20 Inquietudine

Mi risvegliai confusa. Avevo la testa annebbiata, affollata di sogni e incubi. Impiegai più del dovuto per rendermi conto di dove fossi.

Una stanza così anonima poteva trovarsi soltanto in un albergo. Le abatjour fissate ai comodini erano un indizio inconfutabile, e così le tende dello stesso tessuto del copriletto e le stampe appese alle pareti.

Mi sforzai di ricordare come ci fossi arrivata, ma non mi veniva in mente nulla.

Poi ricordai l’auto nera, elegante, con i finestrini più scuri di quelli di una limousine. Il motore quasi non si sentiva, benché sfrecciassimo sulle autostrade buie a più del doppio del limite di velocità.

E ricordavo che Alice era seduta al mio fianco sul sedile posteriore. Chissà come, durante la lunga notte, avevo posato la testa contro il suo collo granitico. Non si era mostrata affatto stupita di quella vicinanza, e la sua pelle dura e fresca mi metteva stranamente a mio agio. Il colletto della sua camicia di cotone si era fatto umido e freddo, inzuppato dal fiume di lacrime che mi sgorgò dagli occhi finché non si furono prosciugati, restando rossi e pesti.

Ero rimasta a lungo insonne; le mie palpebre esauste rifiutavano di chiudersi, benché la notte fosse finita e dietro la cima di una montagna bassa, da qualche parte in California, si intravedesse l’alba. La luce grigia che colorava il cielo terso mi accecava. Ma i miei occhi non cedevano: se solo li chiudevo, riaffioravano immagini troppo vivide, intollerabili, come diapositive nascoste sotto le palpebre. L’espressione affranta di Charlie... il ringhio brutale di Edward a denti scoperti... lo sguardo sprezzante di Rosalie. E poi il modo in cui il segugio ci scrutava, acuto e all’erta, e la morte negli occhi di Edward dopo quell’ultimo bacio... Non riuscivo a sopportare di rivedere tutto questo. Perciò mi sforzai di combattere contro la stanchezza, e il sole si alzò.

Quando attraversammo uno stretto valico di montagna, e il nuovo giorno illuminò i tetti di mattoni della “valle del sole”, ero ancora sveglia. Se mi fosse rimasta qualche emozione, mi sarei sorpresa a scoprire che eravamo giunti in Arizona in un giorno solo, anziché in tre. Osservavo l’ampia distesa pianeggiante vuota di fronte a me. Phoenix: le palme, gli arbusti bassi e i cespugli odorosi di creosoto, le linee tracciate a caso dall’intersezione delle autostrade, le macchie verdi dei campi da golf appena rasati, le pozzanghere turchesi delle piscine; il tutto sommerso da uno smog sottile e abbracciato dalla breve catena di creste rocciose, troppo basse per poterle chiamare montagne.

Il sole gettava sull’asfalto le ombre oblique delle palme, definite, più aguzze di quanto ricordassi, più chiare di quanto avrebbero dovuto essere. Dietro quelle ombre non poteva nascondersi nulla. L’autostrada luminosa e aperta sembrava un luogo benevolo. Ma non provavo alcun sollievo, non era un vero ritorno a casa.

«Qual è la strada per l’aeroporto?», aveva chiesto Jasper, spaventandomi, malgrado la sua voce bassa e tranquilla. Fu il primo suono, a parte le fusa del motore, a spezzare il lungo silenzio di quella notte.

«Resta sulla I-101», avevo risposto meccanicamente, «e ci passeremo davanti».

Ricordavo come il mio cervello lavorasse lentamente, annebbiato dalla privazione di sonno.

«Prendiamo l’aereo?», avevo chiesto ad Alice.

«No, ma è meglio restare qui vicino, non si sa mai».

Ricordavo che avevamo imboccato la circonvallazione attorno all’aeroporto internazionale di Sky Harbor ma non che ne fossimo usciti. Probabilmente mi ero addormentata in quel momento.

Eppure, dopo aver ripescato i ricordi, mi restava un’immagine vaga di come ero scesa dall’auto - il sole stava per tramontare all’orizzonte - abbrancata alle spalle di Alice, che mi stringeva forte, trascinandomi in mezzo a ombre calde e asciutte.

Non ricordavo la stanza.

Guardai la radiosveglia sul comodino. Secondo le cifre rosse luminose erano le tre in punto, chissà se di notte o di pomeriggio. Dalle tende spesse non trapelava un filo di luce, la stanza era illuminata soltanto dalle lampadine.

Mi alzai, contratta, e barcollai fino alla finestra per guardare fuori.

Era buio. Perciò erano le tre di notte. La mia stanza dava su un tratto deserto di autostrada e sul nuovo parcheggio dell’aeroporto. Fu quasi rassicurante, riuscire a identificare tempo e spazio.

Indossavo ancora gli abiti di Esme e non mi andavano affatto bene. Mi guardai intorno e notai con piacere la mia sacca sopra il letto.

Mi avvicinai per tirarne fuori qualche vestito, ma qualcuno bussò piano alla porta, spaventandomi.

«Posso entrare?», chiese Alice.

Respirai a fondo. «Certo».

Entrò e mi rivolse un lungo sguardo indagatore. «Sembri strapazzata, potresti concederti qualche altra ora di sonno», disse.

Feci cenno di no.

Si avvicinò in silenzio alle tende e le chiuse con cura, prima di rivolgersi di nuovo a me: «Ci toccherà restare al chiuso».

«D’accordo». La voce mi si incrinò; era debole e rauca.

«Hai sete?».

«No, sto bene. E tu?».

«Niente di ingestibile». Sorrise. «Ti ho ordinato qualcosa da mangiare, è di là, nell’altra stanza. Edward ha detto di ricordarmi che voi vi nutrite molto più spesso di noi».

Subito mi sentii più vigile. «Ha chiamato?».

«No», rispose, notando la mia espressione delusa. «È stato prima di partire».

Mi prese per mano con delicatezza e mi guidò nel salotto della suite. Dalla TV arrivava un cupo brusio di voci. Jasper era immobile, seduto alla scrivania nell’angolo, e osservava il notiziario senza il minimo interesse.

Mi sedetti per terra, accanto al tavolino sul quale mi attendeva un vassoio pieno di cibo, e iniziai a mangiucchiare qualcosa, senza neppure badare a cosa fosse.

Alice si appollaiò sul bracciolo del divano e si mise a fissare a vuoto la TV, come Jasper.

Mangiavo piano, guardando lei e lanciando di tanto in tanto un’occhiata a Jasper. Erano immobili, fin troppo. Non staccavano gli occhi dallo schermo, nemmeno quando c’era la pubblicità. Spinsi via il vassoio: improvvisamente avevo la nausea. Alice si voltò verso di me.

«Cosa c’è che non va, Alice?», le chiesi.

«Niente». I suoi occhi erano grandi, sinceri... ma non mi fidai.

«Cosa facciamo adesso?».

«Aspettiamo la telefonata di Carlisle».

«Avrebbe già dovuto chiamare?». Quasi centro. Lo sguardo di Alice incrociò il mio e per un istante schizzò sul telefono, sopra la borsa di pelle.

«Cosa significa...», la voce mi tremava, faticavo a controllarla, «che non ha ancora chiamato?».

«Significa soltanto che non hanno niente da dirci». Ma la sua voce era troppo piatta, e l’atmosfera troppo tesa.

Immediatamente Jasper affiancò Alice, avvicinandosi a me più del solito.

«Bella», disse, con una voce dolce, fin troppo sospetta, «non c’è niente di cui preoccuparsi. Qui sei al sicuro, fidati».

«Questo lo so».

«E allora, perché hai paura?», chiese perplesso. Poteva percepire le mie emozioni, ma non riusciva a coglierne l’origine.

«Hai sentito anche tu cos’ha detto Laurent». La mia voce era un flebile sussurro, ma di certo riuscivano a sentirla. «Ha detto che James è letale. E se qualcosa non funziona, se si dividono? Se succede qualcosa a uno qualsiasi di loro, Carlisle, Emmett... Edward...». Restai senza fiato. «Se quella femmina selvaggia fa del male a Esme...». Nella mia voce risuonò una nota più stridula, isterica: «Come potrei vivere sapendo che è colpa mia? Nessuno di voi dovrebbe rischiare così tanto per me...».

«Bella, Bella, smettila». Jasper parlava troppo in fretta, quasi non lo capivo. «Ti preoccupi delle cose sbagliate. Credimi, se ti dico che nessuno di noi rischia niente. Sei già abbastanza sotto pressione: non caricarti del peso di preoccupazioni superflue. Ascoltami», mi rimproverò, perché avevo distolto lo sguardo, «la nostra famiglia è forte. L’unica paura che abbiamo è quella di perderti».

«Ma perché dovreste...».

A interrompermi fu Alice, che mi sfiorò la guancia con le dita fredde: «Edward è rimasto solo per quasi un secolo. Ora ha trovato te. Dopo tutti questi anni passati insieme a lui, certi cambiamenti non ci sfuggono, e lui è diverso, adesso. Pensi che avremmo il coraggio di guardarlo in faccia per i prossimi cent’anni, se ti perde?».

Il mio senso di colpa sbiadiva lentamente, mano a mano che sprofondavo in quegli occhi neri. Malgrado la calma mi stesse invadendo, però, sapevo di non potermi fidare delle mie sensazioni, se c’era Jasper.

Fu una giornata lunghissima.

Restammo nella stanza. Alice chiese alla reception di non preoccuparsi delle pulizie in camera. Le finestre erano sempre chiuse, la TV sempre accesa, benché nessuno la guardasse. I pasti arrivavano a intervalli regolari. Il telefonino argentato che spiccava sopra la borsa di Alice sembrava sempre più gigantesco.

I miei due baby-sitter sopportavano la tensione molto meglio di me. Più diventavo irrequieta e impaziente, più loro si facevano immobili, due statue i cui occhi mi seguivano con spostamenti impercettibili. Mi distraevo memorizzando i dettagli della stanza, le righe colorate dei cuscini: marrone chiaro, pesca, nocciola, oro opaco, e ancora marrone. Di tanto in tanto osservavo le stampe astratte appese alle pareti cercando di identificare delle figure, come facevo da piccola con le nuvole. Vidi una mano blu, una donna che si pettinava, un gatto che si stirava. Ma quando un cerchio rosso chiaro divenne un occhio spalancato, lasciai perdere.

Con l’avanzare del pomeriggio me ne tornai a letto, tanto per fare qualcosa. Speravo che da sola, al buio, avrei potuto dare sfogo alle paure terribili che incombevano ai margini della mia coscienza, frenate dall’attenta supervisione di Jasper.

Ma Alice, come se si fosse stancata anche lei del salotto, mi seguì. Forse aveva ricevuto da Edward istruzioni precise che io ignoravo. Mi sdraiai sul letto, lei si sedette al mio fianco, a gambe incrociate. Sulle prime semplicemente la ignorai, mi sentivo tutt’a un tratto abbastanza stanca da poter dormire. Dopo qualche minuto, però, il panico trattenuto dalla presenza di Jasper iniziò a riaffiorare. Rinunciai all’idea di addormentarmi in fretta e mi raggomitolai su me stessa.

«Alice?».

«Sì?».

Cercavo di mantenere un po’ di calma almeno nella voce. «Secondo te cosa stanno facendo?».

«Carlisle voleva attirare il segugio più a nord possibile, aspettare che si avvicinasse e poi tornare indietro a tendergli un’imboscata. Esme e Rosalie dovrebbero dirigersi a ovest, finché la femmina le segue. Se dovesse cambiare direzione, loro tornerebbero a Forks per tenere d’occhio tuo padre. Immagino che le cose stiano procedendo bene, se non possono telefonare. Significa che il segugio è molto vicinò e non vogliono che li ascolti».

«Neanche Esme?».

«Penso che dovrà prima tornare a Forks. Non si azzarderebbe a chiamare, se rischiasse di farsi sentire dalla femmina. Di sicuro tutti agiscono con la massima attenzione».

«Pensi davvero che siano al sicuro?».

«Bella, quante volte devo ripeterti che noi non siamo in pericolo?».

«Se così non fosse, mi diresti la verità?».

«Sì. Ti dirò sempre la verità». Sembrava sincera.

Per un attimo ci pensai su, e conclusi che lo era.

«E allora dimmi... come si diventa vampiri?».

La mia domanda la prese in contropiede. Si zittì. Mi rigirai nel letto per osservarla, la sua espressione era ambigua.

«Edward non vuole che te lo dica», rispose con fermezza, ma qualcosa mi diceva che non era d’accordo.

«Non è giusto. Credo di avere il diritto di saperlo».

«Lo so».

La guardai, impaziente.

Sospirò: «Si arrabbierà tantissimo».

«Non riguarda lui. Resterà tra me e te. Alice, te lo chiedo da amica». E in qualche modo, ormai eravamo davvero amiche. Probabilmente lei lo sapeva da sempre.

Mi fissò con i suoi occhi splendidi, grandi... inquieti.

«Ti spiegherò come funziona», disse infine, «ma io non me lo ricordo, non l’ho mai fatto né visto fare, perciò tieni conto che è solo teoria».

Aspettavo che parlasse.

«In quanto predatori, disponiamo di un arsenale vastissimo, molto più ricco del necessario. La forza, la velocità, i sensi affinati, per non parlare di quelli come me, Edward o Jasper, che sfruttano sensi supplementari. E poi, come fiori di piante carnivore, le nostre prede ci trovano fisicamente attraenti».

Immobile, ricordavo con quanta precisione Edward mi avesse dimostrato quello stesso concetto, nella radura.

Lei si illuminò di un sorriso ampio e inquietante. «E c’è un’altra arma che definirei superflua. Siamo anche velenosi». I denti mandarono un bagliore. «È un veleno che non uccide: mette soltanto fuori combattimento la vittima. Funziona lentamente, si diffonde attraverso il sangue in modo che la preda, sopraffatta da un dolore tanto intenso, non possa sfuggire. Come ho detto, è un’arma quasi del tutto superflua. Se siamo così vicini, la preda non fa comunque in tempo a scappare. Ci sono le eccezioni, certo. Carlisle, per esempio...».

«Perciò... se si lascia che il veleno si diffonda...».

«La trasformazione dura qualche giorno, a seconda di quanto veleno circola nel sangue e di quanto ne entra nel cuore. Il cuore pompa sangue e veleno che, entrando in circolo, guarisce e trasmuta il corpo. Alla fine il cuore si ferma, e la metamorfosi è completa. Ma in ogni singolo istante del mutamento, la vittima non desidera altro che morire».

Avevo i brividi.

«Ecco, non è una cosa piacevole».

«Edward mi ha detto che per voi è un’operazione molto delicata. Non capisco».

«In un certo senso, somigliamo anche agli squali. Se sentiamo il sapore, o l’odore, del sangue, diventa molto difficile mettere a tacere l’istinto famelico. Talvolta è impossibile. Perciò mordere qualcuno, assaggiarne il sangue, scatena l’impulso. È difficile per entrambi: la sete di sangue da una parte, il dolore insopportabile dall’altra».

«Secondo te, perché non ricordi nulla?».

«Non lo so. Per gli altri, il dolore della trasformazione è il ricordo più acuto della loro vita da esseri umani. Io non ricordo nemmeno di esserlo stata». Si era intristita.

Restammo in silenzio, chiuse ciascuna nei propri pensieri.

I secondi passavano, ed ero talmente assorta da essermi dimenticata della presenza di Alice.

Poi, all’improvviso, scese dal letto con un balzo leggero. Alzai la testa di scatto, sorpresa.

«È cambiato qualcosa». Sembrava impaziente e non parlava con me.

Raggiunse la porta nello stesso istante in cui vi apparve Jasper. Era ovvio che avesse ascoltato la nostra conversazione e l’esclamazione improvvisa di Alice. Le posò le mani sulle spalle e la fece sedere sul bordo del letto.

«Cosa vedi?», chiese, concentrato, fissandola negli occhi. Lei aveva lo sguardo perso, metteva a fuoco qualcosa di molto, molto lontano. Mi sedetti accanto a lei, chinandomi per ascoltarne la voce svelta e flebile.

«Vedo una stanza. È lunga, ci sono specchi dappertutto. Il pavimento è di legno. Lui è nella stanza, in attesa. C’è dell’oro... una linea dorata sugli specchi».

«Dov’è la stanza?».

«Non lo so. Manca qualcosa... Una decisione che non è stata ancora presa».

«Quando?».

«Presto. Arriverà nella stanza degli specchi oggi, o forse domani. Dipende. Sta aspettando qualcosa. Ora è al buio».

Jasper sapeva come interrogarla, calmo e metodico: «Cosa fa?».

«Guarda la TV... no, è un videoregistratore, al buio, in un altro posto».

«Riesci a vedere dove?».

«No, c’è troppo buio».

«E nella stanza degli specchi cos’altro c’è?».

«Solo gli specchi e l’oro. È una linea che corre per tutta la stanza. Ci sono un tavolo nero, con sopra un grosso impianto stereo, e un televisore. Qui lui tocca il videoregistratore, ma non lo guarda come nella stanza buia. Questa è la stanza in cui aspetta». Fissò il vuoto, poi mise a fuoco il volto di Jasper.

«Nient’altro?».

Scosse il capo. I due si guardavano, immobili.

«Cosa significa?», chiesi.

Sulle prime, nessuno riuscì a rispondermi, poi parlò Jasper.

«Significa che i piani del segugio sono cambiati. Ha preso una decisione che lo porterà alla stanza degli specchi e alla stanza buia».

«Ma non possiamo sapere dove sono queste stanze?».

«No».

«Però sappiamo che non riusciranno a spingerlo sulle montagne a nord dello Stato di Washington. Riuscirà a sfuggirgli». La voce di Alice era cupa.

«E il caso di chiamarli?», chiesi. Si scambiarono uno sguardo preoccupato, indecisi.

Poi il telefono squillò.

Prima ancora che potessi alzare gli occhi, Alice era dall’altra parte della stanza.

Schiacciò un tasto e avvicinò il cellulare all’orecchio, ma non fu lei a parlare per prima.

«Carlisle», disse in un fiato. Non sembrava sorpresa né tranquillizzata, come invece ero io.

«Sì», disse, lanciandomi un’occhiata. Per qualche lunghissimo istante rimase in ascolto. «Mi è apparso poco fa». Descrisse di nuovo la sua visione. «Qualunque motivo l’abbia spinto a prendere quell’aereo... lo porterà a quelle stanze». Fece una pausa. «Sì», disse al telefono, poi si rivolse a me: «Bella?».

Mi porse il cellulare. Corsi a prenderlo.

«Pronto?».

«Bella».

«Oh, Edward! Ero preoccupatissima!».

«Bella», sospirò, frustrato, «ti ho detto di preoccuparti solo di te stessa». Sentire la sua voce era qualcosa di incredibilmente bello. La nuvola di disperazione svanì pian piano e se ne andò.

«Dove sei?».

«Appena fuori Vancouver. Bella, mi dispiace: l’abbiamo perso. Si muove con prudenza, riesce sempre a starci lontano quel tanto che basta perché mi sia impossibile sentire ciò che pensa. Ma adesso è sparito... sembra che abbia preso un aereo. Probabilmente tornerà a Forks per ricominciare la caccia da capo». Alle mie spalle, Alice aggiornava Jasper, con parole velocissime che si confondevano in un brusio.

«Lo so. Alice l’ha visto altrove».

«Tu però non devi preoccuparti. Non troverà niente che lo porti a te. Devi soltanto restare lì e aspettare che lo ritroviamo».

«D’accordo. Esme è da Charlie?».

«Sì. La femmina è tornata in città. È passata da casa tua, ma Charlie era al lavoro. Non gli si è avvicinata, perciò non preoccuparti. È al sicuro, guardato a vista da Esme e Rosalie».

«E lei cosa fa?».

«Probabilmente sta cercando la scia giusta. Stanotte ha battuto la città intera. Rosalie l’ha seguita in aeroporto, lungo le strade della periferia, a scuola... Sta scavando, Bella, ma non troverà niente».

«E tu sei certo che Charlie sia al sicuro?».

«Sì, Esme non lo perde di vista. E presto la raggiungeremo anche noi. Se il segugio si avvicina a Forks, lo prenderemo».

«Mi manchi», sussurrai.

«Lo so, Bella. Credimi, lo so. È come se ti fossi portata via metà di me stesso».

«E allora vieni a riprendertela».

«Presto, il più presto possibile. Prima ti salverò».

«Ti amo».

«Ci credi se ti dico che, malgrado tutto quello che ti sto facendo subire, ti amo anch’io?».

«Sì, certo che sì».

«Verrò a prenderti presto».

«Ti aspetto».

Non appena riattaccò, la nuvola di depressione tornò a riaddensarsi sulla mia testa.

Mi voltai per restituire il telefono ad Alice e la trovai seduta al tavolo, intenta a disegnare su un foglio di carta intestata dell’albergo. Sbirciai da dietro le sue spalle.

Stava disegnando una stanza: lunga, rettangolare, con una sezione quadrata più stretta in fondo. Le assi del parquet correvano parallele al lato più lungo. Sulle pareti, una serie di linee dritte marcava i contorni degli specchi. E poi, a un’altezza che poteva arrivare ai fianchi di una persona, la linea. La linea che secondo Alice era dorata.

«È una scuola di danza», dissi, riconoscendo all’istante le forme familiari.

Mi guardarono, sorpresi.

«Hai già visto questa stanza?». Jasper sembrava calmo, ma nella sua voce vibrò una nota che non riuscii a identificare. Alice stava a capo chino sulla sua opera, e la mano volava sul foglio a tratteggiare i contorni di un’uscita di sicurezza in fondo alla sala, poi lo stereo e il televisore sopra il tavolino, nell’angolo a destra dell’entrata.

«Sembra il posto in cui andavo a prendere lezioni di danza a otto o nove anni. Aveva la stessa forma». Sfiorai la pagina all’altezza della sezione quadrata e più stretta, in fondo alla stanza. «Qui c’era il bagno... per entrare si passava dall’altra sala. Ma lo stereo era qui», indicai l’angolo sinistro, «era più vecchio, e non c’era il televisore. In sala d’attesa c’era una finestra: da lì si poteva vedere la stanza, dalla stessa prospettiva che hai disegnato tu».

Alice e Jasper mi fissavano, increduli.

«Sei sicura che sia la stessa stanza?», chiese Jasper, senza perdere la calma.

«No, niente affatto: immagino che la maggior parte delle scuole di danza siano così, con gli specchi e la sbarra». Seguii con il dito la linea che incrociava gli specchi. «È soltanto la forma a sembrarmi familiare». Indicai la porta, che si trovava esattamente dove ricordavo.

«Avresti qualche motivo per andarci adesso?», chiese Alice, interrompendomi mentre fantasticavo sui miei ricordi.

«No, non ci entro da quasi dieci anni. Ero una ballerina tremenda... nei saggi di fine anno mi mettevano sempre in ultima fila».

«Perciò è impossibile che questa stanza possa portare a te?», chiese Alice, assorta.

«Probabilmente ha anche cambiato proprietario. Di sicuro è un’altra stanza, altrove».

«E la scuola di ballo che frequentavi tu, dov’è?», chiese Jasper, senza tradire troppa curiosità.

«Era a due passi da casa di mia madre. Ci andavo a piedi, dopo la scuola...», dissi, senza terminare la frase. Lo sguardo che i due si scambiarono non mi sfuggì.

«Qui a Phoenix?», chiese Jasper, il tono ancora calmo.

«Sì», dissi in un sussurro, «tra la Cactus e la Cinquantottesima».

Restammo in silenzio, con gli occhi fissi sul disegno.

«Alice, quel telefono è sicuro?».

«Sì. È un numero del distretto di Washington».

«Allora posso usarlo per telefonare a mamma».

«Pensavo fosse in Florida».

«Sì, però tornerà presto, e non posso permettere che entri in casa e...». Mi tremava la voce. Stavo pensando a ciò che aveva detto Edward della femmina dai capelli rossi: che era stata a casa di Charlie e a scuola, dove erano custoditi i miei dati.

«Come farai a raggiungerla?».

«Non hanno un numero fisso, a parte quello di casa: lei controlla la segreteria regolarmente».

«Jasper?», chiese Alice.

Lui ci pensò sopra. «Non credo che corriamo rischi. Ovviamente, bada a non dire dove ti trovi».

Afferrai il telefono con impazienza e composi il numero che conoscevo così bene. Al quarto squillo, la voce di mia madre chiedeva di lasciare un messaggio.

«Mamma, sono io. Ascolta. Ho bisogno di un grosso favore. Appena senti il messaggio, chiamami a questo numero». Alice scattò al mio fianco e scrisse il numero in fondo al disegno. Lo lessi a voce alta con cura, due volte. «Ti prego, non andare da nessuna parte finché non mi avrai richiamato. Non preoccuparti, sto bene, ma devo parlare con te quanto prima, a qualsiasi ora ascolti la registrazione, d’accordo? Ti voglio bene, mamma. Ciao». Chiusi gli occhi e pregai con tutte le mie forze che nessun imprevisto la costringesse a tornare a casa prima di ascoltare la segreteria.

Mi lasciai cadere sul divano e presi a mangiucchiare quel che era rimasto di un vassoio di frutta, pronta ad affrontare una lunga serata. Pensai anche di chiamare Charlie, ma non ero sicura che fosse già a casa. Mi concentrai sui telegiornali, in cerca di servizi sulla Florida, sugli allenamenti precampionato, ma anche su scioperi, uragani o attacchi terroristici, su qualsiasi cosa che avrebbe potuto costringerli a tornare in anticipo.

Evidentemente, chi è immortale impara a essere paziente. Né Jasper né Alice sentivano il bisogno di fare alcunché. Per un po’, Alice tratteggiò la stanza buia come l’aveva vista, per quel che le permetteva la luce fioca del televisore. Quando finì, si sedette a osservare il muro spoglio, con i suoi occhi senza tempo. Neanche Jasper sembrava avere necessità di mettersi a passeggiare avanti e indietro, o di sbirciare dalla finestra, o di correre urlando fuori dalla porta, come avrei desiderato fare io.

Probabilmente mi addormentai sul divano, in attesa di uno squillo del telefono. Mi svegliai per qualche istante al tocco leggero delle mani gelate di Alice che mi rimetteva a letto, ma risprofondai nel sonno ancora prima di posare la testa sul cuscino.

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