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«Allora, i biglietti li ha visti, il contratto da firmare anche, questo dovrebbe essere il suo conto corrente…»
L’assistente le passò un documento bancario con stampato sopra l’Iban.
Sofia tirò fuori la sua agenda dalla borsa e l’aprì, controllò i dati. «Sì.»
«Bene.» L’assistente rimise il foglio nella cartellina.
Guarneri continuò. «Dopodomani avrà sul suo conto i cinque milioni di euro. È tutto a posto? Ha qualche dubbio, qualche domanda?»
Sofia ci pensò su. «No, mi sembra tutto chiarissimo.»
«Una macchina la verrà a prendere sotto casa alle otto del febbraio. È questo il suo indirizzo?»
L’assistente le fece vedere un altro foglio.
«Sì. Abito lì. Preferisco venire per conto mio però, prenderò un taxi, è possibile?»
Guarneri sembrava preparato a quell’evenienza.
«Nessun problema. Lei ha un passaporto, si ricordi di portarlo…»
«Sì certo, devo solo vedere che…»
«È in regola, scade tra due anni. Mi dica se quello che è stato segnato su questo foglio è esatto…»
E glielo passò. Sofia lo lesse velocemente. C’erano le sue misure: scarpe, taglia, reggiseno, mutandine. Poi trovò una specie di cartella clinica: le possibili allergie, tutti gli esami fatti negli ultimi anni e qualunque altro dettaglio medico potesse riguardarla. C’era tutto.
«C’è qualcosa che ci siamo dimenticati? Qualcosa che ignoriamo, qualcosa che non sappiamo, che è stato nascosto o semplicemente non abbiamo considerato ma potrebbe essere importante? Se è così, sarebbe meglio che ce lo dicesse. Non vorremmo avere nessun tipo di problema…»
«Credo che voi sappiate assolutamente tutto di me.»
Guarneri non batté ciglio. Poi le passò una penna. Sofia senza leggere firmò tutti i contratti, poi li riconsegnò.
«Bene, ora posso andare?»
Guarneri controllò i fogli.
«Solo un’ultima cosa, dovrebbe seguire la mia assistente, abbiamo bisogno di alcune sue fotografie.»
Sofia non capì esattamente a cosa si riferisse, ma decise che non era proprio il caso di fare problemi. «Certo…»
Guarneri si alzò e le diede la mano, si inchinò sfiorandola.
«Arrivederci signora, non so se ci rivedremo, comunque è stato un piacere conoscerla e sarebbe stato un piacere ancora più grande poterla sentire suonare veramente.»
Sofia sorrise. «Grazie.» Avrebbe voluto risponder-gli: “Magari ci sarà modo e occasione”. Ma si accorse quanto fosse chiaro a tutti e due che non si sarebbero rivisti mai più.
Uscì seguendo la donna. Fecero un pezzo del corridoio, arrivarono davanti all’ascensore e lei lo chiamò.
Aspettarono in silenzio con un leggero imbarazzo. Quando arrivò l’ascensore, Marina Recordato la fece entrare per prima. «Prego.» Poi entrò e spinse il pulsante che portava al secondo piano. Sofia si chiese cosa sapesse di quella storia. Forse poco o nulla. Di solito le persone così potenti sanno come tenere nascosti i loro segreti.
L’ascensore si fermò e Marina Recordato uscì. «Prego, da questa parte.» Camminava veloce lungo il corridoio, girò in fondo a destra ed entrò in un grande locale.
Lì c’erano diverse persone che lavoravano al computer.
Alcuni molto giovani, indossavano una felpa e portavano dei capelli rasta, qualcun altro un po’ più grande aveva pochi capelli e occhiali dalla montatura colorata, qualche ragazza dal look alternativo, qualcun’altra elegante e moderna, stile newyorkese.
Un tipo, che sembrava essere il capo di quella specie di comune digitale, arrivò subito incontro a Marina Recordato. «Eccovi, vi stavo aspettando. Prego, di qua.»
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Marina e Sofia lo seguirono.
«Ah, comunque, io sono Steve.» Sorrise dando la mano a Sofia che si presentò.
«Piacere.»
«Mio… Ecco, di qua.» Aprì una porta e fece accomodare le due donne in una piccola sala. Di fronte c’era un vetro e dietro una consolle con un ragazzo di nemmeno vent’anni. Aveva tutti i capelli ricci, una felpa scura e due o tre piercing.
«Salve!» Alzò la mano con un saluto un po’ rapper, come per dire: “Io ci sono e sono pronto”.
«Ok! Prego.» Poi Steve si rivolse a Sofia. «Siediti qui.»
Era passato senza preamboli al tu. Il tipo dall’altra parte del vetro spinse il bottone di un interfono. La sua voce leggermente distorta arrivò nella sala. «Cerca di stare più ferma possibile. Ok, così. Sorridi…»
Sofia sorrise. Si sentirono una serie di rumori metal-lici.
«Ok, perfetta» continuò la voce dall’altra parte.
«Ruota un po’ alla tua sinistra…»
Solo ora Sofia si accorse che lo sgabello girava e seguì le indicazioni.
«Bene, così, sorridi… Perfetta. Ora fai finta di avere un pianoforte davanti a te e stai suonando…»
Sofia stese le mani e simulò alcuni accordi. «Ok, devi far finta, non devi suonare. Anche se immagino che tu lo faccia abbastanza bene.»
Sofia sorrise e si girò verso Marina. Anche lei sorrise.
Allora conosceva qualcosa di tutta la storia, almeno che sapeva suonare.
«Ok, perfetto. Guardate un po’ se vanno bene?»
Su dei grandi schermi all’interno della saletta furono proiettate diverse immagini. All’interno di alcuni teatri si vedevano donne che, sedute a un pianoforte, con centinaia di persone davanti, suonavano. Sui loro corpi era stato montato il viso di Sofia ed erano tutte perfettamente credibili, ingrandite, rimpicciolite, riprese lateralmen-te, tutte quelle donne erano sempre Sofia. Si avvicinò curiosa. La sua foto, appena scattata, era stata montata su quelle immagini e di seguito ogni cosa era stata scelta con estrema precisione: i vestiti, gli anelli, le collane, tutte quelle cose che lei aveva indossato nel tempo nelle sue diverse esibizioni, tutti elementi presi da vecchi filmati per quella nuova versione virtuale di Sofia.
Guardò meglio quell’ultima immagine.
«Purtroppo quel bracciale l’ho perso tre anni fa.
Non è credibile.»
Il ragazzo dall’altra parte del vetro fece cenno di sì con la testa. Intervenne su quell’immagine in diretta e piano piano sotto i suoi occhi fece sparire quel bracciale proprio com’era accaduto nella realtà. Sofia guardò le altre immagini. Era tutto materiale che riguardava lei in diversi momenti della sua vita, i suoi primi successi, i viaggi all’estero, gli ultimi anni in cui ancora suonava.
Si chiese quante altre cose avessero oltre quelle, ma non fece in tempo.
«Allora possiamo andare…»
«Sì, sì, certo. Arrivederci.»
Sofia salutò Steve e il ragazzo alla consolle del quale non sapeva il nome.
«Io sono Martino…» disse proprio in quel momento.
«Sofia, ciao.» E poi uscì dalla stanza.
Marina Recordato l’accompagnò all’uscita. «Ecco, qui c’è il suo contratto…» Le passò una busta rigida.
«Dentro troverà anche il mio numero di telefono personale, se avesse dei problemi, dei dubbi, delle paure o avesse bisogno di qualsiasi chiarimento, mi chiami a qualsiasi ora. Sarebbe molto utile se lei potesse portare i vestiti che indossava durante quei concerti, quelli che ha visto negli schermi. Renderebbe più credibili i filmati sui quali lavoreremo e che verranno messi in rete.
Se non dovesse averli ce lo faccia sapere. Troveremo il modo di farne altri identici in poco tempo.»
«Non si preoccupi. Li porterò.»
«Benissimo. Dopodomani faremo arrivare a casa sua con DHL i biglietti di andata e ritorno per la partenza, ha un orario che preferisce per la consegna?»
«Va benissimo tra le e le grazie.»
«Perfetto…» Poi si salutarono e Sofia uscì dall’edificio.
Fece alcuni passi poi un lungo respiro. Le sembrava di essere uscita da uno strano sogno, o meglio da una realtà virtuale. Invece no. Era tutto vero. C’era solo un piccolo dettaglio: avrebbe dovuto raccontare a casa tutto quello che non sarebbe mai accaduto.
Sofia girò per la città con quella cartellina in mano.
La stringeva forte, come se avesse paura di perderla e soprattutto chiedendosi come avrebbe fatto, cosa avrebbe detto mostrandola ad Andrea. Ma la domanda che la tormentava di più era: sarebbe stata credibile? La sentiva pesante. In tutti i sensi. Forse perché la costringeva per la prima volta a dire una bugia di quella portata. Certo, in quell’ultimo periodo erano successe tante cose che l’avevano cambiata, ma questa era diversa. Partire per un altro Paese, fingere di suonare in cinque concerti, essere pagata cinque milioni di euro ma soprattutto passare cinque giorni con un uomo sconosciuto per essere sua.
Arrossì e improvvisamente ebbe caldo. Sentì salire un’agitazione incredibile. Si fermò in un piccolo bar, come una turista straniera, si sedette al tavolino fuori, posò la cartellina con i contratti e rimase a occhi chiusi, immaginando. E così rivide Tancredi dopo tanto tempo, le sorrideva, le offriva da bere, chiacchierava, le raccontava qualcosa, alzava un sopracciglio di fronte a una sua indecisione…
Tancredi. Era un bellissimo uomo, ma freddo, cinico a volte, distaccato. Un uomo pieno di fascino e di mistero, un uomo imprendibile. Ecco, un uomo che non voleva amare. Sorrise quasi di questa improvvisa chiarezza. Cosa era successo nella sua vita? Perché era così?
Troppi soldi? Una delusione d’amore? Si mise a ridere.
“Sono troppo romantica.”
Doveva essere semplicemente un uomo annoiato.
«Posso portarle qualcosa?»
Sofia aprì gli occhi. Un giovane ragazzo era di fronte a lei con un vassoio in mano e dei bicchieri sporchi.
«Sì grazie, un tè.»
«Lo vuole con latte o limone?»
«Limone, grazie.»
Il ragazzo sparì dentro il bar e tornò poco dopo con una teiera calda e delle bustine a parte.
«Gliene ho portate due o tre, pesca, mirtilli e tè nero inglese, così può scegliere quella che le piace di più.»
«Grazie.» Sofia pagò lasciando anche una piccola mancia. Rimase tranquilla ad aspettare che quella bustina alla pesca piano piano colorasse l’acqua calda nella tazza. Poi ci mise una fettina di limone, lo zucchero e lentamente cominciò a sorseggiarlo. Aveva tempo prima della lezione di musica.
Inevitabilmente ritornò a quel pensiero. Perché quell’uomo era così? Dove avrebbero passato quei cinque giorni? Cosa le sarebbe successo? E se non fosse più tornata, se fosse sparita per sempre? Cominciò a pre-occuparsi. Nessuno sapeva di questa storia. Poi mentre sorseggiava il tè le venne un’idea. Doveva informare qualcuno.
Ma chi? La sua amica Lavinia? Inaffidabile. Olja?
Non era giusto che portasse un peso così grande e poi come l’avrebbe giudicata? Cosa avrebbe pensato? Il lo-ro rapporto era come quello tra una nipote e una nonna. Olja l’aveva vista crescere, aveva sempre avuto di lei un’ottima opinione, l’aveva capita perfino quando aveva smesso di suonare. Questa volta non avrebbe compreso. I suoi genitori? Meno che mai. Sarebbe stato difficile spiegarlo e sua madre avrebbe pensato che alla fine aveva ragione lei. Sorrise. Com’è difficile a volte entrare nella testa degli altri e far capire loro il tuo punto di vista. E così si accorse che in realtà non aveva nessuno di cui fidarsi. L’unica soluzione era scrivere tutta quella storia e spedirla a se stessa. Avrebbe preparato una busta e l’avrebbe data a Olja. Questo non sarebbe stato complicato. Avrebbe detto che era una sorpresa che voleva fare ad Andrea. Olja ci avrebbe creduto. Se non fosse tornata, due giorni dopo quella busta sarebbe dovuta arrivare a casa sua rivelando tutto quello che era successo, la fotocopia dei programmi, i biglietti del viaggio, l’indirizzo dello studio, i numeri di telefono che aveva e il racconto di come erano andate le cose, dall’incontro in quella chiesa fino a quei giorni. Ecco, ora era più tranquilla. Finì il tè. Poi tirò fuori dalla borsa la sua agenda e cominciò a scrivere. Un’ora dopo entrò in copisteria e fece alcune fotocopie, prese una busta e ci mise dentro tutto. La chiuse, scrisse dietro il suo nome e cognome, il suo indirizzo e raggiunse in fretta la scuola e cercò Olja.
«Mi dovresti spedire questa il giugno.»
«Certo!» Olja prese in mano la busta e lesse il nome.
«Ma è per te.»
«Sì, è uno scherzo che sto preparando per Andrea.»
«Ah» sorrise divertita. «Hai sempre voglia di scherzare tu… C’è Claudio Porrini giù nella sala.»
«E vero.» Guardò l’orologio. «Vado subito.» Scese al piano terra dove di solito teneva lezione e trovò quel bambino che la stava aspettando.
«Scusami.»
«Oh, non c’è problema. Stavo giocando al Nintendo DSL..»
Poi sollevò le spalle e lo spense.
«Andiamo.»
Quel giorno le lezioni le sembrarono più leggere del solito. Uno dopo l’altro si alternarono i suoi alunni.
Quando Elena, una delle più brave, attaccò il Valzer in La Bemolle Maggiore di Chopin, il famoso Grande Valzer Brillante, Sofia la interruppe subito. Si sedette al suo posto e iniziò il pezzo. «Guarda» disse. La maestra spesso correggeva l’allievo o rifaceva con una mano un passaggio per fare capire meglio come dovesse essere eseguito, ma nessuno l’aveva mai vista seduta al piano. Fece ancora più impressione il fatto che Sofia non girò le pagine dello spartito. Aveva memorizzato perfettamente tutti i valzer di Chopin. Ma ancora più stu-pefacenti furono il tocco, l’uso del pedale, il fraseggio, insomma tutto quello che rende complicatissimo anche il più facile dei pezzi di Chopin e che Sofia, con una classe innata, eseguì sulla tastiera come fosse un gioco da ragazzi. All’ottava di sol che chiude il brano seguì un silenzio stupito. Gli occhi le si inumidirono.
«Maestra, ma perché piange? È stata bravissima!»
Sofia accarezzò i capelli di Elena.
«Non ti commuovi mai tu? Quando per esempio hai perso qualcosa di importante che amavi tanto, come magari degli orecchini che ti avevano regalato i tuoi genitori e improvvisamente li ritrovi?»
«Sì, è vero!»
«Ecco, a volte si piange anche perché si è felici. Forza, fuori di qui, che la lezione è finita.»
Poco dopo era in macchina, stava tornando a casa.
Aveva appena finito di spiegare a Olja, proprio co-me le aveva suggerito Guarneri, che lo studio l’aveva richiamata proponendole cinque concerti in un altro Paese e soprattutto una cifra alla quale non aveva potuto dire di no. Quella somma sarebbe servita a realizzare il suo unico desiderio: restituire l’uso delle gambe ad Andrea.
«Un grande chirurgo giapponese sta studiando dei nuovi interventi che prevedono l’uso delle cellule staminali. Sembra che sia in grado di fare miracoli. Naturalmente è molto costoso. È solo per questo che torno a suonare, Olja, con quello che guadagnerò Andrea potrà tentare questa operazione.»
«Sì.» Olja l’aveva guardata con grande tenerezza e le aveva fatto una carezza sulla guancia. «Ti meriti tutto quello che desideri.»
Capì che questa volta lei non era prevista, così le disse semplicemente: «Ti penserò».
Sofia le lesse negli occhi il dolore di non poter as-sistere al suo ritorno sul palco. Con un sorriso Olja la lasciò semplicemente andar via, dimostrando quel vero amore di chi sa mettere davanti a sé la persona amata.
Sofia girò a lungo per la città prima di tornare a casa.
Era nervosa. Voleva affrontare tutto senza sbagliare.
Si chiese: “Cosa faresti se dovessi davvero dare quei concerti? Come li affronteresti? Puoi essere credibile solo se sei naturale”. Allora tornò con la mente indietro, cancellò tutti i passaggi della mattinata e cercò di viverlo nel modo più vero possibile. E in un attimo capì. “Sarei sorpresa, sarei felice e piena di entusiasmo.
Crederei di nuovo nella vita e nelle sue infinite risorse che, quando meno te lo aspetti, riescono a stupirti.”
E così fece tutto quello che le passò per la testa, poi arrivò a casa.
«Amore! Una notizia incredibile!»
«Che è successo?»
Andrea era in salotto che guardava la tv.
«Ci sono riuscita! Ti ricordi che ti avevo parlato di un’importante organizzazione che mi voleva a tutti i costi per un festival russo? Be’, oggi mi hanno richiamato perché hanno preso contatto con degli arabi che si sono mostrati molto interessati. Io sono stata irremovibile sul prezzo e loro hanno accettato, farò cinque concerti e mi daranno cinque milioni di euro. È un sogno. Ma è vero.
È tutto vero.»
Si inginocchiò davanti a lui, lo abbracciò forte, stringendolo a sé e cominciò a piangere. Non stava fingendo, era semplicemente se stessa. Era Sofia di fronte a uno sbaglio commesso tanto tempo prima, felice di aver trovato il modo per essere perdonata. E soprattutto di tornare a vivere. Lo baciò sulle labbra. Andrea le sorrise.
«Amore, non piangere.»
«Sono troppo felice.» Si rialzò da terra, raccolse la borsa e andò a prendere la busta. Andrea intanto spense la tv. «Ecco, guarda.» Gliela passò. Andrea l’aprì e cominciò a leggerla attentamente. Intanto Sofia andò in cucina. Andrea continuava a leggere mentre sentiva il rumore del frigorifero.
«Non è incredibile?» La voce di Sofia gli faceva compagnia dalla cucina. «E quello di cui avevamo bisogno…» Poi rientrò in salotto. «E suonerò di nuovo, per te, per noi… Per tutto quello che sarà dopo.»
Andrea poggiò i fogli sulle gambe. Rimase per un attimo in silenzio. «Non voglio che tu vada.»
«Cosa?» Sofia avvicinò una sedia e si mise di fronte a lui, gli prese le mani.
«Ma cosa dici, amore mio, che vuol dire?»
Andrea la guardò negli occhi. «Non posso credere che tornerò a camminare.»
«Perché no, amore? Perché non dovrebbe essere co-sì? Non ti sembra possibile? Abbiamo letto molto di questo medico, ce ne ha parlato anche Stefano, è riuscito in tutto quello che ha tentato, è un genio della chirurgia. Perché non dovrebbe essere possibile anche per te?»
Prese in mano i fogli.
«Perché tutto questo mi sembra uno scherzo del destino, è come se mi prendesse in giro. Spunta dall’altra parte del mondo un medico che si occupa proprio del mio problema, ha un costo altissimo. Poi ecco che arrivano dei milionari arabi che sono disposti a pagare così tanto proprio per te, per una pianista che non suona più da oltre otto anni e, guarda caso, sono disposti a sborsare proprio cinque milioni di euro, una cifra impossibile, senza nulla togliere alle tue qualità. Perché dovrei crederci? Non ti sembra una beffa, uno scherzo di pessimo gusto?»
Sofia si alzò e si mise in piedi di fronte a lui.
«E per quale motivo non ci devi credere?»
«No, Sofia, non è verosimile. Sembra un piano perfetto…»
«Non è possibile che ci sia una persona così cattiva, così cinica da montare una cosa del genere, non è poss…» Poi d’un tratto si interruppe, rimase di colpo in silenzio, come se in un attimo tutto le apparisse chiaro. “E se quel medico non esistesse? Se fosse tutta una montatura solo per passare cinque giorni con me? No.
Non può essere. “
«A cosa stai pensando?» Andrea la guardò, improvvisamente indagatore.
Sofia allora capì che quel momento era decisivo, doveva giocare il tutto per tutto, ci avrebbe pensato dopo se era tutta una messinscena. Non doveva tradirsi, non adesso.
«Penso solo che bisogna avere il coraggio di vivere.»
E se ne andò in camera da letto sbattendo la porta.
Aveva bisogno di tempo, solo un attimo per riprendersi, le sembrava di scivolare in un abisso. Si lasciò cadere sulla poltrona e si portò subito le mani tra i capelli. “No.
Non è possibile, non può essere arrivato a tanto. Se è co-sì lo denuncerò, anzi no, partirò con lui e lo ucciderò…”
Poi sentì il cigolio della porta che piano piano si apriva.
«Amore…» Comparve Andrea. «Scusami, sono stato un insensibile. Tu hai fatto tutto questo per me, per noi, e io lo sto mettendo in dubbio stupidamente. Perdonami, ti prego.»
Sofia gli si avvicinò e lo abbracciò. Ora era Andrea a piangere.
«E che non mi sembra vero. È un sogno. Ho paura di svegliarmi da un momento all’altro.»
«Shhh… È tutto vero, amore, e noi siamo fortunati ad avere questa occasione… Forse ce la siamo meritata.»
Non sapeva più cosa pensare. Non era più del tutto convinta di quelle sue parole. «Dobbiamo solo capire se questo professore è veramente in grado…»
Andrea si staccò da lei, ora aveva un altro viso, un altro entusiasmo. «Sì, ho parlato con dei medici dell’ospedale, anche loro ne hanno sentito parlare.»
Sofia si ricordò di quella stanza piena di ragazzi che lavoravano al computer, di come avevano ritoccato le sue immagini del passato, di come avessero cancellato al volo il bracciale dal suo polso. Quei ragazzi erano in grado di rendere credibile qualsiasi cosa.
Andrea continuò: «Non può non essere vero. Hanno intervistato anche le persone che sono state operate, c’è di tutto su internet… Ormai se ne parla da diversi mesi, se non fosse stato vero sarebbe già uscito tutto».
Sofìa si tranquillizzò. Quel professore non era virtuale. Baciò Andrea sulle labbra che le sorrise.
«Il fatto che tu abbia trovato quella cifra mi sembra una cosa incredibile…»
«Sì, anche per me lo è. Non so che dire. Quando queste cose capitano, si può essere semplicemente felici. Vieni…» Andò in salotto seguita da Andrea. «L’ho presa per festeggiare.»
Tirò fuori una bottiglia di champagne. «Aprila, dai…
Viviamo tutto questo come un sogno a occhi aperti.
Magari sarà un cammino lungo, magari non sarà facile, magari ci saranno delle difficoltà, ma dobbiamo avere la pazienza di accettarle quando non si potrà fare altro e la forza di superarle quando sarà possibile… Questa volta forse lo è.»
Andrea aprì la bottiglia. Il tappo esplose verso il soffitto e rimbalzò cadendo lontano.
«È di buon auspicio.» Sofia sorrise e gli passò i bicchieri che aveva preso in cucina. Andrea cominciò a versare lo champagne mentre lei scartò un pacchetto.
«Ho preso anche una Mimosa di Cavalletti. Oggi voglio proprio festeggiare e se metto su due chili… be’, li perderò!»
Andrea le passò il bicchiere fissandola negli occhi.
Sofia posò la torta e alzò il calice, rimasero in silenzio in attesa che uno dei due trovasse le parole giuste. Poi fu lui a parlare.
«Per tutto quello che hai fatto per noi e per il tuo amore che a quanto pare… è miracoloso.»
Era commosso. Anche Sofia stava per piangere.
«Adesso ricominciamo, uffa…»
Andrea si mise a ridere. «No, è vero, dobbiamo stare allegri, c’è pure la torta, scusa!»
Così brindarono toccando i calici con forza, facendo danzare quello champagne e lo bevvero tutto d’un sorso, fino alla fine. Poi tagliarono la Mimosa.
«Mmm, buonissima.»
«Sì.»
Andrea continuava a fissarla. Sembrava una bambina, staccava il suo pezzo di torta col cucchiaio. Lo riempiva veloce, lo portava alla bocca, non faceva in tempo a mandarlo giù che subito ne prendeva un altro. Poi si accorse che lui la guardava. «Che c’è?»
«Vorrei essere mangiato come quella torta…»
Sofia sorrise con la bocca ancora piena.
«Fammela finire e poi vedi che ti faccio…»
E lei continuò a mangiare, e lui a fissarla.
«Ma mi lasci mangiare in pace?»
«Sì. È che ho un po’ paura.»
Sofia diventò improvvisamente seria. «Di cosa?»
«Non vorrei che cambiasse mai nulla tra noi, sono felice così.»
«Perché dovrebbe?»
«Un cambiamento a volte porta altri cambiamenti…»
Sofia lo guardò. «È un rischio che devi correre… In tutti i sensi.» Poi sorrise, gli tolse il piatto dalle mani e cominciò a mangiare anche il suo pezzo di torta.
Nei giorni seguenti arrivarono i biglietti con un DHL. Il momento si avvicinava. Sofia cercò di non pensarci. Attraversava la città e si accorgeva di cose che non aveva mai notato. Alberi, piante, costruzio-ni, monumenti, il colore delle case. Alzava lo sguardo e scopriva attici bellissimi. Li guardava con meraviglia eppure erano sempre stati lì. Era passata accanto a quelle bellezze, a quei dettagli, come se fosse stata cieca. Si era fermata da un fioraio e aveva ordinato diversi mazzi per casa. Aveva preso dei tulipani, delle margherite gialle, dei ranuncoli di tutti i colori e dei gigli dal profumo forte.
«Me li può portare verso l’ora di pranzo?»
Poi aveva comprato alcune bottiglie di vino. Aveva preso del rosso e del bianco, degli ottimi Lacrima di Morro d’Alba Piergiovanni Giusti e del Pinot Bianco Penon Nais Margreid, che su una rivista erano segnalati per il buon rapporto tra qualità e prezzo.
«Ottima scelta» le aveva detto il commesso dell’eno-teca vicino casa. «Ottima scelta davvero. Molta gente paga delle bottiglie di qualità inferiore centinaia d’euro.
Io lo dico sempre, non ci vuole niente a essere bravi così. Quelle sono tutte persone arricchite, prendono il vino per fare i fenomeni quando invitano altri cafoni che ne sanno meno di loro…»
Sofia non sapeva cosa rispondere, annuiva e basta, aggiungendo a volte un minimo: «Eh, già…».
«Invece è comprando questi vini che si fanno crescere le piccole aziende di qualità, che meritano molto più di altre.»
«Eh, già…»
Poi le consegnò la busta, Sofia pagò e si salutarono. “La cosa bella di alcuni commessi” pensò, “è che ti spiegano la loro filosofia. “
Entrò a casa divertita, felice di aver fatto una scelta giusta, almeno in materia di vini e proprio in quel momento il suo telefonino squillò. Lo cercò disperatamente dentro la borsa, spostando i fazzoletti, le chiavi, il portafoglio, l’agenda e alla fine lo trovò. Numero privato. Chi poteva essere? Tutti. Chiunque. Lui. Il suo cuore cominciò a battere all’impazzata. Perché dovrebbe chiamarmi? Cosa può essere successo? Fece un lungo respiro poi rispose.
«Pronto.»
«Signora Valentini?»
«Sì.»
«Sofia Valentini?»
«Sì?»
«Mi scusi se la disturbo, sono Luigi Gennari.»
Sofia rimase un attimo in silenzio. “Luigi Gennari…
Ho già sentito questo nome, ma chi è? Non me lo ricordo.” La voce le venne in soccorso.
«Sono il direttore della sua banca.»
Ecco chi era! Quel tipo basso, pelato, con i baffetti che non l’aveva mai degnata di uno sguardo. E come mai ora la chiamava di persona? E certo. In un attimo capì.
«Mi scusi se la disturbo, ma credo che lei sappia, sì, insomma non credo che sia un errore, volevo dirle che…»
«Sì, direttore. Sul mio conto sono arrivati cinque milioni di euro.»
«Ecco, sì. E volevamo sapere se le potevamo essere I
utili in qualche modo, se li vuole investire. Mi farebbe piacere riceverla. Ho preparato varie ipotesi di investimento. Oppure le mando il nostro promotore finanziario a casa all’ora che lei preferisce… Pronto?»
Sofia sorrise. Era ancora lì. Avrebbe tanto voluto attaccare. Decise che c’era una tecnica migliore. «Nei prossimi giorni dovrebbero arrivare altri bonifici, però non mi chiami, direttore, la cercherò io quando sarò libera.»
«Sì, sì, certo. Anzi, mi scusi.»
«La scuso.» E attaccò. Be’, se non altro questo sfizio se l’era tolto. Così andò subito a uno sportello di banca, inserì il suo bancomat, digitò il codice senza farsi vedere, quella volta più attenta che mai e andò su “visualizza saldo”. Non poteva credere ai suoi occhi. La cifra era proprio lì, al centro di quello schermo:.. euro.
Senza volerlo coprì ancora di più lo schermo e si guardò in giro, poi rise di questo suo eccessivo zelo. Digitò alcuni tasti finché non scelse l’opzione “stampa”. Quando il foglietto uscì dallo sportello, lo piegò più volte e lo infilò nella tasca del portafoglio. Un attimo dopo era a casa.
«Guarda…» Lo mise sul tavolo sul quale Andrea stava disegnando. Andò a finire proprio sul progetto di una villa a Ladispoli. La cifra riportata ne avrebbe potute comprare più di trenta. Andrea prese quel foglietto tra due dita come se fosse un prezioso reperto, una pergamena ritrovata in chissà quali antichi scavi, una notizia che avrebbe sconvolto il mondo. In realtà era l’annuncio della sua nuova vita.
«Non ci posso credere. Sono arrivati sul serio. Era giusto che il mondo riconoscesse le tue capacità, il tuo dono non ha prezzo. Amore, solo grazie a te…» indicò le sue gambe, «potrà avvenire questo miracolo. Ogni singola nota che suonerai sarà guidata dal tuo cuore. Grazie.»
Allora Sofia rimase in silenzio, non fu capace di di-re nulla, né di sorridere. Sapeva che sarebbe arrivato quel momento e aveva immaginato mille volte quella scena ma non era servito a nulla. Cominciò a piangere.
Lacrime silenziose, una dopo l’altra, scendevano sulle sue guance. Senza aspettare, sempre più grandi, dolo-rose, timide, ma consapevoli di quel grande imbroglio, di quella bugia nascosta.
«Amore, ma perché piangi?» Andrea si spinse in avanti, la raggiunse, le prese le mani, cercò di consolar-la. «Non fare così, mi metti in difficoltà, non so più che dire, come comportarmi… amore, ti prego.»
Sofia continuava a piangere. Era diventata particolarmente fragile in quest’ultimo periodo. “Perché?” si chiese. Andrea allungò la mano, cercando di fermare quelle lacrime.
«Ti prego…» Ma più parlava, più lei piangeva. “Co-me può essere così ingenuo” pensò, “come può non capire? È un altro prezzo quello che sto per pagare, Andrea, non è certo per la mia musica, per le mie doti o qualità… Mi sono venduta. Venduta.” E sentire pro-nunciare nella sua mente quella parola fu ancora più doloroso. Una smorfia le si dipinse sul viso, Andrea se ne accorse.
«Non importa. Non andare.»
E Sofia in quell’attimo avrebbe voluto fermare quella messinscena, svegliarsi da quel sogno di cartapesta, abbracciarlo, dirgli tutto, sentirsi di nuovo libera, sua, solo sua e di nessun altro, per nessun prezzo…
Ma capì che non era possibile, sarebbe stato stupido.
Era arrivata fin lì, doveva andare avanti.
«No, va tutto bene, amore.» Sorrise rientrando nella parte. «Sono emozionata proprio come te.»
E si abbracciarono. Rimasero così a lungo in silenzio.
Poi Andrea si staccò da lei, le fece una carezza e le sorrise. «Andrà tutto benissimo, vedrai. Siamo stati fortunati. Peccato solo per una cosa…»
«Cosa?» Il cuore di Sofìa cominciò a battere veloce.
“E ora cosa mi vuole dire? Cosa ha capito? Cosa ho sbagliato? Ecco, lo sapevo…”
Andrea prese la sua mano, la girò, mise il palmo verso l’alto, poi ci poggiò dentro le sue labbra e la baciò.
Comparvero solo i suoi occhi da lì sotto, pieni d’amore.
«Sarei tanto voluto venire con te.»
Tutto doveva sembrare vero. Non sarebbe stato naturale se non l’avesse fatto. E soprattutto, per come era lei di carattere, non sarebbe stata credibile. “Se devono essere le Goldberg, lo siano! ” si disse Sofia. L’opera più complessa, più difficile, più tutto. Più che inventata da Bach, si diceva che fosse stata soltanto trascritta dal Maestro perché in realtà composta da Dio. Sofia era consapevole del fatto che Andrea era a pochi metri da lei nell’altra stanza e che avrebbe ascoltato tutta la sessione giornaliera. Sarebbe stato costretto ad ascoltare otto ore di studio. Non voleva dare l’idea di un approc-cio approssimativo ma in realtà era emozionatissima perché, per la prima volta dopo tanti anni, era arrivato il momento della prova, del confronto.
Guardò la tastiera e lo spartito aperto alla prima pagina, Aria, ed ebbe una specie di vertigine. Ma non si lasciò tentare. Non avrebbe provato a leggere le Variazioni dalla prima all’ultima pagina. Avrebbe invece iniziato a studiare una sola variazione, la N. Mai e poi mai sarebbe riuscita a preparare le Variazioni se non le avesse già messe in repertorio all’età di sedici anni e poi eseguite in pubblico svariate volte quando ne aveva diciannove.
Si guardò le mani, le incrociò e attaccò alla giusta velocità, cioè paurosa. Stacchi di sinistra e articolazione virtuosistica tutta di scale con la destra e fin qui tutto bene ma, ecco, la sinistra risponde e viene su dalla terza ottava con proibitivi e minutissimi scavalcamenti rego-lati da una diteggiatura troppe volte studiata e messa a punto. La testa le si accese di piacere, le mani neppure si vedevano, lei era quella variazione, era Bach, era il pianoforte, era ogni singolo tasto, era la messaggera di Dio. Ultima nota poggiata con il mignolo della mano sinistra e subito di nuovo da capo l’attacco con la destra.
Ultima nota. Attacco. Senza più smettere.
Andrea nell’altra stanza, gli occhi lucidi, distolse lo sguardo dal muro e chinò la testa.
Verso l’ora di pranzo Sofia si prese una pausa e andò al conservatorio per studiare quattro ore sullo Steinway. Più tardi, nel pomeriggio aveva appuntamento con Ekaterina Zacharova. Le raccontò del suo viaggio e presero accordi perché la sostituisse.
«Ti invidio, sarà un’esperienza bellissima.» L’abbracciò. Sembrava sincera.
«Dovrai prendere il mio posto da oggi, devo assolutamente essere all’altezza per quei cinque concerti.»
«Lo faccio volentieri, Sofia.» Si lasciarono così.
Ekaterina rimase a guardarla ferma in mezzo alla piazza, con un po’ di invidia per questa splendida occasione che le si era presentata.
La mattina prima di partire iniziò a preparare le valigie. Come le aveva suggerito l’assistente dell’avvocato Guarneri, prese i vestiti che indossava nei filmati che aveva visto in quell’ufficio. Li provò, le stavano ancora bene. Forse non suonava più come allora ma almeno non era ingrassata. La sera aprirono uno dei vini bianchi che aveva comprato, un Pinot Bianco Penon Nais Margreid, mangiarono in silenzio degli spaghetti allo scoglio e un ottimo dentice al forno. Poi con una tenera naturalezza finirono a letto.
«Mmm, sai che era proprio buono quello che hai cucinato?»
«Ti è piaciuto sul serio o mi prendi in giro?»
Sofia cercò il suo sguardo.
«Sul serio, ti giuro. Anzi, sono preoccupato. Non hai mai cucinato così bene!»
Lei gli diede una spinta. «Stupido. Ho fatto piatti molto migliori di quelli di stasera, è che sei come tutti gli uomini…»
«Cioè?»
«Che quando non avete tutto sotto controllo, allora cominciate ad accorgervi di cosa potreste perdere…»
Andrea la guardò meglio. «Perché… ti perdo?»
«Se parli male di come cucino rischi grosso.»
«Sei sempre stata la migliore cuoca che io abbia mai conosciuto.»
«Non dire bugie…» Sofia scese dal letto e attraversò nuda la stanza. Nel pallore della luna il suo corpo appariva snello, i suoi seni pieni e rotondi, il suo sedere asciutto, forte, muscoloso.
«Mi sto eccitando di nuovo…»
«Dobbiamo dormire. Domani parto presto…»
Entrò in bagno.
Andrea sentì l’acqua scorrere. «Già mi manchi.»
Sofia alzò la voce dal bagno. «Ho detto niente bugie.»
«Ma è vero!»
Tornò in camera da letto, si stese vicino a lui. Andrea allungò la mano, le accarezzò le gambe.
«Hai preso dei vestiti carini?»
«Sì… Quelli per i concerti e poi delle cose più semplici.»
Salì più su sempre accarezzandola. «Il passaporto?»
«È sul tavolo dell’ingresso.»
Salì ancora più su, lei allargò le gambe. Sentì un suo sospiro, ma sorridendo continuò a parlare.
«Hai portato qualche maglia, magari farà freddo.»
«Una sola… Farà caldo…»
Andrea la sentiva muoversi al tocco delle sue dita.
«Ci sentiremo?»
«Non sarà facile. Mi hanno detto che mi daranno un cellulare, lì le linee fisse sono disturbate, ma ci sposte-remo spesso da quello che ho capito…»
«Ah…»
Andrea continuava ad accarezzarla, lei sospirò e chiuse gli occhi. «Vieni sopra di me…» In un attimo Sofia gli fu sopra. Andrea la teneva forte ai fianchi.
«Mi mancherai, amore.»
«Anche tu…» Cominciò a muoversi sempre più veloce sopra di lui, spingeva con forza il suo ventre verso il basso, era molto eccitata, chiuse gli occhi, mandò la testa all’indietro e venne con delle piccole grida insieme a lui. Rimasero così in quel letto disfatto d’amore, recu-perando piano piano le loro forze.
Poi Andrea parlò. «Amore, in questi giorni che ti ho sentito suonare di nuovo mi sono emozionato. E stato bellissimo. È un peccato aver perso tutto questo tempo.»
«Forse tutto quello che ci sta accadendo è anche per questa mia rinuncia.»
«Vedrai che suonerai benissimo. Saranno cinque concerti spettacolari. Non potrai più fermarti.»
Sofia lo guardò nella penombra della camera. «Amore, ne parliamo quando torno.»
«Sì. Hai ragione.»
Poco dopo Andrea si addormentò. Sofia sistemò le ultime cose, mise qualche altro indumento in valigia e tornò a letto. Ripensò alle sue ultime parole.
“Sarà la tua nuova vita.”
“Cosa accadrà in questi cinque giorni?” Guardò l’orologio. Domani a quest’ora sarò da lui. E iniziò a provare una strana eccitazione. Fu come tornare a quando da piccola si avvicinava il momento di partire per il mare. Avrebbe ritrovato gli amici e soprattutto un ragazzo che le piaceva tanto e che vedeva solo d’estate.
Si accorse che era emozionata come spesso le era accaduto la sera prima di un concerto. Non era solo paura o curiosità. I suoi concerti erano una sfida, qualcosa che avrebbe dovuto portare fino in fondo nel migliore dei modi. Questa volta però era una sfida diversa con un ingaggio senza precedenti: cinque milioni di euro. Erano già sul suo conto. Poi pensò al perché di quei soldi.
Allora si sentì più sicura, più rilassata. Solo cinque giorni con un uomo sconosciuto. Cosa posso perdere? Ma quell’ultima domanda non poteva aver risposta. Così, alla fine, anche lei si addormentò.
«È arrivato il taxi.» Andrea chiuse la tenda.
«Ciao, amore.» Sofia si piegò su di lui, gli diede un bacio, poi gli sorrise, prese la valigia, il beauty e uscì senza girarsi. Vedendola arrivare, il tassista scese dall’auto e sistemò i bagagli nel baule.
Sofia alzò il viso. Andrea era dietro la finestra e mosse la mano per salutarla. Lei gli sorrise, poi entrò nel taxi.
Un attimo dopo girarono l’angolo e sparirono inghiot-titi dal traffico. Il tassista la guardò nello specchietto.
«Dove andiamo?»
«All’aeroporto di Fiumicino, grazie.»
Sofia si raccolse i capelli mentre andavano e lentamente si fece due trecce, le fermò con gli elastici. Le servì per ingannare il tempo fino all’aeroporto. Poi pagò e scese. Trovò senza difficoltà il banco per la partenza.
Diede il passaporto e caricò sul nastro le valigie. Passò il controllo e alla fine si trovò a girare per i negozi aspettando che chiamassero il suo volo. Entrò in una libreria. Ci sarebbero volute poche ore per arrivare ad Abu Dhabi ma non sapeva poi quanto avrebbe volato ancora. Un libro le avrebbe permesso di affrontare il viaggio con più facilità, avrebbe distratto la sua mente.
“Ma perché non ci ho pensato prima? Sono piena di libri a casa, tutti quelli che prima o poi avrei voluto leggere.” Così entrò in una libreria, iniziò a girare, a guardare qualche titolo e alla fine la sua scelta cadde su un vecchio classico: Anna Karenina. Gliene avevano sempre parlato ma non l’aveva mai letto. Chissà cosa avrebbe trovato in quel libro, magari un segno, qualche attinenza con quello che avrebbe vissuto. Pagò e uscì, mise il libro nella borsa e guardò altre vetrine. Si divertì a vedere qualche bella borsa. “Se viaggiassi più spesso mi potrei prendere questo trolley Prada. È bellissimo e mi sembra molto spazioso pur essendo comodo.” Lo richiuse. “Ma quando mi capiterà di nuovo di viaggiare?”
Era una vita che non lasciava Roma.
Si fermò davanti a un negozio di costumi e parei. In vetrina c’era la foto di una spiaggia bianchissima. “È
vero! Non ho portato un pareo. Tanto sarò da sola con lui. Al massimo mi faccio prestare una sua camicia.”
Poi si mise a ridere da sola. “Insomma questa del pareo mi sembra l’ultima delle preoccupazioni.” Ma per un attimo si sentì di nuovo una diciassettenne che si sta allontanando per la prima volta da casa, che ha mille paure, mille incertezze, che pensa di non aver messo tutto nella valigia e di aver sicuramente dimenticato qualcosa di fondamentale per la sua vacanza. “Vacanza?” Sofia finì davanti a un grande specchio. Si guardò. “Tu non sei in vacanza. Tu non stai partendo per una vacanza.
Tu vai da lui per fare quello che lui vuole, quello che lui desidera, tutto quello che un uomo può volere da te per cinque milioni di euro. Cinque giorni. Cinque giorni potrebbero durare tantissimo, potrebbero sembrare infiniti, potresti non sopportarlo, detestarlo. Sofia? Ma perché ti prendi in giro? È un uomo bellissimo, ti piace, ti affascina, ti eccita. E in questo modo tu sei giustificata, non solo, sei strapagata per scopare con lui. Ma credi che lui tutto questo non lo sappia? Uno che conosce ogni cosa di te, i tuoi segreti, il tuo conto, ha le tue foto del passato, di tutti i tuoi concerti, vuoi che non abbia capito anche questo?”
Proprio in quel momento sentì la chiamata del suo volo. Si diresse velocemente verso il gate, mostrò il biglietto e il suo passaporto alla hostess che la fece passare. Subito dopo, a bordo, raggiunse il suo posto, si accomodò nella grande poltrona riservata per lei in prima classe. Arrivò uno steward che le portò dei giornali e un bicchiere di champagne.
«Grazie.»
In qualche modo era iniziata questa vacanza “particolare”. L’aereo si staccò dal finger, si allontanò sulla pista, si mise in posizione per aspettare il suo slot, poi fece una piccola curva, parti lento. I motori cominciarono a rombare, prese velocità e un attimo dopo era in volo.
Sofia vide il mare, le onde si rompevano sulla spiaggia, alcune si increspavano più al largo, poi si ritrovò tra le nuvole. Così prese il libro dalla borsa, cominciò a leggere, si rilassò. Le parole scorrevano veloci e servivano a distrarla. Le piaceva quella scrittura classica.
Dopo un po’ infilò il biglietto in mezzo al libro, lo poggiò sul bracciolo della poltrona, chiuse gli occhi e si addormentò. Un rumore improvviso la svegliò. Strinse forte i braccioli. Poi si guardò intorno. Tutti erano sereni e tranquilli, fece un sospiro, niente, non succedeva nulla di strano, stavano semplicemente atterrando.
Scese dall’aereo, aspettò i bagagli e uscì.
“E ora? Come troverò chi mi sta aspettando? E soprattutto, ci sarà qualcuno? Magari mi ha fatto uno scherzo. Rimango cinque giorni qui all’aeroporto! Uno scherzo da cinque milioni di euro! “
«Signora Valentini?»
«Sì.»
Un uomo elegantissimo, con abito scuro e cravatta blu, le sorrise allungando la mano verso le valigie. «La stavamo aspettando, prego, lasci pure a me.»
«Sì grazie.»
L’uomo le indicò la strada. «Da questa parte. E andato bene il viaggio?»
«Sì, benissimo.»
«Vuole qualcosa, desidera un caffè?»
«Se ci fosse, un po’ d’acqua…»
«In macchina abbiamo tutto quello che desidera.»
Usciti dall’aeroporto un’auto accostò al marciapiede.
Il suo accompagnatore aprì lo sportello. «Prego.»
Sofia salì in macchina e lui lo richiuse. Sistemò i bagagli e prese il posto di guida lasciato dall’autista. Salito al volante, si mise la cintura e portò la marcia automa-tica sulla lettera D. La grossa Mercedes S partì silenziosa.
«Nel frigorifero davanti a lei trova tutto quello che desidera. Nell’armadio piccolo sotto invece ci sono delle bottiglie d’acqua a temperatura ambiente e i bicchieri.»
Sofia aprì il frigo e prese dell’acqua naturale. La Mercedes fece un’ultima curva e si fermò davanti a un cancello, dopo averlo superato continuò la sua corsa silenziosa fino a fermarsi davanti a degli hangar. Un jet di lusso G Gulfstream era al centro della pista. L’autista scese e aprì lo sportello.
«Prego. Siamo arrivati.»
Sofia uscì dall’auto e rimase colpita dal calore di quel posto. Alcuni riflessi lontani brillavano in fondo alla pista, sembravano orizzonti sfocati su quel grande deserto.
«È il caldo, signora.»
L’uomo le sorrise e la guidò portando i suoi bagagli.
Si fermò davanti alla piccola scala.
«Prego.»
Proprio in quel momento una hostess comparve sulla porta dell’aereo. «Buon pomeriggio.»
Sofia iniziò a salire gli scalini. La hostess le sorrise salutandola con un piccolo inchino.
«Dove vuole sedersi?»
«Oh, qui va benissimo.» Era un aereo più grande di quello per Verona, ma altrettanto elegante e curato nei minimi dettagli. L’equipaggio era diverso. Si presentò il comandante.
«Salve. Quando vuole partiamo.»
Sofia sorrise e allargò le braccia. «Per me possiamo andare anche adesso.»
«E allora partiamo. Lei è la nostra unica passeggera.»
Da terra l’autista della macchina la salutò. «Se deve prendere qualcosa dalle sue valigie, loro sanno dove so-no. Buon viaggio.»
Poi la scaletta fu tolta, il portellone si chiuse. Sofia si sedette su una grande poltrona a metà dell’aereo. Aveva il finestrino vicino e accanto un mobile basso dove poter poggiare la borsa. Si mise la cintura. L’aereo si mosse piano, lentamente accelerò e prese il volo. Non un rumore. Niente. Era silenziosissimo.
Sofia vide la Mercedes scura che usciva dal cancello, poi una lunga strada in mezzo al deserto, quelle palme sempre più piccole. Dopo poco erano già alti nel cielo.
L’aereo fece una curva verso sinistra e puntò verso il sole. Sofia sentì la potenza dei motori aumentare, poi più niente. Correva via attraversando brevissimi strati di nuvole e solo quelle riuscivano a dare l’idea di quanto stesse andando veloce.
La hostess si avvicinò. «Se vuole può togliersi la cintura. Non incontreremo turbolenze.»
«Tra quanto arriveremo secondo lei?»
«Mah… Abbiamo il vento a favore. Il viaggio sarà lungo ma faremo tutto il possibile perché non se ne accorga.»
Avrebbe voluto dire: “Sì, ma dove stiamo andando?”. Sapeva però che in risposta avrebbe trovato semplicemente un sorriso. Decise di domandare solo quello che la hostess poteva dirle.
«C’è un bagno?»
«Oh, certo. Ne abbiamo due. Può usare quello in fondo alle sue spalle.»
Sofia si alzò, la hostess la fece passare.
«Non si faccia problemi, se ha bisogno di qualcosa mi chiami.»
«Va bene, grazie.»
Sofia aprì la porta del bagno. Piastrelle di marmo nero intarsiate di venature leggermente più chiare, un grande specchio, una doccia, una vasca idromassaggio.
Un lavandino stile giapponese, dall’altra parte piccoli asciugamani di lino bianco. Chiuse la porta, andò davanti allo specchio, si lavò le mani, si pettinò. Alle sue spalle si accorse solo ora che c’era un grande accappatoio bianco, soffice, spugnoso. Si avvicinò. Aveva una lettera “S” stampata. Sotto c’erano delle pantofole dello stesso colore. Si tolse le scarpe, le provò, naturalmente erano della sua misura.
Poco dopo uscì dal bagno e tornò a sedersi. Sul suo tavolino era stata appoggiata una cartellina, sopra c’era scritto: “Sofia”.
La hostess le si avvicinò. «Mi hanno detto di darle questa e che lei ne era informata.»
«Sì…»
Veramente non sapeva di cosa si trattasse. La hostess si allontanò. Sofia aprì la zip. Trovò un telefonino e un foglio scritto al computer.
“Questo telefonino è per lei. Lo potrà usare in questi giorni per quando desidera telefonare. Il numero uscente risulterà proveniente da Abu Dhabi. I numeri registrati sulla scheda telefonica sono quelli che lei chiama più frequentemente.”
Sofia guardò la lista. C’era scritto “casa” e poi effettivamente il suo numero, “casa genitori”, “Andrea”, “Olja”, “Lavinia”, “Stefano”. Avevano tutti i suoi numeri, erano trascritti lì, sopra quel foglio. Non mancava nulla. Erano pericolosi, potevano arrivare in ogni angolo più nascosto della sua vita, potevano sapere tutto, comprare tutto, tranne una cosa. E questo la rassicurò.
Riprese a leggere il libro, più tardi le fu servita una cena leggera, meglio di qualsiasi altro cibo mai mangiato su un aereo: salmone al vapore, accompagnato da patate julienne, poi un’insalata freschissima e infine dei piccoli dolci francesi, il tutto accompagnato da un ottimo vino bianco, del Riesling Sommerberg Alsace Grand Cru. Stava prendendo un caffè quando l’aereo atterrò. Mise il cellulare nella borsa, salutò la hostess: «Arrivederci».
Ad attenderla c’era una limousine scura sulla quale vennero caricate le sue valigie. L’autista la salutò con un sorriso. Era un ragazzo dalla carnagione scura, doveva essere del posto. Aprì lo sportello, la fece salire, poi lo richiuse, si mise alla guida di quella bellissima Bentley Mulsanne.
I sedili erano in pelle e naturalmente non mancava il frigorifero al centro. Ma Sofia non prese nulla. Guardò il paesaggio dal finestrino. La vegetazione tutt’intorno era fitta, ai bordi della strada c’erano delle piante dalle foglie larghe. Ogni tanto tra tutto quel verde compari-vano dei grandi fiori colorati. Lungo la strada incontra-rono uomini e donne avvolti in drappi colorati, azzurri, beige, marroni, blu. Salutavano alzando lentamente la mano e continuavano così il loro cammino verso chissà quale meta.
L’auto fece un’ultima curva, poi prese un rettilineo, in fondo si vedeva il mare. Man mano che la macchina procedeva, lo scenario si allargava. Un mare blu, im-menso, senza confini, davanti a una spiaggia stretta e lunga, bianchissima. Quando l’auto arrivò alla fine di quel rettilineo girò a destra, fece alcune centinaia di metri e si fermò davanti a un pontile. Un grande motoscafo era l’unica imbarcazione attraccata. L’autista l’accompagnò. Il rumore delle tavole di legno echeggiava sotto i loro piedi, accompagnato solo dal lento sciabordare del mare.
Un uomo a bordo del motoscafo si affacciò dalla cabina. «Salve, signora. Venga. La passerella è sicura.» Le sorrise. Parlava un italiano stentato ma comprensibile.
Sofia salì tenendosi al corrimano.
«Prego, si accomodi dove preferisce. Il mare è un po’
mosso, ma non si preoccupi…»
Sofia si sedette su un grande divano in fondo alla poppa, da lì si poteva vedere tutto. In un attimo le cime furono mollate, il rumore dei motori salì, il motoscafo si staccò dalla banchina, planò quasi subito e raggiunse in pochissimo tempo le sessanta miglia orarie. Ora il mare era più piatto e il motoscafo volava su quella distesa blu. A volte assecondava qualche onda dondolando leggermente. Sofia aveva i capelli al vento e provava a tenerli ma loro, ribelli, le venivano avanti coprendole il viso. Poi a un certo punto la vide. L’isola. Grandi palme dalle lunghe foglie verdi spiccavano alte al centro di quella striscia di terra che si stava avvicinando, altre più piccole si dirigevano verso il mare e lì, sulla spiaggia bianca, si piegavano con un inchino, salutando così l’imminente arrivo degli ospiti. Ormai mancava poco.
Sul lato destro si vedevano alcune rocce, come se una parte dell’isola fosse stata tagliata. Lì sotto il mare era più scuro, sopra la vegetazione più fitta. Il motoscafo rallentò, fece un’ampia curva, si piegò fendendo l’acqua e si diresse verso l’unico pontile nascosto fino a quel momento da una duna di sabbia più alta. Lui era lì, in piedi e le sorrideva con in mano una rosa rossa dal gambo lunghissimo.
Appena il motoscafo attraccò, l’aiutò a scendere e subito le diede la rosa.
«Ben arrivata.»
«Grazie”…»
Lei stupidamente arrossì.
Lui intelligentemente sembrò non farci caso.
«Vieni, voglio farti vedere l’isola.»
Salirono su una macchina elettrica decappottabile, guidata da una ragazza mulatta.
«Buonasera…» si sedettero dietro vicini. Tancredi le sorrise. «Cameron, per favore, fai vedere l’isola alla nostra ospite.»
«Certo, signore.»
La macchina si mosse, percorse alcuni metri di una strada sterrata che fiancheggiava la spiaggia, poi entrò nella vegetazione. Avanzarono tra grandi cespugli verdi molto fitti, poi arrivarono in una radura e costeggiaro-no un laghetto.
«Questo è d’acqua dolce e ci si può fare il bagno, quella è una cascata naturale…»
Dall’altezza di circa tre metri, cadeva moltissima acqua. Rompendosi tra le rocce si polverizzava nell’aria dando vita a un arcobaleno.
Il veicolo si infilò di nuovo nella foresta e ne uscì qualche istante dopo. «Ecco, questa è la spiaggia, è la più riparata e laggiù, al largo, c’è la barriera corallina.»
Una lunga lingua bianca si estendeva per almeno tre chilometri, alcune palme leggermente curve arrivavano a sfiorare il mare. La macchina passò davanti a un piccolo gazebo elegantissimo. Sotto c’erano due grandi letti ricoperti da teli di iuta.
«Qui si può prendere il sole… Senza troppa gente intorno.»
Poco più lontano una tettoia di grosse canne di bambù riparava una grande cucina, c’erano diversi frigoriferi, un bancone e una serie di fuochi in ghisa. Un muro alto ricoperto da alcune piante rigogliose isolava la spiaggia dagli sguardi indiscreti di chi lavorava in cucina.
«Qui se uno ha fame o desidera qualcosa da bere…»
Sofia sorrise. «Mi ricorda tanto Laguna Blu.»
«Si, lì però loro ci arrivano da bambini e soprattutto per caso. Ecco la spiaggia finisce laggiù, ora giriamo…»
Cameron fece una morbida curva e si fermò poco do-po. Solo ora apparve. Era stata perfettamente costruita tra tutto quel verde e la roccia.
«Ecco, questa invece è la casa, è proprio sulla punta.
Qui l’isola si stringe, così si affaccia da tutte e due le parti. Non è molto grande. Vieni…»
Entrarono in un salone dal pavimento in legno chiaro. Grandi vetrate facevano entrare il caldo sole del tramonto che illuminava i divani color tortora. A terra un tappeto bianco, grande, sofficissimo. Dietro, un’unica vetrata dove si vedevano la punta dell’ultima spiaggia, il mare e quella sfera rossa che ci si stava tuffando.
A destra un muro alto, spatolato veneziano bianco e crema, alcuni quadri illuminati con una leggerissima luce fredda, nascosta negli stessi telai: un Gauguin e un Hockney, due capolavori dell’arte contemporanea.
«Vieni…» Entrarono nella cucina tutta in acciaio. Un cuoco dalla pelle nera e tre suoi assistenti, tutti vestiti di bianco, li salutarono semplicemente sorridendo.
«Qui invece c’è la sala da pranzo.»
Una stanza chiarissima, quasi sospesa nel vuoto. Do-ghe bianche per terra interrotte da un cristallo molto spesso. Lì sotto cominciava la scogliera e le correnti del mare, da quella parte dell’isola, erano più forti. Le onde si rompevano sotto la stanza e salivano su verso il cielo con grandi schizzi bianchi. Ma non si sentiva nulla, la casa era perfettamente insonorizzata.
Continuarono a camminare. «Qui c’è il mio studio…»
Aprì la porta ed entrarono in un’altra stanza. Sofia rimase colpita dal sofisticatissimo impianto stereo e dalla tv al plasma molto grande. «Ma in realtà io non amo fare nulla quando sono qui…»
Di lato c’erano dei divani in pelle chiara, sotto si vedevano la scogliera e il mare. Proseguì facendole strada.
«Qui stiamo tornando indietro e ci sono le camere da letto. Questa è la tua.»
Aprì un’altra porta. Per terra un legno molto chiaro, quasi bianco, un grande tappeto lilla, una portafinestra che dava sulla spiaggia, un grande armadio a sinistra, la sua valigia e il beauty sulla panca lì vicino. «Questo invece è il tuo bagno.» Sofia vide che una parte del tetto era aperta, entrava la luce del cielo con delle nuvole rosate. Una grande doccia, una vasca con tanto di idromassaggio, vicino un sedile lungo con sopra un morbido cuscino chiaro, rivestito di spugna. Nell’angolo, una poltrona di legno antico, intarsiata di perle e conchiglie.
Appesi alla parete vari asciugamani. Erano di tutte le tonalità del lilla, il muro invece era di un indaco chiarissimo, poi c’era un grande specchio, con intorno una cornice d’argento. Vicino al lavandino alcuni fiori lilla profumavano il grande bagno. Tutti gli asciugamani e lo stesso accappatoio portavano ricamata la lettera “S”.
Tancredi le sorrise.
«La mia stanza è identica, solo con dei colori forse un po’ più maschili, però se vuoi la cambiamo…»
«No, no, va benissimo questa.»
«Allora ti lascio. Vado a controllare alcune cose. Ri-posati, fatti una doccia, fai quello che vuoi, telefona…
Dovrebbero averti dato un telefonino.»
«Sì.»
«Perfetto, sono le. Tu ufficialmente sei in un posto con il fuso orario di Abu Dhabi. Così è tutto più facile. Se ti va, quando sei pronta ti offro un aperitivo.»
Sofia sorrise. «Non ci sarà troppa gente?»
«No. Non corri rischi. Al massimo incontri me…»
Sofia era rimasta da sola in camera. Andò verso la portafinestra, l’aprì e uscì in giardino. Le piante erano molto curate, un piccolo cancello di legno dava sulla spiaggia, appoggiata lì fuori una bicicletta su un cavalletto. Poco più avanti due lettini sotto una tettoia e, nel giardino accanto al suo, le stesse identiche cose. Era co-me se fossero due villini confinanti, in mezzo una passerella fatta tutta in teak, ideale per passeggiare o andare in bicicletta, si snodava a destra e sinistra procedendo poi nella vegetazione e dritta verso il mare.
Rientrò. Chiuse la portafinestra, poi tirò fuori il telefonino dalla borsa. Ci pensò un po’ su, poi si accorse che aveva un messaggio. Lo aprì.
“Controllare prima di ogni chiamata il computer vicino alla televisione. “
Si avvicinò alla tv e lo vide. Batté sulla barra, subito si illuminò. Segnava l’ora, la temperatura e uno schermo in alto mostrava il meteo del Paese dove si sarebbe dovuta trovare. Sotto c’era il suo nome, ci cliccò sopra e comparvero alcuni servizi televisivi, con tanto di foto che la vedevano scendere all’aereo e anticipavano i suoi concerti, anche alcuni articoli usciti sui giornali di quel Paese. Prese il telefonino e compose il numero che era stato già registrato.
Andrea rispose subito.
«Eccoti! Ciao, amore, tutto bene? Sei arrivata?»
«Sì, tutto benissimo. Il viaggio è stato perfetto.»
«Bene, già mi manchi sai?»
«Anche tu.» Rimasero un attimo in silenzio. Sofia decise che lo doveva dire. «Ma quando tornerò sarà incredibile. Vedrai che questi cinque giorni passeranno in fretta.»
«Sì…»
Poi parlarono del più e del meno. «Com’è il tempo?»
Sofia guardò il computer. «Si sta bene. Ci saranno al massimo venticinque gradi.»
«Allora ti abbronzerai senza scottarti.»
«Se sono libera nel pomeriggio un po’ andrò in spiaggia. Ma mi sa che qui il mare non è bello…»
«Però è comodo che posso sempre rintracciarti… So-no stati gentili a darti questo cellulare.»
«Sì, prende bene. Sulle linee fisse dicono che hanno molti problemi.»
«Che fate ora?»
«Andremo a fare le prove, poi una pausa per un po’
di riposo e alle il primo concerto. Non conosco questo maestro… sono un po’ nervosa.»
«Andrà benissimo. Se non finisci tardi chiamami do-po.»
«Ma le prove saranno lunghe e poi magari andremo a cena. Spero che siano contenti del loro investimento.»
«Saranno felicissimi, amore, vedrai… Anche se non suoni da tanto, sei sempre la migliore. Pensa solo alla musica. Se non ce la fai ci sentiamo domani.»
Sofia chiuse il telefono. Rimase un attimo a fissarlo.
Fece un lungo sospiro. Mentire. Per lei era sempre stata la cosa più difficile del mondo, eppure ora sembrava riuscirle particolarmente bene. Qualche immagine fugace di Andrea si affacciò nella sua mente, un suo sorriso, loro a cena, una serata tenera davanti alla tv. Le allontanò velocemente. Non era il momento. Si spogliò ed entrò nella doccia. Piano piano sotto l’acqua calda riuscì a rilassarsi, sciolse i muscoli delle spalle, portò la testa indietro, poi la mosse lentamente, prima a destra poi a sinistra. Il getto forte dell’acqua eliminò l’ultima tensione. Era pronta.
Uscì dalla doccia, si mise l’accappatoio e si asciugò i capelli. Poi nuda davanti allo specchio iniziò a truccarsi, in modo leggero, senza calcare troppo la mano, un po’ di mascara, un velo di cipria, una linea sottilissima sugli occhi…
Si fermò. Notò una piccola busta in un angolo. L’aprì.
Dentro c’erano tutte le analisi di Tancredi. Erano perfette. Sorrise, in qualche modo aveva voluto tranquillizzarla. Andò alla valigia, tirò fuori alcuni vestiti, non aveva ancora deciso cosa mettersi, poi aprì l’armadio per prendere le stampelle e rimase sorpresa. All’interno, c’erano venti spettacolari vestiti di Armani. Neri, bianchi, argento, blu scuro, uno rosso e poi le scarpe più diverse, di tante tonalità, da abbinare ai colori dei vari vestiti, con il tacco di diverse altezze. Nei cassetti trovò degli splendidi completi intimi, di seta e di tanti altri tessuti, bianchi, neri, blu, rossi. Naturalmente tutto era della sua misura.
Poco dopo uscì dalla stanza. Il sole non era ancora tramontato. Una ragazza la stava aspettando, le sorrise e la invitò a seguirla in fondo al corridoio. Una scala a chiocciola in legno chiaro e acciaio satinato portava sul terrazzo. La ragazza si fermò lì e le fece segno di andare.
Sofia salì la scala, una parte del muro era di cristallo e sotto si poteva vedere il mare, l’altra invece era di roccia. Poco dopo si trovò in cima a quella torre.
Tancredi era lì. Guardava lontano con le mani nelle tasche di uno splendido vestito blu molto scuro.
Si girò e le sorrise.
«Pensavo ti saresti messa uno dei tuoi.»
«Se preferisci mi vado a cambiare. Ma ho visto la bellezza di quei vestiti, era un peccato non indossarli.»
Tancredi le si avvicinò. Sempre di più. Arrivò a un millimetro da lei. Rimase in silenzio. Si sentiva solo il mare lontano, il profumo della natura che li avvolgeva, eppure lui la respirò. E poi le sussurrò all’orecchio: «Non è vero. Ho sperato che ti mettessi questo».
Lei sorrise. Lui incrociò il suo sguardo. I colori di quell’ultimo tramonto accarezzavano le sue guance, i suoi capelli sussurrati dal vento si muovevano lenti e delicati intorno al viso. Le sue labbra dischiuse, proprio come le ricordava, come le aveva viste danzare la prima volta sulle note di quella corale in chiesa. E Tancredi in quel momento avrebbe voluto baciarla, assaggiare quelle morbide labbra, come una pesca, quasi morder-la, succhiarla. Era lì che la fissava, avido. Allora lei lo guardò spavalda e curiosa, quasi in segno di sfida. Ma Tancredi rimase immobile. Si sorprese di quella titu-banza. Ma come, proprio lui, lui che non aveva mai avuto un’incertezza con donne anche molto più belle di lei, ora era indeciso? Rimase in silenzio. No. Non era vero.
Aveva mentito. Nessuna era mai stata più bella di lei, e lo sapevano i suoi occhi, la sua mente, il suo desiderio, il suo cuore… Allora la guardò a lungo, poi parlò.
«Qualunque cosa detta in un momento come questo rischia di rovinare tutto.»
«È vero, soprattutto se non c’è bisogno di parlare.»
«Sono felice di averti qui…»
«Anch’io, anche se credo per altre ragioni. Comunque è un’isola oltre ogni immaginazione, soprattutto per come è curata nei dettagli. È tua?»
«Sì, ma non da molto tempo. Saranno tre anni. Ed è la prima volta che ci vengo con una donna.»
Sofia lo guardò curiosa, poi cominciò a ridere.
«Che c’è? Cos’è che ti diverte?»
«Stavo pensando che è assurdo…» Mosse i capelli scuotendo la testa. «Non ci posso credere!»
«A cosa?»
«Che tu mi racconti delle bugie!»
«Non ti ho detto nessuna bugia.»
Sofia lo guardò con particolare intensità.
«Guarda, forse non ti è chiaro, ma tu mi hai comprato. Sono tua per cinque giorni per cinque milioni di euro. Te l’hanno detto, vero? No, perché magari non lo sai… ma mi hanno fatto un bonifico.»
Anche Tancredi si divertì. «Mi hai fatto ridere.»
Si avvicinò a una bottiglia di Cristal che era dentro un secchiello pieno di ghiaccio, la tirò fuori e con movimenti veloci la stappò.
Sofia gli si avvicinò, ora era più rilassata.
«Sono belle tutte queste cose romantiche, la rosa, lo champagne, l’esclusività dell’isola… ma per andare a letto con te non servono. Puoi essere venuto su quest’isola con chi ti pare.»
Lui le passò un calice pieno di champagne. Poi sorrise alzandolo verso di lei.
«Alle tue risate, che ti rendono ancora più bella… E a me che per la prima volta ho detto la verità e non sono stato creduto.»
Le sfiorò delicatamente il bicchiere, un tintinnio echeggiò nell’aria. Questa volta fu lui a guardarla intensamente negli occhi.
«È la prima volta che vengo con una donna su quest’isola, te lo giuro.»
Poi sorrise e bevve.
Rimasero a sorseggiarlo seduti su due grandi poltrone, uno vicino all’altra. Il sole era ormai scomparso lasciando una luce rosata sul mare. Chiacchierando, risero come due persone qualunque che stanno prendendo un aperitivo in una qualsiasi città.
«Andiamo a cena, ti va?»
«Volentieri. Ma non prenotiamo?»
Tancredi sorrise e la prese per mano.
La luna cominciava a salire nel cielo. Un grande tavolo era stato apparecchiato sulla spiaggia dove non batteva il vento. Intorno, lunghe fiaccole piantate nella sabbia facevano luce.
Sofia si tolse le scarpe e le lasciò sulla stradina che li aveva portati fin lì. Tancredi se ne accorse e fece lo stesso. Camminarono a piedi nudi sulla sabbia.
«E fredda…»
«Un po’.»
Poi lui spostò la sedia facendola accomodare e subito dopo si sedette di fronte a lei. I camerieri apparvero dal nulla, portando dei piatti che scoprirono davanti a loro.
«Sono gamberi molto freschi, li hanno pescati oggi pomeriggio per noi.»
Sofia li assaggiò. «Mi sembrano buonissimi.»
Servirono altri crudi conditi con arance e poi dei piatti caldi di mare, i più diversi. Ogni tanto alle loro spalle dal buio compariva un cameriere che riempiva i bicchieri, versando dell’ottimo Chardonnay Marcassin freddo. Alla tartare di spigola seguirono delle aragoste alla brace.
Sofia e Tancredi si divertirono a mangiarle cercando di rompere le chele, scavando negli angoli più difficili, dentro il guscio, per assaggiare quella tenerissima carne. Alla fine per il dessert ci fu l’imbarazzo della scelta.
«Vorrei questo soufflé al cioccolato ricoperto di cacao.»
Sofia lo gustò come una bambina. Era caldo, appena fatto, morbido, con un sapore impeccabile.
«Ma questo cuoco è meraviglioso!»
Le servirono del Muffato della Sala di Antinori e lasciarono lì vicino un grande carrello in legno antico con ogni tipo di grappa, rum e whisky invecchiati.
Poi il cuoco venne a salutarli. «Tutto bene, signori?»
«Ottimo, abbiamo mangiato veramente bene.»
«Vi possiamo portare un caffè? Volete qualcos’altro?» Tancredi guardò Sofia che sorrise e fece cenno di no con la testa.
«No grazie.»
«Benissimo, a domani allora.»
Il cuoco fu raggiunto da altri camerieri e si allontanò con loro lungo la spiaggia. Si persero nel buio della notte ma ricomparvero poco più in là vicino a un pontile illuminato. Li raggiunsero anche altri inservienti, si sentì il rumore di alcuni motori che si accendevano, e poco dopo quattro barche si staccarono dal pontile. Sofia li guardava incuriosita.
«Ma dove vanno, a pesca?»
«No, vanno a dormire.»
«E dove?»
«Nell’isola vicina.»
«Pensavo dormissero qui.»
«No. Non voglio nessuno sull’isola. Eccetto te, naturalmente.»
«Ah… Pensavo mandassi via anche me.»
«Sciocca.» Le prese la mano, la girò e la guardò.
«Sono state queste tue mani in quella chiesa… È colpa loro.»
«Per cosa?»
«Mi hanno fatto sognare.» E ne baciò il palmo.
Sofia chiuse gli occhi e, per la prima volta dopo molti anni, si emozionò.
Più tardi camminarono in silenzio lungo il bagnasciuga. Piccole onde andavano e venivano su e giù, dolce respiro di quello sconfinato mare.
Tancredi la prese per mano, lei si lasciò guidare, continuarono a camminare così, vicini, come una coppia comune, eppure fuori da ogni regola, da ogni tempo, priva della possibilità di tradirsi, di mentirsi, di delu-dersi, perfetti perché dichiaratamente imperfetti.
Sofia si lasciò andare e appoggiò la testa alla sua spalla, lui le cinse con un braccio il fianco. Poi si fermarono e nel silenzio di quella notte, sotto la luna ormai alta, i loro profili si disegnarono davanti a quel fondo blu, fatto di piccole stelle, di mare, forse anche di qualche terra lontana, ma così lontana da non poter essere un problema.
Tancredi e Sofia si guardarono, si sorrisero, senza nessuna timidezza, senza nessun pensiero. Come solo un uomo e una donna in alcuni momenti riescono a fare. Come se non esistesse nient’altro, come se quello che stava per accadere fosse la cosa più naturale del mondo. Un bacio. Un bacio dai diversi sapori. Da una parte cercato, sofferto, voluto, desiderato. Dall’altra combattuto, evitato e infine addirittura venduto. Così Sofia si abbandonò tra le sue braccia, lo strinse forte.
Le sue labbra all’inizio risposero quasi pudiche, timo-rose ma poi improvvisamente presero vita e divennero avide, e alla fine stordite, sorprese da quella passione. E
Tancredi continuò a baciarla, liberando il suo viso dai capelli, staccandosi a volte, guardandola negli occhi, cercando il suo sguardo che, timido, nascosto, tentava in tutti i modi di evitarlo. Fino a quando non si incon-trarono e subito si persero di nuovo, come se Sofia fosse di fronte a una disperata, innegabile verità.
Allora quasi lo sussurrò: «Cinque giorni. Cinque giorni e non sarò più tua».
Lui le sorrise. «Forse. Ma ora sei mia. E non è finito un giorno.»
Sofia provò a ribellarsi, ma lui la strinse a sé e la baciò di nuovo. Lei lo morse. Lui continuò come se niente fosse, poi la prese per mano, lei lo seguì in silenzio. Entrarono nella casa. Nei corridoi la luce era bassa. Tancredi la portò in quell’unica stanza dove non erano stati. Aprì la porta. All’interno della grande sala, scavata nella roccia, c’era una piscina. Era costruita in cristallo e come sospesa sul mare più profondo dell’isola.
«È riscaldata. Possiamo fare un bagno.»
Tancredi abbassò ancora di più le luci. Ora le grandi volte del soffitto erano appena illuminate, il pavimento di legno era riscaldato, in un angolo c’erano degli accappatoi bianchi e degli asciugamani. Lì vicino due lettini con sopra cuscini di spugna grandi come due materassi.
Tancredi girò un altro interruttore. Sotto la piscina trasparente si accese il fondale. Sulle pareti si vedeva il corallo, in mezzo nuotavano alcuni pesci colorati, ancora più giù c’erano dei polpi. Le rocce continuavano a scendere e nel blu più profondo si vedevano pesci, lenti barracuda, cernie che spuntavano da qualche tana, un branco di pesci balestra cambiò improvvisamente direzione, fuggirono veloci all’arrivo di un piccolo squalo.
Era come stare all’interno di un grande acquario, come essere stati calati all’interno di una gabbia trasparente nel fondo dell’oceano.
Tancredi spense le ultime luci. La luna attraverso le grandi vetrate illuminava a tratti la stanza.
«Ti va di fare un bagno?»
«Ma quello squalo?…»
Tancredi rise.
«È tutta scena, non c’è nessun pericolo. L’unico rischio sono io.»
«Allora non ho paura.»
Sofia lasciò cadere a terra il vestito, poi si sfilò il reggiseno, infine le mutandine. Tancredi rimase a fissarla.
Così, completamente nuda davanti a lui, perfetta. Era di profilo, controluce si disegnavano i riccioli del suo pube. Girò la testa e lo guardò. Nel buio vide i suoi denti bianchi, un sorriso.
«Non mi guardare.»
Sofia scese gli scalini della piscina, l’acqua era calda, poi si tuffò in avanti. Fece alcuni metri sott’acqua e rie-merse più in là. Era come sospesa sopra quel blu infinito. Sotto di lei, divisi da quel grande cristallo, passavano infinite varietà di pesci. Sofia guardò giù. Era una sensazione stranissima. Lei era immersa nel buio, come nascosta e lì sotto, illuminate dalle lampade, c’erano mante, pesci di ogni tipo, le grandi pareti di corallo rosso.
Tancredi si spogliò e si tuffò anche lui nella piscina, poco dopo era accanto a lei che gli sorrise.
«Se potessi raccontarlo a qualcuno comunque non mi crederebbe.»
«Ti piace?»
«È incredibile. Come ti è venuto in mente…»
«Non so, ci ho sempre pensato, ma ho sempre creduto che non si potesse fare, poi un ingegnere mi ha convinto del contrario.»
«E come?»
«Mi ha detto: “Se l’ha sognato allora è possibile”.»
«E una bella filosofia.»
«Sì, ma non vale per tutto.»
In quella frase c’era una strana tristezza, ma prima che Sofia potesse chiedere ancora qualcosa, Tancredi le si avvicinò. Erano in un angolo della piscina, vicino al mare aperto. Sotto di loro c’era un lungo sedile di cristallo. Tancredi la prese per i fianchi, la portò a sé e la baciò di nuovo. Le loro gambe si sfiorarono. Le accarezzò il seno. Sentì il suo capezzolo piccolo ma turgido, poi lentamente andò ancora più giù. Sofia aprì le gambe permettendogli di scendere ancora. Iniziò ad accarezzarla lentamente, la sentì tremare, si eccitava sempre di più al tocco delle sue dita. Allora anche Sofia lo accarezzò. Sentì i muscoli delle sue braccia, il petto asciutto, forte, la pancia piatta, gli addominali. Scese ancora più giù e lo trovò pronto, eccitato, duro. Cominciò ad accarezzarlo. In poco tempo i loro baci si trasformaro-no in sospiri sempre più forti, appassionati. Tancredi si spostò su di lei, le allargò le gambe e piano piano, dolcemente la penetrò. Lei gli strinse le gambe intorno alla vita, si aggrappò con le braccia ai bordi della piscina, mentre lui teneva le sue gambe e spingeva dentro di lei sempre più giù, con forza ma senza fretta. Per la prima volta da quando stava con Andrea, un altro uomo. E lo sentiva muoversi sopra di sé, dentro di lei, stringeva le sue gambe, affondava le sue dita nella schiena più giù, ancora più giù sui suoi glutei, su quei muscoli forti che si contraevano e spingevano dandole piacere.
Sofia abbandonò la testa indietro, il suo seno affio-rava fuori dall’acqua, illuminato dalla luce della luna, Tancredi le baciava i capezzoli mentre continuava a spingere, poi mise le mani sotto le cosce, le stringeva con forza continuando a baciarle il seno, il collo, la bocca. Sofia sospirava sempre di più, completamente abbandonata, travolta dalla passione, sentendolo dentro di lei, sempre più forte, con lo stesso ritmo, instancabi-le, alla fine non ce la fece più.
«Sto venendo.» E come sentì quelle parole, insieme a lei venne anche lui.
Rimasero così, come boccheggianti d’amore, bagnati di tutto, di mare, uno addosso all’altro, in silenzio, sentendo i loro respiri affannati. Intorno e sotto di lo-ro, l’oceano. In quell’angolo della grande piscina due corpi nudi uno sopra l’altro ancora caldi d’amore. Poi Sofia tirò su la testa e lo guardò. Lui le accarezzò il viso spostandole i capelli bagnati. La baciò, un bacio lento, morbido, fatto d’amore. Quando Sofia si staccò, non riuscì più a resistere. Quella domanda che aveva dentro da quel giorno, da quando aveva scoperto i suoi soldi, il suo potere, uniti alla sua bellezza.
«Perché proprio io? Per cinque milioni di euro avresti potuto avere chiunque, donne molto più belle di me.»
Tancredi sorrise. «Forse perché mi sono fatto in-fluenzare da quell’ingegnere. Perché l’ho sognato… Il guaio è che era un sogno a occhi aperti.»
Poco dopo fecero la doccia calda insieme, si asciuga-rono e si infilarono negli accappatoi, si misero su uno dei grandi lettini matrimoniali con il materasso in spugna. Tancredi aprì un Cristal gelato che tirò fuori da un frigorifero scuro, incassato nella roccia, riempì due flûte. Cominciarono a sorseggiarlo, ridendo, scherzando, parlando di ricordi della scuola e di qualche viaggio all’estero fatto da ragazzi. Nei racconti si trovarono vicini, non così distanti come sarebbe potuto essere.
Poi il seno di Sofia troppo scoperto. Un suo sguardo malizioso, quell’ultimo sorso di champagne, lo sfiorarsi delle gambe. Tancredi infilò la mano sotto il suo accappatoio.
«Sei di nuovo bagnata.»
«Anche tu non scherzi.»
E ora senza pudore, come se si conoscessero da sempre, cominciarono ad accarezzarsi guardandosi negli occhi, guardando il sesso dell’altro, curiosi, volutamen-te provocanti. Tancredi le allargò le gambe e cominciò a leccarla senza fermarsi, lei gli infilò le mani tra i capelli, spingendo la testa ancora più giù, cercando di fermarlo quando ormai stava per venire.
Poco dopo lui fu di fronte a lei, ancora eccitato, lei cominciò ad accarezzarglielo, guardandolo lo tirò a sé, lo prese in bocca, leccandoglielo lentamente poi più forte, fino in fondo, quasi ingoiandolo. Tancredi allora si staccò da lei e la prese di nuovo. Cominciò a scoparla lentamente, poi sempre più veloce, sentendo che si stava eccitando di nuovo. Poi scivolò di lato e la fece salire su di lui senza sfilarsi da sotto. Sofia continuò a muoversi sopra di lui, calda, eccitata, sempre di più, sempre più veloce fino a quando, con qualche grido, venne di nuovo insieme a lui. Si accasciò sopra Tancredi sudata, ancora calda, ancora eccitata e sorpresa dalla serata.
«Non ci posso credere. Ma era l’aragosta o hai messo qualcosa nello champagne?»
Tancredi le sorrise. «Cinque giorni. Solo cinque giorni. Non me ne chiedere uno di più.»
Più tardi andarono in camera di Sofia. Fecero di nuovo l’amore e in modo ancora più spinto e selvaggio, senza limiti, senza vergogna, di nuovo stranamente af-famati, conoscendosi meglio, scoprendo novità. Lui la prese da dietro e lei glielo disse.
«Così, continua, ancora, più dentro, fammi godere anche così.»
Mentre si accarezzava da sola veniva insieme a lui.
Si addormentarono quasi all’alba. Quando Sofia si svegliò, era mezzogiorno ed era sola. Andò in bagno, sorrise allo specchio e alzò un sopracciglio ripensando a tutti i momenti della sera prima. Poi accese il computer.
Incredibile. Il suo sito era pieno di commenti. Tutti di complimenti per l’ottimo concerto e perfino qualche sua breve risposta. Lesse qualche commento che portava la sua firma e si sorprese per come avessero scelto le parole. Avevano scritto esattamente come avrebbe fatto lei. Ormai non si sorprendeva più. Guardò il meteo sul computer e capì che non poteva più aspettare.
Era arrivato il momento. Tolse il cellulare dalla borsa e compose il numero. Al secondo squillo Andrea rispose.
«Amore! Pensavo che non mi chiamassi più. Com’è andata ieri?»
«Benissimo.»
«Be’, brava perfetto! E pensare che dovevi anche essere stanca del viaggio! Sono andato in internet e ho letto un sacco di commenti. Sei anche riuscita a rispondere a qualcuno… prima di chiamarmi.»
«Lo so… Ma li ho scritti stando a letto mentre facevo colazione, ho pensato che magari ancora dormivi.»
«Sì! Fino a mezzogiorno?!?»
«Be’, non ci sono io, magari te ne approfitti.»
«Ma che dici! Piuttosto, ho visto che hai fatto anche un bis alla fine!»
Quello Sofia non l’aveva considerato. Corse verso il computer, trovò nell’angolo la scheda della serata, l’aprì e la lesse velocemente, e proprio in fondo trovò il racconto del bis: Bach, la Giga della Toccata in Mi Minore.
«Sì…» riprese fiato. «Ho fatto la Giga.»
«Bene, sono proprio contento per te, hai visto che non eri poi così arrugginita?»
Parlarono ancora per alcuni minuti, qualche notizia sulla casa, qualcuna sul lavoro di Andrea, poi Sofia decise di chiudere. «Be’, ora ti saluto che tra poco ho le prove del pomeriggio.»
«Ok. Ci sentiamo quando puoi.»
«Sì, amore, a dopo.»
Chiuse il cellulare e rimase a fissarlo. Incredibile, zero senso di colpa. “Come mai? È perché la sento una specie di missione? Be’” sorrise, “non è che ti sia costato poi così tanto come sacrificio!” Si sorprese di quella strana ironia proprio su se stessa e anche del fatto che avesse voluto chiudere presto con Andrea.
Di solito parlavano a lungo e lei gli raccontava sempre molte cose, lo rendeva partecipe di tutto quello che le capitava. Certo, questa volta non è che avrebbe potuto raccontargli proprio tutto. E si ritrovò di nuovo a prendersi in giro. No. La verità era un’altra. Aveva voglia di fare colazione. E soprattutto, dopo quella notte, di rivederlo.
«Buongiorno, dormito bene? Ti ho lasciato riposare…»
Sofia si sedette di fronte a lui e gli sorrise da dietro gli occhiali da sole. «Benissimo, grazie. Ho un po’ fame però…»
Tancredi le mostrò quello che c’era sulla tavola. «Ho fatto preparare per te degli ottimi croissant francesi, uova strapazzate, spremuta d’arancia, caffè scuro e latte fresco… Macedonia di frutta, ananas, pesca, mango, kiwi.»
«Mmm… Non resisto più.» Cominciò a mangiare.
«Sono buonissimi.» Lo disse con la bocca piena.
Tancredi si mise a ridere. «Te l’ho detto che non dico bugie.»
Poi le versò del caffè e ci aggiunse del latte. «Lo vuoi più chiaro?»
«No, no, va benissimo così. E niente zucchero, per favore.»
Tancredi sorrise. «Lo so. Solo zucchero di canna.»
«Ah, già, dimenticavo.» Continuò a mangiare, divorò l’ananas e il mango, assaggiò le uova e le accompagnò con dei piccoli triangoli di pane tostato che un cameriere aveva poggiato sul tavolo.
«Sono ancora caldi.»
«Grazie.»
Vicino c’era del burro francese leggermente salato.
Sofia lo spalmò su quel pane ancora caldo e poi diede un gran morso.
Tancredi la osservava divertito, ammirandola mentre mangiava.
«Mmm… Veramente buono. È un sogno qui…»
«Tu sei un sogno. Ed è uno spettacolo vedere una donna che mangia con così tanto gusto.»
«Mmm vero…» Si leccò addirittura le dita, metten-dosele in bocca, giocava apposta a fare la ragazzina vi-ziata e nello stesso tempo sensuale.
Tancredi si appoggiò alla sedia. «Si dice che da come una donna mangia si capisce anche come si comporta a letto…»
Sofia rise. «Dopo ieri sera c’è qualcosa che ancora non ti è chiaro?»
Tancredi la fissò intensamente. «Ci ho pensato tutta la mattina, alcune cose mi sono sembrate un po’ com-plicate, vorrei riprovare qualche passaggio. Mi viene il dubbio d’averle sognate…»
Sofia fece per prendere un altro po’ di caffè ma Tancredi fu più veloce, prese il bricco e glielo versò.
«Grazie… Be’ potrebbe essere, sei un grande sognatore.»
«Quando è possibile, perché no?»
«E se un sogno diventa un incubo?»
«Mi sveglio.»
«Riesci sempre a essere così controllato? A gestire i tuoi sentimenti?»
«Credo di sì. Forse non ho mai corso questo rischio.»
Rimasero in silenzio. Poi Sofia si tolse gli occhiali. «E
non mi stai mentendo.»
«Te l’ho detto.» I suoi occhi sembravano sereni co-me quel mare piatto e azzurro davanti a loro. «Non dico bugie.»
«Sì. È vero. Ti credo, anche perché non ne hai bisogno.»
Assaggiò un po’ di ananas. «Ecco, sei talmente indipendente in tutto, che sei uno dei pochi al mondo che può permettersi il lusso di non dire bugie.»
«Non capisco se mi stai prendendo in giro.»
«Assolutamente no. È quello che sto pensando e sai cosa mi viene in mente?»
«Cosa?»
«Che deve essere terribile stare con te.»
«Perché?» Lo chiese con tono divertito. «Non sei stata bene ieri? Ho sbagliato in qualcosa? Dimmelo!
Cercherò di migliorare nei prossimi giorni.»
«Che sono quattro…»
«Sì, nei prossimi quattro giorni.»
«Sei talmente ricco…»
«E allora? E questo il problema?»
Sofia alzò le spalle. «Non saprei cosa regalarti. Io amo fare i regali! Hai tutto.»
Tancredi l’abbracciò e le tolse gli occhiali. «Non è ve-ro. Mi hai fatto il regalo più bello. Sei qui.» Poi la baciò.
I quattro giorni seguenti furono pieni, divertenti, curiosi, inaspettati. Non litigarono mai. Fecero l’amore sempre. Parlarono spesso. Del più, del meno, di tante cose buffe che avevano vissuto, di amici, di viaggi, delle prime storie d’amore. Si conobbero un po’ di più. Andarono a pesca accompagnati da uno dei migliori pescatori dell’isola. Sofia fu così fortunata da prendere quasi subito un pesce con il bolentino.
«Ho paura, tira da morire…»
«Non lo perdere, non lo perdere!»
Riuscirono a tirarlo sulla in barca. Era un grosso raa-hi-mahi. «Attenta, stai lontana.» Se ne occupò subito il pescatore che lo mise nella cesta. La sera il cuoco fece preparare un gran pentolone sulla spiaggia, insieme al mahi-mahi e a qualche altro pesce, ci mise dentro gran-chiolini e cozze. Bollì il tutto e lo condì con olio, pepe e zafferano. Sofia quando l’assaggiò chiuse gli occhi.
«Non ci posso credere, è fantastica.»
«Il pesce che hai preso tu è quello che la rende così saporita.»
«Allora sono brava sul serio!»
Continuarono a mangiare bevendo un ottimo Mon-trachet di Romanee Conti, per secondo assaggia-rono dell’aragosta al vapore con delle salse delicatissime e un filetto di coda di rospo con salsa d’arancia. E alla fine, quando tutti avevano abbandonato l’isola, rimasero a chiacchierare sulla torre bevendo dello Château d’Yquem.
«Posso farti una domanda?»
«Certo.»
«Che sensazione si prova a poter avere tutto?»
«Come fai a dire che ho tutto? Magari io ti vorrei per sempre e invece per quello non ci sarebbe prezzo.»
«È una domanda?»
«No. Perché conosco già la risposta.»
Sofia lo guardò. «Cosa è accaduto?»
«In che senso?»
«Di solito le persone ricche come te uno le immagina al quarto matrimonio, sta già finendo anche quello, c’è un’altra donna pronta, molto più giovane delle precedenti e così via. Hanno ottant’anni e li ritrovi sui giornali, pronti a sposarsi una ventenne. Invece in te c’è qualcosa che stona, non sembri uno così.»
«Ho incrinato le tue certezze?»
«Acceso la mia curiosità.»
«Vuoi una favola?»
«No, la semplice verità. Se me la puoi raccontare.»
«Diciamo che sono arrivato a una conclusione, forse sto meglio da solo.»
«Non credo. Questa volta stai mentendo anche a te stesso. Pensa come sarebbe bello invece dividere tutto quello che hai con una donna… Divertirti con lei, magari avere dei figli e divertirti anche con loro. Fare le cose più semplici. Tu hai un sacco di gente intorno che fa tutto per te, ma pensa quanto deve essere bello invece saper fare qualcosa e un giorno spiegarla a un figlio.
Ecco, per esempio, insegnargli a pescare…»
«È una proposta?»
«Lo sai che sono sposata.»
Rimasero un po’ in silenzio. Poi lui le fece la domanda più difficile.
«E tu sei felice?»
E lei trovò l’unica risposta possibile.
«Per adesso non ci sto pensando.»
La mattina dopo fecero un po’ di snorkeling nell’acqua bassa, divertendosi a pescare qualche stella marina, delle grandi conchiglie, giocando con un cavalluccio marino. Sofia lo seguì incuriosita dal suo strano modo di nuotare, arricciava e stendeva la coda.
«Non l’avevo mai visto!»
Fecero sci d’acqua. Poi girarono in bicicletta, il pomeriggio presero il tè con degli ottimi biscotti al burro inglesi.
«Secondo me, sto mettendo su dei chili!»
«Sei comunque bellissima.»
«Come comunque?! Allora è vero! È drammatico.»
«Va bene, mi sacrifico. Ne vuoi perdere un po’ ora?»
Fecero l’amore al tramonto sulla torre, lì dove non potevano essere visti da nessuno e più tardi, di notte, dopo un bagno sotto la luna, lo fecero sulla spiaggia, quando non c’era più nessuno che potesse vederli.
Poi arrivò l’ultimo giorno.
Era andato tutto benissimo, i commenti sul sito, le foto degli altri concerti, le telefonate a casa. Andrea non sospettava nulla. Si erano sentiti poco, solo una telefonata verso le, ma era normale, era molto impegnata.
Uscirono in barca a vela e fecero il giro dell’isola. La casa vista dal mare era bellissima.
Poco dopo tornarono a terra, attraccarono la barca, scesero sul pontile e camminarono in silenzio fino a raggiungere un tavolo che Tancredi aveva fatto preparare all’interno della foresta, vicino al lago. Pranzarono lì mangiando degli ottimi tagliolini all’astice accompagnati da un buon Sancerre Edmond. Poi Sofia saltò il secondo e prese un dolce, un parfait. Il cuoco superò se stesso.
«È veramente da sogno. Non è possibile.»
Ne assaggiò un altro pezzo, poi rimase a occhi chiusi con il cucchiaino in bocca, girandolo come fosse un lecca lecca. «Secondo me ci mette dentro della droga particolare!»
Tancredi rise. «Prendine un altro.»
«Manon posso!»
«Ormai…»
«Ormai cosa?»
«Ormai quel che è fatto è fatto. Neanche le mie cure sono riuscite a limitare i danni!»
Sofia sbuffò, poi si mise le mani sui fianchi. «Ok! Hai ragione. Posso averne un altro?»
In poco tempo divorò anche il secondo. «È già finito, non vale! Ma io mi posso portare via il cuoco?»
«Sì. Potresti. Ma ti ricorderebbe sempre questi cinque giorni e tu non lo vorrai.»
Rimasero in silenzio.
Comparve il cuoco. «Bene, signori, posso servirvi qualcos’altro?»
Sofia si alzò. «No grazie. È stato tutto perfetto.»
Quella volta fu lei a prendere Tancredi per mano.
Si incamminarono verso la casa. Fecero l’amore in silenzio. Teneramente. Tancredi la guardava, lei teneva gli occhi chiusi, poi li aprì e quando lo guardò divennero avidi, selvaggi, come se ci fosse disperazione in quell’atto, come se tutto quel sesso comunque non bastasse. Si morsero. Come se quei segni potessero trattenere qualcosa che ormai piano piano si stava consumando.
Poco più tardi un elicottero passò sull’isola mentre loro sudati, sdraiati su quel letto, uno accanto all’altra, guardavano il mare. Tancredi le accarezzava il fondo della schiena, giocava con quelle due piccole fosset-te che segnavano l’ultimo confine. Poi fece un lungo respiro e glielo sussurrò piano all’orecchio, come una preghiera.
«Non partire.»
Lei non rispose. Lo strinse forte a sé. Poi si alzò e andò in bagno. Aprì l’acqua della vasca, la fece scorrere riempiendola, mise alcuni sali profumati che la colo-rarono di celeste. Quando fu piena, si immerse completamente. Si distese. Chiuse gli occhi, poggiò la testa sul grande cuscino morbido che faceva da spalliera e scivolò un po’ più giù in quell’acqua calda e profumata.
Ripensò a quelle parole. “Non partire.” Fece un lungo sospiro. No. Non erano quelli i patti.
«Posso?» Sofia aprì gli occhi. Tancredi era in piedi sulla porta del bagno con due bicchieri di champagne.
Lei gli sorrise gentile.
«Prego. Fa’ come se fosse casa tua.»
Lui si infilò nella vasca di fronte a lei e le passò il bicchiere. «Scusami. Non avrei dovuto chiedertelo.» Poi alzò il calice. «Alla nostra felicità, comunque sia.»
Sofia sorrise e brindò con lui. Poi bevve metà del bicchiere e lo poggiò sul bordo della vasca. Gli sorrise e scivolò dall’altra parte. Finì dietro di lui e lo avvolse tra le suç gambe. Gli mise le braccia intorno al collo, le incrociò sul suo petto.
«Shhh. Lasciati andare.»
Tancredi lo fece. Appoggiò lentamente indietro la testa, sulla sua spalla e chiuse gli occhi. Poi si sorprese anche lui di quello che accadde. Glielo raccontò.
Tancredi guidò velocemente fino a casa con la sua Porsche. Si spogliò, si mise sotto la doccia, si asciugò in un attimo, si mise un completo scuro e la camicia bianca, i calzini neri, infilandoseli sorrise, poi si allacciò delle Church’s ultimo modello. Scese giù di corsa, sal-tando a due a due gli scalini di casa, fino a quando non la incontrò. «Ciao.» Claudine era ferma, in piedi nella penombra, appoggiata a quel muro.
«Sei qui… pensavo stessi dormendo.»
«Ti ho sentito rientrare.»
«Ah, scusa, ti ho svegliato.»
«Non dormivo.»
«Meglio così, sorellina.»
Le diede un bacio sulla guancia. Poi, prima che scap-passe via, lei lo fermò. «Ti devo parlare.»
«Sorellina, sono in ritardissimo. Non possiamo parlare domani?»
«No.» Rimase in silenzio e abbassò la testa. «Adesso.»
Tancredi le portò la mano sotto il mento e provò a ri-alzargliela ma lei resisteva. Alla fine ci riuscì e la guardò negli occhi. «È una cosa importante?»
Claudine annuì, le veniva da piangere.
Tancredi sospirò. «Sorellina, rimarrei… ma ho un impegno che non posso proprio rimandare.»
«Tutto si può rimandare.»
«Allora anche il tuo appuntamento!» Rimasero in silenzio. Poi lui capì che non era così che doveva affrontare la situazione. Allora Tancredi le parlò in maniera tranquilla. «Vedrai che qualunque cosa sia alla fine si potrà rimettere a posto, ne sono sicuro. Dormici su, magari già domani la vedrai diversamente.» Poi la prese un po’ in giro come aveva fatto fin da piccolo, strappandole un sorriso. Avevano deciso. Ne avrebbero riparlato la mattina successiva. Poi Tancredi uscì di corsa prima che lei potesse trattenerlo di nuovo, salì sulla Porsche, mise in moto, fece il giro della piazzetta e sgommando sulla ghiaia attraversò il parco della villa a tutta velocità.
Claudine raggiunse la porta di casa, lo vide imboc-care veloce quell’ultima parte del rettilineo, uscire dal cancello e sparire nella notte. Era di nuovo sola. Sola. Si sentivano solo le cicale lontane. Tutto intorno era buio.
Si guardò intorno, poi si sentì più sollevata. Aveva preso quella decisione. È vero, era come diceva Tancredi.
Non c’è nulla nella vita che non si possa risolvere.
Allora fece un lungo respiro. Tornò in camera sua, aprì il cassetto e le prese. Era l’unica soluzione. Poi uscì. Tancredi le avrebbe trovate e avrebbe capito.
Poco dopo tornò in casa. Poi sentì quel rumore. Aveva fatto appena in tempo. Non poteva più aspettare.
Si tolse le scarpe, rimase a piedi nudi e salì veloce su per le scale, ancora più su. Camminava cercando di non fare rumore e ogni tanto si guardava indietro.
Forse l’aveva sentita. Doveva fare in fretta. Quella sera no.* Non ce l’avrebbe fatta. Non sarebbe stato possibile. Aprì la porta della soffitta. Lo fece lentamente, chiudendo gli occhi, preoccupata che potesse cigolare. Ma così non fu. Allora camminò in punta di piedi fino alla piccola finestra che dava sul tetto. Spostò piano piano il baule, ci salì sopra e in un attimo fu fuori. Faceva fresco, era buio e non c’era la luna.
Cercò in alto nel cielo qualche stella ma non ne vide nessuna. Un vento leggero muoveva le fronde degli alberi più alti. Ma ne sentiva solo il rumore. Intorno era tutto buio. Non si vedeva nulla. “È così che sarà?”
Solo di una cosa era sicura. Il suo problema sarebbe stato risolto. Non ne poteva più. Allora fece un ultimo sorriso. Tre passi veloci. E saltò.
Tancredi piangeva. In silenzio, tra le sue braccia, ri-emerso da quei ricordi mentre Sofia non sapeva cosa dire. Lo stringeva forte cercando in qualche modo di consolarlo.
«Non è stata colpa tua, non potevi fare nulla.»
«Potevo restare. Potevo ascoltare.»
«Perché non l’hai fatto? Non volevi sapere?»
«Avevo fretta.»
«Ma dove dovevi andare?»
Rimase in silenzio, si vergognava di non aver saputo rinunciare, non aveva saputo ascoltare quell’ultimo grido disperato di sua sorella.
«Una donna. Avevo appuntamento con una ragazza.»
Tancredi fece un lungo respiro. Era riuscito a dirlo.
Sofia gli accarezzò i capelli. «Tutti vorremmo tornare indietro e tutti abbiamo almeno una cosa da mettere a posto. Ma non si può. Si deve convivere con i rimorsi. Si può cercare di dimenticarli o di superarli. Di fare qualcosa’che ci permetta di sentirci meglio. Ma non possiamo rinunciare alla vita per una cosa che magari sarebbe avvenuta comunque.» E senza volerlo pensò alla sua di cosa da mettere a posto, al suo voto, alla musica che si era negata. Lentamente si portò di fronte a lui e gli prese il viso tra le mani. Tancredi lo teneva basso, esattamente come Claudine quella sera.
«Guardami, Tancredi.» Allora piano piano lui alzò il viso e incontrò i suoi occhi e poi il suo sorriso.
«Non hai colpe. C’era qualcosa nella vita di tua sorella che non andava…»
«Ma lei voleva dirmelo e io non gliene ho dato modo.»
«Ma possibile che non abbia lasciato una lettera?
Magari in quel periodo teneva un diario e lì ha spiegato il perché.»
«Ho guardato ovunque.»
«È strano che non abbia lasciato niente. Quando si sta così male si ha la necessità di scrivere, di dirlo almeno a se stessi. Non c’era un posto che lei amava?»
Tancredi rimase in silenzio. Aveva cercato dapper-tutto, avrebbe voluto sapere in tutti i modi cosa voleva dirgli sua sorella.
«Niente. Non ha lasciato niente.»
«Ma dopo la morte di Claudine, non è successo nulla di strano?»
«No. Tutto come prima, è rimasto tutto esattamente uguale.»
E proprio questo, almeno per lui, era stato ancora più doloroso. La loro vita era proseguita come se nulla fosse. Era come se fosse stato normale che un giorno Claudine si sarebbe uccisa, come se in qualche modo tutti se lo aspettassero. E tutti sapevano che la colpa sarebbe stata solo sua.
Ma tutto questo naturalmente non riuscì a dirlo.
Rimasero così, davanti a quel mare, davanti a quella notte, davanti a quelle stelle sospese sopra di loro, senza nessuna risposta. Poi Sofia gli diede dolcemente un bacio. Si staccò e piegò la testa di lato. I suoi capelli sciolti le scendevano sulla spalla. Lo guardò con tenerezza.
«Tancredi, non è stata colpa tua. E ora di tornare ad amare.»
«È un tuo desiderio?»
Lei sorrise.
«E un consiglio.»
Più tardi cenarono sulla torre, lì dove il mare era più profondo. Sofia si presentò con il vestito rosso di Armani. Aveva i capelli raccolti, un sottile filo di perle e degli orecchini abbinati. Il mare era leggermente mosso, un vento ribelle ma caldo muoveva il suo vestito, i suoi capelli. Era bella, pensò Tancredi. Molto bella. Bellissima. Forse ancora di più perché era la loro ultima sera.
Mangiarono in silenzio, si sentiva ogni tanto il rumore delle posate che venivano delicatamente poggiate nei piatti, il suono dello Chablis versato, il tovagliolo preso dalle gambe per pulirsi la bocca. Ogni tanto un’onda più potente delle altre sbatteva contro la parete, saliva su fino ad arrivare al bordo e bagnare parte del cristallo ma non loro. Quando finirono di mangiare, il cuoco si presentò per sapere se avevano ancora bisogno di lui.
«No grazie.»
«È andato tutto bene?»
«E stato perfetto come sempre.»
Allora si congedò. Poco dopo videro le barche lasciare l’isola. Erano soli.
«Ora vorrei chiederti una cosa…» La prese per mano.
«Dimmi.»
«Vieni con me.»
Si diressero in salotto. Tancredi aprì la porta. Sofia rimase sorpresa. Era stato portato da un elicottero nel pomeriggio. Al centro, di fronte alle grandi vetrate, illuminato da una luce dall’alto, c’era un pianoforte Steinway a coda nero.
«Vorrei che tu suonassi.»
Fuori il mare era più agitato, le onde si infrangevano contro il fianco della casa, ma non si sentiva nulla. Sofia rimase in silenzio. Nel buio della notte si vedevano so-lo quegli schizzi d’acqua che esplodevano sulle vetrate.
Poi fece un lungo respiro, si girò verso Tancredi. Lui era tranquillo.
«Solo se vuoi.»
Allora lei gli sorrise. «Certo. Lo farò.»
Sofia si abbassò le spalline e lasciò cadere il vestito a terra, poi si spogliò del tutto, fece alcuni passi completamente nuda. Si sedette sulla panchetta, alzò il coperchio e tolse il panno. Poi rimase ferma. In silenzio. Fuori il mare era ancora agitato. Grandi onde battevano sulla grande vetrata rompendosi davanti al silenzio di quella camera. L’attesa. Era come se volessero entrare, se volessero ascoltare anche loro quella musica che stava per iniziare. Ma non era possibile. Allora scivolavano giù, di nuovo in mare e, dietro quei cristalli bagnati, compariva la luna.
Sofia si mise al pianoforte. Già da ragazza era invi-diata per la sua straordinaria capacità di riscrivere senza esitazione, sulla chiave di basso e sulla chiave di violino, tutto il brano che stava studiando, senza guardare per un solo momento la tastiera. Eppure ebbe un brivido.
Davanti a lei si visualizzarono immediatamente le pagine di Après une lecture de Dante di Franz Liszt, uno dei pezzi più difficili del repertorio pianistico di tutti i tempi. Attaccò le sei ottave a scendere, maestose, definitive. E poi riempì quella stanza di una pioggia di note con una passionalità travolgente: scale cromatiche, foreste di semicrome, accordi retti e contrari a una velocità impensabile, potenti accordi ribattuti con stacchi di sinistra impossibili.
La pelle di quel bellissimo corpo iniziava a rilucere sotto lo sforzo spasmodico, il viso, le spalle, i seni ormai madidi di sudore e le mani invece perfette, asciut-te, inarrestabili. Davanti a sé lo sguardo inchiodato a uno spartito nero di note che non c’era, che solo lei vedeva, battuta dopo battuta, e che avrebbe scoraggiato qualsiasi pianista pur bravo, pur eccellente. E all’improvviso fu come se Liszt, il grande virtuoso, si fosse seduto accanto a lei, quasi stupito delle potenzialità che lui stesso, autore e acclamato interprete di quella prodi-giosa musica, non aveva saputo vedere, intuire.
Il suono dello Steinway adesso spaccava quella sala, e Tancredi non riusciva a pensare a nulla — lui, sempre perfettamente padrone anche delle situazioni più difficili e rischiose. Quella musica gli stava scavando l’anima e quella creatura al piano si era trasfigurata, non la controllava più, non era più la dolce Sofia delle notti d’amore, delle conversazioni appassionate, delle risate complici. Per la prima volta sentì l’amore non tra due persone ma piuttosto l’amore assoluto.
Quando Sofia staccò l’ultimo accordo, Tancredi capì che il controllo che pensava di avere sulla vita di lei e degli altri era un’illusione e si sentì stranamente sollevato.
Allora la guardò in un modo completamente nuovo, più sereno, finalmente lucido. Era Lei, lei con la elle maiu-scola, lei e basta. Si alzò, si accostò al pianoforte e con semplicità la accarezzò sulla guancia. Da lì a poco sarebbero stati loro due di nuovo, ma forse mai più gli stessi.
«Mi sono emozionato come non mi è mai accaduto nella vita.»
Sofia lo abbracciò. Era completamente nuda, gli teneva le braccia dietro la schiena all’altezza della vita eppure sembrava tutto naturale, priva di malizia malgrado i suoi seni fossero illuminati dalla luna e i suoi capezzoli turgidi. Erano tutti e due emozionati. Rimasero a lungo in silenzio fino a quando Tancredi le disse: «Andiamo a fare un bagno in piscina».
Poco dopo erano in acqua. Sofia si rilassò, piano piano svanì la tensione di quell’esecuzione, di quella difficilis-sima prova. Nuotò verso di lui e lo baciò. L’acqua era calda, le loro gambe si intrecciarono. Sentì subito salire la sua eccitazione, come quella di Tancredi. Poco dopo facevano l’amore dolcemente, come sospesi sull’acqua.
Più tardi continuarono in camera con passione, senza dire una parola. Ogni sguardo, però, era pieno di desiderio, di sesso, di voglia, era come se fosse pieno di mille parole.
Quando Sofia si svegliò era sola. Preparò la borsa.
Scese per fare colazione, per salutarlo, ma trovò solo una bellissima rosa rossa dal gambo lungo. Un biglietto era poggiato lì vicino.
“Perte. Solo per te.”
Quando finì la colazione, Cameron, la ragazza che l’aveva accolta al suo arrivo, si presentò al tavolo.
«Quando vuole l’accompagno alla spiaggia.»
«Grazie.»
Poco dopo la macchina elettrica si fermò al pontile più grande. Un motoscafo la stava aspettando con il motore acceso. Sofia scese e salì a bordo. Caricarono la sua valigia e il suo beauty. Poi il motoscafo partì, fece una curva e piano piano si allontanò dalla spiaggia, prese il largo andando verso terra.
Sofia si girò e guardò l’isola. Tancredi era sulla torre dove avevano cenato la sera prima. Aveva le mani in tasca e i capelli al vento, ma guardava da un’altra parte, verso il sole.
Il taxi si fermò. Sofia pagò e scese.
Si ritrovò da sola in mezzo alla strada, ferma davanti al suo palazzo, con le sue valigie ai piedi. Prese l’ascensore e poco dopo arrivò di fronte alla porta. Infilò le chiavi nella toppa, poi aprì. Andrea arrivò in salotto a gran velocità e fece partire la musica dallo stereo lì vicino.
«Eccoti! Bentornata!»
Sofia guardò in giro. Alcune stelle filanti scendevano disordinate dal lampadario, dei fiori di campo erano sul tavolo al centro del salotto. Su un cartellone rosa Andrea aveva disegnato i pupazzi di Topolino e Minnie che si guardavano timidi e innamorati. Sopra un cuore con i loro nomi: “Andrea e Sofia”. Vide dei pasticcini sul tavolo e lì vicino una bottiglia di ottimo Bellavista Franciacorta.
Sofia guardò tutti quei preparativi, quel tentativo di essere carino, poi si avvicinò ad Andrea e lo baciò sulle labbra.
«Mi sei mancato.»
E poi, senza riuscire a evitarlo, cominciò a piangere.
«Perché piangi, amore? Non fare così.»
Sofia si inginocchiò e poggiò la testa sulle sue gambe.
Andrea le accarezzò i capelli, poi guardò le stelle filanti che scomposte penzolavano dal lampadario, i fiori di campo in un angolo, Topolino e Minnie con i loro no-mi dentro quel cuore. Sofia continuava a piangere. Era contento di averla sorpresa. L’emozione gioca sempre brutti scherzi, soprattutto a chi, come lei, era così sensibile. Allora sorrise e le fece un’altra carezza.
«Anche tu mi sei mancata.»
I giorni seguenti non furono facili.
«Ma ti sei abbronzata moltissimo! Ti sei divertita?
Com’era questo maestro tedesco? Bravo?»
Le risposte erano solo bugie ma non poteva tradirsi.
Sull’aereo di ritorno aveva trovato una rassegna stampa di tutti i suoi concerti. Li aveva letti velocemente e con facilità memorizzati. Era una serie di appunti su come potevano essere andati quei cinque giorni ad Abu Dhabi, cosa aveva mangiato, com’era stato il tempo e poi le particolarità dei mercati, la parola più usata dalle persone in quella lingua, ciao, buongiorno, buonanotte e gli alberghi più importanti, una mostra che poteva aver visto. Sofia non fece altro che ripetere tutto quello che aveva letto sul fascicolo.
Poi arrivò il momento più complicato.
«Ehi, hai mangiato mentre stavi fuori… Vieni qui…»
Sofia si avvicinò al letto.
«Mi piaci ancora di più così tonda.»
Lui le accarezzò piano le gambe, salì su lentamente.
Sofia chiuse gli occhi. Doveva essere naturale, credibile, desiderarlo. In qualche modo si lasciò andare ma fare l’amore fu la cosa più difficile. Non pensare a quei cinque giorni fu quasi impossibile. E per un attimo si sentì in colpa. Le sembrò di tradire Tancredi.
Piano piano le cose rientrarono.
Avevano spedito la domanda allo Shepherd Center di Atlanta prima della partenza.
Appena due settimane dal suo ritorno finalmente arrivo la risposta. Tutti i passaggi dovuti erano stati fatti, le procedure erano state rispettate, l’ospedale aveva risposto positivamente. Tra venti giorni ci sarebbe stata l’operazione.
Sofia tornò alla scuola di musica per ingannare il tempo. Chiese ad Olja di restituirle la lettera che non aveva spedito e poi le raccontò dei suoi concerti.
«Nell’ultimo bis ho fatto la Giga della Toccata in Mi Minore di Bach.»
«E?…»
Sofia le sorrise.
«Tutto bene.»
Olja l’abbracciò soddisfatta.
«Lo sapevo. Sei una pianista eccellente. Io non volevo che tu fossi la migliore, volevo che tu fossi unica.
E ci sono riuscita.» Si allontanò così lungo il corridoio.
Sofia la guardò scendere le scale un po’ traballante ma felice. Almeno su questo non aveva dovuto mentire.
In un attimo poi arrivò il giorno della partenza.
Tancredi era nel suo ufficio di New York. Sorseggiava un caffè guardando le foto nella cartellina. Erano state scattate sull’isola. Un centinaio. C’era Sofia mentre faceva il bagno, mentre si cambiava, mentre passeggiava al tramonto e anche il loro bacio. Il primo giorno un fotografo aveva immortalato i loro diversi momenti di nascosto, perfino con degli infrarossi. Quando erano in camera da letto invece era stato lui stesso ad attivare una telecamera. Spinse un telecomando e accese una grande tv al plasma, poi un lettore e fece partire il filmato.
Eccola. Non aveva nulla addosso. Era bellissima. Era eccitante. L’ascoltò sospirare. Gli mancava. Moltissimo.
Gli mancava perché non era sua? Gli mancava perché era lei. L’interfono lo avvisò di una visita. Spense tutto, poi chiuse la cartellina.
«Lo faccia entrare.»
Davide apri la porta. Era vistosamente arrabbiato.
Si fermò davanti al suo tavolo. Tancredi lo guardò sorpreso.
«Ciao, amico mio, che ci fai qui? Non sapevo fossi a New York.»
«Sono qui per te. Volevi un attico su Manhattan, lo sto cercando.»
«E come va la ricerca?»
«Male. Però ho trovato questa.»
Gli buttò una lettera sul tavolo. Tancredi la guardò incuriosito. Davide gliela indicò.
«Leggila.»
L’aprì.
La scrittura era di Sara. “Amore mio, non è possibile vivere così. Da quella notte in piscina ho capito che nulla potrà mai essere più come prima…”
Tancredi la lesse fino in fondo. Non faceva il suo no-me. Davide lo stava fissando.
«E Sara. Non riconosci la sua scrittura?»
«Sì. Mi sembra la sua.»
«Capisco di chi sta parlando anche se non fa il nome.
È indirizzata a te. Perché non me lo hai detto?»
«Cosa dovevo dirti?»
«Te la sei scopata?»
«Tu che pensi?»
«Potevi avere mille donne. Perché proprio lei? Per la tua collezione?»
Tancredi bevve un altro po’ del suo caffè. L’interfono suonò. Tancredi rispose. «Sì? Chi è?»
«Hai bisogno di me?» Era Savini.
«No grazie. E tutto a posto.» Chiuse l’interfono poi fece un sospiro, si appoggiò allo schienale della poltrona.
«Vuoi sederti?»
«Preferisco restare in piedi. Ti ho fatto una domanda. Te la sei scopata?»
«Lei cosa ti ha detto?»
«Mi ha’detto di sì.»
Tancredi rise.
«Cosa c’è da ridere?»
«Ha sempre odiato la nostra amicizia. Credo che le desse fastidio, era gelosa di noi come se io fossi la tua amante.»
«Lei ti amava.»
«Non ha mai amato nessuno. Mi voleva perché non poteva avermi.»
«Perché sei così sicuro?»
«Perché sono un tuo amico. Anche se avessi provato qualcosa per lei, provavo qualcosa di più per te. E lei questo lo sapeva.» Tancredi lo guardò. «Mi dispiace, non me la sono scopata, e non perché non mi piacesse…»
Davide lo guardò in silenzio per un po’. Tancredi resse tranquillamente il suo sguardo. Era sereno, non c’era stato assolutamente nulla. Davide fece un lungo sospiro.
«Ora capisco alcune cose.»
Fece per andarsene.
«Salutamela.»
«Non so dove sia. Se ne è andata.»
«Riprenditi la lettera.»
«E stata lei a dirmi di consegnartela. È per te.»
Davide uscì dalla stanza. Tancredi rimase solo. Improvvisamente il telefono squillò. Era suo fratello. Non aveva voglia di rispondere, lo avrebbe richiamato.
Si versò dell’altro caffè, prese la lettera dalla scrivania, la strappò e la buttò nel cestino. Poi aprì la cartellina, si mise a sfogliare le foto. Sofia che rideva. Sofia che correva sulla spiaggia. Sofia che andava in bicicletta.
Sofia che usciva dall’acqua con un costume chiaro. In trasparenza si vedevano i suoi capezzoli, il suo corpo, le gambe forti. Rideva in quella foto portandosi indietro i capelli bagnati. In un’altra era da sola, seduta su un lettino, guardava il mare. Era come assorta, aveva un velo di tristezza. Si era tolta i grandi occhiali da sole neri e guardava lontano come se cercasse, sul filo di quell’orizzonte, chissà quale risposta. Osservò meglio quella foto. I suoi occhi, la sua espressione. Particolarmente forte, intensa. Cosa le era passato per la testa in quel momento? Stava prendendo una decisione? Facendo una scelta? Posò la foto.
Si ricordò di quel pomeriggio, avevano chiacchierato leggeri come se si conoscessero da sempre. E quella sera lui per la prima volta si era aperto, le aveva raccontato tutto di Claudine. Sofìa era rimasta in silenzio poi aveva cercato di aiutarlo. Aveva parlato a lungo, aveva cercato di allontanare da lui quel senso di colpa. Ma non era facile. Si ricordò una sua frase.
“E strano che non abbia lasciato niente. Quando si sta così male si ha la necessità di scrivere, di dirlo almeno a se stessi.”
Claudine avrebbe voluto dirlo a lui. Era a lui che si era rivolta, a suo fratello. Ma suo fratello non aveva trovato il tempo per lei. E questo Tancredi non riusciva ad accettarlo. Non riusciva a perdonarsi. Era morta per colpa sua. Era stato lui l’ultimo a vederla, l’ultimo che avrebbe potuto farle cambiare idea.
Rimase in silenzio. Quello che gli aveva detto Sofia era vero, lui non voleva amare. Ma c’era una verità ancora più grande, lui non riusciva ad amare. Non poteva essere di nessuno perché apparteneva a quella colpa.
Bevve un po’ di caffè. Quel dolore lo aveva accompagnato per anni, non lo lasciava andare, non lo abbando-nava mai. Ruotò lentamente la poltrona e si ritrovò di fronte alla vetrata che dava sulla Seventh Avenue. Nella strada principale sotto di lui, il traffico era lento nell’ora di punta. Una lunga fila di taxi procedeva quasi a passo d’uomo sulla destra, i marciapiedi erano affollati di persone che camminavano veloci. Lì sotto, in qualche metro quadro si sviluppavano tutte le ultime tendenze della Grande Mela. Eppure nulla cambiava. In qualche modo tutto era sempre uguale. Si ricordò di un’altra frase di Sofia.
“Ma dopo la morte di Claudine, non è successo nulla di strano?”
“No. Tutto come prima, è rimasto tutto esattamente uguale. “
Questo invece non era esatto. Aveva ripensato a tutto quel periodo subito dopo la morte di Claudine. Co-me poteva non averci fatto caso? In effetti qualcosa di strano era avvenuto, un piccolo cambiamento, forse in-significante, c’era stato, ma andava verificato. Uscì dalla stanza dell’ufficio e incontrò Savini.
«Che notizie hai?»
«Sono arrivati, hanno preso alloggio nella al quinto piano. In mattinata faranno le analisi e i controlli, credo che l’operazione sia per domani mattina alle nove.»
«Ok.» Tancredi passò a Savini un foglio.
«Voglio sapere tutto su questa persona il prima possibile. Conto corrente, ultimi acquisti, dove abita, cosa fa nella vita…»
Savini lesse il nome. Non gli era nuovo. Ma decise di eseguire quello che gli aveva chiesto senza chiedere spiegazioni.
«E poi fai preparare l’aereo.»
«Andiamo ad Atlanta?»
«No, quando avrai scoperto dove si trova questa persona, andremo a parlarci.»
La camera all’ospedale Shepherd Center di Atlanta era composta da tre stanze. La prima per il paziente era molto grande, aveva un televisore a muro, un armadio e una bellissima vista sul campo da golf Bobby Jones. Nel salotto accanto invece si trovavano un mobi-letto bar, un tavolo con quattro sedie, un altro televisore, un divano per gli ospiti, mentre nell’ultima il bagno.
Il servizio era impeccabile. C’erano sempre fiori.
Uno dopo l’altro alcuni medici visitarono Andrea, gli spiegarono i vari passaggi dell’operazione usando termini tecnici che lui si fece ripetere più volte per capire bene di cosa si trattasse. Poi arrivò il professore. Mishuna Torkama era un uomo di piccola statura ma, quando entrò, tutti smisero di parlare.
«Buongiorno. Lo Shepherd Center è felice di averla qui.» Poi gli sorrise con grande sicurezza e improvvisamente Andrea si sentì più tranquillo. Ascoltò la sua spiegazione. L’operazione era complicata, questo non lo si poteva nascondere, usavano le staminali, sarebbe durata un tempo che variava dalle sei alle dodici ore.
In realtà era un tempo molto indicativo, un intervento era durato quattro ore e un altro ventiquattro, ma tutti erano riusciti perfettamente. Un solo paziente era dece-duto, ma per complicazioni successive all’operazione.
«Ma gli altri interventi hanno avuto degli esiti eccel-lenti e una capacità di ripresa miracolosa» concluse Mishuna Torkama sorridendo di nuovo, la sua affermazione avrebbe dovuto fugare ogni minimo dubbio. «A più tardi.» Lo salutò e uscì dalla stanza. Altri medici porta-rono i risultati delle analisi, dell’elettrocardiogramma e di tutte le prove che Andrea aveva sostenuto nei giorni precedenti.
«Allora non ci dovrebbero essere problemi. Lei comunque deve firmare questi fogli.»
Un medico gli fece firmare il consenso informato dove erano elencate tutte le possibili complicazioni. Andrea doveva dichiarare ufficialmente di esserne al corrente.
Quando se ne fu andato anche l’ultimo professore, rimasero soli.
«Bene, mi sembra di aver consegnato la mia vita al patrimonio dell’umanità, o meglio ai tentativi di Mishuna Torkama!»
«Perché dici questo?»
«Hanno voluto togliersi qualsiasi tipo di responsabilità. Insomma era come dire: “Signori, noi ci proviamo, poi come va va, con questa cavia.”»
Sofia cercò di metterla sullo scherzo. «E dai, non dire così! Sono dei professionisti e poi non si è mai sentito di un uomo che mette il suo corpo a disposizione per la ricerca e che, invece di essere pagato, paga lui!»
«Già… E quanto paga!»
Sofia lo tranquillizzò. «Amore, il professor Mishuna Torkama sarà bravissimo e sono sicura che in questo super ospedale non c’è una persona che non sia preparata…»
Andrea pensò a quell’unico caso di morte. Si chiese se anche quel paziente avesse firmato tutti quei fogli e se anche per lui ci fosse stata la sua stessa équipe. Decise che non era il caso di farlo presente a Sofia. Aveva fatto di tutto per portarlo fin lì. Aveva scritto all’ospedale, cercato i documenti necessari, seguito ogni singolo dettaglio. E poi aveva trovato tutti quei soldi… Fece un sospiro. Aveva la speranza di una nuova vita, questa era l’unica cosa che contava, non poteva distruggere tutto con il suo cinismo.
«Hai ragione…»
Avrebbe voluto aggiungere qualcos’altro ma non fe-ce in tempo. Arrivarono due infermiere. Entrarono con un sorriso.
«Andrea Rizzi? Eccoci qui, è ora.»
Andrea non rispose nulla, sorrise anche lui ma non era certo rilassato come loro. Gli sembrava più una formula di quelle esecuzioni capitali all’americana piuttosto che la sua operazione. Le due infermiere sganciaro-no il letto dal muro e sbloccarono le ruote.
Andrea fece appena in tempo a guardare Sofia.
Lei gli strinse forte la mano.
«Ci vediamo dopo, amore. Ti aspetto qui.»
Andrea stava sudando freddo. Deglutì. Aveva la bocca asciutta, riuscì soltanto a farle un sorriso stentato. Poi il letto fu spinto fuori dalla stanza, iniziò il suo tragitto attraverso un lungo corridoio poi scomparve nell’ascensore. Andrea aveva le infermiere alle sue spalle. Non poteva vederle. Chiuse gli occhi e fece un lungo respiro, poi l’ascensore si riaprì. Erano scesi molto in basso rispetto all’edificio, alla fine di un altro lungo corridoio, dove l’aria era molto più fredda, si aprirono due grandi porte e il letto fece il suo ingresso nella sala operatoria.
Il professore Mishuna Torkama era al centro della stanza,’ aveva le braccia alzate e la sua assistente stava finendo di calzargli i guanti.
«Ecco il nostro amico…»
Subito dopo il suo ingresso, alcuni infermieri si avvi-cinarono al letto e intorno ad Andrea si chiuse un cerchio di camici blu. Gli furono attaccate alcune flebo, l’anestesista lo avvertì che mancavano pochi istanti. Poi sotto quell’ultima mascherina riconobbe i tratti del professore asiatico.
«Tra poco dormirà, scelga il posto dove vorrebbe andare. Al mare, in montagna, partecipare a una maratona. Sogni quello che vuole…»
Andrea si stava addormentando.
«Perché se tutto va bene, se noi…» il professore guardò i suoi colleghi, «se saremo bravi, il suo sogno si avvererà.»
I colleghi risero. Qualcuno disse qualcosa ancora ma Andrea non ci fece caso. Finalmente si sentì sereno.
Cercava di restare sveglio ma gli occhi gli si chiudevano.
“Una maratona. Non sarà facile. Sono un po’ fuori allenamento. Meglio una vacanza.” Li riaprì e lentamente li richiuse. “Ecco, al mare, una passeggiata su una spiaggia proprio come quelle di cui mi ha parlato Sofia.” E
con la massima fiducia in una nuova vita si addormentò del tutto.
Maria Tondelli camminava tranquilla per la sua strada. Aveva fatto la spesa a quel nuovo supermercato GS.
Era apparso da un giorno all’altro proprio lì a un chi-lometro da dove lei ormai abitava da quattro anni. Per essere un quartiere nuovo di Torino, stava acquistando importanza e valore. Gli ultimi palazzi costruiti erano stati edificati con grande stile e cura. Era arrivata anche una nuova linea di filobus, che con i suoi sedili colorati era un’ottima soluzione per andare in centro in maniera comoda e senza trovare traffico.
C’era solo un piccolo problema. Maria Tondelli non avrebbe potuto abitare in un posto come quello. Il villino dove viveva era oltre le sue possibilità o almeno di quelle che sarebbero dovute essere. Veniva dalle Marche, era l’ottava figlia di una famiglia molto umile.
Il padre era pastore e la madre faceva la sarta in un piccolo negozio. Per l’esattezza tutta la famiglia viveva in un piccolo paese vicino a Chiaravalle dove a rappresentare la vita notturna c’era solo un piccolo pub. Tutti i suoi fratelli erano rimasti in quel paese a vivacchiare, a intrecciare relazioni più o meno riuscite con qualche ragazza del posto.
Maria Tondelli invece era stata un’avventuriera rispetto a loro. Aveva lasciato il paese e aveva trovato lavoro.
Tancredi guardò i fogli che Savini gli aveva procura-to. C’era voluto pochissimo tempo per avere notizie su quella donna e c’era tutto: soldi, guadagni, conti, lavori precedenti.
Per un periodo aveva frequentato degli uomini anziani, si era fatta pagare per delle vere e proprie pre-stazioni fino a quando, questo passaggio non era molto chiaro, era diventata una cameriera presso la villa Ferri Mariani. Aveva lavorato per tre anni da loro e poi, appena due settimane dopo la morte di Claudine, aveva lasciato il lavoro. La polizia, una volta classificata quella morte come suicidio, aveva cercato, come spesso accade quando c’è di mezzo una famiglia importante, di chiudere il caso il prima possibile. Un’attenzione pro-lungata da parte dei media non sarebbe stata altro che una mancanza di rispetto nei confronti di quel dolore.
E così infatti accadde. Tutto rientrò in tempi molto brevi e in quei salotti che erano soliti frequentare non se ne parlò più. Dopo i funerali di Claudine fu come se tutti si fossero messi d’accordo, l’argomento non venne mai sfiorato. Fu naturale quindi che allora nessuno ci avesse fatto caso. Ma dopo circa dieci giorni dalla morte di Claudine, Maria Tondelli, una ragazza di bassa estrazione sociale, che veniva dalle Marche e prendeva un ottimo stipendio, aveva lasciato, senza un’apparente ragione, la casa dei Ferri Mariani. Perché? C’era stato un problema nella sua famiglia? Le mancava troppo il suo ragazzo? Aveva deciso di sposarsi? Aveva trovato un lavoro migliore? Era diventata particolarmente amica di Claudine e avrebbe sofferto continuando a vivere in quella casa? Savini aveva controllato ogni documento possibile, aveva scavato in ogni direzione. Nulla, la scelta di andarsene non era stata presa per nessuna di queste ragioni né per nessun’altra che in qualche modo potesse sembrare valida.
Quando Maria Tondelli se ne andò, Tancredi non se ne accorse. Era stravolto dal dolore tanto è vero che, appena gli fu possibile, anche lui abbandonò quella casa. Ma se Tancredi sapeva perfettamente per quale ragione lui se ne fosse andato, perché Maria Tondelli avesse abbandonato villa Ferri Mariani era un mistero.
Tancredi riguardò i fogli. Maria Tondelli era la proprietaria di quel villino dove abitava. Eppure non aveva vinto al Lotto né all’Enalotto né al Gratta e vinci né ad un altro gioco o scommessa. Savini aveva controllato anche questo. Quel villino le era stato regalato. Era stato intestato a suo nome da una società fantasma e in questo caso, malgrado le grandi capacità di Savini, non era stato possibile rintracciare a chi facesse capo perché era passato troppo tempo. Ma la cosa più strana e inspiegabile era che Maria Tondelli veniva ancora sti-pendiata della famiglia Ferri Mariani.
La Mercedes seguì per qualche metro la ragazza, poi la lasciò sfilare. Maria tirò fuori le chiavi ed entrò in casa.
Savini spense il motore. «Dovrebbe essere sola.»
Aspettarono qualche minuto poi si presentarono alla porta e suonarono.
Maria urlò da lontano: «Arrivo…».
Aveva già iniziato a preparare qualcosa in cucina, co-sì si asciugò le mani sul grembiule, se lo sfilò e si diresse verso la porta. Quando aprendo vide Savini e Tancredi li riconobbe subito, per un attimo rimase sorpresa, poi provò a chiudere la porta. Ma Savini fu più veloce e infilò il piede bloccandola. Attraverso quel pezzo di porta aperta Tancredi guardò Maria Tondelli. Quando i loro sguardi si incrociarono, le sorrise.
«Ti ricordi di me?» Lo disse con una certa durezza.
«Non vi avevo riconosciuto» mentì Maria, poi cercò di giustificarsi. «Ma è passato così tanto tempo…»
«Già, non ci vediamo da quando è morta mia sorella.» Tancredi non aveva mezzi termini. «Possiamo entrare?»
Li tenne sulla porta. «Non capisco.»
Savini sorrise. «Vuoi perdere questa casa? Vuoi perdere i soldi che ti arrivano ogni mese proprio dalla famiglia Ferri Mariani? Vuoi che i tuoi genitori Damiano e Manuela e tutti quelli del tuo paese sappiano tutto di te? Dei tuoi amanti anziani? Vuoi che aggiunga altro?»
Maria rimase ammutolita, poi capì che non le conveniva e si mise da parte facendoli entrare. Chiuse la porta e li accompagnò in salotto.
«Volete qualcosa da bere?»
«No, vogliamo sapere cosa è successo e perché.»
Tancredi era andato subito al dunque. Poi su quella credenza vide qualcosa e rimase sorpreso. Questa non se l’aspettava. Una foto. C’era Maria Tondelli che sorrideva, era stata fatta lì proprio in quel salotto e accanto a lei c’era la persona che non avrebbe mai immaginato di trovarci.
Tancredi la prese in mano, cercò di capire quando era stata fatta. Aprì la cornice, tirò fuori la foto, la girò, non c’era nessuna data. Intervenne Maria. «Non ci vediamo più da tantissimo tempo.»
Allora era quello il segreto? Erano stati amanti? Perché avrebbe dovuto trattare quella donna in maniera diversa, allontanarla, regalarle una casa, mantenerla per tutto questo tempo?
«Se non parli perderai tutto. Che cosa ti ha portato sin qui?»
«Nulla.»
Savini le parlò in maniera dura. «Forse non ti è chiaro. Ti rovinerò la vita in ogni modo possibile. Perché ti ha dato questa casa? Perché sei ancora mantenuta da lui?»
Maria Tondelli rimaneva in silenzio. Savini intervenne di nuovo.
«Rovinerò la tua famiglia, i tuoi fratelli, contatterò tutti i tuoi ex amanti. Alla fine mi pregherai in ginocchio di smettere…»
Maria si lasciò cadere sul divano, mise la testa tra le mani e cominciò a piangere. Era disperata. Tancredi e Savini le lasciarono un po’ di tempo.
«Allora?»
Poi Maria Tondelli cominciò a parlare.
«La sera che Claudine si tolse la vita…» guardò Tancredi, «lei passò alla villa a cambiarsi e poi uscì di nuovo.»
Tancredi ricordò quel momento con dolore.
«Sì, e tu come molti altri della servitù, eravate nella dépendance. Ma non c’era nessun altro.»
Allora Maria abbassò la testa e fece un lungo sospiro.
Aveva sempre immaginato che prima o poi sarebbe successo. Allora alzò la testa e fissò Tancredi dritto negli occhi confessando quella verità che aveva nascosto per tutti quegli anni.
«No, non andò così. Quella sera dopo che lei se ne fu andato, arrivò lui.»
Erano passate diverse ore. Nel silenzio di quella camera d’ospedale, Sofia si era ritrovata quasi costretta a fare un bilancio della sua vita. Cos’era andato, cosa non era andato, cosa sarebbe ancora potuto accadere e com’era cambiata. Quello che a volte i più non riescono a fare.
Il coraggio di fermarsi, interrogarsi e conoscersi fino in fondo.
Erano settimane che pensava a quei cinque giorni.
Era come se rivivesse di continuo ogni giorno singolar-mente. Si svegliava e provava a ricordarne ogni cosa, la partenza, l’arrivo, l’incontro, la scoperta della villa, le camere, il salotto, l’aperitivo, la cena, il bacio. Il do-po bacio. Non poteva crederci. Non era da lei. Non avrebbe mai pensato di poter vivere con tale trasporto una relazione con uno sconosciuto. Una persona che non aveva mai visto prima. Essere così intimi, non darsi limiti né confini in tutto quello che aveva fatto, il suo corpo, quello di Tancredi, vivere tutto senza nessuna inibizione, senza vergogna, senza pudore. Nuova. Sì, una Sofia nuova, spavalda, libera, spinta come non era mai stata in tutta la sua vita, con nessuno prima di Andrea né con lui. Era come se avesse aperto una porta e improvvisamente si fosse trovata di fronte una donna con il suo stesso nome, lo stesso cognome, perfino lo stesso viso e lo stesso corpo, ma diversa in tutto il resto, il trucco, i capelli, la voce, il tono, il modo di parlare.
Dov’era stata per tutti questi anni? Come mai non l’aveva mai incontrata?
Uscì dalla stanza. Richiuse piano la porta. Si incamminò per il lungo corridoio. Dalla grande vetrata si vedevano alcuni grattacieli. Alcune nuvole lontane sembravano come sospese in mezzo a quegli edifici.
Continuò a camminare. Sentiva solo il rumore dei suoi tacchi lungo il corridoio. Non c’era nessuno, non una voce. Porte chiuse, nessun segno, nessun fiocco, nessuna pianta. Un corridoio perfettamente pulito, freddo.
Arrivata in fondo vide una porta chiusa con un vetro opaco. C’era qualcuno che si muoveva lì dietro. Dovevano essere le infermiere del piano, quelle che riface-vano le stanze la mattina, che portavano e ritiravano i carrelli con i pasti. Erano lì pronte ad arrivare per qualsiasi urgenza.
Sofia passò oltre. Si ritrovò agli ascensori. Lesse le indicazioni per i diversi piani. Quando finalmente la trovò, entrò nell’ascensore e spinse un bottone. Ne aveva bisogno. Arrivata al piano uscì e cominciò a camminare.
Poco dopo davanti a quella porta si fermò. L’aprì lentamente cercando di non disturbare nessuno. La cappella era quasi vuota. C’era solo una donna anziana in fondo sulla destra. Era inginocchiata e muoveva tra le mani il suo rosario. Erano otto anni che Sofia non metteva piede in un luogo sacro per pregare. L’ultima volta era stata quando Andrea tra la vita e la morte veniva operato.
L’anziana donna uscì dalla cappella. Accennarono un sorriso, così, per una certa solidarietà, perché cre-devano nella fede o nella speranza, perché comunque erano lì. Sofia rimase sola ma non ebbe il coraggio di inginocchiarsi. Si sedette nell’ultima fila e rimase con la testa bassa a fissare il pavimento. La cappella era moderna. Grandi finestre rettangolari con mosaici dai diversi colori viola. Un Gesù stilizzato al centro della vetrata più importante. Poco più sotto un grande cro-cifisso in ferro satinato con un Cristo dal corpo color carne ma un viso appena accennato. “Eppure, tutto questo” pensò Sofia, “ha lo stesso valore di mille altre chiese sparse per il mondo. Il Signore che trovi qui è lo stesso della parrocchia vicino a casa. Ma dovunque Egli sia, avrà tempo per te? Ha voglia di ascoltarti? Di prenderti in considerazione?”
Sofia alzò la testa e guardò quel Gesù stilizzato, poi il Cristo sulla croce moderna. I suoi occhi erano buoni, sembravano fissarla. Allora quasi si vergognò, perché sapeva che Lui comunque conosceva già quello che lei Gli voleva chiedere. Eppure era come se volesse sentir-lo da lei, con chiarezza, per non potersi sbagliare. Allora Sofia lo disse nel suo cuore, ad alta voce anche se in silenzio. “Vorrei essere felice.” E fu come se improvvisamente quel Gesù stilizzato le fosse andato vicino e anche quel Cristo moderno fosse sceso dalla croce, e le fossero corsi incontro, lì, in piedi, davanti a lei, per sentire, per capire meglio. Cosa vuol dire questa richiesta?
“Vorrei essere felice?” Ma cosa intende esattamente?
Era come se la guardassero negli occhi, come se fru-gassero nel suo cuore, come se fossero lì a scavare, a cercare, a voler trovare il vero senso di quelle parole.
Allora Sofia abbassò la testa e in quello stesso istante si sentì sporca come non mai. Si vergognò di quella sua richiesta. Lei voleva lavarsene le mani, voleva che la sua felicità gliela desse direttamente Dio o meglio la morte.
Sì, perché se l’operazione non fosse riuscita, lei sarebbe stata libera. Senza dover parlare, spiegare, senza nessuna responsabilità. E soprattutto senza dover scegliere.
Se Andrea fosse morto, lei non si sarebbe potuta sentire in colpa per la propria felicità.
Allora si vide all’interno di quel tribunale, seduta al banco degli imputati. Il giudice invitò l’aula a fare silenzio. “Avete raggiunto un verdetto?”
“Sì, Vostro Onore.” Il giurato teneva in mano la sen-tenza, la guardò per qualche secondo, poi la lesse: “Innocente colpevole”.
Sofia prese l’ascensore, tornò nella camera. Rimase lì, in silenzio, seduta sul divano, con la testa tra le mani. Sentiva scorrere i secondi sul grande orologio appeso sopra la porta. Ogni singolo scatto della lancetta era comunque l’avvicinarsi di una fine.
Più sotto, molto più sotto, nel freddo di una sala operatoria, il chirurgo e i suoi assistenti si muovevano intorno a quel tavolo. Era come una partita a un tavolo da gioco, solo che l’uomo che poteva perdere era uno solo.
Erano passate più di dieci ore. Sofia aveva un bicchiere in mano, lo aveva appena riempito per bere quando bussarono alla porta della stanza. Si fermò a mezz’aria e lo posò sul tavolo lì vicino.
«Avanti…»
La maniglia si abbassò lentamente poi comparve un’infermiera. Era una donna che non aveva mai visto, rimase un attimo sulla soglia, come se non sapesse cosa dire, come se cercasse le parole giuste. Poi il professore la superò.
«E andato tutto benissimo.»
Alcune ore dopo entrò il letto, trasportato da altri infermieri con sopra Andrea che dormiva, lo sistemarono al suo posto, disposero meglio le flebo. Poi l’anestesista gli diede due schiaffetti per controllare che fosse effettivamente sveglio e Andrea reagì.
Allora tutti uscirono dalla stanza. Sofia si avvicinò al letto. Andrea aprì lentamente gli occhi e la vide. Poi mosse piano piano la mano sulle lenzuola verso di lei, era come se la cercasse, se avesse bisogno di sentire clic*
era tutto vero. Allora Sofia gli prese la mano e la strinse forte. Andrea chiuse gli occhi, più tranquillo sorrise e in quel momento Sofia si sentì morire per quello che aveva osato chiedere al destino.
Villa Ferri Mariani.
Il silenzio e l’eco di quelle stanze vuote. Il grande salone con il camino al centro. La scala che saliva su verso le loro camere.
Tancredi era lì sotto. Gli sembrava quasi di udire l’allegria di quelle feste, il rumore delle portate, i piatti, il vino, lo champagne, i dolci appoggiati su quei tavoli. Quelle date importanti, i diciott’anni di suo fratello Gianfilippo, di Claudine, i suoi. L’eco dei ricordi di una famiglia felice.
“Venite, apriamo i regali, è quasi mezzanotte…”
I tanti Natale passati tutti insieme.
“Ecco, disegniamo le uova. Facciamole come se fossero tanti personaggi, il vigile, la ballerina, un cow-boy, una squaw…” Loro bambini insieme ai genitori a ritagliare dei fogli colorati, a vestire quelle uova per Pasqua, a dipingerle con i colori e i pennelli, usando i pennarelli.
“Guardate qui, c’è il salame tagliato a fette, la corallina. E questo è un ciambellone di formaggio che ho fatto fare per voi…”
Sua madre Emma e le sue premure.
“Ma papà, non è giusto! Quella pecorella se la sta mangiando tutta Gianfilippo!”
“Hai ragione. Lasciane un po’ a tua sorella…”
Suo padre Vittorio e il suo tentativo di farli andare d’accordo.
“Ma papà, la pasta reale ingrassa e lei è già così ro-tonda!”
Rise di quel ricordo. Non era vero. Claudine era magra, sempre in forma, bellissima. Glielo aveva detto perché voleva mangiarne un po’ anche lui. Era il più piccolo e si sentiva sempre il meno considerato.
Claudine. “Che fine hai fatto, Claudine? Perché te ne sei andata senza salutare? Non si fa così. Non è giusto.”
Ricordò quella sera, il dolore di non essere rimasto ad ascoltarla. Il suo ultimo sorriso, quando forse aveva già deciso. “Cosa mi volevi dire, Claudine?”
Salì le scale. Arrivò al piano di sopra. Attraversò il lungo corridoio che portava alle camere da letto, la sua, quella di Gianfilippo e infine l’ultima stanza in fondo, la camera di Claudine. Aprì lentamente la porta. Qualche ragnatela, un po’ di polvere. In quella casa non abitava più nessuno da molto tempo. I suoi genitori vivevano in una villa sulla Costa Azzurra. Lì il tempo era migliore, avevano deciso di trasferirsi perché suo padre aveva avuto dei problemi respiratori. Si sentì in colpa. Era da almeno due mesi che non li sentiva. In realtà ne erano passati sei. Dopo la morte di Claudine nulla era stato più facile tra loro. Sentiva ogni tanto solo Gianfilippo.
Entrò nella camera di Claudine. Era intatta. Tutto allo stesso posto. I peluche sul letto, qualche pupaz-zo sulla scrivania, le tende color fucsia con i fiocchi di colore più chiaro che le tenevano raccolte. Tutto come sempre. Poi improvvisamente si accorse di una cosa. Se ne rese conto solo ora che la rivedeva a distanza di tanti anni. Quella camera era di una bambina. Dappertutto c’erano piccoli oggetti, caramelle, bambole, peluche, penne con il coperchio buffo. Quando Claudine si era suicidata aveva vent’anni. Come mai non ci aveva fatto caso prima? Claudine non era mai cresciuta. Non voleva crescere. Ma cos’era che la spaventava?
Aprì i cassetti, frugò tra le sue cose, qualche foto, qualche boccetta di profumo, delle chiavi, tanti anelli senza valore, delle penne colorate, delle gomme, qualche cartolina, qualche lettera. Tutta quella roba l’aveva guardata, girata e rigirata, controllata per almeno due anni dopo quello che era successo. Aveva letto e rilet-to quelle cartoline e quelle lettere mille volte, ma non aveva trovato mai nulla, né un indizio né un pensiero, niente che potesse far pensare al perché di quella scelta.
Poi, all’improvviso, quello che non era successo in tutti quegli anni, accadde.
Tancredi stava guardando quella bacheca, piena di foto, i ricordi delle feste di diciott’anni, quella di Claudine, delle sue amiche, dei suoi amici, altri istanti della sua vita, momenti di scuola, i pochi viaggi, le tante esta-ti, fino a quando notò una foto. Lì Claudine era piccola, avrà avuto sì e no undici anni e quella foto gliel’aveva fatta lui. La staccò dalla bacheca e la guardò meglio.
Claudine sorrideva nascosta tra le foglie, si vedeva solo il suo viso e le mani che tenevano aperte quelle fronde.
In un attimo si ritrovò indietro nel tempo. Quel giorno.
«Ma è facilissimo!»
«Ma non sono capace!»
Tancredi guardava quella piccola macchina fotografica cercando di capire come usarla.
«Devi spingere il tasto lì sopra, quello a sinistra!»
«Questo?»
«Sì, quello lì.»
Claudine si arrampicò sull’albero usando le tavolette di legno che aveva inchiodato sopra il tronco, così che facessero da scala. Arrivata lì sopra si affacciò.
«Ecco, guarda lì dentro e inquadrami.»
Spostò le foglie che le stavano davanti e apparve con tutto il suo sorriso in mezzo a quei rami. «Dai, scatta!»
Tancredi spinse il tasto. «Fatto.»
Claudine saltò giù dall’albero. Andò in avanti con il peso ma riuscì a non cadere, fece un passo e poggiò subito le mani per terra. Si rialzò e le pulì strusciandole sui pantaloni. «Fammi vedere.» Gli sfilò la Polaroid di mano. «Sì, perfetta.»
Poi gli mise un braccio intorno al collo e cominciarono a camminare. Erano nel bosco in fondo al grande giardino, lontano da casa.
«Questo posto lo conosci solo tu… E non lo devi dire a nessuno.» Tancredi la ascoltava in silenzio. «Hai visto le tavole che ci sono lì sopra? Le ho inchiodate da sola una a una.» Poi Claudine diventò seria. «Se non mi trovi, sai che sono qui. Ma se lo racconti, io non ti parlerò mai più. Hai capito?»
«Sì.»
Poi lo lasciò andare, lo mise di fronte a sé e lo guardò in faccia. «Giura che non dirai niente a nessuno.»
«Giuro.»
«Magari un giorno ti ci farò salire.»
«Ma come l’hai chiamata? Gliel’hai dato un nome?»
«Ancora no. Ci penserò. Andiamo ora, che deve essere pronta la cena.»
Tancredi camminava per il sentiero che portava al bosco. L’aveva chiamata “l’isola”, le aveva dato quel nome dopo aver visto il cartone animato di Peter Pan.
Come aveva fatto a non pensarci? Era l’unico posto che non gli era venuto in mente. Aveva guardato sul suo computer, aveva cercato tra la sua posta, tra i suoi messaggi, un indizio, un fatto, un perché della decisione di quella notte. Ma “l’isola” non gli era venuta in mente.
Forse perché non c’era mai stato, perché non ne avevano più parlato. Perché era stata dimenticata come se fosse appartenuta a un altro periodo, quasi a un’altra persona.
Poco dopo Tancredi arrivò lì sotto, ai piedi di quell’albero. Era come se vedesse Claudine ancora un-dicenne che saliva su, si arrampicava su quelle tavole e gli faceva segno di seguirla. Così mise la sua mano sulla prima tavola. Era bagnata. Doveva aver piovuto la notte prima. Si sentiva l’odore della pioggia, il profumo dell’erba ancora fresca, il muschio su quelle tavole. Salì lentamente, stando bene attento a tenere il piede contro la tavoletta, a non farla staccare dall’albero. Non era più leggero come allora. Poco dopo fu sull“‘isola”.
Le grandi tavole che facevano da pavimento oscilla-vano sotto il suo peso, scricchiolavano ma erano state ben inchiodate. I chiodi erano arrugginiti, i buchi delle tavole segnati come a testimoniare il tempo passato. Si guardò in giro. Era come una piccola casa. Aveva fatto un gran lavoro Claudine, chissà quanto tempo c’era voluto. Chissà se lo aveva fatto da sola. Per terra c’era qualche cassetta di legno della frutta. Dovevano servire da sedie visto che poco più in là due grandi assi inchiodate tra loro fungevano da tavolo.
Poi la vide. Allora gli si strinse il cuore. La prese tra le mani, era bagnata, ancora umida, scolorita e consumata dalla pioggia e dal freddo di tutti quegli anni.
Peonia, così aveva chiamato la sua bambola di pezza.
I bottoni pendevano lenti dal petto, dondolavano tristi, trattenuti da qualche filo allentato. E solo allora, pog-giandola su quelle assi, si accorse che lì dietro c’era una scatola. Era di vimini, con un nastro rosso ormai logoro che la teneva chiusa. La prese, la mise su quel tavolo improvvisato e l’aprì. Una busta di plastica trasparente proteggeva il contenuto. Claudine doveva aver pensato alla possibilità delle piogge. Quindi era stata lasciata lì apposta… Non immaginava che sarebbe passato tutto questo tempo però. “Forse era destinata a qualcuno in particolare. Forse è sempre stata qui per me.” Allora piano piano srotolò quella busta di plastica e l’aprì.
Per prima cosa trovò una lettera. Riconobbe la sua scrittura. Cominciò a leggerla.
“Ciao Tancredi, solo tu potevi arrivare qui, e ora ca-pirai cosa volevo tanto dirti, come mi era impossibile andare ancora avanti. Avevo quattro o forse cinque an-ni la prima volta che mi sono fidanzata con lui…”
Continuò divorando le parole, leggendo una riga do-po l’altra, sperando di trovare qualcos’altro al posto di quello che ormai sospettava.
“All’inizio ero anche felice di ricevere tutti quei regali.”
Il respiro di Tancredi cominciò a farsi più corto.
“Tutte quelle attenzioni…” Più affannato. “Sentirmi più importante di voi due… Ma poi ho capito che non era così.” Allora si sentì gelare e in un attimo tutta quella che era stata la sua infanzia, quel bellissimo castello fatato davanti ai suoi occhi crollò.
“La prima volta che papà mi ha preso è stata terribile. Ho urlato ma eravamo soli. Ho pianto, mi sono disperata, il dolore è stato enorme e non ho capito nulla. “
Allora continuò a leggere, come inebetito, ogni singola parola era come una coltellata, una ferita e poi un’altra e un’altra ancora, lì, nello stesso punto, ancora più a fondo, sempre più dolorosa.
“Ha continuato così e io urlavo ogni volta ma eravamo soli. Poi mi sono abituata ma tutto è stato ancora più terribile. Abbiamo iniziato dei giochi. Ma io non mi divertivo.”
Allora Tancredi guardò in fondo alla busta e improvvisamente la sua rabbia crebbe a dismisura. Quando prese in mano quelle foto non credette ai suoi occhi.
Erano come insanguinate, gli pesavano come un enorme macigno, come un ferro rovente appena uscito dal fuoco, gli bruciavano addosso, come se quella tremen-da verità lo stesse marchiando. Allora sentì quel grido e fu come se fosse inciso sulla sua pelle: colpevole. Colpevole di non aver capito, di non essere restato quella se-ra, di averlo permesso per anni, di non aver sospettato niente. Colpevole.
E si sentì morire e pianse come se Claudine fosse morta per la seconda volta.
Gregorio Savini passeggiava di fronte alla Mercedes nera. Ingannava il tempo spostando con il piede ciuffi d’erba bagnata, facendo rotolare ogni tanto qualche sasso dalla strada verso il ciglio. Quando lo vide arrivare, non lo riconobbe. Il suo viso era segnato e teso.
Rabbia e dolore, odio e follia convivevano in ogni suo tratto. Savini si trovò spiazzato, non sapeva cosa dire, non lo aveva mai visto così. Allora aprì semplicemente lo sportello. Tancredi si lasciò cadere nel sedile posteriore. Accanto a lui posò una busta con qualcosa dentro. Savini salì davanti. Mise le mani al volante ma rimase fermo, in silenzio. Non aveva il coraggio di guardare nello specchietto. Poi sentì l’ultima cosa che avrebbe potuto immaginare. «Voglio ucciderlo.»
Quando arrivarono, era ormai il tramonto. Savini non fece in tempo a fermare l’auto che Tancredi scese.
Si attaccò al campanello della porta.
Una cameriera venne ad aprire, lo riconobbe. «Buonasera, signore…»
Ma non riuscì a dire altro perché lui entrò correndo, attraversò il salotto, aprì le porte una dopo l’altra, quella dello studio, della cucina, di una camera da letto, di un’altra, un bagno e infine l’ultima.
Sua madre era lì, seduta su una poltrona. Quando lo vide entrare sorrise.
«Tancredi, che bello che sei venuto…»
Stancamente si alzò, gli andò incontro, lo abbracciò.
«Ti ho cercato tanto in questi giorni ma non ti ho mai trovato. Avevo detto a Gianfilippo di avvisarti…»
Poi si staccò da lui e lo prese per mano.
«Guarda…»
Come una madre con il suo figlio più piccolo, lo con-dusse a quel letto.
Suo padre Vittorio era lì, con gli occhi chiusi. Una macchina sbuffava, un soffietto verde andava su e giù, pompando ossigeno, cercando in tutti i modi di farlo respirare, di tenerlo ancora in vita. Delle flebo partiva-no da alcune boccette appese lì intorno, perdendosi tra le sue braccia, alimentandolo.
«È entrato in coma.»
Tancredi lo guardò. Era lì, davanti a lui, inerme.
I suoi occhi chiusi, uno sguardo sereno, c’era perfino una specie di sorriso su quel volto. Era come se ridesse di lui, come se si divertisse beffardo, come se dicesse: “Vedi com’è il destino, figlio mio? La vita a volte ci prende in giro. Ora che finalmente sai tutto, non puoi fare niente, non puoi punirmi. Non solo, ma lo raccon-terai? Darai questa cattiva notizia a tua madre? A tuo fratello? Che farai? Non credo. Non dirai chi era veramente tuo padre, non li deluderai. Dovrai portare per sempre con te il peso di questa verità”.
«Hai visto poverino? E così da tre giorni.»
La madre si portò la mano alla bocca e cominciò a piangere, in silenzio. Lei, donna a volte distratta, lei che aveva spesso perdonato i tradimenti di Vittorio, ma che non sapeva certo di quale terribile delitto si fosse mac-chiato.
«Ma come mai sei qui? Ti ha cercato Gianfilippo?
Gli avevo detto di chiamarti.»
Tancredi rimase per un attimo in silenzio, guardò di nuovo il padre, il viso smagrito, le sue rughe, quelle mani immobili. Le immaginò per un attimo, allora chiuse gli occhi inorridito. Poi si girò verso sua madre, era lì, accanto a lui, senza colpe, con un’innocenza in qualche modo più fragile, mista alla sua vecchiaia, allora le sorrise.
— «Sì, mamma, l’ha fatto. Sono venuto appena ho potuto.»
Dopo aver pronunciato quelle parole Tancredi sentì tutto il peso di quella bugia. Quella donna anziana, ormai stanca, quella donna illusa, forse ancora innamorata di quell’uomo, non poteva sapere. Non doveva sapere.
Allora la madre l’abbracciò di nuovo e lo strinse a sé.
«Tuo padre è forte… Ma questa volta ho paura.»
Tancredi teneva le braccia lungo il corpo e senza volerlo si toccò la tasca della giacca. La lettera, quelle foto terribili, erano tutte lì, a un passo da sua madre. Sarebbe bastato un niente per farle vedere chi aveva avuto vicino, quale mostro aveva dormito nel suo letto, aveva approfittato di sua figlia. Dall’età di quattro anni fino a quell’ultima notte, quando Claudine, esausta, non sapendo più come affrontare il peso di quella storia, non aveva trovato altra soluzione. Si era tolta la vita.
Claudine. Claudine che non aveva conosciuto l’amore, che non era uscita con un ragazzo, che non aveva dato un bacio, che non aveva detto “ti amo”, che non aveva pianto per una storia finita o festeggiato per una appena iniziata. Claudine che aveva vissuto il sesso co-me una tortura, una punizione ricevuta da chi, più di tutti, avrebbe dovuto invece amarla.
Allora Tancredi abbracciò sua madre e cominciò a piangere. E lei quasi ne fu sorpresa. Si staccò da lui, gli asciugò le lacrime, gli accarezzò i capelli e gli sorrise cercando di consolarlo.
«Su, su, non fare così.»
Tancredi piano piano tornò a controllarsi. «Ti voglio bene, mamma. Ti chiamerò presto.»
E se ne andò, portando via con sé quell’unico dolore, il peso della verità.
«Sofia, guarda…»
Il girello procedeva lentamente. Andrea riusciva a muovere le gambe, avanzava piano, un passo dopo l’altro, tenendosi forte sulle braccia, trascinando a tratti le gambe ma riuscendo anche a piegarle.
«Hai visto? E come se fossi tornato bambino!» Sorrideva felice, il suo entusiasmo riempiva la casa, era come se ci fosse una luce nuova, si riusciva quasi a toccare l’energia di quella nuova vita.
Sofia lo guardava sorridendo. Andrea si staccò dal girello e si lasciò cadere sul divano.
«Basta, non ce la faccio più.»
«E passato appena un mese. Ce ne vorranno almeno sei per essere indipendente e riuscire a fare qualcosa di più senza appoggiarsi. Te l’hanno detto.»
— Andrea era tutto sudato. «Per me comunque è stato un miracolo. E poi quando mi è arrivata quella newsletter e ho saputo di questo professore, dei suoi studi sulle staminali applicate all’interno del midollo osseo, era la mia storia, non volevo crederci… Questa è la grandezza di una rete di comunicazione, di internet! La criticano tanto ma ci permette di essere informati in continuazione.»
Sofia gli fece una carezza su un braccio.
«Già.» Aveva le vene ingrossate per lo sforzo.
«Vuoi qualcosa da mangiare?»
«Sì, magari.»
Si alzò e andò in cucina. Poco dopo tornò con una bottiglietta di Gatorade.
«Intanto prendi questo. Ormai è come se ogni volta tu facessi una vera e propria partita di calcetto.»
Andrea sorrise. «E magari fra un anno, questo potrà accadere veramente.» Poi diede un lungo sorso.
Proprio in quel momento suonarono al citofono. Sofia si alzò e rispose.
«Sì, ti apro.»
Poi tornò in salotto. «Sta salendo Stefano.»
Andrea cercò di tirarsi su, poggiandosi sui braccioli del divano. Piano piano ci riuscì.
Sofia gli avvicinò la sedia a rotelle, la tenne ferma, così che Andrea riuscì a scivolarci sopra.
«Ecco fatto.»
Poi Sofia prese al volo un asciugamano e glielo passò sulla fronte. «Tanto suderai un bel po’ anche lì.»
Suonarono alla porta, lei andò ad aprire. «Ciao.»
Stefano era di buonumore.
«È pronto il nostro campione?»
«Certo!» Andrea scivolò sulla sedia a rotelle infilando la porta di casa, tanto che Stefano si spostò veloce.
«Mi hai quasi preso!»
«Vedrai che prima o poi ci riesco.»
Poi Stefano si rivolse a Sofia.
«Mi ha detto Lavinia se vi va di venire a cena da noi sabato…»
«Perché no, dopo magari la chiamo.» Poi chiuse la porta. Rimase nel silenzio improvviso di quella casa. Si sedette al tavolo e cominciò a pensare. La vita e i suoi mille rivoli.
Stefano si era offerto di accompagnare ogni pomeriggio Andrea a fisioterapia. Stefano il buono o Stefano che in qualche modo si sentiva in debito? Era forse merito della storia finita tra Lavinia e Fabio? Lavinia e Stefano di quel tradimento non avevano mai parlato, era come se non fosse mai esistito, avevano fatto finta di niente. La coppia %
era tornata unita come prima, più di prima, felici come sempre. Sofia si guardò intorno nel salotto, vide alcune foto delle loro vacanze, quella del suo matrimonio, poi il girello. “È così che voglio la mia vita? Questa seconda occasione per Andrea vuol dire qualcosa di diverso anche per me?”
Ripensò a sua madre, a quando era andata nel parco con quella valigia, illusa d’amore, pronta a partire.
E perché non l’aveva fatto? Perché lui era sposato e amava sua moglie. Ma è necessario essere sempre così sicuri, bisogna avere per forza delle certezze per abbandonare ciò che non ci piace della nostra vita, per averne una semplicemente bella? Ecco, una vita bella. Ma è lei che improvvisamente sceglie di farsi bella per te o te la puoi costruire? E senza volerlo si ricordò le ultime parole di Andrea, uscite così per caso. Le tornarono in mente, come un’eco, rimbombarono nella sua testa, improvvisamente stonate rispetto a tutta quella storia. “E
poi quando mi è arrivata quella newsletter e ho saputo di questo professore…” Ma come? Aveva sempre detto di aver trovato tutto lui, di esserne venuto a conoscenza navigando su internet. Allora Sofia prese il computer.
Cos’era quella novità della newsletter? C’era solo una persona che avrebbe potuto aiutarla.
«Cioè? Non facciamo lezione ma ti devo risolvere questo?»
Jacopo Betti, il dodicenne fissato con la tecnologia guardò sorpreso Sofia.
«Sì, entro stasera però. Lo devo riportare a casa.»
«Ok… Ci sto. Tra due ore massimo sarò qui.»
Sofia continuò la lezione con la giovane Alessandra, una piccola promessa a modo suo, se non altro nel saper fare della musica classica una vera e propria moda.
«Vorrei essere un po’ come Giovanni Allevi.»
«Cioè?»
«Lui è un genio, fa finta di non capire nulla, così può dare le risposte più sconclusionate e nello stesso tempo guadagna un sacco di soldi facendo ciò che più gli piace! Come dice mio fratello, il vantaggio di essere intelligenti è che si può sempre fare gli stupidi!»
Sofia rise.
«Ma non credi che la sua possa essere semplicemente una grande passione?»
Alessandra alzò le spalle.
«Mah, non so. Ormai è proprio poca la gente che fa qualcosa in maniera sincera.»
Sofia la guardò meglio. Undici anni ed era già così disincantata. Com’era lei a undici anni? Amava la musica e basta, ascoltava i dischi di classica, li suonava al pianoforte, cercava disperatamente di ripetere a orecchio concerti impossibili. Si divertiva, a undici anni. A undici anni era sincera.
Poi anche quella lezione finì.
Sofia rimase da sola nella stanza, quando sentì bussare. Aprì la porta curiosa.
«Ciao, ti volevo salutare.» Era Olja.
«Vai a casa?»
«Sì, ma a casa mia. Torno in Russia.»
A Sofia si strinse il cuore. Per lei era stata molto più di un’insegnante. Si accorse che stava per piangere, accadeva troppo spesso in quell’ultimo periodo.
Olja le prese la mano e la strinse.
«Non fare così. La Russia è vicina. Hanno inaugu-rato da poco un nuovo treno, per adesso si chiama il ” “. È come il vecchio Orient Express. Io parto con quello e tu potrai raggiungermi quando vuoi. Se poi insisti e vuoi per forza ricominciare a suonare, be’, non sarò certo io a impedirtelo, anzi, sarò molto felice di farti…»
«Da maestra.»
«Sì, da maestra.»
E si sorrisero così, come due amiche e quella differenza d’età non si notò, si vedeva solo un grande amore.
Sofia, rimasta da sola, fece alcuni accordi al pianoforte, tanto per ingannare il tempo, poi si accorse che era tardi e uscì per strada. Iniziò a scendere le scale quando lo vide arrivare di corsa.
«Ehi, prof, scusa ma non è stato facile.»
Jacopo Betti era tutto sudato con il suo computer sottobraccio. «Ecco qua! È tutto qui.»
Le passò un foglio. Jacopo la guardava soddisfatto.
«Martin Jay è il miglior hacker di tutta Europa, secondo me anche del mondo! Se è stato difficile per lui, vuol dire che era impossibile per chiunque altro. Ha trovato chi ha mandato quella newsletter, c’è segnato il nome su quel foglio. Se hai bisogno di altro, io ci sono sempre.»
Le sorrise e se ne andò così, con i pantaloni un po’
calati, uno strano mix di ragazzo, tra il rapper e l’hacker, obbligato dai genitori a cimentarsi con Chopin.
Sofia aprì il foglio e quando vide il nome vacillò: “Nautilus”. La società all’interno del palazzo dell’avvocato Guarneri.
Allora erano stati loro a suggerire l’operazione, loro avevano spedito la mail all’indirizzo di Andrea, e forse erano stati proprio loro a fare quel prezzo. Cinque milioni di euro sarebbe stato impossibile per tutti ma quello sarebbe stato anche il suo punto debole, solo così lei avrebbe ceduto e sarebbe stato possibile comprarla.
Ma perché Andrea aveva detto di aver trovato la notizia di quell’operazione navigando su internet? Perché non le aveva detto che aveva ricevuto una newsletter? Una distrazione o una bugia? Quindi anche Andrea sapeva?
E cosa sapeva? Aveva capito tutto e lo aveva accettato?
Ma se Sofia lo aveva fatto per amore di Andrea, lui aveva finto solo per se stesso e le sue gambe. Lei era stata comprata ma era stato lui ad averla venduta.