«Posso farti un’ultima domanda?», chiesi, mentre Edward correva a tutta velocità lungo la strada silenziosa. Concentrarsi sulla guida era l’ultimo dei suoi pensieri.
Sbuffò.
«Una sola», rispose, guardingo.
«Be’... hai detto di avere intuito che mi ero diretta a sud, anziché entrare in libreria. Mi chiedevo soltanto come avessi fatto».
Guardò altrove, ponderando la risposta.
«Pensavo che avessimo abolito gli atteggiamenti evasivi».
Accennò un sorriso.
«D’accordo. Ho seguito il tuo odore». Tacque subito, fissando la strada, e mi lasciò un po’ di tempo per riprendere fiato. Non trovai nessuna risposta sensata alle sue parole, che archiviai in attesa di indagini future. Non ero pronta a lasciar cadere il discorso, ora che finalmente mi stava dando qualche spiegazione.
Cercai di guadagnare tempo. «Inoltre, non hai ancora risposto a una delle mie prime domande...».
Mi lanciò un’occhiata di rimprovero. «Quale?».
«Come funziona la faccenda della lettura del pensiero? Riesci a leggere la mente di chiunque, ovunque? Come fai? Anche i tuoi fratelli...?». Mi sentivo una stupida a chiedere delucidazioni su una cosa così irreale, assurda.
«Una domanda sola, hai detto», puntualizzò. Intrecciai le dita e rimasi a guardarlo, in attesa.
«No, è una dote soltanto mia. E non riesco a sentire tutti, ovunque. Devo essere piuttosto vicino alle persone che leggo. Ma più familiare è una “voce”, maggiore è la distanza a cui la avverto. Mai più di qualche chilometro, comunque». Per un istante tacque, pensoso. «È un po’ come essere in una grande sala piena di persone che parlano contemporaneamente. Una specie di rumore di fondo, il ronzio confuso delle voci. Finché non mi concentro su una voce sola e la metto a fuoco: allora sento cosa sta pensando. Il più delle volte semplicemente ignoro, escludo tutto: rischia di distrarmi troppo. Così poi è più facile sembrare normale», a quella parola, aggrottò le ciglia, «ed evitare di rispondere per sbaglio ai pensieri delle persone, anziché alle loro parole».
«Secondo te, perché non riesci a sentirmi?».
Mi fissò con uno sguardo enigmatico.
«Non lo so. Il mio sospetto è che la tua mente funzioni in modo diverso da tutte le altre. Come se i tuoi pensieri trasmettessero in AM e io ricevessi solo in FM». Mi sorrise, improvvisamente divertito.
«La mia mente non funziona come dovrebbe? Sono una specie di mostro?». Mi preoccupai di quell’ipotesi più del dovuto... probabilmente perché le sue supposizioni avevano fatto centro. Avevo sempre sospettato qualcosa del genere in me, e mi sentii imbarazzata di fronte a tale conferma.
«Io sento voci nella mia testa, e tu temi di essere il mostro?», rise. «Stai tranquilla, è solo una teoria...». Si fece serio: «Il che ci riporta a te».
Sospirai. Da dove potevo iniziare?
«Abbiamo abolito le risposte evasive, no?».
Per la prima volta staccai lo sguardo dal suo viso, per cercare le parole giuste. L’occhio mi cadde sul tachimetro.
«Santo cielo! Rallenta!».
«Cosa c’è?». Era stupito, però non decelerava.
«Stai andando a centosessanta!». Non smettevo di gridare. Lanciai un’occhiata di panico fuori dal finestrino, ma c’era troppo buio per decifrare il panorama. La strada era illuminata soltanto nella lunga striscia di luci bluastre dei fari. La foresta che la costeggiava era un muro nero, solido come una barriera d’acciaio, se fossimo usciti di strada a quella velocità.
«Rilassati, Bella». Alzò gli occhi al cielo, senza decelerare.
«Stai cercando di ucciderci?».
«Non usciremo di strada».
Cercai di modulare meglio la mia voce. «Perché tutta questa fretta?».
«Guido sempre cosi». Si voltò per sorridermi, ammiccante.
«Guarda davanti!».
«Non ho mai fatto incidenti, Bella. Non ho mai preso neanche una multa». Sorrise e si picchiettò la fronte. «Segnalatore radar incorporato».
«Divertente», risposi, irritata. «Charlie è un poliziotto, ricordi? Da piccola mi è stato insegnato a rispettare il codice della strada. Inoltre, se ci trasformi in una ciambella di Volvo arrotolata a un albero, l’unico in grado di uscirne senza un graffio sei tu».
«Probabile», concordò, con una risata secca e breve. «Tu invece no». Sospirò, e con mio gran sollievo la lancetta iniziò a spostarsi attorno ai cento. «Contenta?».
«Quasi».
«Odio andare piano», bofonchiò.
«Così è piano?».
«Fine dei commenti sulla mia guida. Sto ancora aspettando la tua ultima teoria».
Mi morsi un labbro. Non mi aspettavo tanta gentilezza nei suoi occhi di miele.
«Non riderò, lo prometto».
«In realtà temo piuttosto che ti arrabbierai con me».
«È una teoria così brutta?».
«Abbastanza, sì».
Restò in attesa. Mi guardavo le mani, perciò non vedevo la sua espressione.
«Prosegui». Sembrava calmo.
«Non so da dove cominciare».
«Perché non cominci dall’inizio... Hai detto che questa teoria non è tutta farina del tuo sacco».
«No».
«A cosa ti sei ispirata? Un libro? Un film?».
«No... è stato sabato, alla spiaggia». Arrischiai un’occhiata al suo viso. Sembrava interdetto. «Ho incontrato per caso un vecchio amico di famiglia, Jacob Black. Suo padre e Charlie si frequentano da quando ero bambina».
Continuava ad apparire confuso.
«Suo padre è un anziano dei Quileutes». Lo osservai con attenzione. Non batteva ciglio. «Abbiamo fatto una passeggiata...», sorvolai sul mio comportamento malizioso, «e lui mi ha raccontato vecchie leggende locali, probabilmente per spaventarmi. Me ne ha raccontata una...», mi fermai, esitando.
«Continua».
«...che parla di vampiri», bisbigliai. A quel punto, non riuscivo a guardarlo in faccia. Ma notai le sue nocche stringersi sul volante.
«E hai pensato immediatamente a me?». Manteneva la calma.
«No. Lui... ha citato la tua famiglia».
Restò zitto, con gli occhi fissi sulla strada.
All’improvviso sentii che dovevo proteggere Jacob.
«Secondo lui era solo una sciocca superstizione», aggiunsi svelta. «Non pensava che ci avrei ricamato sopra». Ma non mi sembrò abbastanza, dovevo confessare: «È stata colpa mia, l’ho costretto a raccontarmela».
«Perché?».
«Lauren ha fatto il tuo nome, così, per provocarmi. E un ragazzo più grande, della tribù, le ha risposto che la tua famiglia non entra nella riserva, ma il suo tono evidentemente nascondeva qualcosa. Perciò sono rimasta sola con Jacob e gliel’ho estorto con l’inganno», ammisi a capo chino.
Incredibilmente, iniziò a ridere. Io alzai gli occhi. Rideva, ma il suo sguardo era furente, fisso davanti a sé.
«Con l’inganno? E come?».
«Ho fatto la smorfiosa con lui, e ha funzionato meglio di quanto io stessa pensassi». Rievocando la scena, io per prima ero incredula.
«Mi sarebbe piaciuto assistere». Rise a mezza voce. «E poi mi accusi di fare colpo sulle persone... povero Jacob Black».
Arrossii e guardai il panorama notturno fuori dal finestrino.
«E allora cos’hai fatto?», chiese lui, subito dopo.
«Una breve ricerca su Internet».
«E hai trovato conferma ai tuoi dubbi?». Sembrava molto poco interessato. Ma non allentava la presa ferrea sul volante.
«No, non mi quadrava niente. Più che altro si trattava di stupidaggini. E poi...».
«Poi cosa?».
«Ho deciso che non m’importa», sussurrai.
«Non ti importa?». Il suo tono mi convinse ad alzare gli occhi: avevo finalmente fatto breccia al di là della maschera costruita con tanta cura. Era incredulo, la rabbia che temevo lo sfiorava appena.
«No», dissi sottovoce. «Non m’importa cosa sei».
Mi parlò con un filo di cattiveria, come per prendermi in giro: «Non t’importa se sono un mostro? Se non sono umano?».
«No».
Tacque, lo sguardo fisso sul parabrezza. La sua espressione era vuota e fredda.
«Ti ho fatto arrabbiare», dissi. «Non avrei dovuto aprire bocca».
«No», rispose, ma la voce era dura come la sua espressione. «Preferisco sapere cosa pensi... anche se ciò che pensi è assurdo».
«Quindi mi sto sbagliando di nuovo?».
«Non intendevo questo. “Non m’importa!”», ripeté le mie parole digrignando i denti.
«È così allora?».
«T’interessa?».
Respirai a fondo.
«Non proprio», attesi un istante, prima di continuare: «Ma sono curiosa». Se non altro, non avevo perso il controllo della voce.
Tutto a un tratto, mi sembrò rassegnato. «Cosa vuoi sapere?».
«Quanti anni hai?».
«Diciassette», rispose istantaneamente.
«E da quanto tempo hai diciassette anni?».
Guardava la strada, con le labbra contratte. Alla fine, si rassegnò a rispondere: «Da un po’».
«D’accordo». Sorrisi, contenta che finalmente fosse sincero. Mi scrutò come quando era preoccupato che mi venisse un attacco di panico. Continuai a sorridere per rassicurarlo, e lui si fece scuro in volto.
«Non ridere se te lo chiedo, ma... come fai a uscire di casa quando è giorno?».
Rise. «Leggenda».
«Non ti sciogli al sole?».
«Leggenda».
«Dormi dentro una bara?».
«Leggenda». Per un momento esitò, poi proseguì con un tono di voce strano: «Io non dormo».
Mi ci volle un minuto per digerire quella risposta. «Mai?».
«Mai», confermò, con un filo di voce. Si voltò verso di me, mesto. I suoi occhi dorati catturarono i miei, facendomi smarrire il filo del discorso. Sostenni il suo sguardo finché non lo volse altrove.
«Non mi hai ancora fatto la domanda più importante». Era tornato freddo e sulla difensiva.
Ero ancora imbambolata. Cercai di riprendermi. «Quale sarebbe?».
«Non sei preoccupata della mia dieta?», chiese, sarcastico.
«Ah... quella».
«Sì, quella. Non sei curiosa di sapere se mi nutro di sangue?».
Mi ritrassi appena. «Be’, Jacob mi ha detto qualcosa».
«Cosa ti ha detto?», chiese, senza tradire nessuna emozione.
«Ha detto che voi non... andate a caccia di umani. Ha detto che la tua famiglia non è considerata pericolosa, perché vi cibate solo di animali».
«Ha detto che non siamo pericolosi?», sembrava profondamente scettico.
«Non esattamente. Ha detto che non vi ritengono pericolosi. Ma che per non correre rischi, i Quileutes ancora oggi non vi vogliono nel loro territorio».
Aveva lo sguardo fisso davanti a sé, ma non ero sicura che stesse osservando la strada.
«Ha detto la verità? Riguardo a voi e agli umani, dico». Cercai di risultare il più tranquilla possibile.
«I Quileutes hanno una buona memoria», sussurrò.
La presi come una conferma.
«Non fidarti troppo, però. Fanno bene a mantenere le distanze. Siamo ancora pericolosi».
«Non capisco».
«Ci proviamo», spiegò, lentamente. «Di solito riusciamo molto bene in ciò che facciamo. Ogni tanto compiamo qualche errore. Io, per esempio, non dovrei restare solo con te».
«Questo è un errore?». Mi accorsi della mia voce triste, senza capire se anche lui l’avesse notata.
«Un errore molto pericoloso», mormorò.
A quel punto tacemmo entrambi. Guardavo i fasci di luce dei fari curvarsi assieme alla strada. Erano troppo veloci, sembravano irreali, come in un videogioco. Il tempo scorreva lesto come la strada scura alle nostre spalle, e avevo il terrore che quella fosse la mia ultima occasione per restare sola con lui, così, apertamente, senza muri a separarci. Le sue parole alludevano a un’idea che non volevo prendere in considerazione. Non potevo sprecare nemmeno un istante.
«Vai avanti», chiesi, disperata, incurante di cosa avrebbe detto, solo per sentirlo parlare di nuovo.
Mi lanciò un’occhiata, stupito dal tono mutato della mia voce. «Cos’altro vuoi sapere?».
«Dimmi perché vai a caccia di animali, anziché di esseri umani», suggerii, ancora con lo sconforto nella voce. Avevo gli occhi lucidi, e mi sforzavo di combattere il senso di pena che voleva prendere il sopravvento.
«Non voglio essere un mostro». Parlò a voce bassissima.
«Ma gli animali non ti bastano?».
Fece una pausa. «Non ho verificato, ovviamente, ma immagino che sia come una dieta a base solo di tofu e latte di soia. Per scherzare, ci definiamo “vegetariani”. Gli animali non placano del tutto la fame, o meglio, la sete. Ma riusciamo a mantenerci in forze. Il più delle volte». La sua voce tornò minacciosa: «Talvolta è davvero difficile».
«Anche in questo momento?».
Sospirò. «Sì».
«Però adesso non hai fame», dissi, ed era una constatazione, non una domanda.
«Cosa te lo fa pensare?».
«I tuoi occhi. Ho una teoria, te l’ho detto. Ho notato che le persone - soprattutto gli uomini - diventano indisponenti, quando hanno fame».
Si lasciò scappare una risata leggera. «Sei una brava osservatrice, eh?».
Non risposi: restai semplicemente in ascolto della sua risata, per conservarne il ricordo.
«Lo scorso weekend sei andato a caccia con Emmett?», chiesi, quando tornò il silenzio.
«Sì». Per un secondo esitò, indeciso se proseguire. «Non avrei voluto andare via, ma ne avevo bisogno. È più facile starti vicino quando non ho sete».
«Perché non volevi andarci?».
«Starti lontano... mi rende... ansioso». Il suo sguardo era dolce ma intenso, e mi sciolse. «Non scherzavo, quando ti ho chiesto di badare a non cadere nell’oceano o a non farti investire, giovedì. Per tutto il fine settimana sono rimasto in pensiero. E dopo stasera, mi sorprende che tu sia sopravvissuta al weekend senza farti un graffio». Scosse il capo e poi parve ricordarsi di qualcosa: «Be’, non proprio».
«Cosa?».
«Le tue mani». Notai i graffi quasi invisibili sui miei polsi. Non perdeva un particolare.
«Sono caduta», sospirai.
«Lo immaginavo». Le labbra si incurvarono in un sorriso. «È anche vero che, per i tuoi standard, avrebbe potuto andare peggio, ed è proprio questo che mi ha tormentato, mentre ero lontano da te. Sono stati tre giorni molto lunghi. Ho rischiato di far saltare i nervi a Emmett». Mi rivolse un sorriso dolente.
«Tre giorni? Non siete tornati oggi?».
«No, siamo a casa da domenica».
«Ma allora perché nessuno di voi è venuto a scuola?». Ero frustrata, quasi infuriata, al pensiero della sofferenza che mi aveva causato non vederlo.
«Be’ mi hai chiesto se il sole mi fa male e ti ho risposto di no. Però non posso espormi alla sua luce... perlomeno, non in pubblico».
«Perché?».
«Un giorno ti farò vedere, te lo prometto».
Ci pensai un istante.
«Potevi chiamarmi».
Lui restò di stucco. «Ma sapevo che eri sana e salva».
«Io invece non sapevo dove fossi tu. Io...», non riuscii a continuare e chinai lo sguardo.
«Cosa?». La sua voce era vellutata. Impossibile non arrendermi.
«Non mi ha fatto piacere non vederti. Anche a me viene l’ansia». Pronunciare quella frase ad alta voce mi fece arrossire.
Lui tacque. Alzai lo sguardo, impaziente, e vidi sul suo volto un’espressione addolorata.
«Ah», esclamò tra sé. «Così non va».
Non capii quella risposta. «Cos’ho detto?».
«Non capisci, Bella? Che io renda infelice me stesso è una cosa, ma che tu sia coinvolta è un altro paio di maniche». Rivolse lo sguardo preoccupato verso la strada, parlava troppo velocemente, quasi non lo capivo. «Non voglio più sentirti dire che provi cose del genere», disse, con un tono basso ma deciso. Le sue parole mi trafissero. «È sbagliato. È rischioso. Bella, io sono pericoloso... ti prego, renditene conto».
«No». Era molto difficile cercare di non sembrare una bambina testarda.
«Dico sul serio», ringhiò lui.
«Anch’io. Te l’ho detto, non m’importa cosa sei. È troppo tardi».
La sua voce schioccò come una frustata, sorda e secca. «Non dirlo mai».
Serrai le labbra, lieta che non si rendesse conto del mio tormento. Guardai fuori dal finestrino. Superavamo di molto il limite di velocità. Ormai eravamo quasi arrivati.
«A cosa pensi?», chiese, ancora nervoso. Scossi il capo, non mi sembrava il caso di parlare. Sentivo il suo sguardo addosso, ma non battevo ciglio.
«Piangi?». Sembrava stupito. Non mi ero accorta che i lucciconi avessero debordato. Mi strofinai in fretta la guancia. E sì, eccome se c’erano.
«No». Cercai di parlare, ma non avevo voce.
Lo vidi accennare un movimento con la mano destra, sembrava volesse toccarmi ma si bloccò, e lentamente tornò a stringere il volante.
«Scusa». La sua voce era densa di dispiacere. Sapevo che non si riferiva soltanto alle parole che mi avevano turbata.
L’oscurità e il silenzio ci avvolsero.
«Dimmi una cosa», chiese, dopo un altro minuto, sforzandosi palesemente di assumere un tono più leggero.
«Parla».
«Cosa stavi pensando stasera, poco prima che arrivassi io? Non riuscivo a leggere la tua espressione. Non sembravi impaurita, pareva che ti sforzassi di concentrarti su qualcosa».
«Cercavo di ricordare come si mette fuori combattimento un assalitore... insomma, l’autodifesa. Stavo per spappolargli il naso conficcandoglielo nel cervello». Sentii una fitta d’odio ripensando all’uomo con i capelli scuri.
«Li avresti affrontati?». Questo lo sbalordiva. «Non pensavi di scappare?».
«Quando corro inciampo a tutto spiano».
«Chiedere aiuto con un urlo?».
«Ci stavo arrivando».
Scosse la testa. «Hai ragione. Cercare di tenerti in vita vuole dire davvero lottare contro il destino».
Sospirai. Rallentavamo, stavamo entrando dentro Forks. Dopo meno di venti minuti di viaggio.
«Ci vediamo domani?», chiesi.
«Sì... Anch’io devo consegnare un saggio». Sorrise. «Ti tengo il posto, a pranzo».
Era assurdo, dopo tutto quel che avevamo passato nelle ore precedenti, che quella piccola promessa mi facesse sentire le farfalle nello stomaco, e fui incapace di aprire bocca.
Eravamo giunti di fronte a casa di Charlie. Le luci erano accese, il pickup parcheggiato, tutto assolutamente normale. Fu come svegliarsi da un sogno. L’auto si fermò, ma non accennai a scendere.
«Prometti che domani ci sarai?».
«Lo prometto».
Ci pensai per qualche istante, poi annuii. Mi levai il suo giaccone, annusandolo un’ultima volta.
«Puoi tenerlo... o domani non avrai niente da mettere».
Glielo restituii. «Non mi va di dare spiegazioni a Charlie».
«D’accordo». Ammiccò.
Rimasi lì, la mano sulla portiera, desiderosa di prolungare quel momento.
«Bella?», domandò, con tutt’altra voce. Seria, ma con un tentennamento.
«Sì?». Mi voltai verso di lui fin troppo pronta.
«Mi prometti una cosa?».
«Sì». Subito, però, mi pentii della mia condiscendenza incondizionata. E se mi avesse chiesto di restargli lontana? Non avrei potuto mantenere la parola.
«Non andare nel bosco da sola».
Lo fissai confusa, stupefatta. «Perché?».
Si fece scuro in viso e rivolse uno sguardo aguzzo dietro di me, oltre il finestrino.
«Diciamo che non sono sempre io, la cosa più pericolosa in circolazione».
L’improvvisa tetraggine della sua voce mi provocò un brivido, ma poco importava. Una promessa del genere almeno era facile da rispettare. «Come vuoi».
«Ci vediamo domani», disse, con un sospiro, e capii che voleva che ci salutassimo così.
«A domani, allora». Aprii la portiera controvoglia.
«Bella?». Mi girai di nuovo e lui era lì, proteso verso di me, il suo volto magnifico e pallido a pochi centimetri dal mio. Mi si fermò il cuore.
«Sogni d’oro». Il suo respiro mi soffiò sulle guance e mi stordì. Lo stesso profumo squisito che avevo sentito sul suo giubbotto, soltanto più denso. Si allontanò, e io rimasi impalata e sbalordita, con gli occhi sbarrati.
Restai impietrita finché non sciolsi il nodo che avevo nel cervello. Poi scesi dall’auto goffamente, tanto che dovetti reggermi alla carrozzeria per non cadere. Mi sembrò di sentirlo ridere, ma il suono era troppo soffocato per esserne certa.
Attese finché non raggiunsi l’entrata, dopodiché lo sentii avviare il motore. Rimasi a guardare l’auto argentea sparire dietro l’angolo. Allora mi resi conto che faceva davvero freddo.
Meccanicamente frugai in cerca della chiave, aprii la porta ed entrai.
Dal salotto, Charlie mi chiamò: «Bella?».
«Sì, papà, sono io». Gli andai incontro. Stava guardando una partita di baseball.
«Sei in anticipo».
«Davvero?».
«Non sono nemmeno le otto. Vi siete divertite?».
«Sì, parecchio». La testa mi girava, mentre cercavo di ricostruire la serata con le ragazze come l’avevo immaginata. «Hanno trovato dei bei vestiti».
«Tu stai bene?».
«Sono un po’ stanca. Ho camminato molto».
«Be’, forse è il caso che ti riposi». Sembrava preoccupato. Chissà che espressione avevo.
«Prima volevo chiamare Jessica».
«Ma non eri con lei fino a un attimo fa?», chiese, sorpreso.
«Sì... ma ho lasciato il giaccone nella sua auto. Non vorrei che domani si dimenticasse di riportarmelo».
«Va bene, ma almeno aspetta che sia tornata a casa».
«Giusto».
Entrai in cucina e mi lasciai cadere su una sedia, esausta. Mi sentivo davvero scossa adesso. Forse la crisi di panico stava arrivando a scoppio ritardato. Mi sforzavo di mantenere il controllo.
Il trillo improvviso del telefono mi fece sobbalzare. Sollevai la cornetta rischiando di strapparla.
«Pronto?», risposi senza fiato.
«Bella?».
«Ehi, Jess. Stavo per chiamarti».
«Ce l’hai fatta a tornare?». Sembrava sollevata... e sorpresa.
«Sì. Ho lasciato la giacca nella tua macchina: domani me la riporti?».
«Certo. Dai, racconta com’è andata!».
«Ehm... domani a trigonometria, d’accordo?».
Capì al volo. «Oh, tuo padre è in ascolto?».
«Esatto».
«Va bene, ne parliamo domani. Ciao!». Moriva di curiosità, trapelava da ogni sillaba.
«Ciao, Jess».
Salii le scale lentamente, con la testa avvolta in una nuvoletta di intontimento. Mi preparai a dormire con gesti meccanici, inconsapevoli. Soltanto sotto il getto bollente della doccia mi resi conto del freddo che sentivo addosso. Per parecchi minuti tremai violentemente, prima di riuscire a rilassare i muscoli sotto il getto vaporoso. Troppo stanca per muovermi, restai lì fino a esaurire l’acqua calda.
Mi trascinai fuori dalla doccia stringendomi nell’asciugamano, per non far sfuggire il calore che avevo addosso e proteggermi dai brividi. Indossai in un baleno il pigiama e arrancai sotto le coperte, rannicchiata, per scaldarmi. Sentii qualche ultimo accenno di tremore.
La testa mi girava come una giostra, ero piena di immagini incomprensibili, alcune cercavo di reprimerle. A prima vista niente sembrava chiaro, ma più mi avvicinavo a uno stato di incoscienza, più emergevano nettamente alcuni punti fermi.
Di tre cose ero del tutto certa. Primo, Edward era un vampiro. Secondo, una parte di lui - chissà quale e quanto importante - aveva sete del mio sangue. Terzo, ero totalmente, incondizionatamente innamorata di lui.