12 Equilibrio

«Billy!», esclamò Charlie, appena sceso dall’auto.

Mi voltai verso casa e feci un cenno a Jacob dalla veranda, sotto cui ero riparata. Sentivo Charlie salutarli a gran voce.

«Farò finta di non averti visto al volante, Jake», disse al ragazzo, rimproverandolo.

«Alla riserva la patente si prende prima», rispose Jacob, mentre aprivo la porta e accendevo la luce della veranda.

«Ah, sì, come no». Rideva.

«Dovrò pure muovermi in qualche modo, no?». Riconobbi la voce profonda di Billy all’istante, malgrado gli anni trascorsi. Sentirla mi riportò immediatamente all’infanzia.

Entrai, lasciando la porta aperta alle mie spalle, e prima di appendere il giubbotto accesi tutte le luci. Poi restai sulla soglia a osservare ansiosa Charlie e Jacob che tiravano fuori Billy dall’auto e lo facevano accomodare sulla sedia a rotelle.

Feci largo ai tre che entrarono in fretta, scrollandosi per asciugarsi dalla pioggia.

«Che sorpresa», esclamò Charlie.

«È una vita che non ci si vede», rispose Billy. «Spero che non sia un momento sbagliato». Mi inchiodò di nuovo con quegli occhi scuri e indecifrabili.

«No, va benissimo. C’è la partita, perché non rimanete?».

Jacob sorrise: «Questo era il piano: il nostro televisore si è rotto la settimana scorsa».

Billy guardò di traverso suo figlio: «E ovviamente, Jacob era impaziente di rivedere Bella». Jacob, serio, chinò la testa, mentre io cercavo di mettere a tacere il rimorso. Forse sulla spiaggia ero stata troppo convincente.

«Avete fame?», chiesi, diretta in cucina. Non vedevo l’ora di sfuggire allo sguardo indagatore di Billy.

«No, abbiamo mangiato prima di venire qui», rispose Jacob.

«E tu, Charlie?», chiesi, già da dietro l’angolo.

«Certo», rispose, e si precipitò in salotto di fronte alla TV. Sentivo il rumore della sedia a rotelle di Billy che lo seguiva.

I sandwich al formaggio erano già in padella, e mentre affettavo un pomodoro mi accorsi di una presenza accanto a me.

«E allora, come va?», chiese Jacob.

«Piuttosto bene», sorrisi. Era difficile resistere al suo entusiasmo. «E tu? Hai finito la macchina?».

«No», si rabbuiò. «Mi manca ancora qualche pezzo. Questa è in prestito». Con il pollice indicò l’auto parcheggiata nel vialetto.

«Mi dispiace. Non ho visto nessun... cos’era che stavi cercando?».

«Un cilindro freni». Sorrise. «Il pick-up ha qualche problema?», chiese subito dopo.

«No».

«Ah. Ho notato che non lo stavi guidando».

Abbassai lo sguardo sulla padella, sollevando un sandwich per controllarne il fondo. «Un amico mi ha dato un passaggio».

«Bella macchina», la voce di Jacob era piena di ammirazione. «Però non ho riconosciuto il guidatore. Pensavo di conoscere la maggior parte dei ragazzi della zona».

Annuii appena, senza staccare gli occhi dai sandwich che avevo appena girato.

«A papà sembrava di conoscerlo».

«Jacob, mi passi i piatti? Sono nella credenza, sopra il lavandino».

«Certo».

Mi allungò le stoviglie in silenzio. Speravo che il discorso morisse lì.

«Insomma, chi era?», chiese, sistemando i due piatti sul piano di cottura accanto a me.

Mi arresi, con un sospiro: «Edward Cullen».

Con mia grande sorpresa, scoppiò a ridere. Alzai lo sguardo su di lui. Sembrava vagamente imbarazzato.

«Ah, questo spiega tutto», disse. «Mi chiedevo perché mio padre avesse reagito cosi».

«Già», simulai un’espressione innocente. «I Cullen non gli piacciono».

«Vecchio superstizioso», mormorò Jacob, tra sé.

«Pensi che dirà qualcosa a Charlie?». Non riuscii a trattenermi, le parole mi sfuggirono, ansiose e veloci.

Per un istante Jacob mi colpì con uno sguardo indecifrabile, poi rispose: «Secondo me no: l’ultima volta Charlie gli ha fatto una testa così. Da allora non parlano granché. Quella di stasera è una specie di riconciliazione. Non credo che avrà voglia di tornare sull’argomento».

«Ah». Ostentavo indifferenza.

Portai la cena a Charlie e rimasi in salotto a fingere di guardare la partita mentre Jacob chiacchierava. In realtà badavo alla conversazione tra i due uomini, in attesa del momento in cui Billy avrebbe cercato di stanarmi, pensando alla maniera migliore di arginarlo se avesse cominciato.

Fu una serata molto lunga. Avevo un sacco di compiti da fare, ma l’idea di lasciare Billy e Charlie da soli mi spaventava. Infine la partita terminò.

«Pensi che tu e i tuoi amici tornerete presto alla spiaggia?», chiese Jacob mentre spingeva il padre sulla soglia.

«Non saprei».

«Ci siamo divertiti, Charlie», disse Billy.

«Tornate per la prossima partita», suggerì Charlie.

«Certo, certo. Ci saremo. Buonanotte». Guardò verso di me, e il suo sorriso scomparve. «E tu stai attenta, Bella», aggiunse, serio.

«Grazie», bofonchiai, guardando altrove.

Mentre Charlie ancora li salutava dalla porta, iniziai a salire le scale.

«Aspetta, Bella».

Mi arrestai dov’ero, imbarazzata. Billy aveva detto qualcosa a mio padre prima che li raggiungessi in salotto?

Eppure Charlie era rilassato, ancora sorridente per la visita inaspettata.

«Stasera non siamo riusciti a parlare. Com’è andata la giornata?».

«Bene». Esitavo, un piede ancora sul primo gradino, intenta a raccogliere i particolari che avrei potuto raccontargli. «La mia squadra di badminton ha vinto quattro partite su quattro».

«Caspita, non sapevo che giocassi a badminton».

«Be’, a dire la verità non sono capace, ma il mio compagno è molto bravo».

«Chi è?». Cercava di mostrare interesse.

«Ehm... Mike Newton», risposi, di malavoglia.

«Ah, sì... mi avevi detto che il figlio dei Newton era tuo amico». Sollevò la testa. «Brava gente, la sua famiglia». Rimase qualche istante a meditare. «Perché non hai invitato lui al ballo di sabato?».

«Papà! Ha appena iniziato a uscire con la mia amica Jessica. E poi lo sai anche tu che non so ballare».

«Ah, sì», mugugnò. Poi sorrise, per scusarsi. «Perciò non è un problema se sabato sei fuori casa... Io ho organizzato una battuta di pesca con i ragazzi della centrale. Le previsioni dicono che farà davvero caldo. Ma se preferisci rimandare il viaggio finché non trovi qualcuno che ti accompagni, posso restare a casa. So bene che ti lascio un po’ troppo spesso qui da sola».

«Papà, ti stai comportando benissimo». Sorrisi, sperando che non cogliesse il mio sollievo. «La solitudine non è mai stata un problema, per me... ti somiglio troppo». Strizzai l’occhio, e lui rispose con il suo sorriso increspato di piccole rughe.


Quella notte dormii meglio, ero troppo stanca per sognare. Quando mi svegliai, alla luce grigio perla del mattino, mi sentivo beata. Il nervosismo della serata con Billy e Jacob non mi toccava più: decisi di dimenticarmene del tutto. Mi sorpresi a fischiettare, mentre mi sistemavo il fermacapelli, scendendo dalle scale. Charlie se ne accorse.

«Siamo di buonumore, stamattina?», commentò a colazione.

Mi strinsi nelle spalle. «È venerdì».

Cercai di sbrigarmi, per essere pronta non appena Charlie fosse uscito. Avevo preparato lo zaino, indossato le scarpe, lavato i denti, ma malgrado mi fossi affacciata alla porta di casa nell’esatto istante in cui l’auto della polizia si allontanava, Edward era già lì: mi aveva preceduto come sempre. Mi aspettava sulla sua auto metallizzata, con i finestrini abbassati e il motore spento.

Stavolta salii sull’auto senza esitazioni, svelta, impaziente di rivederlo. Mi rivolse il suo solito sorriso sghembo, che mi fermò il respiro e il cuore. Non riuscivo a immaginare un angelo più splendido. In lui non c’erano imperfezioni da correggere.

«Dormito bene?», chiese. Chissà se si rendeva conto di quanto fosse affascinante la sua voce.

«Sì. E la tua nottata, com’è stata?».

«Piacevole». Sorrideva, divertito, come per una battuta che non potevo capire.

«Posso chiederti cosa hai fatto?».

«No». Fece un sorriso. «Oggi è ancora mio».

Quel giorno l’interrogatorio riguardava le persone: notizie su Renée, sui suoi hobby, su ciò che facevamo assieme nel tempo libero. E poi l’unica nonna che avevo conosciuto, le mie poche amicizie di scuola, e un momento di imbarazzo quando mi chiese dei ragazzi con cui ero uscita. Fortunatamente, non essendo mai uscita sul serio con nessuno, quella conversazione non poteva che durare ben poco. La povertà della mia vita sentimentale lo stupì, come era successo con Jessica e Angela.

«Perciò non sei mai uscita con qualcuno che ti piaceva?», chiese, tanto serio da farmi domandare a cosa stesse pensando.

Io fui sfacciatamente sincera: «Non a Phoenix».

Il suo sorriso si tese.

A quel punto della conversazione eravamo già arrivati all’ora della mensa. La giornata era trascorsa fulminea, come d’abitudine ormai. Approfittai della pausa per addentare la mia ciambella.

«Forse oggi era meglio che tu venissi da sola», disse, di punto in bianco, mentre masticavo.

«Perchè?».

«Dopo pranzo vado via con Alice».

«Oh». Che sorpresa, e che delusione. «Non c’è problema, farò una passeggiata».

Mi fissò con aria torva e impaziente. «Non intendo farti tornare a casa a piedi. Andiamo a prendere il pick-up e lo portiamo qui».

«Non ho le chiavi», sospirai. «Davvero, non è un problema». Il problema era stare lontana da lui.

Scosse la testa. «Il tuo pick-up sarà qui e la chiave sarà nel quadro, a meno che tu non tema che qualcuno lo rubi». Al pensiero di un tale furto, scoppiò a ridere.

«D’accordo», risposi, a denti stretti. Ero piuttosto sicura che la chiave si trovasse nella tasca del paio di jeans che avevo indossato il mercoledì precedente, ammassati assieme ad altri vestiti in lavanderia. Anche se avesse fatto irruzione in casa mia, ammesso che ci stesse pensando, non l’avrebbe mai trovata. Prese la mia risposta come una sfida. E fece una boccaccia, sicuro di sé.

«Dove andate?», chiesi, nella maniera più disinvolta possibile.

«A caccia», rispose, torvo. «Se voglio restare solo con te domani, devo prendere tutte le precauzioni possibili». La sua espressione si fece imbronciata... e implorante. «Ricorda che puoi sempre annullare la nostra uscita».

Abbassai lo sguardo, temendo il potere di persuasione dei suoi occhi. Rifiutavo di lasciarmi convincere ad aver paura di lui, malgrado il rischio fosse reale. Non m’importa, ripetevo tra me.

«No», sussurrai, guardandolo, «non posso».

«Forse hai ragione», mormorò tetro. I suoi occhi si facevano sempre più scuri.

Cambiai discorso: «A che ora ci vediamo, domani?». Ero già depressa, al pensiero di doverlo salutare di lì a poco.

«Dipende. È sabato, non vuoi dormire un po’ più a lungo?».

«No», risposi troppo in fretta. Lui non riuscì a trattenere un sorriso.

«Al solito orario, allora. Ci sarà Charlie?».

«No, domani va a pesca». Mi illuminai, al pensiero di tutte quelle coincidenze fortunate.

La sua voce tornò fredda. «E se non torni a casa, cosa penserà?».

«Non ho idea», risposi, senza scompormi. «Di solito il sabato faccio il bucato. Penserà che sono caduta nella lavatrice».

Mi lanciò un’occhiataccia, che ricambiai. La sua rabbia faceva molta più scena della mia.

«Di cosa vai a caccia, stanotte?», chiesi, quando fui sicura di avere perso la gara di occhiatacce.

«Quello che troviamo nel bosco. Non ci allontaneremo». Sembrava lusingato dalla mia allusione disinvolta alla sua realtà segreta.

«Perché ti fai accompagnare da Alice?».

«È l’unica che mi... incoraggia». Si rabbuiò.

«E gli altri?», chiesi timidamente. «Cosa dicono?».

Per un istante corrugò la fronte. «Perlopiù sono increduli».

Lanciai un breve sguardo dietro di me ai suoi fratelli. Erano tutti seduti al solito posto, nelle stesse posizioni in cui li avevo visti la prima volta, con lo sguardo perso nel vuoto. Però erano in quattro: il loro fratello bellissimo dai capelli di bronzo era seduto di fronte a me e mi guardava, inquieto.

«Non gli piaccio», commentai.

«Non è questo il problema», rispose, ma il suo sguardo fu troppo innocente. «Non capiscono perché mi intestardisca con te».

Feci una smorfia. «Nemmeno io, se è per questo».

Edward scosse la testa lentamente, e alzò gli occhi al cielo, prima di incrociare i miei. «Te l’ho detto: tu hai un’idea completamente sbagliata di te stessa. Sei diversa da chiunque altra abbia conosciuto. Mi affascini».

Spalancai gli occhi, sicura che stesse scherzando.

Sorrise, cercando di decifrare la mia espressione. «Grazie a certe mie qualità», mormorò, toccandosi con grazia la fronte, «ho una comprensione della natura umana superiore alla media. Le persone sono prevedibili. Ma tu... tu non fai mai ciò che mi aspetto. Mi cogli sempre di sorpresa».

Tornai a osservare i suoi fratelli, imbarazzata e delusa. Evidentemente per lui ero una sorta di esperimento scientifico. Mi sentivo ridicola per avere sperato che potesse essere diverso.

«E fin qui, spiegare è molto facile», proseguì. Sentivo i suoi occhi addosso, ma non avevo il coraggio di guardare, perché temevo che avrebbe letto il tormento nei miei. «Ma c’è di più... e non è facile da dire a parole...».

Mentre parlava, continuavo a fissare i Cullen. All’improvviso, Rosalie, la bionda mozzafiato, si voltò a guardarmi. No, non a guardarmi... a incenerirmi, con un’occhiata cupa e minacciosa. Avrei voluto distogliere lo sguardo, ma rimasi ipnotizzata finché Edward non si interruppe per emettere un ringhio rabbioso e soffocato. Sembrava il sibilo di un serpente.

Rosalie si voltò e mi liberò dalla sua presa. Cercai conforto in Edward: avevo gli occhi sbarrati, per la confusione e la paura che sapevo lui vi avrebbe letto.

Cercò di spiegare, nervoso: «Mi dispiace. È soltanto preoccupata... Non sarebbe pericoloso soltanto per me, se dopo aver passato così tanto tempo assieme sotto gli occhi di tutti...», abbassò lo sguardo.

«Se?».

«Se dovesse finire... male». Si prese la testa fra le mani, come quella sera a Port Angeles. Soffriva, era chiaro; avrei voluto consolarlo, ma non sapevo come. Ero tentata di afferrare la sua mano, stesi la mia fino a lui ma rinunciai, temendo di peggiorare le cose. Lentamente mi resi conto che le sue parole avrebbero dovuto farmi paura. Aspettai che tale paura arrivasse, ma non sentivo altro che la pena per il suo tormento. E la frustrazione, una frustrazione per essere stata interrotta da Rosalie mentre lui stava per dire chissà cosa. Non sapevo come riprendere il discorso. Si teneva ancora il capo tra le mani.

Cercai di parlare senza scompormi. «È ora di andare?».

«Sì». Mostrò il viso, prima serio, poi sorridente. «Probabilmente è meglio così. Ci restano ancora quindici minuti di quel maledetto filmato da vedere durante l’ora di biologia e non penso che li sopporterei».

Accanto a lui, a sorpresa, spuntò Alice, con i suoi capelli neri corvini, corti e disordinati sopra il viso squisito da elfo. Era sottile come un giunco, aggraziata anche quando restava ferma.

La salutò senza staccare gli occhi da me: «Alice».

«Edward», rispose lei, con una voce acuta da soprano, fascinosa quasi come quella del fratello.

«Alice, Bella... Bella, Alice». Ci presentò con un gesto disinvolto della mano e un sorriso obliquo.

«Ciao, Bella». Il suo sguardo acceso di ossidiana era indecifrabile, ma il sorriso sembrava amichevole. «Piacere di conoscerti, finalmente».

Edward la fulminò con uno sguardo.

«Ciao, Alice», mormorai, timida.

«Sei pronto?», chiese lei al fratello.

Lui rispose con un certo distacco: «Quasi. Ci vediamo alla macchina».

Lei se ne andò senza aggiungere altro. Provai un crampo acuto di gelosia per quella camminata così fluida e sinuosa.

«Devo augurarvi “buon divertimento”, o è l’emozione sbagliata?», chiesi, rivolgendomi a Edward.

«No, “divertitevi” può andar bene». Sorrise.

«Allora divertitevi». Mi sforzavo di essere entusiasta. Ma non ero credibile, ovviamente.

«Ci proverò. E tu, per favore, cerca di sopravvivere».

«Sopravvivere a Forks... che sfida».

«Per te lo è». Si fece serio: «Promettilo».

«Prometto che cercherò di sopravvivere. Stasera faccio il bucato, una missione piena di incognite».

«Non cadere nella lavatrice».

«Farò del mio meglio».

Ci alzammo entrambi.

«Ci vediamo domani», sospirai.

«Per te è un’eternità, vero?».

Annuii, seria.

«A domattina», promise, con il suo sorriso sghembo. Si sporse per accarezzarmi ancora la guancia. Poi si voltò e se ne andò. Rimasi a guardarlo finché non sparì.

Ero tentata di saltare il resto delle lezioni, perlomeno quella di ginnastica, ma l’istinto mi avvertì che era meglio cambiare idea. Sapevo che se fossi scomparsa proprio allora, Mike e gli altri avrebbero dedotto che ero assieme a Edward. Ed Edward si preoccupava di non dare a vedere quanto tempo passava con me... nel caso fosse andata male. Ma all’eventualità non volevo nemmeno pensare; piuttosto, dovevo concentrarmi sul modo migliore di evitargli complicazioni.

Il mio intuito mi diceva che quel sabato sarebbe stato decisivo, e percepivo che anche per Edward fosse così. La nostra relazione non poteva continuare in quel modo, in equilibrio sulla punta di un coltello. Prima o poi saremmo caduti, da una parte o dall’altra della lama, e ciò dipendeva esclusivamente dalle sue scelte, o dai suoi istinti. Io avevo preso una decisione prima ancora di rendermene conto razionalmente ed ero pronta a rispettarla fino in fondo. Perché niente era per me più terrificante, più straziante, del pensiero di allontanarmi da lui. Era impossibile.

Tornai in classe, ligia al dovere. La lezione di biologia passò senza lasciare traccia: ero troppo occupata a pensare al giorno dopo. Durante l’ora di ginnastica, Mike ricominciò a parlarmi, e mi augurò di passare una buona giornata a Seattle. Gli spiegai scrupolosamente che ero preoccupata per il pick-up e che avevo cancellato la gita.

«Vieni al ballo con Cullen?», chiese allora rabbuiandosi.

«No, non verrò affatto al ballo».

«E cosa fai?», chiese, con fin troppa curiosità.

Un impulso naturale mi spingeva a dirgli di togliersi dalle scatole. Invece, mentii spudoratamente.

«Il bucato, dopodiché studierò per il test di trigo, che ho paura di non passare».

«E Cullen ti aiuterà, a studiare?».

«Edward», sottolineai per bene il nome, «non mi aiuterà a studiare. Trascorre il fine settimana da qualche parte fuori città». Notai con sorpresa che le bugie uscivano con più naturalezza del solito.

«Ah». Alzò lo sguardo. «Be’, potresti venire lo stesso al ballo assieme a noi. Sarebbe fico... balleremmo tutti con te».

Immaginarmi l’espressione di Jessica mi rese più velenosa di quanto fosse lecito.

«Non verrò al ballo, Mike, okay?».

«Va bene». Tornò al suo broncio. «Era solo una proposta».

Quando finalmente le lezioni terminarono, uscii nel parcheggio senza entusiasmo. Non avevo granché voglia di tornare a casa a piedi, ma non vedevo come Edward avrebbe potuto recuperare il pick-up. D’altro canto, iniziavo a credere che per lui niente fosse impossibile. E tale intuizione si dimostrò fondata: trovai il pick-up proprio nello spiazzo in cui Edward aveva parcheggiato la Volvo quel mattino. Scossi il capo, incredula, spalancai la portiera e vidi la chiave nel quadro.

Sul sedile c’era un biglietto piegato. Salii, richiusi la portiera e lo aprii. Erano soltanto due parole, vergate dalla sua grafia elegante.

Stai attenta.

Il rombo del pick-up che riprendeva vita mi spaventò. Risi di me stessa.

Giunta a casa, trovai la serratura della porta chiusa e il catenaccio aperto, come l’avevo lasciato. Entrai e corsi subito in lavanderia. Anche quella sembrava inviolata. Cercai i jeans nel mucchio, li trovai e controllai le tasche. Vuote. Forse, in fin dei conti, avevo appeso la chiave al suo posto.

Assecondando lo stesso istinto che aveva scatenato le bugie dette a Mike, telefonai a Jessica con la falsa scusa di augurarle buona fortuna per il ballo. Quando ricambiò per la mia giornata con Edward, risposi che avevo annullato la gita. Fu molto più dispiaciuta di quanto un’osservatrice esterna avrebbe dovuto essere. La salutai poco dopo.

A cena, Charlie era distratto, forse era preoccupato per questioni di lavoro o per una partita di basket; in fin dei conti, forse si stava soltanto godendo le lasagne; con Charlie non si poteva mai dire.

«Sai, papà...», dissi, interrompendo il suo sogno a occhi aperti.

«Che c’è, Bell?».

«Penso che abbia ragione tu, riguardo a Seattle. Aspetterò che Jessica o qualcun’altra venga con me».

Fu sorpreso: «Ah, d’accordo. Vuoi che resti a casa con te, allora?».

«No, papà, non cambiare i piani. Ho un milione di cose da fare... i compiti, il bucato... devo andare in biblioteca e a comprare le verdure. Andrò avanti e indietro tutto il giorno... Tu vai e divertiti».

«Sicura?».

«Sicura, papà. E poi, il livello di pesce nel freezer si sta abbassando paurosamente: abbiamo scorte solo per due, massimo tre anni».

«Vivere con te è una pacchia, Bella». Sorrise.

«Posso dire lo stesso di te», risposi, con una risata forzata alla quale, per fortuna, non diede peso. Mi sentivo tanto in colpa per quell’inganno da avere quasi la tentazione di seguire il consiglio di Edward e confessare tutto a Charlie. Quasi.

Dopo cena, piegai i vestiti e preparai un altro carico per l’asciugatrice. Purtroppo, era il genere di mansione che mi teneva occupate soltanto le mani. La mia mente aveva decisamente troppo tempo libero e ne stavo perdendo il controllo. Fluttuavo tra un’impazienza così intensa da farmi quasi male, e una paura fastidiosa che punzecchiava la mia determinazione. Ormai avevo scelto, dovevo prenderne atto, e non sarei tornata sui miei passi. Leggevo e rileggevo il biglietto, per assorbire le due semplici parole scritte da Edward. Vuole che io stia al sicuro, mi ripetevo senza sosta. Mi dovevo aggrappare alla convinzione che, alla fine, quel desiderio avrebbe prevalso sugli altri. E poi qual era l’alternativa... eliminarlo dalla mia vita? Intollerabile. Per giunta, da quando vivevo a Forks, sembrava davvero che la mia vita riguardasse soltanto lui.

Ma la vocina nella mia testa era preoccupata e si chiedeva quanto avrei sofferto... se fosse finita male.

Andare a letto fu un sollievo. Sapevo di essere troppo stressata per dormire, perciò feci un gesto mai azzardato prima: presi volontariamente un sonnifero di quelli che mi mettevano fuori combattimento per otto ore buone. In una situazione normale non mi sarei perdonata una simile debolezza, ma non era proprio il caso di aggiungere l’intontimento di una notte in bianco a una giornata che già di per sé si presentava complicata. In attesa che il narcotico agisse, mi asciugai i capelli appena lavati fino a stirarli perfettamente, e mi scervellai per scegliere i vestiti da indossare il giorno dopo.

Terminati i preparativi, mi infilai sotto le coperte. Mi sentivo ipertesa; non smettevo di rigirarmi. Mi alzai a frugare nella scatola di scarpe in cui tenevo i CD, finché non trovai una collezione dei Notturni di Chopin. L’ascoltai a volume basso e poi tornai a letto, concentrandomi per rilassare una parte del corpo alla volta. Chissà quando, nel bel mezzo dell’esercizio, le pillole fecero effetto e la tanto desiderata perdita di coscienza arrivò.


Mi svegliai presto, dopo un sonno profondo e senza sogni grazie all’intervento aggiuntivo del sonnifero. Malgrado avessi riposato bene, tornai subito nervosa e irrequieta come la sera prima. Mi vestii in un lampo, stirando con cura il colletto della camicia, e tormentai la felpa marrone chiaro per farla cadere bene sui jeans. Con una lesta occhiata alla finestra mi accertai che Charlie fosse già uscito. Il cielo era velato da uno strato di nuvole sottile e vaporoso, destinato a dissolversi sotto il sole.

Ingurgitai la colazione e sparecchiai in un baleno. Diedi un’altra occhiata fuori dalla finestra, ma non era cambiato niente. Mi lavai i denti, scesi qualche scalino, e il rumore delicato di qualcuno che bussava alla porta mi mandò in fibrillazione.

Volai all’ingresso: la serratura semplicissima mi creò qualche difficoltà, ma infine riuscii a spalancare la porta, ed ecco apparire Edward. Un semplice sguardo al suo splendido viso cancellò l’agitazione e mi riempì di pace. Sospirai di sollievo: le paure del giorno prima, con lui accanto, sembravano bazzecole.

Da tenebroso che era, si rasserenò. Mi guardò e sorrise.

«Buongiorno». Rideva sotto i baffi.

«Cosa c’è che non va?». Mi guardai per assicurarmi di non avere dimenticato niente di importante, come le scarpe o i pantaloni.

«Stessa divisa». E rise di nuovo. In effetti, anche lui indossava una larga felpa marrone chiaro, da cui spuntava un colletto bianco, e un paio di blue jeans. Risi con lui, nascondendo un filo di invidia: perché lui sembrava un fotomodello e io no?

Chiusi la porta, mentre si avvicinava al pick-up. Mi aspettava dalla parte del passeggero con un’espressione da martire che la diceva lunga.

«Gli accordi sono accordi», precisai, compiaciuta, accomodandomi al posto di guida, e mi allungai per aprirgli la portiera.

«Dove andiamo?», chiesi.

«Allaccia la cintura: sono già nervoso».

Obbedii e gli lanciai un’occhiataccia.

«Dove?», ribadii sospirando.

«Prendi la centouno, verso nord».

Era sorprendentemente difficile concentrarmi sulla guida, con il suo sguardo addosso. Cercai di rimediare usando molta più attenzione del solito nell’attraversare la città ancora addormentata.

«Pensi di farcela, a uscire da Forks prima di sera?».

«Questo pick-up potrebbe essere il nonno della tua auto, abbi un po’ di rispetto».

Poco dopo raggiungemmo la periferia, malgrado il pessimismo di Edward. I prati e le case presto lasciarono il posto al sottobosco e ai tronchi velati di verde.

«Svolta a destra verso la centodieci», disse lui, anticipando la mia domanda. Obbedii in silenzio.

«Adesso prosegui finché non trovi lo sterrato».

Sentivo una nota gioiosa nella sua voce, ma avevo troppa paura di uscire di strada e confermare i suoi timori sul mio stile di guida per voltarmi a controllare.

«E quando arriva lo sterrato, cosa c’è?».

«Un sentiero».

«Trekking?». Grazie al cielo mi ero messa le scarpe da ginnastica.

«È un problema?». Sembrava che avesse previsto tutto.

«No». Cercai di mentire senza darlo a vedere. Ma se pensava che il pickup fosse lento...

«Non preoccuparti, sono solo sette o otto chilometri, e non abbiamo fretta».

Otto chilometri. Non risposi, per non tradire il panico. Otto chilometri di radici minacciose e sassi sparsi, decisi a slogarmi una caviglia o a menomarmi in qualsiasi altra maniera. Sentivo l’umiliazione in agguato.

Per un po’, mentre contemplavo l’orrore imminente, restammo in silenzio.

«A cosa pensi?», chiese lui impaziente.

Mentii di nuovo: «A dove stiamo andando».

«In un posto in cui mi piace stare quando c’è bel tempo». Entrambi guardammo le nuvole sempre più sottili, fuori dai finestrini.

«Charlie diceva che sarebbe stata una giornata calda».

«E tu gli hai raccontato quali erano i tuoi piani?».

«No».

«Ma Jessica crede che stiamo andando a Seattle assieme?». L’idea sembrava rallegrarlo.

«No, le ho detto che hai annullato la gita... il che è vero».

«Nessuno sa che sei con me?». Si stava inquietando.

«Dipende... immagino che tu l’abbia detto ad Alice».

«Questo sì che mi è d’aiuto», disse sarcastico.

Finsi di non sentire.

«Forks ti deprime così tanto da farti contemplare il suicidio?», chiese, reclamando la mia attenzione.

«Sei stato tu a dire che per te poteva essere un problema... farci vedere troppo assieme».

«Così saresti preoccupata dei guai che potrei passare io... se tu non torni a casa?». Era ancora irritato, e il suo sarcasmo era velenoso.

Annuii, senza staccare gli occhi dalla strada.

Borbottò qualcosa a mezza voce, tanto rapidamente che non riuscii a decifrarlo.

Per il resto del viaggio in auto non volò una mosca. Sentivo le ondate di furia e rimprovero, e non riuscivo a spiccicare parola.

Infine, la strada terminò e si trasformò in un sentiero stretto, indicato soltanto da un piccolo ceppo. Parcheggiai nel poco spazio disponibile a lato della strada, timorosa perché Edward era in collera e io non avevo più la scusa della guida per distrarmi. La temperatura si era alzata, dal giorno del mio arrivo a Forks non avevo mai sentito quel caldo quasi afoso, sotto la coltre di nubi. Levai la felpa e me la annodai ai fianchi: era una fortuna che avessi indossato una camicia leggera, senza maniche, soprattutto perché mi aspettava una camminata di otto chilometri.

Sentii la sua portiera sbattere, e mi voltai: anche lui si era tolto la felpa e mi dava le spalle, rivolto verso la folta vegetazione al di là del pick-up.

«Da questa parte», disse, con un’occhiata ancora nervosa. Fece strada, dentro la foresta fitta e ombrosa.

«E il sentiero?». Girai attorno al pick-up di corsa con la voce piena di panico.

«Ho detto che alla fine della strada avremmo incontrato un sentiero, non che lo avremmo percorso».

«Niente sentiero?», chiesi, disperata.

«Non ci perderemo, fidati». Poi si voltò, sorridendomi beffardo, e mi tolse il fiato. Anche lui indossava una camicia senza maniche, sbottonata, e la pelle bianca e liscia del collo scendeva tesa sul profilo marmoreo del petto; la muscolatura non più nascosta dai vestiti spiccava in tutta la sua perfezione. Una simile bellezza era troppo perfetta, mi resi conto con una fitta acuta di disperazione. Non era possibile che questa creatura divina fosse stata inviata proprio a me.

Mi fissò, stupito dalla mia espressione straziata.

«Vuoi tornare a casa?», disse piano, con una velo di tormento, diverso da quello che provavo io.

«No». Mi avvicinai accelerando il passo, desiderosa di non sprecare nemmeno un istante del tempo che avevamo a disposizione.

«Cosa c’è che non va?», chiese, delicato.

«Il trekking non è il mio forte, purtroppo. Ti toccherà essere paziente».

«So essere molto paziente... se mi sforzo». Sorrise, sostenendo il mio sguardo e cercando di alleggerire quel mio improvviso e inspiegabile avvilimento.

Cercai di rispondere al sorriso, ma senza convinzione. Mi studiò in viso.

«Ti porterò a casa». Non capii se si trattava di una promessa indefinita o alludesse a una partenza immediata. Di sicuro pensava che avessi paura, e per l’ennesima volta ringfaziai il cielo che non riuscisse a leggermi nel pensiero.

«Se vuoi che io riesca a percorrere otto chilometri nella giungla prima che il sole tramonti, è il caso che tu faccia strada da subito», dissi acida. Mi guardò, serio, sforzandosi di leggere la mia espressione e il mio tono di voce.

Non fu difficile come temevo. Il terreno era più o meno regolare, ed Edward toglieva di mezzo le felci umide e i grovigli di muschio. Quando ci imbattevamo, lungo il nostro percorso dritto, in alberi caduti o massi, mi aiutava, sostenendomi per il braccio e lasciandomi andare appena superato l’ostacolo. Ogni contatto della sua pelle fredda con la mia era un batticuore assicurato. Per due volte capii dal suo sguardo che se n’era accorto.

Cercai di non lasciarmi distrarre da tanta perfezione, ma spesso cedevo. E, ogni volta, ammirare la sua bellezza mi intristiva.

Perlopiù, camminammo in silenzio. Di tanto in tanto buttava lì una domanda dimenticata durante i due giorni di interrogatorio. Mi chiese dei miei compleanni, dei miei professori, dei miei animali domestici, e fui costretta ad ammettere di averci rinunciato del tutto, dopo avere ucciso tre pesci rossi uno dopo l’altro. Ciò lo fece ridere più fragorosamente del solito, e nel bosco deserto risuonò attorno a noi come un’eco di campane.

La camminata occupò quasi tutta la mattina, ma lui non diede alcun segno di impazienza. La foresta si spandeva in un labirinto sconfinato di alberi secolari, e iniziavo a temere che non avremmo più ritrovato la strada di casa. Lui era perfettamente a suo agio, nel verde della vegetazione, e non mostrava alcuna esitazione, neppure il minimo problema di orientamento.

Dopo molte ore, la luce che filtrava dal tetto di foglie cambiò, da un tono oliva scuro a un giada luminoso. Era uscito il sole, come Edward aveva previsto. Per la prima volta da quando eravamo entrati nel bosco, sentii un’agitazione che presto divenne impazienza.

«Non siamo ancora arrivati?», lo stuzzicai, fingendo di lamentarmi.

«Quasi». Sorrise del mio cambiamento di umore. «Vedi che laggiù c’è più luce?».

Osservai la vegetazione fitta. «Ehm, dovrei?».

Ridacchiò. «In effetti, forse è un po’ presto, per i tuoi occhi».

«Mi ci vuole una visita dall’oculista», mormorai. La sua risatina divenne un ghigno.

Eppure, dopo un altro centinaio di metri, anch’io notai tra gli alberi un chiarore, una chiazza di luce gialla, anziché verde. Accelerai, sempre più agitata. In silenzio, lasciò che lo precedessi.

Raggiunsi i confini della chiazza di luce e, oltrepassate le ultime felci, entrai nel posto più grazioso che avessi mai visto. Era una radura, piccola, perfettamente circolare, piena di fiori di campo viola, gialli e bianchi. Si sentiva anche la musica scrosciante di un ruscello, nei dintorni. Il sole era alto e riempiva lo spiazzo di luce morbida. Camminavo lentamente, a bocca aperta, tra l’erba soffice e i fiori che dondolavano, sfiorati dall’aria calda e dorata. Mi voltai appena, desiderosa di condividere quella visione con Edward, ma lui non era più alle mie spalle. Mi guardai attorno, allarmata, cercandolo. Infine lo notai, ai margini del prato, nascosto nel fitto della foresta; mi guardava con aria circospetta. Solo in quell’istante ricordai ciò che la bellezza di quel posto aveva momentaneamente cancellato: l’enigma della luce solare che Edward aveva promesso di svelarmi.

Feci un passo verso di lui, gli occhi accesi di curiosità. Sembrava incerto, riluttante. Gli rivolsi un sorriso di incoraggiamento, facendogli segno di avanzare, e mi avvicinai ancora. A un suo cenno, mi arrestai dov’ero, i piedi ben piantati per terra.

Fece quel che mi sembrò un respiro profondo, poi uscì, nella luce abbagliante del sole di mezzogiorno.

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