Capitolo 63.
Abbiamo passato diversi giorni sull'isola. Ed è vero, non abbiamo
mai litigato. Anzi. Ci siamo anche divertiti. Non avrei mai
immaginato che fosse possibile così, con una lei poi... L'altra
sera
mi sono ritrovato disperso tra le onde del mare. Sembravano dolci
per come erano morbide e calde, in quell'acqua bassa, senza
corrente. O forse è stato tutto per la bellezza e la semplicità di
quel
bacio che ci siamo dati. Così, in silenzio, guardandoci negli
occhi,
abbracciati sotto la luna, senza andare oltre. Abbiamo riso,
abbiamo
chiacchierato, siamo rimasti abbracciati. La cosa bella di
un'isola come questa è che non hai appuntamenti. Tutto quello
che fai, lo fai solo perché ti va, non perché lo devi fare.
Mangiamo
ogni sera in un piccolo ristorante. È tutto in legno, ed è proprio
sul mare, roba che se fai tre scalini, sei già in acqua. Leggiamo
il menù senza capire bene cosa c'è scritto veramente. Alla fine
chiediamo sempre spiegazioni. Quelli che ci lavorano sono tutti
molto gentili e sorridono. E dopo aver ascoltato le loro
spiegazioni
più o meno comprensibili, fatte di gesti e di risate, ci
accordiamo
ogni volta su un piatto diverso. Forse perché vogliamo provarli
un po' tutti, perché speriamo che almeno uno prima o poi ci
piaccia. Ma soprattutto perché stiamo bene.
"E mi raccomando senza sughi strani, senza niente sopra.
Nothing, nothing..."
I tipi sentendoci parlare così, fanno cenno di sì con la testa.
Sempre. Anche quando diciamo delle cose assurde. Alla fine non
sappiamo mai cosa ci porteranno veramente. A volte ci dice bene,
a volte male. Cerco di consigliare Gin.
"Comunque sei vai sul 'pescado' arrosto vai sempre sul sicuro."
Ride.
"Madonna, ma sei già vecchio. Il bello è proprio provare tutto."
Mi guardo in giro. Non c'è quasi nessuno su quest'isola. A un
tavolino lontano da noi mangia un'altra coppia. Sono più grandi
e più silenziosi di noi. È normale che crescendo si abbiano meno
cose da dire? Non lo so e non lo voglio sapere. Non ho fretta. Lo
scoprirò quando sarà il momento. Gin invece parla un sacco, del
più e del meno, di cose divertenti e interessanti. Mi rende
partecipe
di pezzi della sua vita che io non avrei mai potuto conoscere,
neanche immaginare, se non attraverso lei. E io l'ascolto,
guardandola
negli occhi, senza mai perderci di vista. E poi ha sempre
mille proposte.
"Senti, ho avuto una bellissima idea. Domani andiamo su un'isola
qui davanti, anzi no, prendiamo una barca e usciamo a pescare,
no, no, meglio, facciamo un po' di trekking all'interno... Eh, che
ne dici?"
Io sorrido. Non glielo dico che l'isola ha un diametro di appena
un chilometro.
"Certo, bellissima idea."
"Ma quale è bellissima? Te ne ho proposte tre!"
"Tutte e tre bellissime."
"A volte mi sembra proprio che mi prendi in giro."
"Perché dici così? Sei bellissima."
"Vedi, mi prendi in giro."
Mi alzo, mi siedo vicino a lei e le do un bacio. Lungo.
Lunghissimo.
Con gli occhi chiusi. Un bacio totalmente libero. E il vento
cerca di passare tra le nostre labbra, il nostro sorriso, le
nostre
guance, tra i capelli... Niente, non ce la fa, non passa. Nulla ci
divide.
Sento solo delle piccole onde che si rompono sotto di noi, il
respiro del mare, che fa eco ai nostri che sanno di sale... E di
lei. E
per un attimo ho paura. Che io abbia voglia di perdermi di nuovo?
E poi? Cosa succederà? Boh. Mi lascio andare. Mi perdo in quel
bacio. E abbandono quel pensiero. Perché è una paura che mi piace,
sana. Gin all'improvviso si stacca da me, si allontana e mi fissa.
"Ehi, ma perché mi guardi così? A che pensi?"
Le prendo i capelli portati in avanti dal vento. Li raccolgo
dolcemente
nella mia mano. Poi glieli porto indietro, liberando il suo
viso, ancora più bello.
"Ho voglia di fare l'amore con te."
Gin si alza. Prende la giacca. Per un attimo sembra arrabbiata.
Poi si gira e mi fa un bellissimo sorriso.
"Mi è passata la fame. Andiamo?"
Mi alzo, lascio dei soldi sul tavolo e la raggiungo. Cominciamo
a camminare sul bagnasciuga. L'abbraccio. La notte. La luna. Un
vento ancora più leggero. Barche lontane al largo. Vele bianche
sbattono. Sembrano fazzoletti lì a salutarci. Ma no, non partiamo.
Non ancora. Piccole onde del mare ci accarezzano le caviglie,
senza
fare troppo rumore. Sono calde, lente, silenziose. Hanno rispetto.
Sembrano un preludio di un bacio che vuole spingersi più in là.
Hanno paura quasi di farsi sentire. Un cameriere arriva con dei
piatti al nostro tavolo. Ma non ci trova più. Poi ci vede. Ormai
lontani.
Ci chiama. "Domani, mangiamo domani." Il tipo scuote la testa
e sorride. Sì, quest'isola è bellissima. Qui tutti hanno rispetto
dell'amore.
Capitolo 64.
Quando ero piccolo e tornavo dalle vacanze, Roma mi sembrava
sempre diversa. Più pulita, più ordinata, con meno macchine,
con un senso di marcia improvvisamente cambiato, con un
semaforo in più. Questa volta mi sembra identica a quando
l'abbiamo
lasciata. È Gin che mi sembra diversa. La guardo senza che
se ne accorga. Aspetta ordinata in fila il nostro turno per
prendere
il taxi. Muove ogni tanto i capelli, ravvivandoli, li allontana
dal viso e loro, ancora insaporiti di mare, ubbidiscono. No, non
diversa. Semplicemente più donna. Tiene la sua sacca tra le gambe
e uno zaino non troppo pesante sulla spalla destra. Austera e
dritta ma morbida nei tratti. Si gira, mi guarda e sorride. È
mamma?
Oddio, che aspetti sul serio un bambino? Sono stato un pazzo.
Mi guarda curiosa cercando forse di indovinare i miei pensieri.
Io la guardo invece cercando di indovinare della sua pancia.
Sono già in due? Mi ricordo di uno sceneggiato che ho visto da
piccolo. La storia di Ligabue. Ma non il cantante. Il pittore.
Guardando
una sua modella, dipingendola su una tela, Ligabue, dalla
diversa luce dei suoi occhi, dai morbidi tratti del suo corpo,
capisce
che è incinta. Ma io non sono un pittore. Anche se forse sono
stato più pazzo di Ligabue.
"Si può sapere a che pensi?"
"Ti sembrerà assurdo ma a Ligabue."
"Oh, ma dai, non sai quanto mi piace sia come cantante che
come uomo."
Canticchia allegra perfettamente intonata. Sa tutte le parole di
Certe notti, ma non ha indovinato uno dei miei pensieri. Per
fortuna.
Almeno questa volta. "Ehi! La sai una cosa? Ligabue mi piace
anche come regista... L'hai visto tu Radiofreccia?"
"No."
È arrivato il nostro turno. Mettiamo le valigie nel portabagagli
e saliamo sul taxi.
"Peccato, a un certo punto c'è una bella frase... Credo che c'è
un buco grosso dentro, ma che il rock and roll, qualche amichetta,
il calcio, qualche soddisfazione sul lavoro, le stronzate con gli
amici be', ogni tanto questo buco me lo riempiono."
"Sembra forte... certo che te ne ricordi di citazioni tu, eh?"
Gin insiste. "E Da dieci a zero?"
"Neanche."
"Ma sei sicuro che pensavi al cantante e non a Ligabue il
pittore?"
Mi guarda incuriosita e strafottente. Questa ragazza mi preoccupa.
Dico la strada della casa di Gin al tassista che fa cenno di sì
con la testa e parte. Oh. Tutti sanno tutto. Io mi infilo gli
occhiali.
Gin ride.
"Ti ho beccato eh? O non sai neanche chi è?"
Non si aspetta risposta. Decide di lasciarmi stare. Si appoggia
sulla mia spalla come durante i voli in aereo. Come tutte queste
ultime
notti. La vedo riflessa nello specchietto del tassista. Chiude
gli occhi. Sembra riposare, poi li riapre di nuovo. Incrocia il
mio
sguardo anche attraverso gli occhiali. Sorride. Forse ha capito
tutto.
Forse. Ma una cosa è sicura. Se sarà una bambina la chiamerò
Sibilla.
Un ultimo saluto. "Ciao. Ci sentiamo." Con lo zaino in spalla
e la sacca in mano entra nel portone. La vedo andar via così,
senza
poterle dare una mano. Non ha voluto.
"Non voglio essere aiutata e soprattutto non mi piacciono gli
addii troppo lunghi. E vattene! "
Gin troppo forte. Risalgo sul taxi e do il mio indirizzo. Il
tassista
fa un cenno di sì con la testa. Conosce anche questo. Be',
d'altronde
è il suo lavoro. In un attimo mi tornano in mente tanti momenti
del viaggio. È come un album sfogliato velocemente. Allora
scelgo le foto più belle. I tuffi, i baci, gli scherzi, le cene,
le chiacchierate
senza tempo, l'amore senza tempo, i risvegli senza tempo.
E ora? Sono preoccupato e non solo per il fuso orario. Mi manca.
Lasciarla a casa proprio dopo un viaggio è come partire di nuovo
ma senza saper dove andare e soprattutto con chi. Solo. E Gin
già mi manca. Di questo sono preoccupato. Sono diventato troppo
romantico?
"Siamo arrivati, dotto'."
Per fortuna c'è il tassinaro che mi riporta alla realtà. Scendo.
Non aspetto il resto, prendo la mia roba ed entro in casa.
"C'è nessuno?" Silenzio. Meglio così. Ho bisogno di entrare
piano piano, senza troppi rumori, senza troppe domande, nella mia
vita di tutti i giorni. Metto a posto un po' di roba dalla sacca,
butto
in bagno nella vasca quello che c'è da lavare e mi faccio una
doccia.
Non sento il fuso ma per fortuna sento il telefonino. Esco dalla
doccia. Lo prendo al volo. Mi asciugo un attimo prima di
rispondere.
E lei, Gin.
"Ohi, l'ho acceso un secondo fa, prima di fare la doccia. Lo
sapevo
che non potevi resistere."
"Pensa che io ti avevo chiamato per sapere tu come te la cavavi.
Non è che stai dando le capocciate? Sei in crisi totale da
astinenza...
d'amore?"
"Io?"
Allontano il telefonino di poco e fingo di rivolgermi a un folto
pubblico femminile lì di fronte. "Calma ragazze, calma... Arrivo!
"
Gin fa finta di essere scocciata.
"Strano che non hai detto vengo. E in un attimo ragazze! Saresti
stato più sincero. Non le illudere! Ah! Ah!"
"Uhm! Velenosa. Se la metti su questo piano parliamo con Romani,
due partecipazioni a qualche trasmissione come il caso dell'anno
e ripartiamo subito per il giro del mondo."
" Senza andar troppo lontano... Comincia a prepararti il discorso
per i miei, dovrai passare di qui tra qualche giorno."
"Cosa?"
"Be', se ancora non arrivano 'loro' è meglio che passi tu, no?"
"Cosa?"
"Ma sì, siamo allo scadere, e 'loro' non si vedono, quindi sono
incinta! Preparati la promessa di matrimonio, le scuse e tutto il
resto.
Rimango in silenzio.
"Ecco bravo! Hai capito! Divertiti con quelle ragazze che hai
lì, che ti è rimasto poco tempo! "
"Ma io pensavo che mi sarei dovuto occupare solo della scelta
del nome. "
"E certo. La cosa più facile! No guarda, a quello ci penso io.
Tu preoccupati di tutto il resto. Sai cosa dice sempre la mia
mamma?
'Hai voluto la bicicletta? Ora pedala!'"
"Bicicletta... Se è femmina la potremmo chiamare così. Sarebbe
sicuramente una ragazza molto sportiva e poi che ne so, in onore
di tua mamma."
"Meno male. Credevo fossi già in stato depressivo. Invece ce la
fai ancora a dire qualche cretinata."
"Sì, ma sono le ultime. Sai come papà dovrò essere ancora più
serio. Ma sei sicura piuttosto che sono io il papà? Mio nonno
diceva
sempre: 'Mater semper certa est, pater numquam'."
"Ecco bravo, vivi nell'incertezza. Stai sicuro che se è scemo vuol
dire che è tuo ! "
"Meno male che ero in crisi d'astinenza d'amore! "
"Step... non litighiamo."
"E chi vuole litigare?"
"Mi manchi..." Allontano di nuovo il telefonino.
"Ragazze, volete sapere che ha detto? Che le manco..."
"Dai... non fare lo stupido."
"Sei cambiata?"
"Cioè?"
"Di solito mi dici scemo."
"E cosa è meglio scemo o stupido?"
"Be', diciamo che stupido per me è meglio... e poi scusa scemo
hai detto che chiami mio figlio, a me devi chiamarmi stupido per
forza sennò in questa casa non si capisce più niente. Sai che
confusione?"
"Cretino!"
"Ecco... E adesso cretino chi è? L'altro?"
Ridiamo. Continuiamo a ridere così. A parlare senza più sapere
bene di cosa, né perché^Poi decidiamo di attaccare, promettendoci
di sentirci domani. È un'inutile promessa. L'avremmo fatto
comunque. Quando perdi tempo al telefono, quando i minuti
scorrono senza che te ne accorgi, quando le parole non hanno
senso,
quando pensi che se qualcuno ti ascoltasse penserebbe che sei
pazzo, quando nessuno dei due ha voglia di attaccare, quando dopo
che lei ha attaccato controlli bene che l'abbia fatto veramente,
allora sei fregato. O meglio sei innamorato. Che poi è un po' la
stessa
cosa...
Capitolo 65.
I giorni seguenti a Roma tornano lentamente normali. Le ore
riprendono
il loro posto. Torna a far freddo. Ognuno a stare nella
propria casa. Il mare si allontana. Così come il suo ricordo.
Rimangono
solo le foto di quello splendido viaggio. Finiscono in chissà
quale cassetto presto anche loro dimenticate. Romani è stato
felice
di vederci, così allegri e abbronzati, soprattutto grazie a lui.
Ancora
più felice nel vederci accettare quel contratto di lavoro, sempre
grazie a lui. Paolo e Fabiola sembrano andare d'accordo. Paolo ha
abbandonato l'idea di fare l'agente. Il mio agente. È tornato a
fare
il commercialista. Fa prendere tutte le decisioni a Fabiola, la
sua
donna, così i conti tornano facilmente. Perché se a lui i conti
non
tornassero sia in ufficio che fuori, potrebbe impazzire. Da quanto
sento dai racconti di Paolo, mio padre e la sua donna, della quale
non ricordo assolutamente il nome né voglio fare il minimo sforzo
per ricordarlo, vanno d'amore e d'accordo. D'amore. Anche su
questo
non voglio fare il minimo sforzo. Della vita sentimentale di mamma
invece Paolo non sa nulla. O almeno non mi dice nulla. E
preoccupato
però della sua salute. Le ha visto fare diverse ricerche in
ospedale.
Ma anche di questo Paolo non sa nulla. O anche in questo caso
non mi vuole dire nulla di più. E anche su questo non riesco a
fare
uno sforzo. Non ce la faccio. Già mi è sembrato difficile leggere
il libro che mamma mi ha regalato. Una storia simile alla nostra
ma
con un lieto fine. Un lieto fine, sì. Ma quello è un libro.
"Ciao, che stai facendo?"
"Sto preparando la borsa e me ne vado un po' in palestra..."
Tutto è tornato alla più grande normalità. Anche Gin.
"Ma dai, anch'io più tardi ci vado. Oggi mi tocca." Fa una pausa
cercando nel suo calendario delle palestre a vela. "La Gregory
Gym a via Gregorio VII ! Meno male che non è troppo lontana. Ci
vediamo più tardi?"
"Certo."
"Allora un bacio e a dopo."
Non sapevo cosa sarebbe successo, che di quel "certo" non sarei
stato poi più così certo.
In palestra saluto un po' di gente. Poi comincio ad allenarmi.
Senza spingere troppo, senza forzare con il peso. Ho paura di
stirarmi.
È troppo tempo che non mi alleno. "Ehi, bentornato."
È Guido Balestri, magro e sorridente come sempre. Con la sua
tuta bordeaux sbrindellata come sempre, con una felpa radicai-
chic
ma di marca come tutte le sue cose, anche quelle come sempre.
"Ciao. Ti alleni?"
"No. Ero passato in palestra proprio con la speranza di trovarti.
"
"Non ho una lira..." ride divertito forse perché sappiamo
benissimo
tutti e due che è l'ultima cosa della quale potrebbe avere
bisogno. "E per un po' devo evitare risse."
"E certo, a farsi vedere troppo uno si brucia. Ormai sei un divo
della rissa ! "
Capisco che deve aver seguito tutta la vicenda. Ma lui preferisce
farmelo notare. E per bene. "Ho ritagliato tutti gli articoli:
l'eroe,
il paladino, il giustiziere della tv..."
"Sì, non ci sono andati leggeri."
"Be', neanche tu, dalle foto che ho visto!"
"Non lo sapevo. Hanno pubblicato anche le foto dei tre? Questa
me la sono persa."
Ma non è importante. Ho ancora ben presente la scena reale
con tanto di originali in carne e ossa. Lascio cadere il discorso.
"Allora, a parte gli scherzi, cosa posso fare per te?"
"Sono io che posso fare qualcosa per te. Ti passo a prendere
alle nove Step, ti va?"
"Dipende."
"Ehi, ma sei diventato una di quelle fighette che credono di
avere solo loro l'esclusiva del piacere maschile? Della serie
'verrei
ma non posso'! Dai, ti porto a una bella festa, gente tranquilla,
roba
fina, non dirmi che sei finito in qualche gabbietta femminile?
Vediamo un po' di amici, roba tranquilla! "
L'idea di fare una rimpatriata mi va. È passato un sacco di tempo.
Perché no. Staccare un attimo da tutto. Un tuffo nel passato.
Penso a Pollo ma non mi fa male. Una bella nuotata è quello che
ci vuole. Pacche sulle spalle di gente che non vedo da troppo
tempo.
Qualche bel racconto del passato, strette di mano e sguardi
sinceri.
Amici di risse. Gli amici più veri.
"Perché no."
"Ok, allora dammi l'indirizzo che ti passo a prendere in
macchina."
Ci salutiamo. "Alle nove! Mi raccomando..."
Continuo ad allenarmi ancora un po'. Ci metto più foga.
Presuntuoso.
Che fai? Vuoi tornare in forma per incontrare gli amici
di un tempo? Essere all'altezza dei loro ricordi? Step, il mito! E
autoironico
decido di smettere e farmi una bella doccia.
Poco dopo a casa. Mi squilla il telefonino.
"Ciao, ma non sei passato."
Gin è un po' delusa. "No... è che pensavo fossi ancora in
palestra.
"Macché! Ho dovuto aiutare mia madre a portare su la spesa.
Poi si è accorta che aveva dimenticato di comprare il latte e
allora
sono andata io. Poi sono tornata e si è accorta che si era
dimenticata
il pane e sono andata di nuovo io. Ed era pure rotto l'ascensore.
"
"Be', non sarai andata in palestra ma ti sei tenuta lo stesso in
forma."
"Sì certo. Ho dei glutei fantastici! Vuoi venirli a vedere adesso?
Devo giusto andare a ritirare qualche panno in terrazzo che
stasera
mi sa che piove."
"No, non posso. Mi passa a prendere un mio amico fra poco."
"Ah..." Gin sembra rimanerci male.
"Un mio amico, ho detto, Guido Balestri, quello alto magro...
C'era quella sera che siamo andati dal Colonnello." Cerco di
rassicurarla.
"Boh, non me lo ricordo. Ok come vuoi. Oh, io su in terrazzo
ci vado lo stesso. Poi chi c'è c'è..."
"Dai, non fare la sciocca. Ancora niente?"
"Ancora niente. Per adesso sei ancora un ipotetico papà..."
"Be', allora ne approfitto e ancora per stasera esco. Dai, magari
ci sentiamo dopo."
"No magari. Ci sentiamo dopo! E chiamami senza chi!"
"Ok." Rido. "Come vuole il terzo dan." Non faccio in tempo
a chiudere con Gin che suona il citofono. È Guido. "Scendo."
Capitolo 66.
Raffaella gira per casa. Niente da fare. Non le tornano i conti.
Peggio del salumiere sotto casa che ogni volta ti segna qualcosa
in
più sul conto della spesa, o il benzinaio giù nella piazza che ti
lava
la macchina e poi ti fa il pieno. Persone di fiducia che poi si
scusano
con la solita frase: "Guardi che non è tanto, è l'euro, signo',
che
c'ha fatto raddoppia' tutto". Sembra che sia stato coniato apposta
per le loro truffe. Ma qui si tratta di altro. Di Claudio. Claudio
è
cambiato. Anche come ha fatto l'amore l'altro giorno, che non ha
voluto togliersi la camicia. È strano. Oltre la musica, ha
cambiato
perfino il tipo di lettura. Ha sempre letto solo "Diabolik" e al
massimo
"Panorama". E guarda caso questo lo prendeva sempre quando
sulla prima pagina c'era una bella ragazza. Naturalmente mezza
nuda. E fino a qui è tutto normale. Sosteneva sempre che
all'interno
c'era un importante articolo sul mondo della finanza. Ma ora?
Come si spiega quel libro? Raffaella si avvicina al comodino di
Claudio
e lo prende in mano. Poesie di Guido Gozzano. Lo sfoglia. Niente.
Non c'è niente. Poi improvvisamente qualcosa cade ed è in mezzo
alle pagine. Una cartolina. La gira subito veloce per vedere cosa
c'è scritto. Niente. Solo il timbro e la firma di chi l'ha
spedita. Una
"F". Solo una semplice "F". E un timbro dal Brasile. Chi può
avergliela
mandata? Qualcuno che è stato in Brasile. Guarda la data sul
timbro. È stata spedita sei mesi fa. Chi può essere andato tra gli
amici
che conosciamo in Brasile sei mesi fa? Filippo, Ferruccio, Franco.
No. Non mi sembra che ci sia andato nessuno. E soprattutto che
nessuna moglie ce l'avrebbe mai lasciato andare. A meno che non
sia uno di loro che è andato di nascosto... e manda una cartolina
a
Claudio con una "F"? No. I conti non tornano. Gira la cartolina e
la guarda. C'è una bella ragazza brasiliana. La classica foto di
una
che passeggia sulla spiaggia con un culo in bella mostra e un
costume
tipo filo interdentale. La cosa strana è che si vede perfettamente
il suo viso e sorride. Niente. La rimette nel libro e comincia a
sfogliarlo.
A un certo punto trova una frase sottolineata in rosso. Ma
com'è possibile? Claudio odia il rosso. Non lo avrebbe mai usato.
Gli ricorda i tanti errori che faceva a scuola in italiano,
proprio perché
non leggeva mai niente. E il verso sottolineato, poi: "Non amo
che le rose che non colsi". Con aggiunto un punto esclamativo.
Punto
esclamativo? Qualcuno che oltretutto ha rovinato la sintassi del
poeta, l'ha deturpata, violentata. Uno che non ha rispetto di
nulla
e di niente. Neanche di me. Soprattutto di me. Raffaella va
velocemente
alle ultime pagine per vedere se c'è il prezzo, se è stato
tagliato
o coperto. No, il prezzo c'è. Guarda meglio. Lo porta vicino
al viso. E improvvisamente se ne accorge. Ci sono tracce di colla.
Il
prezzo era coperto. L'adesivo è stato tolto. È stato Claudio! Non
voleva far vedere il nome del negozio dove questo libro è stato
preso.
Gliel'hanno regalato! Ed è stata quella "F". Quella stronza di
"F". Raffaella mette tutto a posto. Deve escogitare un piano.
Purtroppo
l'unica persona che conosce alla Telecom è il dott. Franchi,
un amico di Claudio. A lei non direbbe mai niente, né le
telefonate
o i messaggi che Claudio manda. Figurati. Quella stupida
solidarietà
maschile. Non parlerebbe mai neanche sotto tortura. Raffaella
il suo telefono l'ha già controllato, più volte. Non un messaggio,
né inviato né ricevuto. Anche le telefonate effettuate, quelle
ricevute
o perse, sono poche. Troppo poche. È un telefonino pulito,
troppo pulito. Quindi è sporco. Ma come può fare? Non è certo come
quel deficiente taccagno di Mellini che per risparmiare aveva
fatto un abbonamento " You&Me", quello dove scegli il numero che
chiami più spesso, e sul contratto aveva fatto segnare
direttamente
il numero dell'amante. Quello è stato un gioco fin troppo facile
da
scoprire. Che poveraccio. Almeno in quello poteva avere un po' di
stile. Dovrebbe essere felice ora, che risparmia su tutto. È stato
lasciato
anche dall'amante. Ma forse l'ha fatto apposta per farsi scoprire.
Quando un marito lascia un messaggio nel telefonino vuol dire
che comunque non gliene frega più niente della moglie. E non sa
come dirglielo. Così si risparmia pure la faticaccia. Che
poveracci
che sono gli uomini. Cioè, per assurdo dovrei essere felice che
leva
il copriprezzo del libro e che mi nasconde tutto... E così, mentre
valuta
disperata questa sua ultima considerazione, improvvisamente
le viene un'idea. Un lampo, un attimo, un'illuminazione. Socchiude
gli occhi e comincia a studiarla in tutti i suoi particolari. E
alla
fine sorride, perché capisce che è perfetta.
Poco più tardi. Claudio rientra a casa. Raffaella gli va incontro
salutandolo.
"Ciao, come stai? È andato bene il lavoro?"
"Benissimo."
"Vieni che t'aiuto."
Claudio si fa sfilare la giacca, ma rimane perplesso. Cos'è questa
improvvisa gentilezza? C'è qualcosa che non va. Avrà scoperto
qualcosa? Un altro problema delle figlie? Tanto vale affrontarla
subito.
Claudio la segue in camera da letto.
"Tutto bene tesoro? C'è qualche problema?"
"No, tutto a posto, perché? Vuoi qualcosa da bere?"
Mi chiede anche se voglio qualcosa da bere. Allora un problema
c'è. E grosso.
"Ma Daniela come sta?"
"Benissimo, ha fatto gli esami. Dovrebbero consegnarglieli proprio
oggi, ma sembra tutto a posto. Ma perché mi continui a fare
tutte queste domande?"
"Sai Raffaella, mi sembri così gentile."
"Ma io sono sempre gentile."
"Ma non così gentile! "
È vero, pensa Raffaella. Cavoli, mi sto tradendo.
"Hai ragione, non ti si può nascondere niente! Mi ero
completamente
dimenticata che mi aveva invitato Gabriella per giocare
a burraco da lei. E invece avevamo detto che forse andavamo al
cinema coi Ferrini. "
"Ah." Claudio sospira, rilassandosi. "Ma figurati, cara, voglio
essere sincero. Me n'ero dimenticato anch'io. Non solo. M'ha
chiamato
Farini che stasera mi dà la rivincita a biliardo, ma ti rendi
conto!
Ormai è sicuro, viene al nostro studio! "
"Bene, sono felice! Allora fatti una bella doccia, così ti
rilassi.
Se perdi di nuovo pensa che lo fai apposta per fargli piacere... e
non è carino ! "
"Hai ragione, stasera lo batto, sono sicuro." Claudio si spoglia
del tutto e s'infila nella doccia. Si rilassa sotto il getto
dell'acqua.
Che bello, pensa, mai niente m'è sembrato così facile. E lei si
sente
perfino in colpa. Posso andare all'Hotel Marsala senza problemi
e godermela fino a tarda notte. Come sono fortunato... E non
sa quanto si sbaglia. Raffaella ha appena messo a punto il suo
piano.
Ora non ha più dubbi. Non è perfetto: è diabolico. Claudio finisce
di fare la doccia. Si asciuga velocemente eccitato all'idea
d'uscire
e la saluta con affetto.
"Ma che fai tu? Non esci?"
"No, noi giochiamo verso le dieci. Così aspetto anche Daniela
che torna, mi fa piacere."
"Hai ragione, salutamela e divertiti."
"Anche tu."
Raffaella lo saluta con un sorriso. Claudio esce di corsa. Ma se
avesse avuto gli occhi anche dietro la nuca avrebbe visto come
quel
sorriso, appena si è voltato, si è tramutato in una smorfia
terrificante.
Quello di una donna che sa il fatto suo. E che andrà fino in
fondo. Raffaella prende il telefono di casa e chiama tutt'e due le
figlie.
Poi tutte le sue amiche più intime, quelle che potrebbero in
qualche modo cercarla sul suo telefonino. A tutte dice la stessa
cosa.
Per tutte inventa la stessa bugia.
Capitolo 67.
Poco dopo sono in macchina con Balestri. Gli ho portato una
birra. Guida allegro e sportivo, non solo per la birra forse.
"Ecco.
Siamo arrivati." Via di Grottarossa. Scendiamo. Alcune macchine
sono posteggiate di fronte alla villa ma non ne riconosco nessuna.
Suona a un citofono. Corsi. Anche il cognome non lo conosco. Guido
mi guarda curioso, sembra divertito.
"Oh, Guido, non è che hai sbagliato indirizzo? Non vedo le
moto di nessuno, Corsi poi? Ma chi è?"
"È questa la villa, fidati. Stai tranquillo. Almeno una persona
sono sicuro che la conosci." Aprono il cancello. Entriamo. La
villa
è molto bella, vetrate coperte da tende dai diversi colori si
affacciano
su tutto il giardino. Una piscina semivuota riposa poco
più in là aspettando i primi di maggio e lì vicino un campo da
tennis
con tanto di terra rossa e rete tirata sembra farle da guardia. Un
cameriere sorridente ci aspetta sulla porta, si fa di lato e ci fa
entrare
richiudendola alle nostre spalle.
"Grazie."
Guido lo saluta. Sembrano conoscersi. "C'è Carola?"
"Certo è di là, venga." Ci accompagna per un corridoio. Quadri
illuminati si alternano perfetti all'interno di un'impeccabile
libreria,
tra libri antichi, vasi cinesi morbidamente colorati e oggetti
di cristallo. Tutti delicatamente incastonati in quel legno
chiaro.
Arriviamo in un grande salotto. Il cameriere si fa da parte. Una
ragazza
ci corre incontro.
"Ciao."
Abbraccia Guido salutandolo affettuosamente ma non sulle
labbra. Deve essere Carola.
"Ce l'hai fatta?" Guido si gira verso di me e sorride come a dire:
"Certo Carola, non vedi che è qui?". Carola mi guarda. Rimane
per un attimo sorpresa. Mi osserva con attenzione come se mi
stesse valutando. Socchiude gli occhi, li stringe come se non
credesse
che io... sono io.
"Ma lui... è lui?"
Guido le sorride. "Sì, è lui."
"Sì, penso proprio di essere io... Di solito mi chiamano Stefano,
Step per gli amici... Ma 'lui' non mi avevano mai chiamato...
Lui? Mi spiegate cosa sta succedendo?"
E improvvisamente da quella porta semichiusa, da quel salotto
fatto di persone sconosciute, di voci lontane e confuse, di libri
antichi, di quadri dipinti dal tempo, sento una risata. La sua
risata.
Di lei che mi è mancata, di lei che ho cercato, di lei sogno di
mille
notti. Babi. Babi. Babi. Babi è seduta su un divano in mezzo al
salotto e tiene banco e racconta qualcosa e ride e tutti ridono.
Mentre
io, da solo, rimango in silenzio. Ecco il momento che ho tanto
atteso. Quante volte in America, frugando nei ricordi, spostando
pezzi dolorosi, macigni di delusioni, sono andato giù, in fondo,
fino
a trovare quel sorriso. E ora eccolo lì, davanti a me. E lo divido
con altri. Tutto ciò che era mio, solo mio. E improvvisamente mi
ritrovo a correre attraverso un labirinto fatto di momenti: il
nostro
primo incontro, il primo bacio, la prima volta... L'esplosione
impazzita
del mio amore per te. E in un attimo ricordo tutto quello
che non ti ho potuto dire, tutto quello che avrei tanto voluto che
tu sapessi, la bellezza del mio amore. Quella avrei voluto
mostrarti.
Io, semplice cortigiano ammesso alla tua corte, inginocchiato
davanti
al tuo più semplice sorriso, di fronte alla grandezza del tuo
regno, avrei voluto mostrarti il mio. Su un piatto d'argento,
allargando
le braccia in un inchino infinito, facendoti vedere il mio dono,
quello che provavo per te: un amore senza confini. Ecco, mia
signora, vedi, tutto questo è tuo. Solo tuo. Oltre il mare e in
fondo,
laggiù, oltre l'orizzonte. E ancora Babi, oltre il cielo e oltre
le
stelle, e ancora, oltre la luna e oltre quel che è nascosto. Ecco,
questo
è il mio amore per te. E altro ancora. Perché questo è solo ciò
che ci è dato di sapere. Io ti amo oltre tutto quello che non ci è
dato
di vedere, oltre quello che non ci è dato di conoscere. Ecco,
questo
e chissà quant'altro ancora avrei voluto dirti. Ma non ho potuto.
Non ho potuto dirti nulla che tu avessi voglia di ascoltare. E
ora? Cosa potrei dire ora a quella ragazza seduta sul divano? A
chi
posso mostrare le meraviglie di quel grande impero che le
appartenevano?
Ti guardo e non ci sei più. Dove sei finita? Dov'è quel
sorriso che mi rendeva naufrago di certezze, ma così sicuro di
felicità?
Vorrei scappare ma non c'è tempo, non c'è più tempo. Eccoti.
Babi si gira lentamente verso di me.
"Step! Non ci credo... Che sorpresa..." Si alza e mi corre
incontro.
Mi abbraccia, mi stringe forte e mi bacia dolcemente. Sulla
guancia. Poi si stacca, non andando troppo lontano però. Mi
guarda negli occhi e sorride.
"Come sono felice di vederti... Ma che ci fai qui?"
Mi viene in mente Carramba che sorpresa! Cosa avrebbe gridato
la Raffa nazionale? Ah sì. "Babi è qui!" Ma non mi dà tempo.
Comincia a parlare. Ride e parla, parla e ride. Sembra sapere
tutto
di me. Sa dove sono stato, cosa ho fatto in America, gli studi, il
mio lavoro.
"E poi sei tornato in Italia i primi di settembre. Il 3 credo per
essere precisi. E non mi hai fatto neanche gli auguri per il
compleanno...
Non ti sei ricordato, eh? Be', ma ti perdono..."
E continua così, ridendo. Il 6 settembre era il suo compleanno
e io, quel giorno, me lo sono perfettamente ricordato, come
sempre.
Come ogni anno, anche in America, come ogni altra cosa che
aveva avuto a che fare con lei, le più belle, le più dolorose. E
lei?
Lei mi perdona. Di che? Di non averla saputa dimenticare?
"Era il 6 settembre! Vedi che non ti ricordi..."
"Ah già, è vero." Le sorrido e la lascio andare avanti. Parla lei
per tutti e due, decide lei, va avanti lei, come ha sempre fatto.
"E poi hai fatto una trasmissione televisiva e poi ho visto quei
giornali. Con quelle foto. Per salvare quella ragazza. Come si
chiama?
Be', ora non mi ricordo. Comunque ti ho cercato ma..."
Per fortuna va avanti. Senza chiedermi il nome. Ginevra. Gin
per gli amici. Dovrei chiamarla. Devo chiamarla. Le ho detto che
ci saremmo sentiti dopo. Magari. Sì, ha detto magari. Mi posso
sempre
attaccare a quel "magari". Spengo il telefonino. Mi giro. Mi viene
d'istinto. Vedo Guido che mi sorride. Se ne accorge e mi fa
l'occhiolino.
Lui perfido Lucignolo, io stupido Pinocchio nelle mani
di una Fata Turchina. Buona o cattiva? E lo vedo andar via.
Chiudersi
la porta alle spalle lasciandomi solo. Solo con lei, con Babi,
solo con il destino del mio passato. Babi che mi prende la mano.
"Vieni che ti presento i miei amici." E mi trascina così, più
ragazza,
più donna, più certa, più matura. Più... più non so che.
"Ecco, lui è Giovanni Franceschini, il proprietario del Caminetto
Blu... Lui invece è Giorgio Maggi, dai, lo dovresti conoscere,
ha quella grande società immobiliare che si occupa di
compravendite.
Dai, che ora sta andando fortissimo: Casa Dolce Casa si
chiama."
"No, non la conosco, mi spiace." E sorrido e saluto come se
m'importasse qualcosa di tutto questo. E altri nomi, e altre
storie.
Titoli commerciali di giovani pseudonobili di questa società che
non ha più nessun titolo... Almeno per me.
"E lei invece è Smeralda, la mia amica del cuore! "
Babi mi si avvicina complice, gatta, fa le fusa e mi suggerisce
calda all'orecchio: "Diciamo che ha preso il posto di Pallina".
E ride. E io sento solo il suo Caronne. E la guardo. Almeno
quello è rimasto. E vorrei dirle: "Chi ha preso invece il posto
mio?".
Il mio posto. Già. Perché pensavi di averne uno? Mi potrebbe
rispondere.
Allora sto zitto. Sto in silenzio. La guardo mentre continua
questo strano ballo di presentazioni. Lei, abile cortigiana, dama
impeccabile di quella sua alta società, della sua corte dorata. E
danza, e ride e manda indietro la testa e cascate di capelli e
profumo
e ancora la sua risata. E ancora... Ancora tu. Ma non dovevamo
vederci più... E sento tutto il mio dolore. Quello che non so,
quello che non ho vissuto, quello che ormai mi manca. Per sempre.
Ma quante braccia ti hanno stretta per diventar quel che sei.
Come hai ragione. Come è vero. Che importa. Tanto lei non me lo
dirà, purtroppo. Così resto in silenzio. E la guardo. Ma non la
trovo.
Allora vado a cercare quel film in bianco e nero durato due anni.
Una vita. Quelle notti passate sul divano. Lontano. Senza riuscire
a farmene una ragione. Graffiandomi le guance, chiedendo
aiuto alle stelle. Fuori, sul balcone, fumando una sigaretta.
Seguendo
poi quel fumo verso il cielo, su, più su, oltre... Lì, dove
proprio noi
eravamo stati. Quante volte ho nuotato in quel mare notturno,
perso
in quel cielo blu, portato dai fumi dell'alcol, dalla speranza di
incontrarla di nuovo. Su e giù, senza sosta. Lungo Hydra, Perseo,
Andromeda... E giù fino a Cassiopea. Prima stella a destra e poi
dritto, fino al mattino. E ancora oltre. E a tutte chiedevo:
"L'avete
vista? Vi prego... Ho perso la mia stella. La mia isola che non
c'è.
Dove sarà ora? Cosa starà facendo? Con chi?". E intorno a me il
silenzio di quelle stelle imbarazzate. Il rumore fastidioso delle
mie
lacrime sfinite. E io stupido che cercavo e speravo di trovare una
risposta. Datemi un perché, un semplice perché, un qualsiasi
perché.
Ma che sciocco. Si sa. Quando finisce un amore si può trovare
tutto, tranne che un perché.
Capitolo 68.
Claudio guida tranquillo. Ogni tanto controlla lo specchietto per
vedere se Raffaella lo sta seguendo. Niente. Nessuna macchina
dietro
di lui, nessun sospetto. Solo una volante della polizia, che a un
certo punto accende i lampeggianti e sgomma. Claudio la vede
sfrecciare
veloce girando a destra, giù per la Cassia. Non l'hanno degnato
di uno sguardo. E ti credo, pensa tra sé, io sono un cittadino
modello,
non ho mai fatto niente di male. E del tutto convinto della sua
completa innocenza scala e prende corso Francia, diretto a tutta
velocità
a via Marsala. Poco dopo è a Porta Pia. Si ferma vicino
all'Europa,
posteggia e tira fuori il telefonino dalla tasca. Lo apre,
controlla.
Niente, nessun messaggio. Con Francesca eravamo rimasti che
ci vedevamo all'albergo alle nove e mezzo. Se ci fossero stati
problemi
o avesse finito prima, mi avrebbe mandato un messaggio. Meglio
così. Meno messaggi ci si manda, meno probabilità si hanno di
essere scoperti. Dopo che Raffaella ha aperto l'estratto conto e
mi
ha fatto quell'interrogatorio di terzo grado sulla stecca da
biliardo,
non posso più telefonare o mandare messaggi dal mio telefonino. È
troppo rischioso. Raffaella sarebbe capace perfino di chiamare
Franchi
e di fare un terzo grado pure a lui. Quello non è abituato a una
belva come lei, solidarietà maschile o meno, alla fine
crollerebbe. Ne
sono sicuro. È meglio se chiamo sempre dall'ufficio e se i
messaggi
li ricevo e basta e poi li cancello. Claudio chiude il telefono e
se lo rimette
nel taschino dove lo tiene sempre. Poi, tranquillo e rilassato,
decide di concedersi una sigaretta. Quando ci vuole ci vuole. Oggi
poi non c'è nessun tipo di ansia. Così Claudio si accende una
bella
Marlboro. Ma se avesse guardato bene il suo telefonino, si sarebbe
accorto che è leggermente più nuovo del solito. È in quel caso non
ci sarebbe stata ansia. Ma vero e proprio terrore.
Beep. Beep. Il suono dell'arrivo di un messaggio. Il telefonino
di Claudio lampeggia sul tavolo. Lo sapeva. Era solo questione di
tempo. Raffaella allora sorride e lo prende in mano. Aspetta un
attimo.
Lo guarda indecisa. Ecco, questo è il momento che potrebbe
cambiare totalmente la mia vita. E pensare che quando Claudio ha
voluto prendere quei due cellulari identici da 3, perché erano in
promozione,
io l'ho tanto criticato. Povero Claudio, pensa, oggi aver
potuto scambiare il mio telefonino con quello che teneva nella
giacca
non ha prezzo. Poi il suo viso cambia improvvisamente,
s'indurisce.
La rabbia lo trasforma. Allora decide di aprirlo. Di scoprire
quella carta, quel messaggio che potrebbe mettere definitivamente
fine alla più importante partita della sua vita. Lo apre e poi
legge.
"Ciao tesoro! Ho finito adesso. Allora ci vediamo lì alle nove
e mezzo, come deciso."
Raffaella strabuzza gli occhi, diventano verdi di bile, gli escono
dalle orbite, dalla rabbia digrigna i denti, affanna nel respiro.
Vorrebbe lanciare il telefonino di Claudio contro il muro, ma sa
che perderebbe ogni traccia di quella "F" di merda, di quella
donna
che si permette di chiamarlo "tesoro". E improvvisamente capisce
l'importanza di quel telefonino, unico indizio, unica prova
per un processo del domani. Una mappa perfetta per poterla portare
ora al "suo" tesoro. Raffaella si ricompone, respira forte, si
rilassa.
Deve ritrovare la lucidità. Deve agire d'astuzia. Prende il
telefonino
di Claudio e scrive lentamente la risposta.
"Devo venire in taxi. Mi hanno preso la macchina a casa. Cosa
dico al tassista?" poi invia. E aspetta. Spera di non aver
commesso
nessun errore, nessun modo di scrivere diverso, che non ci
fosse nessun segnale tra loro, tipo "passo e chiudo" o qualche
altra
stronzata del genere. Claudio è stato attento, ma non è poi così
geniale. Non poteva mai sospettare che io sostituissi il suo
telefonino
col mio. E proprio in quel momento il messaggio di ritorno
arriva.
"Tesoro che fai mi scrivi? Avevi detto che era pericoloso. Non
so la strada esatta, ma basta che gli dici Hotel Marsala e ti ci
porta
di sicuro. A tra poco. Voglio prenderti come l'ultima volta..."
E alla lettura di quest'ultime parole Raffaella si sente quasi
morire.
Le si stringe lo stomaco, le si irrigidisce la mascella, le prende
un attacco di fegato. Poi va al telefono di casa e compone un
numero.
3570. Dopo alcuni secondi la voce della centralinista del
radiotaxi
le risponde.
"Per favore, subito un taxi a piazza Jacini. È urgente. Aspetto
in linea. "
Dopo qualche secondo arriva una voce registrata.
"Venezia 31 in due minuti."
Raffaella attacca per confermare. Poi ci pensa su e le viene quasi
una risata isterica. Venezia 31. A Venezia è stato il loro primo
viaggio. Ed è su un taxi chiamato così che finirà tutto. Poi corre
in
bagno e vomita anche quello che non ha mangiato.
Poco più tardi. Fermo al piazzale di Porta Pia, Claudio guarda
l'ora. Sono le nove. Ho ancora mezz'ora. Ha sete. Decide di andare
a prendere una birra a un bar poco distante. Accende la macchina
e fa un'inversione a U. Anche se ha commesso un'infrazione,
è stato prudente. Aveva controllato che non venisse nessuno. C'era
solo un taxi che arrivava da in fondo la strada. Se fosse stato
attento
avrebbe letto la sua sigla: Venezia 31. Certo, anche quella non
gli avrebbe detto niente. Ma se fosse stato ancora più attento, se
avesse guardato anche dentro al taxi, allora avrebbe capito che
per
lui non c'era più scampo.
Raffaella scende dal taxi, paga ed entra nell'Hotel Marsala. Si
guarda intorno. Un ambiente orribile. Una pianta finta in un
angolo.
A terra un tappeto rosso consumato. Vicino al muro c'è una
vecchia panchina dal legno mangiato. Lì davanti, un tavolino col
vetro rotto e alcune riviste vecchie distrattamente poggiate
sopra.
Un portiere si affaccia dal bancone.
"Buonasera, posso aiutarla? Le serve qualcosa?"
"Il signor Gervasi mi ha consigliato questo albergo. È in camera?"
Il portiere la guarda. Ma è un attimo. Ne ha viste abbastanza
per sapere che a volte è meglio farsi gli affari propri. Poi si
gira.
Controlla nella cassetta delle chiavi. La diciotto è ancora lì.
"No, non è ancora arrivato." Sorride alla signora in maniera
cortese.
"Bene, grazie, allora, se non le dispiace, lo aspetto qui."
Raffaella si siede sulla panchina, stando attenta a non farlo con
troppo slancio. Ci mancherebbe solo questo, cadere e rompersi una
gamba ed essere portata all'ospedale. Ora che sa la verità, che è
arrivata
al capolinea, in fondo alla sua corsa. Questo incontro finale
non se lo vuole perdere per niente al mondo. Raffaella apre un
giornale
e lo sfoglia velocemente. Ma è come se non vedesse le foto, le
scritte, le pubblicità. Solo pagine colorate. Di rosso sangue. E
proprio
in quel momento arriva Francesca. Apre la porta a vetri dell'hotel
ed entra con la sua solita allegria, salutando il portiere.
"Ciao, Pino! Claudio è arrivato?"
Il portiere guarda lei. Poi Raffaella. Risponde quasi balbettando.
"No... ancora no."
"Allora dammi le chiavi, che lo aspetto su."
Il portiere le dà le chiavi numero diciotto e poi decide di andare
nell'altra stanza. In alcuni casi è meglio non aver visto niente.
Raffaella sbatte il giornale sul tavolino e si alza. Va verso di
lei,
si ferma a un passo e la guarda negli occhi. Francesca rimane
senza
parole. Spaventata, fa un passo indietro. Raffaella
improvvisamente
la riconosce. Non ci posso credere. Che stupida che sono
stata. Quella non era una cartolina. Era una foto plastificata. È
lei
quella ragazza sulla spiaggia. Lei è "F".
"Ma che succede?"
Raffaella fa quasi un sorriso di sfida.
"Niente, un controllo. Come ti chiami?"
"Francesca, perché?"
In un attimo quella "F" prende vita. Francesca la stronza.
"Stai aspettando Claudio, vero?"
Francesca non riesce a capire. O forse non vuole capire. Comunque
Raffaella non le dà il tempo. Prende il telefonino di Claudio
e compone il numero, il proprio numero.
"Aspetta, che ora te lo passo."
Claudio ha appena preso una birra, ne sta bevendo un sorso in
macchina, quando quasi si strozza sentendo suonare quel telefonino
dalla tasca. Vibra e suona con uno squillo che però non è il suo.
Lo prende. Lo guarda sorpreso, non capendo. Poi lo apre. E in quel
momento vede quello che non si sarebbe mai aspettato. Il suo nome,
"Claudio", che lampeggia enorme sul display. Ma com'è possibile
che mi sto chiamando? Non capisce più niente. Quello è il
suo ultimo, stupido pensiero, prima di poter realizzare, di
capire,
di cadere nel baratro del dramma. Continua a guardare il suo nome
come ipnotizzato da quello squillo, non capendo che quel suono
è la sua chiamata per un'andata senza ritorno nel mondo degli
inferi. Poi all'improvviso non ce la fa più e decide di
rispondere.
"Pronto?" quasi timoroso, preoccupato di sentire chissà cosa
dall'altra parte. E infatti c'è proprio lei, l'ultima persona che
avrebbe
voluto sentire. Sua moglie.
"Ciao Claudio, aspetta che ti passo una persona."
Claudio resta senza parole, non fa in tempo a dire nulla, mentre
Raffaella poggia il telefonino sull'orecchio di Francesca. Claudio
non può immaginare, non vuole immaginare quale sarà ora la
seconda voce che sentirà... Chi è la persona vicino a sua moglie?
Chi può essere? Allora, completamente disorientato, decide di
ritentare
lo stesso.
"Pronto...?"
"Claudio sei tu? Sono Francesca... c'è qui una donna che mi ha
chiesto..." ma non fa in tempo a finire. Raffaella le leva il
telefonino
dall'orecchio e riparla con Claudio.
"Ti aspetto a casa."
Proprio in quel momento, Claudio passa in macchina davanti
all'Hotel Marsala col telefonino ancora aperto e le vede insieme:
Raffaella e Francesca. Claudio non crede ai suoi occhi, rimane
sbigottito
e accelera, cercando in qualche modo di fuggire. Ma non sa
che da questo momento non ha più scampo.
Francesca si rivolge scocciata a Raffaella.
"Ma scusa, gli stavo parlando, perché mi hai chiuso? Tu sei
maleducata..."
Raffaella le sorride, poi le prende dalle mani le chiavi della
stanza.
Francesca la lascia fare. Il grosso quadrato di legno pesante, con
sopra il numero diciotto attaccato alle chiavi, ciondola dalle
mani
di Raffaella.
"Era questa la stanza dove tu 'prendevi' Claudio?" Francesca
non risponde. Raffaella alza un sopracciglio. "Io non sono
maleducata.
Io sono la signora Gervasi. E tu, tu non sei un cazzo! " e le
dà il quadrato di legno in piena faccia, rompendole il naso e
stampando
per sempre nei suoi ricordi quel numero diciotto.
Capitolo 69.
"Ehi, Step, ma mi stai sentendo?"
"Certo..." Mento.
"Come sono felice di vederti... ma perché non mi hai chiamato
quando sei tornato?"
"Be', non sapevo..."
"Non sapevi cosa?" Ride coprendosi la bocca. Muove i capelli
portandoli all'indietro. "Se sono sola?" Mi guarda. Ora con occhi
più intensi. Senza quel fiore in bocca. Ma non dice altro, e io
ripenso al nostro Battisti. A quando lei si faceva le trecce, alle
sue
guance rosse, alle nostre cantine buie... Al mare nero. Ma non
aspetto
risposta.
"Bevo qualcosa."
E per fortuna trovo subito un rum. Un Pampero, il migliore.
Ne prendo un bicchiere e lo butto giù. Io vorrei... Ne prendo un
altro. Non vorrei... Me lo scolo tutto di un fiato. Ma se vuoi...
Un
altro bicchiere ancora. Come può uno scoglio arginare il mare?
Non ho mai saputo rispondere a quella domanda. Torno da lei, ci
sediamo su un divano. E guardandola trovo la risposta. È
impossibile.
Il mare è infinito. Proprio come i suoi occhi. E il mio scoglio...
Be', il mio scoglio è troppo piccolo. Lei mi guarda e ride.
Ride.
"Hai bevuto, eh?"
"Sì, qualcosa."
E in un attimo siamo lì, all'ombra, come quelle due biciclette
abbandonate. E passa del tempo. Non so quanto. E lei mi racconta
tutto, tutto quello che si può raccontare, che decide di
raccontarmi.
Lei donna. Lei che era chiara e trasparente come me... E prima
che le chieda quante braccia l'hanno stretta per diventar quel
che è, la serata finisce. Proprio come la mia bottiglia. "Ciao
Carola,
ciao ragazzi."
E tutti si salutano, si scambiano baci, appuntamenti, si ricordano
un impegno futuro. E ci troviamo fuori dal portone. Soli, poco
dopo.
"Che fai?"
"Eh, niente. Sono venuto con il mio amico Guido in macchina,
ma lui se ne è andato."
"Non ti preoccupare. Ho io la mia. Ti accompagno io, dai."
E salgo su una Minicooper blu ultimo modello con tanto di stereo
e ed. "Buffo, eh?" Mi guarda mentre guida.
"Ci siamo conosciuti con un passaggio in moto dove io sono
salita dietro di te e ci ritroviamo con un passaggio in macchina
dove
stavolta sali tu."
"Sì, buffo..." Non so cosa aggiungere. Mi chiedo solo se Guido
aveva immaginato anche questo. Lucignolo impeccabile dalla
mente geniale. Rivedo il suo sorriso, l'occhiolino e la sua uscita
di
scena perfetta, da grande confezionatore di destini... Ma perché
proprio il mio.
"Tieni." Babi mi allunga la sua sciarpa.
"Grazie. Ma non ho freddo!"
Ride. "Sciocco." Ora mi guarda più seria. "Mettitela sugli occhi.
Non devi vedere. Ti ricordi, no? Ora tocca a me. E tocca a te
stare al gioco."
Senza parlare me la lego intorno alla testa così come aveva fatto
lei. Quella volta in moto dietro di me. Lei e i suoi occhi
bendati,
volare via tranquilli. Lei abbracciata a me, senza vedere,
lasciandosi
portare verso quella casa ad Ansedonia, il suo sogno, di
notte, quella notte, la sua prima volta... Ora la sento guidare
tranquilla,
alzare un po' lo stereo, lasciarmi portare così dalla musica,
da lei, da quella bottiglia di rum finita dentro di me.
"Ecco, siamo arrivati."
Mi levo la mia sciarpa-benda e nella penombra la scorgo. La
Torre.
"Ti ricordi? Quella volta che ti sei addormentato?"
Come posso dimenticare? Poi quando mi sono svegliato abbiamo
litigato e poi abbiamo fatto pace. Come facevamo pace. Come
si fa pace tra innamorati. E senza neanche accorgermene me la
trovo tra le mie braccia. Eppure non abbiamo litigato. Questa
volta
no... Mi bacia. Morbida, senza pudori, sorride nella penombra.
"Ehi, ma quanto hai bevuto?"
Un po'.
Ma non sembra importargliene poi più di tanto. E continua così,
accarezzandomi. "Mi sei mancato, sai?" Mi sento sciocco, cosa
posso dire? Come posso saperlo? E sarà vero poi? Perché mi dice
così? Perché? E io? Io non so proprio che dire. Vorrei stare
zitto.
Ma mi esce un semplice "Sì?".
"Sul serio." Sorride. Poi mi sbottona la camicia, si spinge oltre.
E continua tranquilla. Senza fretta, ma decisa, sicura, ancora più
sicura, se mi ricordo, di come l'avevo lasciata.
"Vieni esci fuori..."
Quasi mi spinge dalla macchina e ride divertita all'idea che ha
iniziato a piovere. Si apre la camicetta, si toglie il reggiseno,
scoprendosi
il seno. Si lascia accarezzare dall'acqua e poi da me che
scivolo con la lingua sui suoi capezzoli bagnati. Con le mani
sicure
mi apre la cinta, mi sbottona i pantaloni lasciandoli cadere giù,
infila la mano dentro e mi sussurra all'orecchio.
"Eccolo... Ciao... Quanto tempo..."
Spinta come non era mai stata. Non con me almeno. Poi mi bacia
sul petto mentre l'acqua dal cielo continua a cadere. E Babi
scivola
giù lasciandosi portare da quelle gocce fino a trovarlo. E io mi
lascio andare così, portato dal rum, dalla pioggia che cade dal
cielo,
da lei caduta così in basso. E mi piace. E lo fa bene. Mi piace
da morire e ne soffro quasi nell'ammetterlo. Ormai bagnato, tutto
e dappertutto, rapito dalla sua bocca che mi succhia, quasi con
rabbia,
io mi lascio portare. Tutto quel tempo passato. Quel dolore
sofferto... Quella donna perduta... Alzo la testa al cielo. Le
gocce
di pioggia si vedono all'improvviso, accarezzate da quel fascio di
luce di una luna lontana. Vorrei fare come Battisti... "Ma io gli
ho
detto no e adesso torno a te con le miserie mie, con le speranze
nate
morte che io non ho più il coraggio di dipingere di vita..." E
invece
resto. E lei continua così, senza fermarsi, più veloce, con la
sua bocca quasi avida di tutto ciò che è mio. Poi si stacca, si
alza,
mi assale, mi tira a terra e io mi lascio cadere. Mi stendo vicino
a
lei, sotto la pioggia. E mi sale sopra e si alza la gonna e sotto
non
ha già più nulla. Bagnata dappertutto mi allarga le mani ed è
sopra
di me. Comincia a cavalcarmi. L'acqua scende. Mi tengo con le mani
al terreno, mi gira la testa, ho bevuto troppo, lei da lassù
sorride
e gode e mi guarda, vogliosa, sensuale, spinta. E io tocco il
grano
bagnato, l'erba, e la stringo e, per un attimo, non vorrei essere
lì. Ma come... E quel suo sorriso tanto amato? Non era per questo
che sei tornato? E all'improvviso un lampo. Senza luce. Come un
uccello notturno, un battito d'ali, fragoroso nella sua
delicatezza.
La sua voce.
"Mi chiami dopo?"
"Sì, magari ti chiamo."
"Come magari? Mi chiami! Anzi... Chiamami senza chi!"
E allora come dei pixel, dei frame, una foto sovraesposta,
un'immagine
sfocata, una semplice polaroid... Improvvisamente si forma
lucida nella mia mente. Gin. Dolce Gin, tenera Gin, divertente
Gin, pulita Gin. Mi appare tutta, in tutta la sua bellezza. E la
luna
lontana sembra ripropormi un suo nuovo viso. Affranta,
dispiaciuta,
delusa, tradita. E in quel pallore lunare vedo tutto quello
che non avrei mai voluto vedere... Come per incanto la pioggia
si infittisce, i fumi dell'alcol si dileguano. E io,
improvvisamente lucido,
provo a sfilarmi da sotto di lei. Ma Babi mi stringe più forte,
mi tiene fermo, va su e giù, quasi con rabbia, continua la sua
corsa
con ancora più foga, no, non mi lascia scappare. Quasi trascinata
da quel mio voler fuggire, mi cavalca e gode, senza darmi respiro,
né tregua, né riposo. Ancora, ancora e ancora. Si sfila solo
all'ultimo quando ormai io vengo. E soddisfatta, appagata, ormai
sazia, si accascia su di me. Si abbandona così, lasciando lì da
qualche
parte per terra due poveri innocenti. Il mio seme e la mia colpa.
Poi mi dà un bacio leggero, che non so di cosa sappia. So solo
che mi sento ancora più in colpa. E mi sorride, sotto la pioggia,
più
spinta di sempre, più donna di allora. Diversa. Specchio deforme
di ciò che ho tanto amato.
"Sai Step, ti devo dire una cosa..."
Mentre mi rivesto sotto l'acqua, sotto la pioggia che vorrei
purificatrice,
sotto le nuvole scure che mi guardano inquisitorie, sotto
quella luna che sdegnata mi ha voltato la faccia. Lei continua.
"Spero solo che non ti arrabbi."
Continuo a vestirmi in silenzio. La guardo. Io? Arrabbiarmi io?
Ora che non ci sei più? E come potrei arrabbiarmi?
Si porta con tutt'e due le mani i capelli bagnati all'indietro.
Poi
piega la testa, cercando per un attimo di tornare bambina. Ma non
è più possibile. Non ci riesce.
"Ecco... ti volevo dire che tra qualche mese mi sposo."
Capitolo 70.
Notte fonda. Claudio ha girato per tutta Roma. Non riesce a
credere a come si è fatto fottere. Come ha fatto a non accorgersi
che non era il suo telefonino, ma quello di sua moglie. D'altronde
sono identici. Mannaggia a me e a quando ho dato retta a quella
pubblicità. Era una trappola. Ho risparmiato, sì... ma ora quanti
danni mi toccherà pagare? E per quanti anni? Non riesce a
quantificare
tutto quello che lo aspetta. Ma tanto vale affrontarlo. Ormai *
sono le due. Saranno anche tutti andati a dormire, no? Posteggia
sotto casa, fuori dal cancello, proprio per non far sentire
che rientra. Poi corre su per la salita col passo felpato, nella
notte,
apre piano il portone, lo richiude sempre senza far rumore. Poi
la porta di casa, piano piano, lentamente, piegando la maniglia
della porta interna con dolcezza, per non far rumore. Ma lo scatto
finale lo tradisce.
"Papà, sei tu? " Daniela compare dal salotto. "Ciao! Ti ho
aspettato
in piedi perché sono felicissima! Ho fatto gli esami, mi hanno
dato oggi tutte le risposte. Il bambino sta bene e soprattutto non
ho l'Aids!"
Ma Claudio non fa in tempo a esserne felice. Dal buio della cucina
;
gli si scaraventa addosso Raffaella, lo aggredisce da dietro,
montandogli quasi a cavalcioni, urlando, graffiandogli con le
unghie
le guance, accecandolo, strappandogli i capelli, mordendogli
le orecchie. Raffaella è una specie di arpia, uno strano volatile
urlante
aggrappato sulla sua schiena. Ha le gambe strette intorno alla
sua vita e non lo molla. Claudio comincia a urlare pure lui dal
dolore e corre come un pazzo per il corridoio, sotto gli occhi
esterrefatti
di Daniela che non sa assolutamente nulla e che pensava di
poter dividere coi genitori la sua felicità. Claudio, arrivato
alla fine
del corridoio, si gira di botto e si lancia con una spallata
dentro
al grande armadio, sfondandolo con tutta l'arpia sulle spalle.
Finisce
sotto cappotti, pellicce e altri abiti che cadono dalle
rastrelliere.
In mezzo a quell'odore di naftalina, alle scatole di scarpe, ai
tanti
regali di feste passate ormai andate perdute. Claudio si riesce a
liberare da Raffaella, si tira fuori dall'armadio e corre in
camera
sua. In quel momento esce Babi dalla sua stanza.
"Ma che succede? Che, ci sono i ladri?" Poi vede il padre in
faccia,
tutto insanguinato. "Ma che ti è successo? Che ti hanno fatto?"
In quel momento arriva Raffaella.
"Che gli hanno fatto? Che ci ha fatto! Erano mesi che scopava
con una brasiliana in un albergo alla stazione ! " e così dicendo
strappa
via dall'armadio, distrutto, un pezzo di anta e cerca di colpire
Claudio che si chiude in camera. Tira fuori la sua valigia. Poi
apre
l'armadio ma non crede ai suoi occhi: tutte le camicie, le
giacche,
i pantaloni, i maglioni e tutti i completi sono strappati,
tagliati, lacerati.
Una specie di grande, immenso armadio di coriandoli di
classe. Claudio allora prende l'unica cosa che gli è rimasta. Apre
la
porta ed esce dalla stanza. Babi gli corre incontro.
"Papà, ma dove vai?"
"Me ne vado. M'avete rotto i coglioni tutti. Non capite quando
una persona ha bisogno di libertà..."
Raffaella gli piomba da dietro e lo colpisce alle spalle, tra
collo
e nuca, col pezzo dell'anta dell'armadio. Ma Claudio è più veloce
e ci mette in mezzo il libro di Gozzano, Poesie. E poi dicono
che la letteratura non aiuta. Così corre via, attraversa il
corridoio e
fa per uscire di casa. Ma Babi lo raggiunge sulla porta.
"Papà, ma a me chi mi accompagnerà all'altare?"
"Mamma. Ha sempre deciso tutto lei. Che si occupi pure di
quest'ultima rottura di coglioni!"
E così dicendo si libera anche di lei. E scende di corsa le scale.
Pffiuu. Claudio tira un sospiro di sollievo. Pensavo peggio.
Scende
le scalette del portone quando improvvisamente gli piomba addosso
un'altra persona.
"Ah!" Claudio si mette in posizione di difesa. Ma è Alfredo,
l'ex di Babi, completamente ubriaco con una bottiglia in mano.
"Signor Gervasi, lei mi deve aiutare, guardi come sto! Non può
far sposare Babi con questo Lillo solo perché guadagna più di me
e come? Vendendo mutande! Ma non se ne vergogna? E tutta la
nostra amicizia? I giorni passati a tavola? Dove li mette, eh?
Dove
li mette? Lei se ne pentirà! Ha capito?"
Claudio lo guarda e sorride sfinito.
"Non sono riuscito a salvare il mio matrimonio, figurati se mi
devo preoccupare di quello degli altri."
"Ah sì? Allora ora le faccio vedere io! " Alfredo avanza. Agita
minaccioso la birra, facendola roteare e andandogli contro.
Claudio
non ha più dubbi. Gli sferra un calcio in mezzo ai coglioni.
Alfredo
si accascia a terra e si piega su se stesso, dolorante. Claudio
dà un calcio alla birra, mandandola lontana.
"Non ho avuto problemi con Step, figuriamoci se mi preoccupa
uno come te!"
E se ne va via felice, guardando le stelle, sognando la nuova vita
che lo aspetta e un po' preoccupato per tutti quei vestiti che si
dovrà ricomprare.
Capitolo 71.
"Sì, pronto?"
"Ehi, ma che fine hai fatto ieri sera? Ti ho chiamato un sacco,
ma prima non prendeva, poi dava staccato."
Gin. Mi sento morire. Perché ho risposto al telefonino?
"Eh sì... siamo andati con Guido a mangiare in un locale, ma
non mi ero accorto che lì non prendeva. Era sotto."
Non so più che dire. Mi viene da vomitare. E lei, cosa assurda,
mi salva.
"Sì, sottoterra. Ho provato un po', poi mi sono addormentata.
Oggi non ci possiamo vedere. Che pizza ! Devo accompagnare mia
madre da una zia fuori Roma. Ci sentiamo dopo? Io non lo stacco,
eh? Dai scherzo! Un bacio bello e dopo, quando sei sveglio, uno
ancora più bello!"
E chiude. Gin. Gin. Gin. Con la sua allegria, Gin con la sua
voglia
di vivere. Gin con la sua bellezza. Gin con la sua purezza. Mi
sento una merda. Sto di merda. Vuoi il rum, vuoi tutto il resto.
Mamma quanto ho bevuto. Quanto avevo bevuto può essere preso
come giustificazione? Non è sufficiente. Ero capace di intendere
e di volere. Di dire di no fin dall'inizio, di non andare con lei,
di
non mettermi la sciarpa, di non baciarla. Colpevole! Senza ombra
di dubbio. Ma un'ombra ce l'ho. E se avessi sognato? Scendo giù
dal letto. Quei vestiti poggiati sulla sedia ancora bagnati di
pioggia,
quelle scarpe ancora sporche di fango non lasciano più dubbi.
Altro che sogno. È un incubo. Colpevole. Colpevole oltre ogni
ragionevole
dubbio. Cerco nella testa una frase, parole a cui aggrapparmi.
Perché attorno a me non trovo nulla? Mi viene in mente
qualcosa che mi disse una volta il prof di Filosofia: "Il debole
dubita
prima della decisione; il forte dopo". Mi pare fosse di Kraus.
Quindi secondo lui io sarei forte. Eppure mi sento così stupido e
debole. E così stupido artefice di questa mia condanna mi trascino
in cucina. Un po' di caffè mi aiuterà. Passerà un giorno e poi un
altro e poi un altro ancora. E poi tutto questo sarà lontano, sarà
del
passato. Mi verso del caffè già pronto. È ancora caldo. Deve
averlo
lasciato Paolo prima di uscire. Mi siedo al tavolo. Ne bevo un
po', mangio un biscotto. Poi vedo un biglietto. La scrittura la
riconosco.
È di Paolo. Perfetta e ordinata come sempre. Questa volta
però mi sembra solo un po' traballante. Forse era stanco e lo ha
scritto di corsa. Lo leggo. "Sono andato con papà all'ospedale
Umberto
I. Mamma è stata ricoverata lì. Vieni presto per favore." Ora
capisco la scrittura incerta. Si tratta di mamma. Lascio il caffè
e mi
vado a fare veloce una doccia. Sì, ora mi ricordo. Paolo me ne
aveva
parlato, ma non mi sembrava particolarmente preoccupato. Mi
asciugo, mi vesto e dopo pochi minuti sono già sulla moto. Un po'
di vento in faccia mi fa riprendere subito. Va tutto bene. Va
tutto
bene, Step. È quel "vieni presto per favore" che mi fa stare male.
Capitolo 72.
"Mi scusi, sto cercando la signora Mancini, dovrebbe essere
ricoverata
qui da voi."
Un infermiere svogliato dall'aria annoiata sottolineata da una
sigaretta che penetra dalle sue labbra poggia un "Corriere dello
Sport" aperto su chissà quale acquisto e butta un occhio al
computer
che ha davanti.
"Mancini hai detto?"
"Sì."
Poi mi viene in mente che potrebbe aver usato il cognome da
giovane. Non mi viene da non sposata. Qual era? Ah sì.
"Potrebbe essere anche Scauri."
"Scauri? Sì, eccola qui. Scauri. Secondo piano."
"Grazie."
Faccio per cercare nel reparto. Ma appena supero la sua
postazione,
l'infermiere annoiato sembra essersi svegliato di botto e
mi si para contro. "No, non puoi andare. Le visite sono alle
quindici."
Guarda l'orologio alle mie spalle. "Tra un'ora circa, devi stare
fuori."
"Sì, lo so, ma mia madre..."
"Lo so. Non me ne frega niente di tua madre. Alle quindici vale
per tutti. "
E in un attimo rivedo il biglietto di Paolo. "Vieni presto per
favore."
E poi non ci vedo più. Lo afferro alla gola con la mano destra
e lo spingo con tutto il peso fino a trovare il muro più vicino e
lì lo
spalmo. Mi poggio con la mano aperta sulla sua gola con tutto il
mio peso.
"Devo vedere mia madre. Ora. Subito. Non voglio creare incidenti.
Non mi fermare. Per favore..."
Uso la stessa parola usata da Paolo sperando che possa ottenere
qualche risultato. L'infermiere vuole dire qualcosa. Allento la
presa.
L'infermiere riprende fiato e bofonchia "Secondo piano". Poi
tossisce.
"Letto centoquattordici." Tossisce di nuovo. "Vai pure."
Grazie!
Mi allontano così, velocemente, prima che ci ripensi, prima che
dica o faccia qualcosa di giusto che però, in questo momento, mi
sembrerebbe profondamente sbagliato. Come fermarmi di nuovo.
Troppo profondamente sbagliato. Centoventi, centodiciannove.
Destra e sinistra. Avanzo così tra alcuni letti, tra alcune
persone distese,
tra alcune vite abbandonate sulla soglia di un più o meno felice
baratro. Un vecchio sdentato mi accenna un sorriso. Abbozzo
una risposta ma non mi viene granché. Centosedici. Centoquindici.
Centoquattordici. Eccolo. Quasi ho paura ad avvicinarmi. Mia
madre. La vedo lì, distesa tra le lenzuola, pallida, piccola come
non
mi era mai sembrata. Mia madre. Sembra avere avvertito qualcosa,
un leggero rumore che però non ho fatto. Forse solo un battito
accelerato, quello del mio cuore nel trovarla così. Si gira verso
di
me e sorride. Si aggiusta alzandosi sui gomiti, spostando indietro
la schiena. Ma un dolore improvviso le dipinge il viso facendole
passare quell'idea dalla testa. Si affloscia così, ricadendo sul
cuscino,
guardandomi imbarazzata per quel tentativo fallito. Le corro
subito vicino. La prendo delicatamente da sotto la schiena e la
tiro
piano verso il capezzale. L'aiuto stando bene attento a non urtare
tutti quei fili che penzolano giù con chissà quale medicina,
perdendosi
nelle sue braccia. Il suo viso è attraversato da una smorfia,
dipinto del dolore. Ma è solo un attimo. È passato. Mi sorride
mentre
prendo una sedia libera da un letto lì vicino e mi metto accanto
a lei, al suo capezzale per non farla parlare ad alta voce, per
non
farla stancare, non più.
"Ciao."
Prova a parlare ma io le faccio "Shh" portando l'indice alla
bocca.
Rimaniamo così in silenzio per qualche attimo. Poi sembra stare
meglio.
"Come stai, Stefano?"
È assurdo. Lei che lo domanda a me. Un suo sorriso delicato.
Mi guarda cercando risposta. Provo a parlare ma non mi escono le
parole.
"Bene." Riesco a dire prima che accada. Una parola di poco
più lunga si sarebbe rotta tra le mie labbra, come un fragile
cristallo.
Il mio dolore sarebbe andato in mille pezzi, in frantumi, come
uno specchio sottilissimo con riflessa tutta la nostra vita,
quella
mia e di mia madre. Insieme. Le sue parole, i suoi racconti, le
sue risate, i suoi scherzetti, le sue corse, le sue sgridate. Il
suo cucinare,
il suo farsi bella. Scivolano così via, senza possibilità di
essere
trattenute, come gocce d'acqua sul vetro di una macchina in
corsa, sul finestrino di un aereo in partenza, in caduta libera da
una
doccia di mare lasciata aperta e spazzata dal vento. Mamma. Come
lei ha fatto tante volte con me, mi viene naturale. Le prendo la
mano. Lei me la stringe come risposta. Sento le sue dita più
magre,
alcuni anelli più liberi, la pelle quasi posata a caso su quelle
ossa
sottili. Porto la sua mano alla mia bocca e la bacio. Ride,
leggera.
"Cos'è, il bacio del perdono?"
"Shh." Non voglio parlare. Non ce la faccio a parlare. "Shh."
Poggio la mia guancia sul dorso della sua mano. Mi lascia
tranquillo
su quell'umano cuscino piccolo ma pieno d'amore. Il mio, il suo?
Non so. Rimango lì a riposare, con gli occhi chiusi, con il cuore
tranquillo, con le lacrime sospese, in silenzio. Mi accarezza la
testa
con l'altra mano e gioca un po' con i miei capelli.
"Hai letto il libro che ti ho regalato?"
Faccio cenno di sì con la testa oscillando leggero sulla sua mano,
il mio cuscino. La sento sorridere.
"Hai capito allora che può succedere? Tua mamma è una donna,
una donna come tutte... Come tutte? Forse più fragile."
Rimango in silenzio. Cerco un aiuto, qualcosa, non ce la faccio.
Mi mordo il labbro inferiore e trattengo le lacrime. Aiuto. Chi mi
aiuta? Mamma aiutami. "Ho sbagliato, è vero, e il Signore ha
voluto
che proprio tu lo scoprissi. Ma è stata una punizione troppo
grossa. Perdere per quest'errore mio figlio."
Mi alzo di scatto e riesco a sorriderle, tranquillo, forte, come
mi vuole lei, come mi ha fatto lei, mia mamma.
"Ma non mi hai perso. Sono qua."
Mi sorride. Riesce a stendere il braccio e a farmi una carezza
sulla guancia. "Ti ho ritrovato allora."
Le sorrido e faccio cenno di sì con la testa.
"E ti perderò di nuovo."
"Ma perché? No... vedrai che andrà tutto a posto."
Mamma chiude gli occhi e scuote la testa.
"No. Me l'hanno detto. Ti perderò di nuovo."
Fa una pausa e mi guarda. Poi sorride piano piano. Vedo sul
suo viso la felicità di avermi accanto e poi, invece, il dolore
che le
viene da dentro. Improvviso. Una piccola smorfia. Chiude gli
occhi.
Poco dopo li riapre, di nuovo serena. Il dolore è passato. Mi
guarda e sorride.
"Ma stavolta non sarà per colpa mia."
Rimango in silenzio. Vorrei trovare qualcosa da dire, tornare
indietro, laggiù. Scusarmi per tutto quel tempo passato. Vorrei
non
essere mai entrato in quella casa, non averla vista con un altro
uomo,
non averla disturbata, non averne sofferto, essere stato prima
capace di capire, di accettare, di perdonare. Invece no. Non
riesco
a parlare. Non so fare altro che stringerle la mano, leggermente,
con la paura che tutto si possa di nuovo spezzare. Ma lei mi
salva,
mi aiuta, ancora una volta. D'altronde è mia madre. Mamma.
"Parliamo di ciò che ci ha allontanato."
Mi coglie di sorpresa. Rimango in silenzio.
"Non facciamo finta di niente. Credo che non ci sia nulla di
peggio che far finta di niente. Se sei qui, vuol dire che in
qualche
modo lo hai superato."
Niente, non parlo. Allora cerca di aiutarmi.
"Be', non credo comunque che sei andato fino in America per
colpa mia, no?" Sorride. E quel suo sorriso rende tutto più
facile.
"Avevo voglia di un po' di vacanza."
"Due anni? Te la sei presa comoda. Comunque mi dispiace per
quello che è successo. Tuo fratello non ha capito nulla. Tuo padre
invece non ha voluto capire. Ci sarebbe dovuto essere lui al tuo
posto.
Erano successe cose..." si ferma. Improvvisamente una fitta di
dolore attraversa il suo sorriso. Come un'onda leggera venuta da
chissà dove. Poi sparisce di nuovo e mamma riapre gli occhi. E
torna
a cercare il sorriso. Lo trova.
"Vedi, non devo parlare. Meglio così. Almeno di lui ti rimarrà
sempre un bel ricordo. Sono io la colpevole, quella che ha
rovinato
tutto, ed è giusto che io paghi." Un'altra fitta. Sembra più forte
questa volta. Mi avvicino a lei.
"Mamma..."
"Non è niente, sto bene, grazie..." Fa un lungo respiro. "Mi
danno queste medicine così forti. A volte è come se non ci fossi.
Sogno anche se sono sveglia, non sento più niente. È bello.
Dev'essere
una droga. Ora capisco perché voi ragazzi ne prendete così
tanta. Fa dimenticare qualsiasi tipo di dolore. "
"Io però non l'ho mai fatto."
"Lo so. Hai saputo vivere vicino al tuo dolore. Ora basta però.
Non gli permettere più nulla. Fatti restituire la tua vita."
Restiamo per un po' in silenzio.
"Mi sei mancata, mamma."
Poggia la sua mano sulla mia e me la stringe. Cerca di farlo con
forza, ma la sento debole, fragile. Guardo la sua mano. È magra.
Ha perso molto di quella vita che lei stessa generosamente mi ha
dato. Poi mi lascia andare.
"Comunque, Stefano, non volevo parlare di me."
"Cosa vuoi sapere?"
"Mi ricordo che quando ero molto giovane, più piccola di te,
avevo avuto un ragazzo che mi piaceva tantissimo. Ero convinta
che avrei diviso tutta la mia vita con lui. Invece si è messo con
la
mia migliore amica e io ero come impazzita. Dovevi vedere i miei
genitori. Alla fine me ne sono fatta una ragione. E subito dopo ho
incontrato tuo padre. Vedi, sono stata felice che la mia prima
volta
fosse stata proprio con lui... Ecco, ciò che in un momento preciso
ci sembra così perfetto, col passare del tempo può non esserlo
più. Magari capiamo che non era poi così perfetto e anche se lo
abbiamo perso non è detto che non possiamo trovarlo ancora, o
addirittura trovare qualcosa di meglio."
Rimane per un po' in silenzio, mi sorride. Mi vorrebbe felice.
Vorrei tanto esserlo. Anche per lei.
"Ho conosciuto una ragazza."
"Ecco, era questo che volevo sentirti dire. Mi racconti com'è?"
"È divertente, è bella, è strana. È... particolare."
Proprio in quel momento: "Step!".
Martina, quella "sgnappetta" di undici anni conosciuta a piazza
Jacini, compare sulla porta.
"Non ci posso credere!"
"Oddio..." Mia madre rimane senza parole. "Non mi dire che
è lei la ragazza 'particolare' con la quale ti vedi ora? ! " Poi
comincia
a ridere. E alla fine tossisce e di nuovo viene rapita da una
fitta
di dolore. Ma passa subito. E torna ad aprire gli occhi. E sorride
subito.
"Martina, che ci fai qui?"
"Qui lavora mia madre, eccola."
Entra una bella donna con un camice bianco.
"Salve. Io sono la caposala e dovrei cambiare le flebo della
signora
e comunque questa non è l'ora delle visite."
"Sì, lo so, scusi."
"Ma mamma, lui è un mio amico, hai capito chi è, è Step, quello
della scritta sul ponte di..."
"Martina, accompagna fuori il signore. Faccio il mio servizio
e poi la faccio rientrare un attimo per salutare la sua parente,
va
bene?"
"Grazie."
Faccio per uscire dalla stanza quando mamma mi richiama.
"Stefano, mi puoi fare una cortesia? Mi puoi portare un bicchiere
d'acqua?"
"Certo" ed esco con Martina.
"Ma quella signora chi è?"
"Mia madre."
"Sta molto male?"
"Credo di sì, non ho ancora capito bene."
"Se vuoi chiedo meglio a mia madre. Lei sa tutto. Mia madre è
pazzesca sul lavoro. Oggi non poteva lasciarmi a casa e allora mi
ha fatto venire qui. Allora, vuoi che glielo chiedo?"
"No, Martina, lascia stare."
Ci rimane un po' male. Cammina vicino a me in silenzio.
"Dai, fammi vedere invece dove posso prendere l'acqua."
"Certo!" Si accende di nuovo. "Vieni, passiamo di qua che si
fa prima." Poco dopo rientriamo nella stanza. La caposala finisce
di controllare l'ultimo tubicino. Dà una schicchera precisa su una
bottiglietta rovesciata, controllando che il liquido cominci a
scendere.
Le sembra tutto ok.
"Bene. Signora, passo di nuovo verso la mezzanotte." Poi va
verso l'uscita. "Lei può rimanere altri cinque minuti."
Grazie.
"Vieni, Martina, andiamo." Prende la figlia per il braccio per
essere sicura che esca dalla stanza.
"Ahia, mamma, e non mi tirare! Vengo! Ciao Step, ci vediamo."
La saluto con la mano e riprendo posto vicino al letto. Poso il
bicchiere d'acqua sul suo comodino.
"Grazie, Stefano. Allora, non sapevo avessi delle fan. La caposala
mi ha raccontato, Martina e le sue amiche sono letteralmente
impazzite per la tua scritta."
"Già, non credevo di diventare famoso per questo. E dire che
non l'ho neanche firmata! "
Mia madre ride. "Ma le voci girano, che non lo sai? Si sa sempre
tutto. E lei? Lei che stava con te... tre metri sopra il cielo...
che
dice?"
"L'ho vista ieri."
"Che vuol dire che l'hai vista ieri? Ma scusa, non ti stai vedendo
con l'altra?"
Rimango in silenzio. Mamma allarga le braccia.
"Be', certo... Ora che ci penso, sono la persona meno adatta a
dirti qualcosa, no?"
Ci guardiamo. Poi all'improvviso ci mettiamo a ridere. Sembra
stare meglio. La medicina ha fatto effetto.
"Non so cosa hai fatto, ma vuoi un consiglio? Non dire niente
all'altra. Neanche che l'hai vista. Supera da solo in silenzio il
tuo
errore. Spero che quello che ho combinato io allora non sia una
cosa
ereditaria, sennò mi dovrei sentire in colpa anche per i tuoi di
errori."
"No, mamma, lascia perdere, già mi sento in colpa io. Ho tanto
desiderato incontrarla di nuovo, c'ho pensato giorno e notte, ho
sempre immaginato quel momento, come sarebbe stato..."
"E com'è stato?"
"Io e te... tre metri sotto terra! "
"È che a volte facciamo delle cose così stupide. E non quando
siamo innamorati ma quando pensiamo di esserlo." Rimaniamo in
silenzio.
"Be', meglio così. Almeno una cosa te la sei chiarita. La storia
passata è passata. Finita. Non potevi evitarlo, credo."
"Invece avrei dovuto, e come se non bastasse... si sposa."
"Ah, andiamo bene. È per questo che sei rimasto male?"
"No. L'assurdo è che non me n'è fregato niente. M'è sembrata
un'altra persona, una che non aveva niente a che fare con me, con
tutto quello che mi ricordavo, non era più quella ragazza che mi
era tanto mancata, per la quale ero stato così male. E la cosa
assurda
è che si sposa e che me l'ha detto quando era già tutto successo.
Mi sono sentito ancora più in colpa."
"Per quello che ti aveva detto?"
"No, per l'altra ragazza. Per quanto è diversa da lei e per quanto
non se lo merita."
Mia madre mi guarda. Poi sorride. E torna proprio a essere
quella mamma che mi è tanto mancata.
"Stefano, alcune cose devono capitare e sai perché? Perché se
fosse successo più in là poi non sarebbe stato più possibile
mettere
tutto a posto. Di questo, purtroppo, ne sono sicura."
Rimaniamo così per un po', in silenzio.
"Be', ora vado. Non voglio che torni la caposala e mi veda ancora
qui. "
"Io al posto tuo sarei più preoccupato se tornasse la piccola
fan."
"Ah, questo è sicuro! "
Le do un bacio sulla guancia. Lei mi sorride.
"Vienimi di nuovo a trovare."
"Certo, mamma."
Raggiungo la porta e mi giro di nuovo per salutarla. Mi sorride
da lontano e alza la mano. Fa anche l'occhiolino. Forse per farsi
vedere più forte.
"Stefano..."
"Sì, mamma, dimmi. Hai bisogno di qualcosa?"
"No, grazie, ho tutto. Bentornato."
Capitolo 73.
Ormai è il tramonto. Citofono. Qualcuno mi viene a rispondere.
"Mi scusi, c'è Ginevra?"
"No. È in chiesa, qui vicino, a San Bellarmino. Ma chi parla?"
Mi allontano. Non ho voglia di rispondere. Maleducato per una
volta. Perdonatemi anche voi. Ma oggi me lo posso permettere.
Entro
in chiesa in silenzio. Non so che dire, che fare, se pregare e
perché
poi. Ora no. Ora non ci voglio pensare. Alcune signore anziane
in ginocchio rivolte verso l'altare. Hanno tutte in mano il
rosario.
Lo muovono ogni tanto nervose tra le mani pronunciando parole
al Signore, preghiere che sperano Lui possa esaudire. Lui può,
certo. Ma chissà se ne ha voglia. Chissà se lo riterrà giusto,
sempre
che una giustizia ci sia. Ma non ci voglio pensare. Ho altro da
fare.
Io ho il mio peccato. Per me è tutto più facile. Eccola. La vedo
di spalle. Non è inginocchiata ma prega. Dice qualcosa comunque,
di sicuro anche lei al Signore. Mi avvicino piano.
"Gin?"
Si gira e mi sorride. "Ciao... Che bella sorpresa... stavo
ringraziando
il Signore. Sai..." Si porta la mano sulla pancia. "È tutto a
posto. Ero così preoccupata... cioè non è che non volessi... Ma
così
per caso, mi sembrava brutto. Una cosa così importante, così
bella,
avere un figlio..."
"Shh" le faccio. Le do un bacio leggero sulla guancia. Mi avvicino
poi al suo orecchio e tutto d'un fiato, senza più aspettare, senza
paura, io salto. Le racconto tutto, le sussurro il mio peccato,
lentamente,
sperando che capisca, che possa capire, che mi possa perdonare.
Ho finito. Mi tiro indietro. Lei mi guarda in silenzio. Io la
guardo. Non ci crede.
"È uno scherzo?" Prova a sorridere.
Scuoto la testa. "No. Perdonami Gin."
Mi inizia a colpire con tutti e due i pugni con rabbia, piangendo,
urlando, dimenticandosi di essere in chiesa, o forse, ancora più
giustificata per questo. "Perché? Perché? Dimmi perché? Perché
l'hai fatto? Perché?" Continua così, disperata, cade in ginocchio
e
continua a piangere, singhiozzando, cercando quella risposta che
io non ho. Poi va via correndo, lasciandomi lì, in quella chiesa
ancora
più vuota, sotto gli sguardi di quelle signore anziane che per
un attimo hanno dimenticato le loro preghiere e si occupano di me.
Le guardo e allargo le braccia. Magari voi poteste perdonarmi. Ma
non potete, voi no. Contro di voi, non ho peccato. Ho solo forse
dato un po' fastidio... Sì, per questo forse potete perdonarmi. Si
girano
di nuovo verso l'altare e riprendono in silenzio le loro
preghiere.
Forse mi hanno perdonato. Almeno loro. È con lei che sarà
più difficile.
Capitolo 74.
Qualche giorno dopo. Casa Gervasi è al buio. Un silenzio e una
tranquillità che da tempo non si concedeva. Del profumo leggero
di fiori. Babi guarda in cucina e si accorge che ci sono diversi
bouquet
da sposa per la prova.
"Vattene Lillo, non devi vedere! Rovini tutto, dai. Così ogni cosa
sarà una sorpresa per te. Non è più bello?"
"Speravo che potessimo stare un po' insieme, con tutta questa
preparazione si perde un altro tipo di allenamento."
"Più tardi magari, credo che ci siano i miei. Dai, vai a casa,
magari
dopo ti avviso. Se escono passi tu, sennò vengo io da te, va bene?
"Ok, come vuoi."
Babi dà un bacio leggero al suo futuro sposo. Lillo, leggermente
imbronciato, sorride, poi scende velocemente le scale e sparisce
nel
pianerottolo. Babi chiude la porta.
"Mamma... sei in casa?"
"Sono qui, in salotto."
Raffaella è seduta su un divano, ha le gambe allungate e beve
un tè verde che naturalmente oggi va molto di moda. Babi la
raggiunge.
Le tapparelle sono abbassate. Un pendolo leggero tiene il
tempo che passa. Qualche rumore dalla strada come un'eco lontana
e nulla più. Babi si siede sul divano di fronte a lei.
"Sai, mamma, pensavo una cosa... Noi non sappiamo niente di
cosa accade veramente nelle altre famiglie, come sono diverse, che
storia hanno..."
"Be', non lo so, ma di certo non possono superarci."
Si guardano e improvvisamente si mettono a ridere.
"No, questo proprio no. Ti devo dire una cosa. Ho visto Step
ieri sera. "
Raffaella torna seria.
"Perché me lo dici?"
"Perché avevamo deciso di dirci tutto." La mamma rimane lì a
pensare.
"Sì, proprio l'altro giorno mettevo a posto la tua stanza e ho
trovato il poster che ti aveva portato, quello che hai tenuto per
tanto
tempo attaccato sul tuo armadio. Dove facevate 'la pinna' come
la chiamate voi."
"Sì, me lo ricordo. Lo hai buttato?"
"No, quando sarà il momento lo butterai tu."
Uno strano silenzio tra loro, improvvisamente spezzato da Babi.
"Ieri ho fatto l'amore con Step."
"Lo dici apposta, eh? Vuoi stupirmi, mi vuoi sorprendere?"
Raffaella si alza, perde per un attimo la sua calma.
"Forza, dimmi la verità! Cosa vuoi da me, eh? dimmelo, cosa
vuoi?" Sembra volerla prendere a schiaffi, scuoterla con violenza.
È vicina, troppo vicina. Babi alza lo sguardo e le sorride
tranquilla,
serena.
"Cosa voglio da te? Figurati... Non so neanche cosa voglio da
me. Pensa se posso sapere quello che voglio da te. E poi tu quello
che potevi darmi me lo hai già dato."
Raffaella si rimette seduta. Un respiro lungo. Torna calma.
Rimangono
per un attimo in silenzio sedute su due divani. Figure
femminili di età diversa ma molto simili in tante cose, in troppe
cose.
Poi Raffaella sorride.
"Stai bene con questo nuovo taglio di capelli."
"Grazie, mamma. Come va con papà?"
"Bene. Figurati... tornerà. Ha voluto dimostrare qualcosa a se
stesso, ma tornerà. Non è capace di stare lontano. Lui non è un
problema. Piuttosto tu, che hai deciso?"
"Io? Su che cosa?"
"Ma come su che cosa? Dimmi che devo fare. Stasera vado alla
festa dei De Marini. Magari qualche amica mi chiede qualcosa,
vorranno sapere. Mi hai detto che hai visto Step ieri sera.
Allora?
Cosa hai deciso? Ti sposi lo stesso?"
"Certo. Perché non dovrei?"
Raffaella fa un sospiro, ora è più tranquilla. Tutto tornerà a
posto.
È solo questione di tempo e tutto tornerà perfetto come prima,
anzi meglio di prima.
Un nipote di chissà chi, un matrimonio come si deve e un marito
in punizione per un po'. Sì, tutto tornerà perfetto. Raffaella si
alza dal divano.
"Bene, allora posso andare. Stasera giochiamo a burraco. Ci sai
giocare?"
"No, ho visto che giocavano a casa della Ortensi ma non mi sono
seduta."
"Devi provarlo, è molto meglio del gin. È più divertente. Un
giorno che ho un po' di tempo te lo insegno, vedrai che ti
piacerà."
"Va bene."
Raffaella la bacia e fa per andar via.
"Mamma..."
"Sì, dimmi."
"C'è un altro problema."
Raffaella rientra nel salotto.
"Sentiamo."
"C'ho pensato. Però non ti devi arrabbiare. Io non voglio chiamare
i tavoli degli invitati coi nomi dei fiori. È troppo banale. L'ha
fatto anche la Stefanelli per il suo matrimonio. "
"Hai ragione."
"Che ne so, potremmo usare il nome delle pietre preziose per
esempio. Non è più elegante?"
Raffaella sorride.
"Molto. Hai ragione, è un'ottima idea. Faremo cambiare il
cartellone
e i segnatavolo. Fossero questi i problemi..."
E così la bacia di nuovo ed esce felice. È in gamba mia figlia. È
un po' come me, risolve sempre qualsiasi problema trovando la
soluzione
migliore. Raffaella va nella sua stanza a prepararsi. Dopo
poco tempo esce di corsa, elegante e impeccabile come sempre.
Vorrebbe arrivare puntuale a casa dei De Marini. E soprattutto ha
un'unica, ultima, grande preoccupazione. Questa sera deve
assolutamente
vincere a burraco.
Capitolo 75.
"Mamma, io esco."
"Va bene Gin. Telefonami però se fai troppo tardi. Fammi sapere
se torni per cena. Voglio farti quella pizza che ti piace tanto."
Non sento neanche le sue parole.
"Sì, grazie mamma."
Mi metto una felpa e decido di uscire, di perdermi così, senza
tempo. Solo io posso capire. Ho desiderato tanto tutto questo. E
ora? Niente, ora mi ritrovo senza niente, senza il mio sogno. Ma
era tutto vero poi quello che avevo tanto sognato? Non mi va di
pensarci. Sto malissimo. Uffa, non c'è niente di peggio che
trovarsi
in queste situazioni. Uno ne parla un sacco da fuori quando sente
tutte quelle situazioni assurde che riguardano le altre persone,
non so perché ma uno non pensa mai che ci possa finire dentro e
poi invece tac! Ecco che succede, ti riguarda direttamente,
neanche
ti fossi portata sfiga da sola. Cavoli, Gin, devi fare i conti con
il tuo orgoglio e la tua voglia di stare ancora con lui... Ma non
mi
va di fare i conti, porca trota! Che palle! In matematica sono
sempre
stata una negata. E poi in amore non esistono equazioni e conti
matematici! Mica c'è il ragioniere dei sentimenti, o peggio il
commercialista
dell'amore. Che, c'è da pagare anche la tassa sulla felicità?
Cavoli come pagherei se fosse vero... Ma che voglia che ho di
lui però... Sono a Ponte Milvio. Fermo la macchina e scendo. Mi
ricordo di quella notte, di quei baci, la mia prima volta. E poi
qui,
sul ponte... Mi fermo davanti al terzo lampione. Vedo il nostro
lucchetto.
Mi ricordo di quando ha buttato la chiave nel Tevere. Era
una promessa, Step. Era così difficile da mantenere? Mi metto a
piangere. Per un attimo vorrei avere qualcosa dietro per rompere
quel lucchetto. Ti odio, Step!
Risalgo in macchina e parto. Me ne vado in giro così, senza sapere
bene dove andare. Per un bel po'. Non so quanto. Non lo so.
So solo che ora cammino al mare. Persa nel vento, distratta dalle
onde, dalla cantilena delle correnti. Ma sto di un male. E poi mi
sento così stupida. Non ci credo, non è possibile. Mi manca da
morire
quello stronzo, mi manca tutto quello che avevo sognato. Sì,
certo, lo so, qualcuno mi potrebbe dire: "Ma Gin è normale. Cosa
ti aspettavi? Era la sua ragazza! Step è partito per l'America per
quanto stava male. È normale che ci sia ricaduto! ". Ah, sì? Ma
sentilo.
Dice così il tipo... Be', allora si dà il caso che io non sono per
niente normale, hai capito? Non mi ci sento e soprattutto non me
ne frega niente! Sì, è così. E allora? L'hai capito o no,
portasfiga
che non sei altro... Ah, ma io lo so, ne sono certa... Tu avevi
pensato
fin dall'inizio che sarebbe accaduto tutto questo, vero? Da
quando è iniziata la nostra storia... Be', sai che ti dico brutto
jellatore
che non sei altro? A me non me ne frega proprio niente di
niente. Perché io sono pazza! Va bene? Sì, sono pazza. Pazza di
lui
è vero, e di tutto quello che avevo sognato. Quindi te lo dico
subito,
se ti incontro, io ti spacco la faccia. Anzi no, meglio. Visto che
proprio lui insisteva tanto su questo, ti faccio un terzo dan che
te
lo ricordi a vita. E poi tu non puoi neanche immaginare quanto io
lo abbia desiderato.
Capitolo 76.
L'infermiere di turno è seduto davanti a un monitor. È sempre
lo stesso. Finisce di battere qualcosa al computer e poi mi vede
entrare.
Mi riconosce. S'irrigidisce di botto. Poi allarga le braccia,
accenna
un mezzo sorriso come a dire-: "Certo, certo, non è l'orario
ma puoi entrare".
"Grazie." Mi viene da ridere. Ma non è giusto. Mi sento anche
un po' in colpa. E non solo per questo. Lo so. Non mi piace
cambiare
le regole con la violenza. Ma ho bisogno di vedere mia madre.
Ora che l'ho ritrovata. Percorro il corridoio in silenzio. Dalle
camere
ai lati mi arrivano respiri affannati e doloranti. Tutto intorno
un
odore di pulito e di lavande. Ma un non so che di falso. Un uomo
si
trascina in pigiama con la barba incolta e gli occhi spenti. Ha
sottobraccio
una "Gazzetta dello Sport" di un rosa accartocciato. Forse
l'acquisto da parte della sua squadra di un nuovo giocatore
potrebbe
in qualche modo riaccenderlo. Chissà. Nel dolore le cose più
semplici
e banali assumono un valore inaspettato. Tutto diventa un
qualsiasi
appiglio per la vita, un interesse che in qualche modo ci possa
distrarre. Eccola. Sta riposando. Persa in un cuscino molto più
grande
del suo piccolo viso. Mi vede e sorride.
"Ciao, Stefano..."
Prendo una sedia lì vicino e mi metto ai piedi del suo letto.
"Allora?"
Mi guarda interrogativa. So già a cosa allude.
"Niente, non ce l'ho fatta. Mi dispiace. Gliel'ho detto."
"E com'è andata?"
"Mi ha picchiato."
"Oh, finalmente una che ti mena. Hai scelto la strada più
difficile.
È una ragazza molto particolare? "
La descrivo.
"E ho una foto."
Gliela faccio vedere. È curiosa. Piccole rughe appaiono sul suo
viso. Poi un sorriso di sorpresa. Poi di nuovo un segno di dolore
da
qualche parte nel suo corpo, nascosta, ben nascosta. Purtroppo.
"Ti devo dire una cosa..."
Mi preoccupo. Se ne accorge.
"No, Stefano. Non è niente d'importante... Cioè lo è, ma non
ti devi preoccupare."
Rimane per un po' in silenzio. Indecisa se dirmelo o no. Sembriamo
tornati a tanto tempo prima, quando io ero piccolo e lei,
lei stava bene. Mi faceva gli scherzi, mi nascondeva le cose, mi
prendeva
in giro, ci mettevamo a ridere. Mi viene da piangere. Non ci
voglio pensare.
"Allora, mamma, mi dici?"
"Io la conosco, Ginevra."
"La conosci?"
"Sì, hai molto gusto, cioè lei ha avuto molto gusto... insomma
è lei che ti ha scelto e tu hai combinato questo guaio..."
Preferisco non pensarci.
"Ma come la conosci? Cioè, come hai fatto?"
"Mi ha fatto giurare di non dirtelo. Come ho fatto? È lei che
mi ha voluto conoscere. Vedevo sempre questa ragazza che aspettava
sotto casa. Veniva spesso. All'inizio ho pensato che aspettasse
qualcuno che abitava nel palazzo. Poi però quando partivo con la
macchina la vedevo andar via. "
"E allora?"
"Allora un giorno me la trovo al supermercato e ci siamo urtate.
Non so se è stato un caso. Abbiamo fatto amicizia... Ci siamo
messe a parlare..." Tossisce. Si sente male. Lo sforzo è stato
tanto.
Cerca nell'aria dell'ossigeno, della vita, qualcosa... ma non
trova
nulla. Poi mi guarda e i suoi occhi pieni d'amore, di dolcezza,
occhi
di una donna che vorrebbe gridare. Ehi, che fai? Perché mi
guardi così? Sono tua mamma! Non puoi provare compassione per
me. E allora io torno suo figlio, egoista, ragazzino, insomma
proprio
come mi vuole lei.
"Allora, mi racconti bene?"
"Sì. Abbiamo fatto amicizia, non so come, ma abbiamo cominciato
a chiacchierare... Lei non sapeva che l'avevo già vista sotto
casa. Be', insomma, non ne sono tanto sicura. Fatto sta che le ho
raccontato un po' di me, di papà, di Paolo, di te..."
"Cosa le hai raccontato di me?"
"Di te?"
"Eh, di me e di chi sennò?"
"Che ti voglio bene, che mi mancavi, che eri andato fuori, che
saresti tornato... alla fine sembrava incuriosita della nostra
storia.
E chiedeva sempre se avevi telefonato... se ti eri fatto sentire."
"E tu?"
"E io che potevo dirle? Non sapevo mai niente di te. Poi ho saputo
che saresti tornato quel giorno, quando me lo ha detto Paolo
che ti sarebbe venuto a prendere all'aeroporto... E allora quando
con Ginevra ci siamo sentite..."
"Vi siete sentite? Ma perché, vi telefonavate pure?"
"Sì, c'eravamo scambiate il numero. Ma che cosa c'è di strano,
scusa? Eravamo diventate un po' come delle amiche."
Non riesco a crederci. Che strano. Sembra tutto così strano.
"Allora?"
"Allora che?"
"Niente, gliel'ho detto."
"E lei?"
"E lei ha continuato a chiacchierare, come se nulla fosse, ha
detto che si era iscritta e che andava in piscina... Ah sì, mi ha
fatto
ridere perché mi ha chiesto se volevo andare con lei... però se ci
penso una cosa strana c'è..."
Cosa?
"Da quando sei tornato sono andata spesso al supermercato..."
"E allora?"
"Da allora, non l'ho mai più incontrata."
La guardo. Rimango in silenzio. Poi annuisco e sorrido. Lei
vorrebbe
rispondere al mio sorriso, ma un'altra ondata di dolore le fa
chiudere gli occhi. Più a lungo stavolta. Le prendo la mano. Lei
me
la stringe con forza, una forza inaspettata. Poi allenta la presa
e riapre
gli occhi, stanca, più stanca di prima, accenna un sorriso.
"Stefano... ti prego..." Mi indica un bicchiere lì vicino. "Mi
porti
un po' d'acqua, per favore."
Prendo il bicchiere e mi alzo. Faccio alcuni passi e mi sento di
nuovo chiamare.
"Stefano..."
Mi giro. "Sì?"
"A questa mia amica Gin... mandale dei fiori, dei bellissimi
fiori."
Si poggia sul cuscino e mi sorride.
"Sì, mamma, certo..."
Esco dal reparto, trovo subito il bagno con l'acqua potabile che
mi aveva indicato Martina. Dopo averla fatta scorrere un po'
riempio
il bicchiere così come mi aveva insegnato lei, né troppo pieno
né troppo vuoto. Poco più della metà, la giusta misura. Rientro
nel
reparto. Mi bastano alcuni passi. La vedo lì, tranquilla, che
riposa.
Al centoquattordici. Con un sorriso leggero sul viso e gli occhi
chiusi,
così come l'avevo lasciata. Ma non mi ha voluto aspettare. Mamma
ha sempre odiato gli addii. E non so perché mi viene in mente
quando sono partito con il treno per la prima gita scolastica per
Firenze.
Le altre mamme erano tutte lì con i loro fazzolettini, bianchi
o colorati o quello che avevano sottomano, per salutare i
ragazzini
che si affacciavano dai finestrini degli scompartimenti. Io
mi sono affacciato. L'ho cercata giù sulla pensilina tra la gente,
tra
le altre mamme ma lei non c'era più. Non c'era già più. Proprio
come
adesso. Se ne è già andata. Mamma. Poggio il bicchiere sul
comodino
vicino a lei. Ti ho portato l'acqua, mamma. Non l'ho riempito
troppo proprio come tu mi hai insegnato. Mamma. L'unica
donna che non smetterò mai di amare. Mamma. Quella donna che
non avrei mai voluto perdere. E che invece ho perso due volte.
Mamma... Perdonami. Ed esco così, in silenzio, tra letti numerati,
tra persone sconosciute. Distratte dal loro dolore, non guardano
il
mio. Un allarme suona lontano. Due infermieri mi superano
correndo.
Uno mi urta senza volerlo, ma non ci faccio caso. Vanno da
mia madre. Stupidi, non sanno che è partita. Non la disturbate.
Lei
è così, non ama gli addii, non si gira indietro, non saluta.
Mamma.
Mi mancherai, più di quanto non mi sei già mancata in questi anni.
"Se quel che mi ha ferito anche te ferì, io ti penso in un campo
di fragole, io ti penso felice così, a ballare leggera,
bellissima, così..."
Parole di una canzone che riaffiora. Per te mamma, solo per
te. Portale via, tienile strette ovunque stai andando. Balla
bellissima
sul quel prato di fragole, libera finalmente da tutto quello che
ti aveva imprigionata qui. Sto piangendo. Scendo giù. Non c'è
l'infermiere
della postazione. C'è una donna. Mi guarda, curiosa per
un attimo, ma non dice niente. Ne avrà vista di gente uscire senza
nascondere il proprio dolore. Non ci fa più caso. Le sembriamo
tutti uguali, è quasi annoiata dalle nostre stupide lacrime che
non
possono niente. Esco. Ormai è pomeriggio. Il sole ancora alto, il
cielo limpido. Una giornata come tante altre ma diversa da tutte e
per sempre. Vedo arrivare mio padre e mio fratello. Sono lontani.
Chiacchierano sereni, sorridono. Chissà di cosa parlano. Non lo so
e non lo voglio sapere. Beati loro che ancora non sanno. Pochi
momenti
prima del dolore inevitabile, dell'impotenza totale,
dell'accettazione
definitiva. Che ne godano ancora. Ancora tranquilli e
felici, a loro insaputa. Ancora per poco. Cambio strada e mi
allontano.
Ho altro da fare adesso. Mi lascio andare, mi perdo nel vento.
Vorrei che il mio dolore diventasse leggero. Ma non è così. E ci
capito per caso, senza volerlo, giuro. Ora come ora non direi mai
una bugia. E vedo quel ragazzino con un suo amico.
"Allora ci si vede al Campetto alle quattro, va bene? Ehi, Thomas,
dico a te, va bene?! "
"Sì sì, ho capito, alle quattro, mica sono sordo."
"Sordo no, ma scemo sì. Tanto è inutile che stai lì, Michela non
arriva. "
"Ma chi ti dice che aspetto Michela! Cerco Marco, che mi doveva
riportare il pallone! "
"Sì sì, il pallone..."
A volte ci si trova al posto giusto nel momento giusto. Lo guardo.
Non mi pare certo uno che ha il diritto di snobbare miss
"sgnappetta"
degli Stellari. Martina almeno una possibilità se la merita.
Almeno una. Mi avvicino. Non ci fa caso più di tanto. Per un
attimo
mi guarda incuriosito, cerca di mettermi a fuoco per vedere se
mi conosce, se mi ha già visto da qualche parte. Allora gli do uno
schiaffone in pieno viso. E rimane così senza parole. Mi guarda
sbalordito,
ma senza piangere, aggrappato alla sua dignità. Poi gli dico
quello che dovevo dirgli. E lui ascolta in silenzio, senza
fuggire.
Mi piace quel ragazzino. Poi mi allontano in moto. Guardo nello
specchietto. E lo vedo diventare sempre più piccolo. Formica in
un mondo ancora da scoprire e da capire. Con la mano si massaggia
la guancia sinistra. Rossa come quella pizza buona che mi aveva
offerto Martina. E per un attimo il fatto che sono entrato già in
quelli che saranno i suoi ricordi mi fa sentire al sicuro. Vivrò
un po'
più a lungo. Poi penso a mamma, alle sue ultime parole, al suo
consiglio.
Sorrido. Sì, mamma. Certo, mamma. Come vuoi tu, mamma.
E ubbidiente come non lo sono stato mai, come quel figlio che
avrei tanto voluto essere, entro nel negozio più vicino.
Capitolo 77.
Poco più tardi. Casa Biro.
"Ginevra, posso entrare?" Gin apre la porta della camera a sua
madre. "Che c'è mamma?"
"Oggi pomeriggio hanno portato queste per te."
Avvolta da un grande mazzo di rose rosse la mamma si affaccia
nella sua camera, le sorride poggiandole sul letto.
"Hai visto che belle? E poi guarda... c'è una rosa bianca nel
mezzo. Sai che vuol dire vero?"
"No, che vuol dire?"
"È una richiesta di scuse. Qualcuno ti ha fatto qualcosa, qualcuno
si deve scusare?"
"No mamma, è tutto a posto. " Ma alle mamme non sfugge niente.
Quegli occhi arrossati di Gin poi non lasciano dubbi.
"Tieni..." Le passa un fazzolettino da naso e le sorride.
"Quando vuoi, siamo a tavola."
"Grazie mamma. Ma ora non mi va di mangiare."
"Va bene. Ma non te la prendere troppo. Non ne vale la pena."
Gin sorride alla mamma. "Magari..."
Prima di uscire la mamma le consegna un biglietto. "Tieni, c'era
questo tra le rose. Forse è la spiegazione di quella rosa bianca."
"Forse..."
La mamma la lascia sola, sola con il suo dolore, sola con i suoi
fiori, sola con il biglietto. Ci sono momenti che una mamma
conosce
bene. Forse perché ci è passata. Forse perché sa che una figlia
si può amare anche da lontano. Forse perché a volte quando c'è di
mezzo il dolore tutto quell'amore non può essere che d'intralcio.
Chiude la porta e la lascia lì. Con quel biglietto tra le mani. Il
mio
biglietto. Gin lo apre. Gin legge curiosa l'inizio.
"Me l'hai chiesta tante volte. Io ho detto sempre di no. Avrei
voluto regalartela per il tuo compleanno, per Natale, per una
festa
qualsiasi. Mai per chiederti perdono. Ma se dovesse servire, se
non
bastasse, se ne dovessi scrivere ancora mille e mille e mille
ancora,
farei anche questo perché non posso vivere senza di te. " E Gin
continua
a leggere. "Ecco quello che volevi. La mia poesia." Sorride e
legge, legge. Scivola tra le parole, piange, tira su con il naso e
ride
di nuovo. Si rialza e continua. I nostri momenti, la nostra
passione,
il viaggio, l'emozione. E continua sorridendo, tirando ancora
su con il naso, asciugandosi gli occhi, sbiadendo una mia parola
con qualche lacrima sfuggitale di mano. E va avanti così, fino
alla
fine. Non le dico di mia madre. Solo di noi. Non le parlo di altro
se non di me, del mio cuore, del mio amore, del mio errore. Rubo
le parole di un film visto e rivisto tante volte a New York...
"Voglio
che tu leviti, voglio che tu canti con rapimento... Abbi una
felicità
delirante o almeno non respingerla. Lo so che ti suona smielato,
ma l'amore è passione, ossessione, qualcuno senza cui non vivi, io
ti dico: buttati a capofitto, trova qualcuno da amare alla follia
e che
ti ami alla stessa maniera. Come trovarlo? Be', dimentica il
cervello
e ascolta il tuo cuore. Io non sento il tuo cuore. Perché la
verità,
tesoro, è che non ha senso vivere se manca questo. Fare il viaggio
e non innamorarsi profondamente, be', equivale a non vivere. Ma
devi tentare, perché se non hai tentato, non hai mai vissuto..." E
io
spero di averla convinta che lo aveva già trovato, quel qualcuno.
Un qualcuno che spera di essere un giorno perdonato. Ma non ho
fretta. "Ti aspetterò. E aspetterò. E aspetterò ancora. Per
vederti,
per averti, per sentirmi di nuovo felice. Felice come un cielo al
tramonto."
Gin si mette a ridere. Poi ha una strana sensazione, improvvisa.
Si gira di botto. Guarda sul suo tavolo. Lì nell'angolo dove
li ha sempre tenuti nascosti. E improvvisamente capisce. E si
sente morire. Corre subito di là.
"Mamma! Ma lo hai fatto entrare in camera mia! "
"Ma era quel ragazzo simpatico, quello dello champagne, no?
Sembra così per bene. E poi ti aveva portato quei bellissimi
fiori...
Non potevo dirgli di no, mi sembrava scortese. "
"Mamma... Tu non sai cosa hai combinato."
Capitolo 78.
Sono seduto nella mia stanza. Mi sento un ladro. E in effetti
lo sono. Ma sono troppo curioso. Quando li ho visti sul suo tavolo
non riuscivo a crederci. Tre diari, uno per ogni anno. Dalla
sua prima liceo. Gin è incredibile. Sempre disordinatissima, poi
improvvisamente precisa. Inizio a sfogliare il primo. Ha fatto un
sacco di scritte molto divertenti. Chissà chi è questo Francesco.
Fra'. Come lo chiama lei. E tutti cuoricini poi. Comunque non
l'ha avuta. Mi ha veramente sorpreso il fatto che non fosse mai
stata con nessuno. Non avrei mai creduto, sul serio. E troppo
tenera.
È bella poi... È com'è. Unica. Ha una forza, una determinazione...
A volte sembra distratta, invece sta seguendo tutto, si
guarda intorno, anche alle feste, mentre chiacchiera con un'amica
magari, e invece controlla con chi parlo, con chi non parlo, cosa
succede in fondo al salotto, chi è appena entrato, chi dice cosa
e su chi... E ride come una pazza e ha sempre una battuta
pronta...
Gin. Mi dispiace per quello che è successo. Ma la situazione
con Babi mi è sfuggita di mano. Non sapevo che cosa stavo facendo,
avevo bevuto. Sì... Dai Step, sembra che ce l'hai davanti
e le stai rispiegando tutto... è assurdo. A volte cerchi solo
l'amore.
Sì, ma non ti accorgi che quella donna che hai tanto amato è
fuggita, non c'è più. Eri tu ad averla inventata? Cerchi in quel
bacio
il disperato sapore di quello che hai tanto sentito, provato...
ma non c'è più. Chi te lo ha tolto? Nascosto? Rubato? Chi? Ho
ritrovato i suoi occhi, ma non quella luce, non quel sorriso che
mi è tanto mancato. Così, staccandomi da lei quella sera,
improvvisamente
ho capito: la mia Babi non c'era più. Niente, solo
i suoi capelli spenti come quel sorriso naufragato chissà dove.
Allora
ho richiuso gli occhi e sono fuggito lontano, in mezzo ai ricordi,
ballando ancora con loro, come un grande, unico carosello,
tutti per mano, ridendo, scherzando. E ho rivisto quella ragazza,
la Babi di allora, bella come un primo mare a primavera,
fresca e impaurita, desiderosa di amare ed essere amata, timorosa
anche del semplice togliersi un reggiseno. Eccola, lei per sempre
mia e di nessuno più... Ma i ricordi a volte non vanno disturbati.
Basta. Non ci voglio più pensare. Quel che è fatto è fatto.
Gin capirà. Deve capire. Se non lo avessi fatto avrei sempre
vissuto
nascosto, non sarei mai venuto allo scoperto. Tornare alla luce
dell'amore. Capirà. Deve capire. In fondo non sapeva nulla di
me, non mi aveva mai visto.
Ma cos'è qua? Inizio a leggere.
28 maggio 2002.
Oggi sono felice, felice come non sono mai
stata! Ho finalmente dimenticato del tutto Francesco,
cancellato, esploso, via, per sempre...
E ti credo, chissà che gaggio era...
Perché ieri è successa la cosa più incredibile
della mia vita. Ero a una festa da Roberta
Micchi, una più grande, una che se la tira una
cifra del quinto. Mi ero imbucata con altre due
amiche (Ele e Simo) e ce la stavamo divertendo
un casino quando sono arrivati loro... gli imbucati,
i Budokani.
Cavoli, non ci posso credere, dice di noi? Ma di quando sta
parlando?
Di quale festa? Continuo a leggere velocissimo.
Ho scoperto che si chiamavano così mentre tiravano
la torta della festeggiata e hanno centrato
Giò (il farlocco che ci prova con Ele) in
pieno viso!! ! Che mira. Hanno fatto un casino.
Secondo me è sparita anche un sacco di roba. Insomma
sono fuori. Sono completamente fuori per
lui. Mi ha urtato appena entrato. Mi ha chiesto
scusa però, e per non farmi cadere mi ha preso
al volo e mi ha tenuto abbracciandomi... Cavoli!
Ci siamo trovati col viso a un millimetro e
sono andata fuori di testa. Chissà se l'ha capito.
Ho saputo solo che si chiama Step! Buffo
come nome. Bello da morire come tipo! Spero solo
di rincontrarlo presto...
Cioè, ci siamo conosciuti. Ci siamo incontrati. O meglio, ci siamo
scontrati... Ma che vuol dire tutta questa storia? Cavoli, ma vuoi
vedere che alla festa dove ho conosciuto Babi, dove ho fatto la
doccia
con lei sulle spalle, lì c'era anche Gin? Ci siamo scontrati...
non
me la ricordo. Ma forse non è quella volta... Continuo a correre
veloce,
a sfogliare altre pagine, a cercare altri momenti, altri ricordi,
altre verità. E vado avanti come impazzito, sorpreso, imbrogliato.
Sfoglio veloce le pagine del diario. Gli occhi volano tra le
righe...
Avanti, indietro. Ecco.
L'ho visto! Sono le due e mezzo di notte e non
riesco a dormire. Sono stata sull'Olimpica e lui
era lì con il suo amico, Pollo credo che si chiami.
Ha vinto anche una gara! Mi piace da morire,
ma vedo che scherza un sacco con quella deficiente
del quinto, la Gervasi! Porca trota, Step, se ti
ci metti mi cali una cifra. Quella è una deficiente
(mi ripeto...), tutta casa e chiesa! Anzi,
non so neanche perché stava lì, ha fatto perfino
la Camomilla!!! O tu le trasformi Step, oppure
non so che pensare. Devi avere un dono magico
e non so proprio dirti quale, non vorrei essere
bora, ma certo con quella "bacchetta" ne combini
di casini!!! C'era anche quella trucida di
Maddalena. Chissà se è vero quello che dicono,
che hai una storia con lei. Be', non so proprio
che pensare. Ehi, magico principe! 10 e lode o
come cavolo ti chiamano, prima o poi ti accorgerai
anche di me (spero). Mi ero messa anche la
cinta Camomilla! Mi sei passato davanti e non mi
hai degnato di uno sguardo... Allora? TRASFORMAMI...
Sennò ti strego io. Be', vado a nanna.
Rimango senza parole e vado avanti. Ecco di nuovo qualcosa
che mi riguarda.
Ecco, lo sapevo, sta con gli altri e sono passati
a piazza Euclide. Me lo ha detto Ele che
fanno base fissa qui...
Vado ancora avanti. Sfoglio due, tre pagine veloci...
Non ci posso credere! Si sono messi insieme!! !
Step, ti odio!!! Come se non bastasse, quella
gnoccolona della Gervasi ha fatto a botte con
The Body! Con Madda Federici! Allora è vero che
avevi una storia con lei! A Babi le ha detto pure
bene... Gliele ha date. Non c'è giustizia,
cazzo... Eh, quando ci vuole ci vuole! Ma come
cazzo hai fatto a metterti con una così, Step!!!
Ti giuro che un giorno me lo dovrai spiegare. Ma
non ti accorgi che quella tipa non ha le palle?!
Che per lei tu sei un giocattolo che costava
troppo? Una volta che ti avrà avuto finirai nell'armadio
con tutti quei giocattoli del passato
che l'hanno già scocciata! Certo che a volte voi
uomini siete di un ridicolo, di un banale, non
vi accorgete dell'oro che avete vicino (io!) e
andate a cercare il rame lontano (lei!!!). Però
che culo che e'ha... voglio proprio vedere come
se la caverà. Porca trota se lo voglio vedere!!!
E infatti fa così. Sfoglio le pagine e mi accorgo che non mi ha
mai mollato un attimo. Pagina dopo pagina. Gin... Hai segnato
tutto.
C'eri sempre.
Ieri sono stata a Fregene. Ero da Mastino. È
passato. Mamma, da sogno. Già abbronzato, insomma
vorrei urlarlo! Step sei bono da paura!!
Stavamo giocando a rubabandiera mentre quella
morta della Gervasi stava seduta su un pattino
e a momenti neanche se n'è accorta che eri arrivato!
! Ma quanto può essere scema una così?!
E lui troppo fico l'ha fatta salire sulla sua
moto e l'ha bendata per portarla chissà dove...
Un rapimento da sogno... il MIO sogno! Oddio...
mi hanno rubato il mio sogno!!! Ridatemelo, è
miooooooo!
Troppo simpatica. Silenziosa spettatrice. Come posso dimenticare?
Quella volta che sono fuggito con Babi lì, alla casa sulle rocce,
alla Feniglia, sogni che s'infrangono sugli scogli del passato.
Non voglio pensare... Voglio andare avanti. Due pagine dopo.
Non ci posso credere! Non ci volevo credere!! !
E invece è vero. Mi ha chiamato Ele per avvisarmi...
Sono andata fino lì per vedere se era
vero. Non voglio fidarmi di nessuno in queste
occasioni. E invece è proprio così. Lì, su quel
ponte, bellissima!
IO E TE... TRE METRI SOPRA IL CIELO! Cioè, se
uno mi scrive una cosa del genere e chi lo molla
più! Gervasi, che culo che e'hai, porca trota!
E ancora, ancora...
Sono arrivati alla festa dov'ero anch'io, non
ci posso credere! Si sono vestiti da Tom e Jerry.
Oddio, sto troppo male...
E ancora...
È morto il suo amico Pollo. Ero lì in chiesa.
Avrei voluto abbracciarlo. Ho pregato per lui,
per il suo amore. Ma lui ha bisogno di lei in
questo momento. Non di me.
E continuo in silenzio tra quelle pagine a leggere pezzi della
mia vita. A rivederli attraverso la sua scrittura, le sue note
colorate,
le sue frasi sottolineate.
Si sono lasciati! Ho saputo che si sono lasciati.
Me lo ha detto Silvia (la Serva, la chiamano
così perché sa sempre tutto di tutti e vive
di servate!). È vero! Mi dispiace... so che
non dovrei essere così felice. Ma quanto lo sono,
da pazzi! Da pazzi! Voglio farti felice io,
Step. Voglio farti sentire amato... Ti prego,
dammi questa possibilità...
E ancora. Ancora.
È Natale. Sono uscita e sono andata verso casa
sua, cioè dove abita adesso, da suo fratello.
L'ho visto uscire in moto con dietro suo fratello
Paolo. Erano abbracciati, stavano ridendo.
Bene, sono felice. Mi sembra che stia meglio.
Se ami veramente una persona devi pensare
al suo bene, a ciò che lo rende veramente felice.
Non devi essere egoista... (Mamma, sto diventando
di un pesante...). Comunque gli ho visto
fare una pinna pazzesca con il fratello dietro
che urlava! Mi ha fatto troppo ridere. Sono
tornata a casa. Ho aperto il regalo dei miei. Mi
hanno fatto un pigiama pazzesco! Step, quando lo
vedrai, be', ti leccherai i baffi! (Che bora che
sono!) Poi mi sono messa a letto e ho abbracciato
il cuscino. Sono stupida? L'ho baciato fingendo
che fossi tu. Step. Mi piaci troppo! Mi
sono addormentata facendo un sogno... che poi è
anche un desiderio. T'incontrerò prima o poi...
E ancora. Ancora. Vado avanti tra pagine allegre e pezzi di vita
che riguardano solo lei. Ecco. Parla di nuovo di me.
Sto a pezzi. Sto malissimo. Ho saputo che parte.
Va fuori. Cavoli, dev'essere stata una storia
davvero importante la sua se ha preso questa
decisione. Mi ricordo però una frase che mia
madre mi ha sempre detto, è una cosa bellissima:
"Puoi cambiare il cielo ma non puoi cambiare
l'animo". Gli servirà andarsene? So solo che
ti aspetterò, Step...
È vero. A volte non serve stare sotto un altro cielo. Ciò che devi
risolvere è sempre dentro di te, dovunque tu sia. E ancora.
Ancora.
Non me ne frega niente, nessuno sa mai nulla di
Step! Cazzo, non è possibile! Ho deciso, voglio
conoscere sua madre. Lei qualcosa la saprà, no?
E ancora. Ancora. Sfoglio appena qualche altra pagina.
Ci sono riuscita. L'ho conosciuta "per caso"
al supermercato. Forse se n'è accorta... (spero
proprio di no!) Abbiamo legato un sacco... mi
piace, ma non so, è come se stesse male per qualcosa,
ha una sua tristezza, mi tratta da grande
però, è forte... Certo che è proprio bella. È
tutta suo figlio!
Mamma se n'era accorta. A lei non sfugge niente. E ancora. Ancora.
Sono felice. Siamo diventate amiche. Mi ha
raccontato un po' di cose di Step. Mi sembra di
conoscerlo da una vita. È proprio la persona che
avrei voluto incontrare. Sono strafelice perché
mi ha detto che torna la prossima settimana!
E ancora. Ancora.
E che cavolo! ! ! Ho sbagliato tutto. . . Sono arrivata
alle otto e mezzo di mattina... Non avevo
capito che arrivava alle otto e mezzo di sera!
Ma dicono a.m. e p.m. Ma che, uno sta a guardare
questi dettagli quando sa che sta arrivando
Step!!! Non ci posso credere! Sono andata all'aeroporto
e l'ho aspettato per dodici ore e
non ho avuto il coraggio di fare niente! Cioè
Step si è girato a un certo punto e io mi sono
nascosta di botto dietro una colonna e magari mi
ha pure visto! Cavoli, ha avvertito che qualcuno
lo guardava! Ma che e'ha gli occhi pure dietro...
Però è troppo carino. È dimagrito. È cresciuto.
È. . . è!
Non ci posso credere, è venuta pure all'aeroporto. E ancora.
Ancora.
Stasera lo becco, sono sicura. Ho già pensato
bene il piano. Sono andata giù nel garage
nel pomeriggio, ho aperto il tubetto che
congiunge il serbatoio al motore (Paolo mi ha
spiegato perfettamente tutto! Troppo forte Paolo,
e troppo facile il resto!!!), così non ha
più benzina. Dovrà farla per forza. Ho sentito
in palestra cosa faceva, quindi ha solo due
possibilità: o si ferma al benzinaio sulla Flaminia
o a quello su corso Francia. Ma uno subito
dopo la palestra vuole subito correre...
Per me va lungo. Ha voglia di vento, uno come
lui poi che ama tanto la moto... Be', comunque
nel dubbio blocco tutti e due i benzinai
self-service col lucchetto. Che mi frega! Lo
aspetto sulla Flaminia, se vedo che non arriva
torno indietro a quello di corso Francia.
Piano perfetto... Tanto uno testardo come lui
non accetterà mai di farsi fottere... mica per
i soldi, per il principio! Uno abituato a fottere...
non si fa fottere!
Non credo a quello che sto leggendo. Giro una pagina. E ancora.
Ancora.
Ce l'ho fatta!!! Wow wow wow! Sono tornata a
casa e ho fatto come Julia Roberts in Pretty Woman,
col pugno roteante vicino alla mia faccia
per festeggiare lo splendido piano riuscito. L'ho
conosciuto! Mitica Gin! ! ! Un altro po' e mi stendeva
sul cofano con un cazzotto in pieno viso.
Pfiu pfiu! Me la sono vista brutta. Lo sapevo
che si era nascosto, ma che potevo fare? Dovevo
far finta di cascarci e invece c'è cascato lui!
E di brutto!! ! Ho aspettato due anni e poi anche
le dodici ore all'aeroporto. Che fatica. Ma
sono sicura che ne varrà la pena! Sono sicura
che andrà benissimo, da sogno.
18 settembre.
Iaoooo! Mi è andata bene ma che dico strabene!!!
Ho passato il provino al TdV, dove lavora
lui. Roba da pazzi! Ce l'ho fatta!! Non ci
speravo proprio. Ma la cosa più assurda è che è
passata anche Ele! Oh, non aveva mai superato
un provino! Step... Ma portassi fortuna? Di una
cosa sono sicura. Ora lo vedrò tutti i giorni.
E ora? Ma dove scappi? Ma è troppo giusto così.
. . Troppo forte. Troppo bello. D'altronde ogni
tanto c'è giustizia a questo mondo! Oh, ancora
non ci credo però... Comunque questa poesia è
per te!
Step. Ho sempre avuto voglia di te.
Ho voglia di te.
Per tutto quello che ho immaginato, sognato,
desiderato.
Ho voglia di te.
Per quello che so e ancora di più per quello
che non so.
Ho voglia di te.
Per quel bacio che non ti ho ancora dato.
Ho voglia di te.
Per l'amore che non ho mai fatto.
Ho voglia di te anche se non ti ho mai assaggiato.
Ho voglia di te, di tutto te. Dei tuoi errori,
dei tuoi successi, dei tuoi sbagli, dei tuoi
dolori, delle tue semplici incertezze, dei pensieri
che hai avuto e di quelli che spero hai
dimenticato, dei pensieri che ancora non sai.
Ho voglia di te.
Ho così voglia di te che nulla mi basta.
Ho voglia di te e non so neanche perché...
Uffa. HO VOGLIA DI TE.
Improvvisamente sento un botto. Mi giro di colpo. Gin è sulla
porta della camera. Paolo è dietro di lei.
"Scusami Step, ma non sono riuscita a fermarla. Mi si è infilata
dentro casa come un razzo e..."
Alzo la mano. Paolo capisce. Si ferma. Sta zitto. Non dice più
niente. Rimane con la faccia da ebete, fermo sulla porta mentre
Gin
entra nella stanza. Cammina lentamente, mi guarda ma sembra
passarmi
attraverso. E come se il suo sguardo andasse lontano a cercare
chissà cosa. Scoperta nella sua verità d'amore. Oltre... Ha gli
occhi tristi. Bagnati. Privi di qualsiasi sorriso. Bellissimi. E
mi si
stringe il cuore. Perché ha una luce che conosco. Vedo tutto
quello
che ho vissuto, tutto quello che ho passato, tutto quello che è
naufragato.
"Gin... io..."
"Shh" mi fa lei. E si porta il dito indice davanti alla bocca,
come
una dolce bambina. Chiude gli occhi e scuote la testa.
"Non dire niente, ti prego..." Si riprende i diari, uno dopo
l'altro,
li poggia sul tavolo e li controlla. Li conta e l'infila nella sua
borsa. E se ne va via così, di schiena, senza voltarsi, in
silenzio.
Capitolo 79.
Una chiesa. Spoglia. Un centinaio di persone. Alcuni in piedi,
altri seduti, qualcuno appoggiato a quelle importanti colonne,
antiche,
scurite dal tempo passato, dalle tante preghiere ascoltate, dai
desideri invocati, dai dolori sofferti. Da loro, dai tanti. Dagli
altri.
E poi il mio dolore. Qui. Presente. Il dolore di non aver saputo
essere
fino in fondo protagonista della mia vita, di aver solo perso del
tempo... E per fare cosa poi? Giudicare. Io, giudicare mia madre.
E non riesco a capire come non me ne sia potuto rendere conto
allora.
Improvvisamente mi accorgo come tutto mi è sfuggito di mano,
come accecato da chissà quale ragione ho corso furioso, cieco,
rabbioso verso chissà quale giustizia... E solo ora capisco quanto
ho
fallito. Nel mio ruolo più semplice. Non mi si chiedeva altro,
nulla,
se non il silenzio. Non esprimermi. Anche perché non avevo titoli,
né ruolo, né mandato, né diritto... Niente. Niente che mi desse
quella facoltà: perdonare. Perdonare. Chi sono io per perdonare?
Chi siamo noi per perdonare, chi siamo per poterci dare questo
titolo? E invece no, testardo, egoista, cieco, sono voluto
diventare
giudice. Senza alcun diritto, senza alcun ruolo, senza meriti,
senza un perché. Senza. Prosopopea. Presa da chissà dove, da quale
sentito dire, frutto di quella borghesia più insulsa... E poi, la
cosa
ancor peggiore. Non solo arrogarsi il diritto di perdonare, ma
non saperlo neanche fare. Non perdonare. Ecco. Sono qui in questa
chiesa. In silenzio. E sto male. Non c'è niente di peggio che
sentire
la tua vita sfuggirti tra le mani come semplice sabbia che pensavi
un tempo fosse tua e che invece non ti appartiene più. Come
se tu fossi fermo in piedi, per caso, in uno stabilimento
qualsiasi,
schiavo del vento e di tutto quello che lui ha deciso per te. Non
ho
più niente tra le mani, non mi resta nulla. E me ne vergogno. Mi
guardo in giro. Mio padre, mio fratello, le loro compagne. Perfino
Pallina, Lucone, Balestri e gli altri miei amici. Qualcuno che
manca...
Qualcuno invece di troppo. Ma non mi va neanche di pensarci.
Quelle cose che si devono fare, per formalità, per finto buonismo,
perché non si ha mai il coraggio di essere coerenti fino in fondo,
perché non si sa mai cosa ci aspetta... No. Non ci voglio pensare.
Non oggi. Intorno a me poi tanta altra gente di cui non so neppure
il nome. Parenti lontani, cugini, zii, amici di famiglia, persone
che ricordo solo attraverso foto sbiadite, ricordi confusi di
feste,
di momenti passati, più o meno felici, di sorrisi, di baci e di
altro
ancora, che non so, di chissà quanti anni fa. Un prete ha letto un
brano. Ora sta dicendo qualcosa. Cerca di farmi capire come tutto
quello che sta accadendo è un bene per noi. È un bene per me. Ma
non riesco a seguirlo. No. Non ce la faccio. Il mio dolore è
tanto.
Non riesco a pensare, a capire, ad accettare, a essere
d'accordo...
Come può tutto questo essere un bene per me? Come, in che modo,
per quale assurda ragione? Ha detto cose, mi ha raccontato storie,
mi ha fatto promesse... Ma non riesce a convincermi. No. Solo
di una cosa sono sicuro. Mia madre non c'è più. Solo questo mi è
chiaro. E questo mi basta. O meglio, non mi basta affatto...
Mamma,
mi manchi. Mi manca il tempo di viverti di nuovo, di poterti
dire quello che ora ho capito. E lo dico in silenzio. Ma tu mi
senti.
Un organo comincia a suonare. Dal fondo della chiesa vedo arrivare
Gin. È vestita di scuro, cammina in silenzio. Passa lungo le
arcate,
si tiene fuori dalla vista dei molti, ma non dalla mia. Poi
appoggia
con dolcezza una corona ai piedi dell'altare e mi guarda. Da
lontano. In silenzio. Non accenna a niente. Né un sorriso, né un
rimprovero. Niente. Uno sguardo pulito come solo il suo può
essere.
Al di sopra di tutto, capace di non mischiare il dolore e il
rispetto
con qualunque altra cosa. Un ultimo sguardo. Poi la vedo
tornare in fondo alla chiesa. Poco dopo tutto è finito. All'uscita
la
cerco ma non c'è più. L'ho persa. Persone mi vengono incontro, mi
abbracciano, mi dicono cose, mi stringono la mano. Ma non riesco
a sentire, a capire... Cerco di sorridere, di dire grazie, di non
piangere.
Sì, soprattutto di non piangere. Ma non ci riesco. E non me
ne vergogno. Mamma, mi mancherai. Sto piangendo. Sto
singhiozzando.
E uno sfogo, una liberazione, è la voglia di essere ancora
bambino, di essere amato, di tornare indietro, di non voler
crescere,
di aver bisogno del suo amore puro. Qualcuno mi abbraccia, mi
tiene le spalle, mi stringe. Ma non sei tu, mamma. Non puoi essere
tu. E io mi appoggio, mi piego. Nascondo il mio viso e le mie
lacrime.
E vorrei che non fosse tardi. Mamma, perdonami.
Capitolo 80.
Alcuni giorni dopo. Non so quanti. Quel dolore che provi. Che
non riesci a capire da dove possa arrivare. Che non ti dà
spiegazioni.
Che ti sbatte giù come una grande onda che non avevi visto, che
ti ha preso alle spalle, che ti travolge, ti leva il respiro, ti
fa ruzzolare
sulla sabbia bagnata, su quei passi che ti sembravano così certi
nella tua vita. E invece no. Non lo sono. Non più. Sono giorni che
passo davanti al suo portone. Sono giorni che la vedo uscire nei
modi
più diversi. Nell'unico modo in cui lei è. Bella. Bellissima.
Disordinata,
confusa, elegante, coi capelli raccolti, coi capelli lasciati
andare, giù, pazzi, ribelli. Con due ciuffi, con un vestito a
fiori, con
una salopette mezza calata, con un completo perfetto, con una
camicia
azzurra e il colletto tirato su e una gonna blu scura sotto. Con
dei jeans chiari, con un pinocchietto, con dei jeans strappati e
le cuciture
forti, che risaltano, che si fanno notare. Con tutti i suoi
vestiti
presi su Yoox. Gli accessori. I colori. La fantasia di sapersi
reinventare
ogni giorno. Così. Così com'è lei. Esce sempre da quello
stesso portone e sempre in maniera diversa. Ma ho visto qualcosa
che è sempre uguale. I suoi occhi. Il suo viso. Portano i segni
lontani
di un dispiacere vissuto. Come un sogno bellissimo interrotto
da una serranda tirata su da troppa rabbia. Come il suono
insistente
di un telefonino dimenticato acceso e fatto squillare da uno che
ha
sbagliato numero o, ancora peggio, da qualcuno che non ha nulla
da dire. Come un allarme fatto scattare da un goffo ladro
imbranato
che è già scappato nella notte. Una vita distratta ha urtato col
gomito la sua felicità. E sono stato io. E non posso nascondermi,
non posso giustificarmi. Posso solo sperare di farmi in qualche
modo
perdonare. Ecco. La vedo uscire. La vedo passare. È nella sua
macchina. E per la prima volta dopo tanti giorni nascosto
nell'ombra
faccio un passo in avanti, incrocio il suo sguardo. Fermo
i suoi occhi. Li faccio miei per un attimo. E con loro teneramente
imbarazzato sorrido. Parlo e spiego e racconto e cerco di non
farli andar via. Tutto con uno sguardo. E i suoi occhi sembrano
ascoltare in silenzio, annuire, capire, accettare sul serio quello
che
spero stiano dicendo i miei. Poi, quel silenzio fatto di mille
parole,
intenso come non mai, viene interrotto. Gin abbassa il suo
sguardo.
In cerca di qualcosa. Di un po' di forza. Di un sorriso. Di
qualche
parola detta a voce. Ma non trova niente. Niente. Allora torna
a guardarmi. Scuote leggera la testa. La sua guancia fa una
piccola
smorfia, un accenno di un mezzo sorriso, forse un'ombra di
possibilità. Come a dire "no, non ancora, è troppo presto". Almeno
questo è ciò che voglio leggere. E si allontana così, diretta
verso dove non mi è dato di sapere, verso la vita che l'aspetta,
forse
verso un nuovo sogno, sicuramente migliore di quello che io le
ho rubato. E ha ragione. E se lo merita. Così rimango lì in
silenzio.
Mi accendo una sigaretta. Do solo due tiri e la butto via. Non
ho voglia di niente. Poi capisco che non è vero. Allora la prendo
dal bauletto.
Lontano, più lontano, in quella stessa città. Macchine in
movimento,
clacson, vigili indaffarati, ausiliari inesperti preparati solo
in cattiveria. Rina, la cameriera dei Gervasi, esce dal
comprensorio
degli Stellari. Saluta il portiere col suo solito sorriso dalla
peluria
eccessiva. E continua decisa verso il cassonetto della spazzatura,
accompagnata da un profumo da pochi soldi che nasconde malamente
il lavoro di tutta una giornata. Apre il cassonetto spingendo
forte col piede deciso sulla barra di ferro. Butta con un arco
perfetto,
meglio di una pallavolista alla battuta, il sacchetto della
spazzatura.
Il cassonetto si richiude, come una mannaia lasciata andare
da un boia distratto. Ma non può finire la sua corsa. Da un angolo
spunta fuori un poster arrotolato. C'è la foto ingrandita di quel
ragazzo e quella ragazza a cavalcioni di una moto che "pinna". Il
grido ribelle di quel momento di felicità... di quell'amore ormai
dissolto
nel tempo. Tutto è passato. E ora, come spesso accade, è finito
tra la spazzatura.
Pallina esce di corsa dal suo portone. Allegra e decisa, elegante
come non è più stata. Sale sulla sua macchina e lo bacia ridendo.
Vuole riprendere in mano le redini della sua vita.
"Allora, dove andiamo?"
"Dove vuoi."
Pallina lo guarda e sorride. Ha deciso di buttarsi di nuovo. E
lui è la persona adatta.
"Allora decidi tu, andiamo senza meta per una sera."
E Dema non se lo fa ripetere due volte. Sono anni che aspettava
questo momento. Ingrana la marcia dolcemente e si perde nel
traffico leggero. Poi alza un po' il volume dello stereo e
sorride.
Eva, la hostess, è appena arrivata a Roma. Posa la valigia nella
camera d'albergo e subito prova a chiamarlo. Niente. Il suo
telefonino
è spento, peccato, avrebbe tanto voluto vederlo. Fa niente.
Ci pensa un po'. Poi sorride e compone un altro numero. Chi
viaggia in continuazione ha sempre un altro numero.
Daniela è seduta in camera sua. Ha appena saputo che è maschio.
Sfoglia il libro dei nomi, indecisa. Alessandro, Francesco,
Giovanni... cerca le origini e i significati di ognuno. Dev'essere
un
nome importante, di un condottiero, oppure di uno di quelli
strani,
particolari, che non si dimenticano. E sorride felice tra sé.
Almeno
questo lo posso decidere da sola. Poi si preoccupa. E se il
nome che scelgo è uguale a quello di suo padre? Così rimane
perplessa
e abbandona quel "Fabio" che le sembrava tanto giusto. Vuole
andare sul sicuro... e non sa quant'è inutile questo suo dubbio.
Di sicuro quel bambino non saprà mai il nome di suo padre.
Babi è in camera sua. Controlla felice la lista degli invitati.
Manca
poco. Uffa mamma, hai voluto anche i Pentesti che io non sopporto
e dei cugini che non abbiamo mai visto. Mamma e le sue regole.
Poi per un attimo pensa che quell'idea le piacerebbe da morire.
Sì, sarebbe un'idea bellissima. Invitare Step al suo matrimonio.
Sarebbe fighissimo. E non si rende conto di quanto è tutta sua
madre. Anzi no. Molto peggio.
Due signore si guardano in giro. Vogliono essere sicure che non
ci sia nessuno vicino. Poi tranquille, serve cospiratrici del
pettegolezzo
inutile, possono finalmente sfogarsi.
"Ti assicuro, l'ho visto con una ragazza giovane e molto
abbronzata..."
"Non ci credo... ma l'hai visto tu?"
"No, ma una persona molto fidata."
"Forse ho capito chi te l'ha detto, me l'aveva raccontato anche
a me, ma mi aveva detto anche di non farne parola con nessuno.
Comunque non è abbronzata, è di colore! E una brasiliana! "
"Sul serio? Che strano, da lui questo non me lo sarei mai
aspettato."
"Perché no? Lei è insopportabile! "
Le due donne ridono insieme. Poi rimangono un po' dispiaciute
per quella risata. Forse se lo stanno chiedendo: ma perché,
noi con i nostri mariti come siamo? Finiscono allora per sentirsi
in
colpa, per non sapersi dare bene una risposta. Forse non sono poi
così tanto diverse da lei. Raffaella è in fondo alla sala. Tutte e
due
la guardano. Lei incrocia il loro sguardo e sorride da lontano.
Anche
loro sorridono, complici e un po' goffe. Poi si guardano di nuovo.
Che ci abbia scoperte? Che abbia capito che parlavamo di lei?
E ognuna resta col suo dubbio, mentre Raffaella non le calcola già
più. Dedica ora tutta la sua attenzione all'avversaria.
"Et voilà... chiuso anche il secondo mazzetto. E guarda qui...
Ho fatto anche un burraco ! "
Inizia a contare veloce i punti, felice, senza perdersi dietro a
tutte quelle chiacchiere inutili.
"Ma arbitro, non c'era! " Claudio si alza in piedi, col suo
cappelletto
con la visiera che quasi gli vola via tanta è la foga del suo
entusiasmo, della sua felicità. Si rimette a posto il cappellino e
si
siede di nuovo vicino a Francesca.
"Hai visto anche tu Fra'... non c'era, no?"
E lei fa segno di sì. Non capendo poi tanto di pallone.
"Non c'è niente da fare, è sempre così! Vogliono far vincere
l'Aniene, finisce sempre così qui al Canottieri Lazio ! È perché
quelli
hanno più soci." Claudio, soddisfatto di questa geniale
intuizione,
abbraccia Francesca dandole persino un bacio sulle labbra,
fregandosene
di tutto e tutti, di chi lo conosce, di chi potrebbe vederlo,
di chi potrebbe giudicare... di chi potrebbe dire "Ma come,
ha vent'anni meno di te! ". Poi Claudio, rimettendosi a guardare
la
partita, si accorge che poco più in là ci sono proprio Filippo
Accado
e la moglie. Lo hanno sentito urlare e ora lo stanno fissando.
Lui li saluta con un grande sorriso, sbracciandosi quasi.
"Ciao Filippo. Ciao Marina" e abbraccia di nuovo Francesca,
volendo suggellare in tutto e per tutto e definitivamente quella
sua
ottima scelta. Anche perché, a essere precisi, ha ventiquattro
anni
meno di lui. I due Accado accennano un sorriso, preoccupati di
essere
diventati incolpevoli testimoni di quella che, almeno per loro,
fino a quel momento era stata semplicemente solo una diceria.
Claudio
lo sa. Ed è felice d'averla del tutto confermata. Poi guarda
Francesca.
Bella, morbida, naturalmente abbronzata, giovane e soprattutto...
non rompicoglioni! E le sorride.
"Certo, se mi fossi chiamato Paolo... saremmo stati noi i Paolo
e Francesca del terzo millennio ! "
E lei, che già non capiva nulla di calcio, fa segno di sì anche
questa volta. Claudio capisce d'essersi spinto troppo in là. È
vero,
non si può avere tutto. E allora, per ritrovare la sicurezza della
sua
scelta, tira fuori una sigaretta. Sta per accenderla ma questa
volta
Francesca sa cosa dire.
"Ma Claudio, ne hai fumata una poco fa..."
"Hai ragione cara." Sorride e rimette la sigaretta nel pacchetto,
poi riprende a guardare la partita. Con la coda dell'occhio, senza
farsi accorgere, osserva ancora Francesca. Lei ciancica una gomma
a bocca aperta, canticchiando una strana canzone brasiliana. Ha lo
sguardo un po' fumato, perso in chissà quale pensiero. Ho fatto
bene?
È veramente questo quello che volevo? Claudio ha un attimo
di panico. Be'... sì, penso proprio di sì. Almeno finché dura. Poi
ripensa
alla sua grande decisione. Al grande salto fatto appena una
settimana prima. In fondo è stata proprio Francesca a convincermi
del tutto. Sì, è lei la donna che aspettavo. Devo tutto a lei. È
merito
suo se la Z4 celeste ora è parcheggiata fuori dal circolo. Allora
Claudio riprende a guardare la partita entusiasta e felice.
"Forza ragazzi! Pareggiate! Fateci un bel goal!" e non sa che
proprio in quel momento un semplice boro della Garbatella si
è portato via la sua Z4. Con un semplice spadino da 1 euro se n'è
portati via 42.000... Euro più, euro meno.
Paolo e mio padre hanno deciso di andare al cinese a via
Valadier. Quello dove vanno tutti e da dove tutti escono puzzando
di fritto. Sono seduti a un tavolo. Ridono e scherzano in
compagnia
delle loro donne. Hanno ordinato un sacco di roba. Dalle alghe
fritte agli immancabili involtini primavera, dal maiale in
agrodolce
alla anatra pechinese. Passando per la zuppa di squalo, il
manzo croccante, i ravioli al vapore e quelli alla griglia, il
piatto
novità. Hanno assaggiato di tutto. Si sono rimpinzati provando
ogni tipo di salsa su quello strano piatto girevole che i cinesi
ti mettono
apposta al centro del tavolo per farti sentire un perfetto
orientale.
Ma quando ti arriva il conto anche se è scritto in cinese e ha
una strana linea finale a indicare uno pseudosconto, dovresti
capire
che per loro sarai sempre e solo un occidentale. Paolo e mio
padre si rubano di mano il foglietto. I cinesi stanno lì davanti.
Si
divertono e sorridono a guardarli. Che gliene frega a loro... Dopo
quella solita ridicola pantomima, comunque vada, uno dei due
pagherà
il conto.
Martina e Thomas sono seduti sulle scalette del comprensorio.
Mangiano un pezzo di pizza. Rossa.
"Però... è proprio buona. Dove la compri?"
"Qua vicino. Ti piace?"
"Molto."
"Sai, volevo offrirtela già da tanto tempo, ma non sapevo se ti
andava. "
"E certo che mi va! Anzi, magari domani la compro io e facciamo
ancora merenda qui. Si sta bene seduti sugli scalini. Ti va?"
"Forte, ok."
Poi Thomas, pulendosi come può la bocca con la maglietta, decide
di raccontarglielo.
" Sai Marti, qualche giorno fa stavo passeggiando in piazza quando
mi è successa una cosa stranissima."
"Cosa?"
"Mah, proprio qui. Stavo aspettando Marco che doveva riportarmi
il pallone e a un certo punto s'è fermato uno su una Honda
blu. Ma uno grande, almeno vent'anni. È sceso, m'ha dato una pezza
in faccia e poi lo sai cosa mi ha detto?"
"No, cosa?"
"Lascia stare Michela. E risalito in moto e se n'è andato. Ma ti
rendi conto? Michela che sta con uno di vent'anni!"
È un attimo. Martina sorride senza farsi vedere. Non ci può
credere. Step. È proprio pazzo quello. È uno di quelli che non
s'incontrano
spesso nella vita. Ma se accade, non c'è che da esserne felici.
Ma Thomas non molla.
"E sai chi sembrava? Ti ricordi quel tipo con il quale parlavi
un po' di tempo fa? Dai, quando io stavo seduto sulla catena e ti
ho salutato e voi stavate lì che parlavate davanti al giornalaio?
Hai
capito chi? "
"Sì, ho capito chi dici. Ma guarda che ti sbagli. Non è proprio
il tipo. E poi scusa, ma ti pare che uno come quello si mette con
Michela? Con Michela ci si mette uno come te."
"Io? Ma che sei pazza? Io le sto dietro perché s'è fregata il mio
ed dei Simple Plan, sai Still Not Getting Any? Gliel'avevo
prestato
un mese fa. Ma si vede che quando le ho detto 'Si chiama Pietro e
torna indietro' lei ha capito che il ed tornava indietro da solo!
"
Martina sorride. Non tanto per il tentativo malriuscito di
battuta,
ma perché inizia a capire come stanno le cose.
"Comunque se è quello il tipo, oh diglielo: 'A me di Michela
non me ne frega niente'."
"E certo per paura..."
"Ma che paura ! Io quello se lo ribecco lo faccio nero. Cioè,
magari
tra qualche anno. Ti giuro che comincerò ad andare in palestra.
Anzi no, di più, mi iscrivo al corso di wrestling, voglio
diventare
come John Cena, magari faccio anche una canzone rap. È un
tipo fortissimo, hai capito chi è?"
No.
"Ma non conosci nessuno! "
Thomas alza le spalle e dà un altro bel morso alla pizza. "Mmm
che buona..."Alla fine sorride anche lui, dimenticandosi di quel
fatto.
E fa bene. Nella vita cerchiamo sempre una spiegazione. Perdiamo
del tempo cercando un perché. Ma a volte non c'è. E per triste
che sia, è proprio quella la spiegazione. Thomas parla con
Martina,
ridono e scherzano di altre cose. Poi si guardano. Lei nello
stesso
modo di sempre. Lui come forse non aveva ancora mai fatto. E
sorride.
Forse perché lei lo ha tranquillizzato su quello schiaffo. Forse
semplicemente perché quella ragazzina non è poi così male. Non lo
sa. Non importa. Nel frattempo la pizza finisce. E qualcosa
inizia.
Poco più lontano. Un altro comprensorio. Lì dove in un modo
o nell'altro andranno tutti. Senza rogiti particolari, senza
investimenti
azzeccati o un colpo di fortuna. Dove si è ospiti naturalmente.
Senza riunioni di condominio, senza un amministratore noioso o
un vicino troppo rumoroso. In quel posto dove non è più importante
quanto guadagni ma quanto sei stato capace di dare. Il cimitero.
Nel silenzio di quei prati curati, tanti nomi e semplici foto non
riescono a raccontare il tanto di tutte quelle vite. Ma i volti, i
sorrisi,
il dolore dei loro visitatori raccontano in un attimo la bellezza
di tutto quello che sono stati e la loro continua mancanza. Ecco.
Da un po' di tempo Pollo non è più solo. Ora a fargli compagnia
c'è un altro pezzo della vita di Step. Sua madre. Tutti e due
hanno
dei fiori bellissimi, ancora freschi di vita e d'amore.
Quell'amore
che Step non ha mai risparmiato, che non ha mai avuto la
possibilità
di dimostrare fino in fondo. E nel silenzio di ogni giorno,
nell'eco
lontana della musica della vita che continua, un amico e una
madre stanno parlando. Di lui. Di tutto quello che è stato, di
quello
che i ruoli della vita non hanno permesso di dire. Quelle parole
che non sono state mai dette ma che sono sempre arrivate. Perché
l'amore non va mai perso.
Quando salgo sulla moto ormai è il tramonto. E proprio in quel
momento la vedo tornare. Gin. Con la sua guida veloce, così come
è lei. Segue la curva con la testa, canticchia la canzone che sta
ascoltando
in quel momento. Chissà qual è. Ma sembra di nuovo allegra.
Come sempre. Come l'avevo lasciata. Bella del suo sorriso, della
vita che ha, dei sogni che rincorre, dei limiti che non conosce.
Libera. Libera da tutto quello che non le interessa e anche di
più.
E allora mi allontano così, vedendola stupita, mentre sorride. E
sono
felice. Come non ero da tanto... Colpevole solo di quella scritta.
Immensa. Su tutto il suo palazzo di fronte. Splendida, diretta,
vera. E ora non ho più dubbi. Non ho rimorsi, non ho più ombre,
non ho peccato, non ho più passato. Ho solo una gran voglia di
ricominciare.
E di essere felice. Con te Gin. Sono sicuro. Sì, è proprio
così. Vedi, l'ho anche scritto. Ho voglia di te.
***
I miei ringraziamenti.
Vorrei dire grazie a tutti coloro che nel bene o nel male, e
soprattutto a loro
insaputa, mi hanno dato uno spunto. In fondo la vita è bella
proprio per questo,
perché non dipende solo da te. Un libro invece sì. Voglio
ringraziare chi mi ha volutamente
aiutato.
Grazie a Giulia e ai suoi ottimi consigli. Ma soprattutto ai
momenti bellissimi
che mi ha regalato. Ne ho nascosti alcuni in questo libro, perché
non vadano
dimenticati.
Grazie a Riccardo Tozzi e a sua nipote Margherita, a Francesca
Longardi e a
tutta la Cattleya, perché senza di loro magari questo mio secondo
libro non sarebbe
mai uscito.
Grazie a Ked (Kylee Doust) ! Al suo entusiasmo, al piacere di
ascoltare i suoi
ricordi che alla fine si confrontano con i miei e diventano dei
preziosi consigli.
Grazie a Inge e Carlo Feltrinelli e a tutti gli amici della forza
vendita che hanno
"materialmente" portato il mio libro in giro per l'Italia.
Grazie a Maddy che mi corregge, mi insegna molto e in cambio ride
e si diverte
imparando un po' di sano "gergo romano".
Grazie a Giulia Maldifassi, a Valeria Pagani e a tutte le amiche
dell'ufficio
stampa che mi hanno fatto conoscere e girare l'Italia!
Grazie ad Alberto Rollo che in maniera severa ma piacevole trova
sempre il
modo per indicarmi la via migliore dello scrivere e io
naturalmente lo ascolto.
Grazie ai Budokani, i miei amici, quelli veri, quelli che ci sono
sempre non
solo nelle pagine e nei ricordi.
Grazie a tutti i miei parenti che mi sopportano e dividono con me
il "divano
dei pensieri".
Grazie a Carlantoine, nobile ispiratore!
Grazie al mio "Brother" Mimmo. Quando gli leggo quello che ho
scritto,
lui chiude gli occhi. Poi sorride e annuisce come a dire: "Sì,
vanno bene". Fa
così anche in mare quando sceglie le correnti e il vento.
Grazie a Luce e ai suoi morselletti che mi piacciono sempre tanto.
Infine alcuni suggerimenti me li dà sempre il mio amico Giuseppe.
Mi sta vicino,
mi ascolta e alla fine ride con me. Devo dire che molto spesso ha
ragione.
Quindi, grazie anche a te.