaminia. Li ricordi senz'altro, dai...
Pardini, Blasco, Manetta, Zurli, Bardato, tutti loro. Insomma con
donna o senza. Dai vieni, cazzo, farà piacere a tutti rivederti.
Andiamo
a Bracciano all'Acqua delle donne."
"Mai stato."
"È un posto bellissimo, anzi se c'hai la donna portala. Posto
incantevole.
Una volta mangiato lì, dopo... è tutta una passeggiata...
e in discesa. Il dessert ti spetta di diritto... ma a casa sua."
Riesce a farmi ridere: "A che ora andate?".
"Verso le nove."
"Vengo a mangiare ma evito la passeggiata..."
"Cioè senza donna." Ride in maniera strana. Me lo ricordavo
più sveglio. Ha un dente davanti spezzato e non dava mai troppa
confidenza. Ora me lo ricordo meglio. Lo chiamavamo Scorza.
Era tutto un programma. Correva che era uno sfacelo. Quando
ci allenavamo a scuola nel campo da corsa del Villa Flaminia,
gareggiava
nell'ultimo gruppo. "I porcellini" li chiamava Cerrone,
il nostro prof di Educazione fisica. Anche il prof era strano
forte.
Mentre facevamo ginnastica si metteva a leggere il giornale
sportivo e per controllarci ci faceva due buchi al centro. Come se
noi non ce ne accorgessimo. Però sui tre porcellini era
imbattibile.
Arrivavano al traguardo in tre, lui, Biello e Innamorato, bianchi
cadaverici, con la lingua di fuori. "Porcellini da latte! "
gridava
il prof. "Vi dovremmo mettere allo spiedo e farvi rosolare." E
rideva come un pazzo. Ma questo a Balestri non glielo ricordo.
Forse è meglio di no. In fondo mi ha invitato a cena. Anzi ci
tiene
a ricordarmelo.
"Oh, allora alle nove all'Acqua delle donne, eh, con donna o
senza. "
"Va bene."
Mi saluta e scappa via. Che verrà a fare in palestra? Non ha un
chilo, non sale di peso, è magro come il mio ricordo più sbiadito.
Cazzi suoi. Però è simpatico.
Ecco. Lo sapevo! Lo sapevo che Step veniva ad allenarsi qui in
palestra. Ne ero sicura. Ed ero sicura che veniva proprio in
questa
palestra! Sono troppo forte. E lui è troppo conservatore. Troppo.
Spero che almeno in qualcosa cambi! ! ! Be', ora me ne vado. Non
mi ha visto. Io invece ho sentito quello che dovevo sentire.
Attacco con le prime macchine, mi scaldo veloce, ripetizioni a
raffica, per ammorbidire i muscoli. Carico poco, il minimo
indispensabile.
Vedo uscire una ragazza di fretta con un cappellino
arancione mezzo calato in testa. Certo che ce ne sono di persone
strane al mondo. Lì vicino due altre ragazze parlano fra loro e
ridono
di qualcosa. Racconti della serata prima o di quello che deve
ancora accadere. Una è leggermente truccata, porta i capelli corti
mesciati e se li tocca in continuazione. Ha un bel fisico e sta a
gambe
larghe perché sa di averlo. L'altra è più cicciotta e non tanto
alta,
capello alle spalle, più scuro del solito forse perché sporchi. Ha
le mani sui fianchi e una tuta grigia leggermente macchiata dalla
quale spunta fuori anche un po' di pancia.
"Lavorate! Qui in palestra si viene per lavorare..." Sorrido
mentre
passo. Quella bassa mi risponde facendo una specie di smorfia.
L'altra è più tranquilla: "Siamo in fase recupero".
"Da che?"
"Stress da pesi."
"Pensavo qualcosa di meglio."
"Quello più tardi..."
"Non ne dubito." Ora ridono tutte e due. In realtà sull'altra ho
qualche dubbio. Ma una donna qualcosa la spunta sempre. Non
c'è niente da fare, noi dovremmo essere più compatti, almeno in
certi casi. La guardo meglio. Dice qualcosa all'amica indicandomi
con lo sguardo. L'altra mi guarda. La vedo riflessa nello specchio
che sorride. È bella con i capelli corti, ha un seno piccolo
perfettamente
disegnato sotto il suo body. Le s'intravedono i capezzoli.
Lo sa ma non si copre. Sorrido e penso ai miei addominali. Faccio
subito una prima serie da cento. Quando ho finito le due ragazze
non ci sono più. Saranno andate a farsi la doccia. Chissà se le
riconosco
quando le incontro. È incredibile come una donna che
esce dagli spogliatoi può essere diversa da quella che hai visto
poco
prima sotto i pesi. Ma non c'è verso, migliorano tutte. Al massimo
te la potevi immaginare elegante e invece quella che t'esce la
vedi con degli stivali con le borchie d'oro o roba del genere. Ma
comunque diverse. Miracoli del trucco. Ecco perché la spuntano.
Seconda serie da cento. Guardo il soffitto senza fermarmi, uno
dopo
l'altro, con le mani dietro la testa, con i gomiti allineati,
tesi,
aperti. Uno dopo l'altro. Ancora più forte. Non ce la faccio più,
il
dolore inizia a sentirsi, penso a mio padre, alla sua nuova donna.
Continuo senza fermarmi. 88, 89, 90. Penso a mia madre. 91, 92.
Quant'è che non la vedo. 94, 95. Devo chiamarla, dovrei chiamarla.
98, 99, 100. Finito.
"Non ci posso credere, Step! " Mi giro, quasi non riesco a parlare
dal dolore agli addominali. Per un attimo mi ricordo il film di
Troisi quando lui, pur di vedere la donna che gli piace tanto,
corre
intorno al palazzo e quando la incontra non ha il fiato per
parlarle.
Troppo forte Troisi.
"Che ci fai? Aho, sei tornato... Mi avevano detto che eri fuori
a New York ! "
Ancora? Oh, non c'è niente da fare. Non sono proprio riuscito
a passare inosservato.
Finalmente mi sono ripreso e lui lo riconosco facilmente.
"Ciao Velista, come stai?"
"Ancora con questo soprannome. Lo sai che non mi ci chiama
più nessuno?"
"Vuol dire che sei cambiato?"
"Ma di che poi? Io non ho mai capito perché mi chiamavate
tutti il Velista, manco a dire che amo le barche, non ci so' quasi
mai
andato."
"Veramente non sai il significato del tuo soprannome?"
"No, ti giuro."
Lo guardo. Denti un po' larghi, come allora, una felpa sdrucita,
un paio di pantaloncini verdi chiari, i calzettoni calanti,
sbrindellati,
perfettamente in linea con un paio di Adidas stansmith ormai
decrepite. Il Velista.
"Allora?"
Mento. "Ti chiamavano Velista perché amavi tanto il mare."
"Ah, ecco ! Ora ho capito, quello è vero. Mi piace proprio tanto.
"
È soddisfatto ora, fiero del suo nome. Sembra quasi guardarsi allo
specchio, tanto l'ha rivalutato. In realtà non c'aveva mai una
lira,
veniva con noi solo per mangiare la pizza e scroccare. Per questo
tutti
dicevano che "andava a vela". Povero Velista. Una volta prese un
sacco di botte da una mignotta giù al bowling, vicino all'Amene
perché
dopo non so quale lavoretto, voleva pure lo sconto. Aveva solo
10 euro in tasca e aveva goduto per almeno 20.
"Oh, so' proprio felice di rivederti."
Mi guarda contento, lo sembra davvero.
"Hai già visto qualcuno?"
"No, sono arrivato ieri. Non ho visto nessuno qui in palestra."
"Ma sai, adesso s'allenano un po' da tutte le parti. Qualcuno
poi s'è messo a lavora', qualcun altro se ne è andato fuori
all'estero.
Oh ecco, guarda chi arriva."
Fuori dalla finestra si vede passare una borsa blu scuro sopra
le spalle di un uomo dai capelli corti.
"Non lo riconosco." Lo guardo meglio. Niente. Il Velista prova
a darmi una mano.
"Ma dai, è il Negro. Non te lo ricordi?"
"Ah, ho capito, sì, ma lo conoscevo solo di vista."
Il tipo entra e saluta il Velista: "Ciao Andre'. Che fai,
t'alleni?".
Il Velista incredulo mi indica fiero."Ma hai visto con chi sto?
È Step."
Il Negro mi fissa per un po'. Poi sorride. Ha la faccia simpatica,
uno zigomo un po' ammaccato, mi viene incontro: "Ma dai,
Step... Certo, come no. È una vita che non ci vediamo".
Ora lo riconosco. Porta i capelli corti. Prima li teneva sempre
un po' lunghi, oliati, stava fisso con un giubbotto blu
all'Euclide
di Vigna Stelluti.
"Non sapevo avessi questo soprannome. Il Negro. Mi ricordo
che ti chiami Antonio."
"Sì, dopo la storia di Tyson, dicono che ci somiglio."
Ha il collo un po' taurino, la pelle porosa e il naso un po'
ammaccato,
capelli corti alla Tyson. Ha gli occhi un po' a palla e il labbro
superiore più grosso del solito.
"Be', insomma mica ci somigli tanto."
"Ma no fisicamente! " Ride sguaiato e comincia per un po' a
tossire.
"Per la storia della rissa! Pure io so' andato a un concorso di
miss a Terracina e poi c'ho provato con una che stava a
partecipa'.
Hai capito? Per questo dicono che so' Tyson. 'Sta stronza, mi ha
invitato
su in camera, io volevo scopa' e lei pensava che je volessi
racconta'
le barzellette. S'è offesa pure e non ci voleva sta'. Ma io jo
fatto
capi' che il suo era solo un problema di capoccia. E da allora mi
chiamano il Negro." Ridono come pazzi lui e il Velista.
"No, sai, è uscita la storia su tutti i giornali di Borgo Latino,
giù
prima di Latina. Il Tyson della Pontina, un mito. Che poi alla
fine
c'avevo ragione io, a questa je pure piaciuto."
Il Velista ci mette il carico: "Mejo de Tyson" e continuano a
ridere
e a tossire.
"A proposito, so che sei stato in America, a New York, se non
sbaglio."
Si ricomincia.
"Sì, sono stato laggiù. C'ho passato due anni, ho fatto un corso
e sono tornato ieri. E ora c'ho voglia di allenarmi. " Cerco di
troncare.
"Oh, ti va di fare due tiri? Mi dicevano tutti che eri forte a
boxare."
Il Negro sorride della sua proposta. È sicuro di sé e continua:
"Be', magari è un sacco di tempo che non t'alleni, se non ti va
non
ti sta' a preoccupa'. È che tutti parlavano di 'sto mito, 'sto
mito, e
mo' che ce l'ho davanti...".
Il Negro ride divertito, troppo sicuro di sé. Deve essere uno
che s'allena tutti i giorni almeno un'oretta e mezza.
"Ma no, figurati. Mi va."
"Allora vado subito a cambiarmi."
Vedo una luce diversa nei suoi occhi, più svegli, acuti,
leggermente
socchiusi.
Il Velista rimane invece idiota come prima: "Aho, forte
'st'incontro.
C'ho una sete pazzesca, Negro. Che, te posso segna' un Gatorade
che oggi non c'ho una lira?".
Il Negro fa segno di sì con la testa e va dritto negli spogliatoi.
Il Velista va allegro verso il bar confermando così il suo
soprannome.
Io invece rimango solo. Alessio alla segreteria mi fissa. Sta
succhiando
un Chupa-Chups e mi guarda in maniera diversa da prima.
Abbassa gli occhi e si rimette a leggere un "Parioli Pocket" che
ha poggiato sul tavolo. Sfoglia due pagine, poi mi guarda di nuovo
e sorride. "Scusa, Step, per prima. Non ti conoscevo. Non sapevo
chi fossi."
"Perché, chi cazzo sono?"
Rimane per un attimo perplesso, cercando qualche risposta
nell'aria.
Ma non trova niente. Poi ci ripensa e prende coraggio.
"Be', sei uno che si conosce."
"Uno che si conosce..." Ci penso un attimo. "Sì, è un argomento
interessante. Bravo. Vedi a volte... Non lo avevo considerato."
Sorride felice, per niente cosciente del fatto che lo prendo per
il culo.
"Senti..."
"Dimmi, Step."
"Sai se c'è qualcosa per boxare?"
"Come no."
Esce da dietro la segreteria e si muove veloce verso una panca
all'ingresso. Alza i sedili. "Qui sotto c'è la roba di Marco
Tullio.
Lui non vuole mai che nessuno la usi. "
"Grazie."
Mi guarda con entusiasmo. Mi siedo sulla panca e comincio a
infilarmi i guantoni. Non lo guardo, ma sento i suoi occhi su di
me.
"Vuoi che te li stringo?"
Lo guardo per un attimo. "Ok."
Viene veloce verso di me. Prende i lacci con cura, li avvolge
intorno
ai guantoni, lo fa con precisione. Ora non ride, è serio. Si
morde leggermente le labbra mentre i capelli lunghi gli coprono
ogni tanto gli occhi. Con l'altra mano li butta all'indietro
mentre
continua a fare il suo lavoro. Lentamente, con cura, stringendo
con
precisione. "Fatto!" Sorride. Mi alzo in piedi. Sbatto i guanti
uno
contro l'altro.
"Vanno bene, no?"
Vuole essere sicuro di aver fatto un buon lavoro.
"Ottimi!"
Dallo spogliatoio femminile escono le due ragazze di prima.
Quella alta ha un paio di pantaloni neri stretti fino alle
caviglie, un
trucco leggero e un rossetto che rende le sue labbra tranquille e
accoglienti.
Una borsa a tracolla su una camicia bianca con piccoli
bottoni perlati, il tutto si intona con il suo passo elegante.
Quella
bassa invece ha una gonna scozzese a quadri blu e marrone troppo
corta per le sue gambe e due mocassini neri che rendono
ingiustizia
alla sua camicia celeste. Del trucco ha cercato in qualche
modo di miracolare il suo viso. Ma almeno per oggi quelli di
Lourdes
dovevano essere in vacanza. Si fermano alla segreteria. Alessio
fa il giro e dà loro le tessere.
Quella alta mi si avvicina: "Ciao, io mi chiamo Alice".
"Stefano." Allungo il guantone, come per darle la mano.
Lei lo stringe sorridendo: "Lei è la mia amica Antonella".
"Ciao."
"Che fai, combatti?"
Si, ci provo.
"Ti dispiace se restiamo a vedere un po' l'incontro?"
"Perché mi dovrebbe dispiacere. Be', se poi fate il tifo per me,
certo che non mi dispiace."
Ridono. "Va bene, puntiamo su di te. Che si vince?"
In quel momento esce il Negro. Ha un paio di calzoncini blu
morbidi e lunghi, quelli da vero pugile. Ha già infilato i
guantoni.
Ha qualche segno sulle braccia e due o tre tatuaggi di troppo. È
ben messo. Non me lo ricordavo così.
Alice mi si avvicina: "Ma combatti contro il Negro?".
Allora è conosciuto anche lui.
"Sì, perché?"
"Mi sa che abbiamo sbagliato a puntare su di te."
Mi guardano, sembrano realmente preoccupate.
Cerco di tranquillizzarle. "Va be', animo ragazze, al massimo
durerà poco."
Il Negro ci interrompe. "Allora... entriamo?"
Ha fretta.
"Come no. Vai avanti tu."
Entra nella sala dell'aerobica. Due ragazze stanno facendo un
po' di addominali su dei tappeti di gomma blu. Sbuffano vedendoci
entrare.
"Oh, non mi dite che ce ne dobbiamo andare."
Cerco di metterla sullo scherzo: "Be', a meno che non volete
combattere pure voi due".
Il Negro non ha il senso dello spirito: "Forza uscite". In un
attimo
sono fuori. "Tre round serrati, ti va?" Me lo dice con tono
eccessivamente
duro.
"Sì, mi va. Facciamo un buon allenamento."
"Facciamo un bell'incontro." Sorride in maniera antipatica.
"Ok, come vuoi tu." Alice è vicino alla finestra. "Ci prendi il