C’era voluto molto meno di quanto mi fosse sembrato, malgrado il terrore, lo sconforto, il cuore a pezzi. I minuti scorrevano più lenti del solito. Jasper era ancora assente, quanto tornai da Alice. Avevo paura di restare nella stessa stanza con lei, paura che intuisse qualcosa... e paura di nascondermi da lei per lo stesso motivo.
Pensavo di avere perso la capacità di sorprendermi, torturata com’ero dai miei pensieri, ma mi sorpresi eccome, quando vidi Alice piegata sulla scrivania, ai cui bordi si teneva aggrappata.
«Alice?».
Non reagì, continuò soltanto a ciondolare il capo lentamente, con gli occhi annebbiati, vuoti... Pensai subito a mia madre. Era già troppo tardi?
Corsi al suo fianco per prenderle la mano.
«Alice!», saettò la voce di Jasper, ed eccolo lì accanto, a coprire le mani di lei con le sue, sciogliendole dalla presa sul tavolo. Dall’altra parte della stanza, la porta si chiudeva con uno scatto cupo.
«Cosa succede?», chiese lui.
Lei si voltò e nascose il viso nel suo petto. «Bella», disse.
«Sono qui accanto», risposi.
Si voltò di nuovo, fissandomi negli occhi con uno sguardo stranamente vacuo. Mi resi conto all’istante che non voleva parlare con me: aveva risposto alla domanda di Jasper.
«Cos’hai visto?», chiesi, ma la mia, piatta e disinteressata, non suonava come una domanda.
Jasper mi fulminò con uno sguardo. Io cercai di fingere distacco, e attesi. Gli occhi di lui saltavano dal viso di Alice al mio e sentivano il caos... perché avevo intuito cosa avesse visto Alice.
Mi sentii avvolgere da un’atmosfera tranquilla. L’accolsi di buon grado e la sfruttai per disciplinare le mie emozioni.
Anche Alice si riprese.
«Niente, niente», rispose infine, incredibilmente calma e convincente. «La stessa stanza di prima».
Poi si rivolse a me, composta e tranquilla: «Volevi fare colazione?».
«No, mangio qualcosa in aeroporto». Anch’io ero calmissima. Andai a fare una doccia. Come se possedessi le facoltà ultrasensoriali di Jasper, avvertivo il desiderio pressante - e ben nascosto - di Alice di restare sola con lui. Così che potesse raccontargli che stavano sbagliando qualcosa, che avrebbero fallito...
Mi preparai con scrupolo, concentrandomi su ogni singolo gesto. Tenni i capelli sciolti, disordinati, per coprirmi il viso. La sensazione di pace creata da Jasper mi aveva invasa e mi aiutava a mantenere la lucidità, a pensare al piano. Frugai nella borsa in cerca della calza con i soldi. Me la svuotai in tasca.
Ero impaziente di arrivare all’aeroporto, e felice che alle sette ce ne saremmo andati da quell’albergo. Stavolta sul sedile posteriore dell’auto non avevo compagnia. Alice era appoggiata alla portiera, con il viso rivolto verso Jasper, ma da dietro gli occhiali da sole non mi perdeva di vista.
«Alice...», dissi, con atteggiamento indifferente.
«Sì?», rispose, cauta.
«Come funzionano? Le visioni, intendo». Guardavo fuori dal finestrino e parlavo con voce annoiata. «Edward ha detto che non sono definitive... che le cose cambiano, è vero?». Pronunciare quel nome fu più difficile di quanto pensassi. Probabilmente ciò mise Jasper in allarme, perché un’altra ondata di serenità invase l’abitacolo.
«Sì, le cose cambiano...». Speriamo, pensai. «Alcune visioni sono più sicure di altre... quelle che riguardano il tempo, per esempio. Con le persone è più difficile. Vedo la strada che seguono nel momento in cui la imboccano. Se per caso cambiano idea e prendono una decisione nuova, per minuscola che sia, tutto il futuro si trasforma».
Annuii, pensierosa: «E tu non eri riuscita a vedere James a Phoenix perché non aveva ancora deciso di venirci».
«Sì», mi confermò. Era di nuovo guardinga.
E non aveva visto me nella stanza degli specchi con James, finché non avevo deciso di incontrarlo. Cercai di non pensare a cos’altro avesse potuto vedere. Non volevo che il mio panico insospettisse ulteriormente Jasper. La visione di Alice li aveva resi ancora più vigili. Fuggire sarebbe stato impossibile.
Giungemmo all’aeroporto. La fortuna era con me, o forse mi voleva dare solo un piccolo aiuto. L’aereo di Edward era atteso al terminal 4, il più grande. Vi atterrava la maggior parte dei voli, perciò non c’era di che stupirsi. Ma era esattamente quello di cui avevo bisogno: la zona più caotica e affollata dell’aeroporto. E c’era una porta, al terzo piano, che poteva essere la mia unica via di scampo.
Parcheggiammo al quarto piano dell’enorme garage. Feci strada: per una volta ero io quella che si orientava meglio. Scendemmo con l’ascensore al terzo piano, quello dei passeggeri in arrivo. Alice e Jasper persero un sacco di tempo a osservare il tabellone delle partenze. Li sentivo discutere i pro e i contro di New York, Atlanta, Chicago. Città che non avevo mai visto. Che non avrei visto mai.
Aspettavo l’occasione giusta con impazienza, incapace di fermare i piedi irrequieti. Restammo seduti sulla lunga fila di sedie accanto ai metal detector. Jasper e Alice mi controllavano fingendo di guardare la gente che passava. Mi bastava muovermi di un centimetro perché mi guardassero con la coda dell’occhio. Non avevo speranza. Dovevo mettermi a correre?
Avrebbero osato costringermi a fermarmi con la forza, in un luogo pubblico? O si sarebbero limitati a seguirmi?
Presi la busta da lettere dalla tasca e la posai sopra la borsetta di pelle nera di Alice. Lei mi guardò.
«La lettera», dissi. Annuì e la infilò in una tasca esterna. Edward l’avrebbe trovata subito.
I minuti passavano, l’aereo stava per atterrare. Era incredibile come ogni singola cellula del mio corpo sentisse la vicinanza di Edward e desiderasse vederlo. Ciò rendeva tutto molto difficile. Mi ritrovai a pensare a una scusa per rimandare, anche di poco, la fuga. A un modo per vederlo, prima. Ma sapevo che dopo l’arrivo di Edward non avrei avuto più alcuna possibilità di fuggir via.
Più di una volta Alice si offrì di accompagnarmi a fare colazione. Ancora no. Prendevo tempo.
Tenevo gli occhi fissi sul tabellone degli arrivi, osservando la successione puntuale dei voli. L’aereo da Seattle si avvicinava sempre di più alla cima dell’elenco.
Poi, quando mi restava soltanto mezz’ora per scappare, i numeri cambiarono. Il volo di Edward era in anticipo di dieci minuti. Non avevo più tempo.
«Penso che mangerò qualcosa», dissi svelta.
Alice si alzò. «Vengo con te».
«È un problema se mi faccio accompagnare da Jasper? Mi sento un po’...». Non terminai la frase. Il mio sguardo era abbastanza terrorizzato da suggerire il resto.
Jasper si avvicinò. Alice sembrava confusa, ma per fortuna non sospettava nulla. Evidentemente attribuiva il cambiamento nelle sue visioni a una manovra del segugio anziché a un mio tradimento.
Jasper camminava in silenzio al mio fianco, tenendomi una mano sulla spalla, come se mi stesse guidando. Finsi di essere poco interessata ai primi bar dell’aeroporto, in cerca del mio vero obiettivo. Ed eccolo, finalmente, dietro l’angolo, lontano dalla vista acuta di Alice: il bagno del terzo piano.
«Ti dispiace?», chiesi a Jasper quando ci passammo davanti. «Ci metto un secondo».
«Ti aspetto qui».
Non appena la porta si chiuse alle mie spalle, iniziai a correre. Ricordavo che una volta mi ero persa in quel bagno, perché aveva due uscite.
L’altra porta era poco distante dagli ascensori, e se Jasper era rimasto dove l’avevo lasciato non poteva scorgermi. Corsi senza guardarmi alle spalle. Era la mia unica possibilità e dovevo andare avanti che mi vedesse o no. La gente mi guardava, ma la ignorai. Dietro l’angolo ecco gli ascensori, verso cui mi buttai infilandomi all’ultimo momento tra le porte di una cabina piena, diretta al piano terra. M’insinuai fra i passeggeri irritati e controllai che qualcuno avesse premuto il pulsante del primo piano. Era acceso, le porte si chiusero.
Quando si riaprirono, mi feci largo e schizzai fuori in un lampo, lasciandomi alle spalle le voci infastidite degli altri occupanti. Rallentai soltanto di fronte agli agenti di guardia nella zona di raccolta bagagli e tornai a correre a precipizio quando vidi l’uscita. Chissà dov’era Jasper. Se aveva seguito la mia scia, mi restavano pochi secondi. Saltai fuori dalle porte a vetri automatiche, rischiando di mandarle in frantumi quando mi accorsi che si aprivano troppo piano.
Lungo il marciapiede affollato non c’era l’ombra di un taxi.
Non avevo tempo. Nel giro di un minuto Alice e Jasper avrebbero capito che ero scappata, o forse lo sapevano già. Mi avrebbero trovata in un baleno.
A pochi metri di distanza da me, la navetta per lo Hyatt stava chiudendo lo sportello.
«Aspettate!», urlai, sbracciandomi.
«Questa è la navetta per l’Hotel Hyatt», disse l’autista, confuso, mentre riapriva le porte.
«Sì», sbuffai ansimando, «devo andare proprio là». Salii gli scalini di corsa.
Era perplesso per il fatto che non avessi nessun bagaglio, ma fece spallucce e non chiese altro.
I posti erano quasi tutti liberi. Mi sedetti il più lontana possibile dagli altri passeggeri, e vidi allontanarsi prima il marciapiede, poi l’intero aeroporto. Non potevo fare a meno di immaginare Edward, sul ciglio della strada, nel punto in cui terminava la mia scia. Non potevo permettermi di piangere. La strada era ancora lunga.
La mia fortuna proseguì. Di fronte allo Hyatt, una coppia dall’aria esausta stava estraendo l’ultima valigia dal bagagliaio di un taxi. Balzai giù dall’autobus e corsi verso l’auto, sgattaiolando sul sedile posteriore alle spalle del tassista. La coppia stanca e l’autista della navetta mi guardavano sbalorditi.
Diedi al tassista l’indirizzo di mia madre. «Devo arrivarci il più presto possibile».
«Ma è a Scottsdale», replicò lui.
Lanciai quattro pezzi da venti sul sedile.
«Sono abbastanza?».
«Certo che sì, ragazzina, nessun problema».
Mi abbandonai sullo schienale, incrociando le braccia. Le vie familiari della città iniziarono a sfrecciarmi attorno, ma non guardavo fuori dai finestrini. Cercavo di mantenere il controllo dei miei nervi. Ora che il mio piano aveva funzionato, ero decisa a non lasciarmi andare. Non aveva senso abbandonarmi di nuovo all’ansia, indugiare ancora nel terrore. La strada era segnata. Dovevo soltanto seguirla.
Perciò, anziché andare in panico, chiusi gli occhi e passai i venti minuti del viaggio in compagnia di Edward.
Immaginai di essere rimasta all’aeroporto. Vidi me stessa in punta di piedi, impaziente di vederlo nella ressa dei passeggeri. E lui che, veloce e aggraziato, si muoveva tra la folla che ci separava. Infine, mi sarei lanciata di corsa in quegli ultimi metri - temeraria come al solito - per sentirmi al sicuro nel suo abbraccio saldo come il marmo.
Chissà dove mi avrebbe portata. Forse al Nord, per poter uscire alla luce del giorno. O forse in un posto remoto, isolato, dove avremmo potuto restare entrambi al sole. Lo immaginavo su una spiaggia, con la pelle luccicante come il mare. Non m’importava quanto a lungo ci sarebbe toccato nasconderci. Restare intrappolata con lui in una stanza d’albergo sarebbe stato un paradiso. Avevo ancora così tante domande. Avrei parlato con lui senza sosta, senza mai dormire, senza mai allontanarmi dal suo fianco.
Ne vedevo i contorni del viso così nitidi... quasi sentivo la sua voce. E malgrado l’orrore e la disperazione, mi sentii leggera e felice. Ero talmente coinvolta nel mio sogno a occhi aperti da aver perso il senso del tempo.
«Ehi, a che numero hai detto?».
La domanda del tassista sgonfiò le mie fantasie come fossero un palloncino, spegnendo ogni colore di quelle dolci illusioni. La paura, dura e vuota, stava per riempire lo spazio che queste avevano occupato fino a un attimo prima.
«Cinquantotto ventuno», dissi, con voce strozzata. Il tassista mi sbirciò, temendo che stessi per avere una crisi o qualcosa del genere.
«Eccoci». Non vedeva l’ora che scendessi, e probabilmente sperava anche che non gli chiedessi il resto.
«Grazie», sussurrai. Ricordai che non c’era bisogno di avere paura. La casa era vuota. Dovevo sbrigarmi: mamma mi aspettava, impaurita, e la sua vita dipendeva da me.
Corsi verso la porta e con un movimento automatico cercai subito la chiave sotto la grondaia. Feci scattare la serratura e aprii. L’interno della casa era buio, vuoto, normale. Mi precipitai al telefono e accesi la luce in cucina. Lì, sulla lavagnetta, c’era un numero di dieci cifre scritto con una grafia minuta e precisa. Mi tremava la mano, non riuscivo a digitare le cifre giuste. Fui costretta a riattaccare e a ricominciare. Mi concentrai sui tasti, uno alla volta. Ci riuscii. Faticavo a tenere la cornetta salda vicino all’orecchio. Squillò una volta sola.
«Ciao, Bella», rispose la voce, affabile. «Che velocità. Complimenti».
«Mia madre sta bene?».
«Benissimo. Non preoccuparti, Bella. Non m’interessa lei. A meno che non ci sia qualcuno ad accompagnarti, ovviamente». Frivolo, ironico.
«Sono sola». Non ero mai stata così sola in vita mia.
«Molto bene. Dunque, sai dov’è la scuola di danza, vicino a casa di tua madre?».
«Sì, ci so arrivare».
«Bene. A presto, allora».
Riattaccai.
Corsi via dalla stanza, via dall’appartamento, e uscii nel caldo asfissiante.
Non c’era tempo di dare un’altra occhiata a casa mia, e non volevo neanche vederla, vuota com’era: un santuario trasformato nel simbolo della paura. L’ultimo a esserci entrato era stato il mio nemico.
Con la coda dell’occhio, mi sembrava di scorgere mia madre all’ombra del grande eucalipto sotto il quale giocavo da bambina. O inginocchiata presso la piccola chiazza di fango ai piedi della cassetta della posta, il cimitero di tutti i fiori che aveva tentato di piantare. I ricordi erano meglio di qualsiasi realtà che avrei mai potuto vedere, quel giorno. Ma ero costretta a lasciarmi tutto alle spalle, dietro l’angolo.
Mi sembrava di correre così piano, come sulla sabbia bagnata, nemmeno il cemento era un punto d’appoggio abbastanza solido. Inciampavo in continuazione, caddi e mi sbucciai le mani sul marciapiede, poi mi tirai su ma solo per cadere di nuovo. Se non altro, raggiunsi l’angolo della strada. Ora mancava soltanto una via: ripresi a correre senza fiato, con il viso coperto di sudore. Il calore del sole mi cuoceva la pelle, e la luce riflessa dal cemento bianco mi accecava. Mi sentivo in pericolo, allo scoperto. Con più forza di quanta avessi mai immaginato, desideravo tornare nella verde e protettiva foresta di Forks... a casa.
Girato l’angolo che incrociava con la Cactus, vidi la scuola di danza, esattamente come la ricordavo. Il parcheggio era vuoto, le persiane sbarrate. Non riuscivo più a correre, neppure a respirare: lo sforzo e la paura mi avevano prosciugata. Solo il pensiero di mia madre mi dava la forza di mettere un piede davanti all’altro.
Mi avvicinai, e notai il cartello appeso alla porta. Era scritto a mano, su una carta rosa acceso: diceva che la scuola era chiusa per le vacanze primaverili. Sfiorai la maniglia, spinsi la porta con cautela. Non era chiusa a chiave. Mi sforzai di controllare il respiro, e l’aprii.
L’atrio era buio e vuoto, raffreddato dal condizionatore che ronzava in un angolo. Contro una parete c’era una fila di sedie di plastica, e il tappeto profumava di shampoo. La stanza di sinistra era buia, la vedevo attraverso la finestrella dell’entrata. Le luci di quella più grossa, a destra, invece erano accese. Ma la finestrella era sbarrata.
Il terrore mi assalì, tanto da farmi sentire letteralmente intrappolata. Non riuscivo nemmeno a camminare.
A quel punto, sentii la voce di mia madre.
«Bella! Bella!». Quello stesso tono isterico e ansioso. Scattai verso la porta, verso il suono della sua voce.
«Bella, mi hai spaventata! Non farlo mai più!», continuò lei, mentre mi facevo strada verso la stanza lunga, dal soffitto alto.
Mi guardai attorno per cercare di capire da dove venisse la voce. La sentii ridere, e mi voltai di scatto.
Eccola, dentro il televisore, intenta ad accarezzarmi i capelli, tranquillizzata. Era il Giorno del Ringraziamento, avevo dodici anni. Eravamo andati a trovare mia nonna in California, l’anno prima che morisse. Un giorno avevamo fatto una gita in spiaggia e mi ero sporta troppo da un molo. Aveva visto i miei piedi muoversi convulsi nel tentativo di restare in equilibrio. Spaventata, aveva urlato: «Bella! Bella!».
Poi lo schermo diventò blu.
Mi voltai lentamente. Lui era in piedi, immobile accanto all’uscita posteriore, perciò non l’avevo notato. Stringeva un telecomando. Incrociammo gli sguardi per un lunghissimo istante, e poi sorrise.
Fece qualche passo per avvicinarsi a me, poi mi oltrepassò, si accostò al videoregistratore e vi posò sopra il telecomando. Mi voltai a guardarlo, con cautela.
«Spiacente, Bella, di tutta questa messa in scena. Tuttavia è molto meglio che in realtà non abbia dovuto coinvolgere tua madre, non credi?». La sua voce era cordiale.
Così, all’improvviso, capii. Mia madre era al sicuro. Era ancora in Florida. Non aveva mai ricevuto il mio messaggio. Non era mai stata terrorizzata dagli occhi rosso scuro su quel volto assurdamente pallido che avevo davanti. Era al sicuro.
«Sì», risposi, piena di sollievo.
«Non sembri in collera con me, anche se ti ho ingannata».
«Non lo sono». L’improvviso cambiamento di umore mi diede coraggio. Cosa importava, ormai? Presto tutto sarebbe finito. Charlie e la mamma erano al riparo, non dovevano più temere nulla. Mi sentivo quasi stordita. La parte razionale del mio cervello mi avvertì che ero pericolosamente vicina a perdere i sensi per il troppo stress.
«Che strano. Dici sul serio». I suoi occhi scuri mi analizzarono, interessati. L’iride era quasi nera, con una leggera sfumatura color rubino sul bordo. Assetato. «Devo ammettere che la tua congrega aveva ragione, voi umani potete essere piuttosto interessanti, a volte. Capisco che osservare un esemplare come te sia piacevole. È incredibile... alcuni di voi sembrano totalmente privi di egoismo».
Stava a qualche spanna da me, a braccia conserte, e mi guardava con curiosità. Non c’era ombra di minaccia nella sua espressione, né nella sua posa. Era davvero anonimo, privo di tratti interessanti, nel viso e nel corpo. Solo la pelle bianca, le occhiaie a cui ormai mi ero abituata. Indossava una maglietta azzurra a maniche lunghe e jeans stinti.
«Immagino che tu stia per dirmi che prima o poi il tuo ragazzo si vendicherà», disse, e probabilmente era ciò che sperava.
«No, non credo. Gli ho chiesto di non farlo».
«E lui cosa ti ha risposto?».
«Non lo so». Era stranamente facile conversare con questo predatore educato. «Gli ho scritto una lettera».
«Che romantica, l’ultima lettera. E pensi che onorerà la tua volontà?». La sua voce si era vagamente indurita, con un velo di sarcasmo a sporcare tanta compostezza.
«Lo spero».
«Mmm, bene. Abbiamo prospettive diverse, vedo. Capirai anche tu che fin qui è stato tutto troppo facile, troppo veloce. A dire la verità, sono piuttosto deluso. Mi aspettavo una sfida molto più difficile. E in fondo mi sarebbe servita soltanto un po’ di fortuna».
Restai in silenzio.
«Dopo che Victoria non è riuscita ad arrivare a tuo padre, le ho chiesto di trovare informazioni su di te. Non aveva senso correrti dietro per l’intero pianeta quando potevo aspettarti comodo comodo nel posto che preferivo. Perciò, dopo aver parlato con Victoria, ho deciso di venire a Phoenix a salutare tua madre. Ti avevo sentita dire che saresti tornata a casa. Sulle prime, davo per scontato che stessi mentendo. Ma poi ci ho pensato per bene. Gli umani sono molto prevedibili, amano rifugiarsi nei luoghi che sentono più sicuri e familiari. E non è una manovra perfetta, nascondersi nell’ultimo posto in cui ci si immagina che tu possa nasconderti, proprio dove hai detto che ti saresti rifugiata?
Ovviamente non potevo esserne sicuro, era solo un’intuizione. Di solito sviluppo una specie di sesto senso, chiamiamolo così, per la preda che scelgo. Giunto a casa di tua madre ho ascoltato il messaggio in segreteria, ma certo ignoravo da dove avessi chiamato. Avere il tuo numero poteva essermi utile, ma per quel che ne sapevo potevi anche essere in Antartide, e il mio trucco non avrebbe funzionato, se non fossi stata a portata di mano.
Poi il tuo ragazzo è salito su un aereo per Phoenix. Naturalmente, Victoria li stava tenendo d’occhio per me: in una partita con tanti giocatori, non potevo permettermi di restare solo. Perciò sono stati loro a dirmi che, proprio come speravo, ti eri rifugiata qui. Ero pronto: avevo già guardato tutti i tuoi graziosi filmati casalinghi. A quel punto, si trattava solo di preparare il bluff.
Tutto facilissimo, vedi, molto al di sotto dei miei standard. Per questo spero che ti sbagli, riguardo al tuo ragazzo. Si chiama Edward, no?».
Non risposi. La mia sfacciataggine se n’era andata. Sentivo che il suo gongolare maligno, il quale peraltro non era diretto a me, stava finendo. Non c’era soddisfazione né gloria nella vittoria su una debole umana.
«Ti dispiacerebbe se lasciassi una letterina scritta di mio pugno per il tuo Edward?».
Fece un passo indietro e sfiorò una minuscola videocamera digitale, posata in equilibrio sopra lo stereo. Una spia rossa indicava che stava registrando. La sistemò un poco, allargando l’inquadratura. Io lo fissavo terrorizzata.
«Scusami, ma credo davvero che non sarà capace di resistere, dopo aver visto questa scena, e non potrà che darmi la caccia. E poi non vorrei che si perdesse qualcosa. La mia vera preda è lui, ovviamente. Tu sei soltanto un’umana, che sfortunatamente si è trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato e senza dubbio in compagnia delle persone sbagliate, se me lo concedi».
Fece un passo avanti, sorridente. «Prima di cominciare...».
Le sue parole mi avevano preso allo stomaco. Ero nauseata, non mi sarei mai aspettata che fosse quella la verità.
«...gradirei solo dilungarmi un momento per ficcarti bene una cosa in testa. La soluzione per voi era a portata di mano, e temevo proprio che Edward la intuisse e mi rovinasse il divertimento. È successo una volta sola... una vita fa. L’unica occasione in cui una preda mi sia sfuggita.
Vedi, il vampiro che si era stupidamente preso una cotta per la mia piccola vittima prese la decisione che il tuo Edward non ha avuto il coraggio di prendere. Quando il vecchio capi che stavo importunando la sua amichetta, la rapì dal manicomio dove lui lavorava - non capirò mai l’ossessione di certi vampiri per voialtri umani - e subito dopo la salvò. La poveretta non diede mostra di sentire nemmeno il dolore. Era rimasta troppo a lungo chiusa in quel buco nero di cella. Cento anni prima l’avrebbero bruciata su un rogo, per colpa delle sue visioni. Invece erano gli anni Venti del ventesimo secolo, perciò le toccarono il manicomio e l’elettroshock. Quando riaprì gli occhi, forte della gioventù riconquistata, era come se non avesse mai visto il sole prima di allora. Il vampiro anziano l’aveva trasformata in una giovane e valente vampira, e a quel punto non avevo più motivo di importunarla». Fece un sospiro. «Per vendicarmi, distrussi il vecchio».
«Alice», dissi stupita, con un filo di voce.
«Sì, la tua amica. È stata una bella sorpresa ritrovarla nel campo dove ci siamo incontrati. Così ho pensato che la sua congrega avrebbe potuto imparare qualcosa da tutto questo. Io prendo te, loro si tengono lei. L’unica vittima che mi sia mai sfuggita, un bell’onore.
E il suo odore era così delizioso. Rimpiango ancora di non averla assaggiata... Il suo profumo era anche meglio del tuo. Scusa, senza offesa. Tu sai di buono. Di fiori, direi...».
Fece un altro passo verso di me, finché non fu a pochi centimetri di distanza. Prese una ciocca dei miei capelli e l’annusò delicatamente. Poi, con gentilezza, la rimise in ordine, e sentii le sue dita fredde sfiorarmi la gola. Le sollevò e mi passò il pollice sulla guancia, curioso. Non so cos’avrei dato per scappare via, ma ero impietrita. Non riuscii nemmeno a ritrarmi di un millimetro.
«No», mormorò tra sé, lasciando cadere la mano. «Non capisco». Fece un sospiro. «Be’, immagino che saremo costretti a farla finita così. Poi chiamerò i tuoi amici e gli dirò dove trovare te e il mio messaggio».
A quel punto iniziai a sentirmi davvero male. Leggevo nei suoi occhi la mia sofferenza imminente. Non si sarebbe accontentato di vincere, nutrirsi e andarsene. La conclusione non sarebbe stata veloce come mi aspettavo. Le mie ginocchia iniziarono a tremare, avevo paura di cadere a terra.
Fece un passo indietro e iniziò a girare in tondo, come se cercasse la prospettiva migliore da cui rimirare una statua in un museo. Stava decidendo da che parte cominciare e la sua espressione era ancora amichevole e serena.
Poi si acquattò, in una postura che conoscevo, e il sorriso si aprì fino a diventare tutt’altro: una tagliola di denti lustri e brillanti.
Non riuscii a trattenermi: provai a correre via. Malgrado fosse inutile e lo sapessi benissimo, malgrado le mie ginocchia fossero già deboli, il panico prese il sopravvento, e scattai verso l’uscita di sicurezza.
In un lampo fu davanti a me. Non mi accorsi se aveva usato la mano o il piede, era stato troppo veloce. Una botta secca mi colpì il petto, caddi all’indietro e sentii lo schianto della mia testa contro gli specchi. Il pannello si spezzò e riempì di schegge e briciole il pavimento attorno a me.
Ero tramortita, non sentivo nemmeno il dolore. Non riuscivo a respirare.
Lui si avvicinò lentamente.
«Bell’effetto», disse, in tono nuovamente cortese, osservando lo scempio del vetro rotto. «Avevo pensato che come scenografia per il mio piccolo film, questa stanza avesse un effetto visivo sensazionale. Perciò l’ho scelta. Perfetta, vero?».
Lo ignorai, mentre cercavo di strisciare verso l’altra porta, spingendomi con le braccia e le gambe.
In un istante fu sopra di me, mi schiacciò una gamba con un colpo secco del suo piede pesante. Sentii lo scrocchio insopportabile prima ancora che arrivasse il dolore, ma dopo un istante arrivò tutto, e mi lasciai scappare un urlo agonizzante. Mi allungai verso la gamba, ma lui era in piedi sopra di me e sorrideva.
«Gradiresti ritrattare le tue ultime volontà?», chiese, garbato. Con la punta del piede stuzzicava la mia gamba rotta, e sentii uno strillo acuto. Con sorpresa, mi accorsi che veniva da me.
«Non preferiresti ora che Edward mi trovasse?».
«No!», urlai, con il poco di voce che mi restava. «No, Edward, non...», e poi qualcosa si fracassò sulla mia faccia e mi rispedì sopra la specchiera rotta.
A sovrapporsi al dolore che saliva dalla gamba, sentii bruciare sul cranio il taglio netto provocato dai vetri. E qualcosa di liquido e caldo che si diffondeva tra i miei capelli a velocità allarmante. Inzuppava la manica della mia maglietta e gocciolava sul parquet. L’odore mi dava la nausea.
Tra la nausea e lo stordimento, vidi qualcosa che mi diede un’improvvisa e ultima speranza. I suoi occhi, che fino a poco prima si erano limitati a squadrarmi, ora bruciavano di un bisogno incontrollabile. Il sangue - che copriva sempre più di un rosso cremisi la mia maglietta bianca e allagava rapido il pavimento - lo stava facendo impazzire di sete. Quali che fossero le sue intenzioni originali, non sarebbe stato capace di trattenersi.
Fa’ che si sbrighi, era il mio unico pensiero mentre il sangue colava e goccia dopo goccia mi faceva perdere i sensi. Non riuscivo a tenere gli occhi aperti.
Udii, come se fossi sommersa, il ruggito finale del cacciatore. Attraverso le lunghe gallerie che sentivo al posto degli occhi, vidi la sua sagoma scura avanzare verso di me. Il mio ultimo gesto istintivo fu quello di coprirmi il volto. Chiusi gli occhi e mi lasciai andare.