Richard Wagner


Le rondini volavano basse al tramonto. Ogni tanto passavano sotto il portico di quell’antica villa in pietra, dalle mura forti, spesse. All’interno una grande scala di legno scuro portava al piano superiore. Poco più sotto il giardino così curato faceva apparire la villa come dise-gnata tra quelle colline delle Langhe. Più distante, tra i filari delle vigne del nebbiolo, l’uva era scura, arrossata dal sole di tutta l’estate. Tancredi correva con il fratello Gianfilippo, urlavano e ridevano. Bruno, il giardiniere, finì di tagliare la siepe con delle grandi cesoie, sorrise vedendoli sfrecciare a pochi passi da lui e rientrò in ca-sa. Tutto intorno si sentiva l’odore di quel rosmarino appena potato.

Davanti al portico, al centro del grande tavolo in pietra tra i due salici piangenti, Maria, la cameriera, posò il pa-ne appena sfornato. Quel profumo per un attimo invase l’aria e Tancredi fermò la sua corsa, ne staccò un pezzo e se lo portò alla bocca.

«Tancredi, ti ho detto mille volte di non mangiare prima della cena! Se no poi non hai più appetito!»

Ma lui sorrise e fuggì di nuovo attraverso il giardino.

Il giovane golden retriever, che stava accucciato all’ombra sotto una sedia di ferro con sopra un cuscino, si alzò e lo seguì divertito in quella corsa. Si buttarono tra le spighe e un attimo dopo anche il fratello Gianfilippo si gettò al loro inseguimento.

La madre fece appena in tempo a uscire dalla casa.


«Dove andate? Tra poco si mangia!»

Poi scosse la testa e fece un sospiro. «I tuoi fratelli…»

Si rivolse a Claudine, che si era appena seduta a tavola.

La mamma rientrò in cucina. Su un tavolo di legno antico era stesa una sfoglia di pasta fresca appena fatta, poco più in là, su un bancone di marmo pieno di cassetti, c’era ancora della farina. Sul muro erano appese diverse padelle in rame. Alcune pentole stavano cuo-cendo a fuoco lento sui fornelli in ghisa.

La madre parlò con la cuoca e le diede alcune indicazioni sulla cena. Poi con le due cameriere e si raccomandò. Avrebbero avuto degli ospiti quella sera.

Fuori Claudine era seduta composta a tavola, guardava i suoi fratelli giocare. Erano ormai lontani. I latrati del cane arrivavano fin lì. Quanto avrebbe voluto essere anche lei con loro, a correre, a sporcarsi, ma mamma le aveva detto di non muoversi.

“Io non posso alzarmi dalla tavola.”

Poi quella voce.

«Claudine?» Lei chiuse gli occhi.

Era immobile sulla soglia, lo sguardo leggermente severo. Osservò curioso le piccole spalle di quella bambina. Il suo collo morbido usciva dall’ultimo ricamo del vestito perdendosi tra gli sbuffi di quei capelli castani appena arricciati.

Non aveva forse sentito? Allora, con lo stesso tono, nello stesso modo, la chiamò di nuovo. «Claudine?»

Questa volta lei si girò e lo fissò. Rimasero un attimo in silenzio. Poi lui le sorrise e allungò la mano verso di lei. «Vieni.»

La bambina si alzò dal tavolo, fece qualche passo e lo raggiunse. La sua piccola mano sparì in quella dell’uomo.

«Andiamo, tesoro.»

Poi, sulla soglia della grande casa, Claudine si fermò.

Girò lentamente la testa. Lontano i suoi due fratelli e il cane continuavano a correre in mezzo all’erba. Sudati, si stavano divertendo. All’improvviso Tancredi smise di correre. Era come se avesse sentito qualcosa, una voce, un grido, forse il suo nome. Si voltò verso la casa. Troppo tardi. Non c’era più nessuno.


«Guarda quanto è bella quella ragazza.»

«Quella donna.»

Tancredi sorrise a Davide, mentre sul campo da tennis Roberta stava forzando una palla.

Fabrizio, il marito, dall’altra parte del campo, rispose con un dritto e centrò la linea. Roberta partì a tutta velocità, fece quegli ultimi metri correndo come una pazza. Alla fine, quando non era quasi più possibile, arrivò in scivolata, colpì la palla dal basso verso l’alto incrociando con uno splendido rovescio che chiuse la partita.

«Punto!» Batté le mani il piccolo Mattia. «Mamma è bravissima.»

«Anche papà è bravo» gli rispose subito Giorgia.

«No, è più brava mamma.» E cominciarono a spin-gersi.

«Buoni, buoni.» Fabrizio li divise subito. Prese Giorgia rubandola da terra, la sollevò verso l’alto. «Mi difen-di, piccola principessa, ma la mamma è molto forte… e questa volta ha vinto lei.»

Roberta si avvicinò tutta sudata. Le sue gambe lunghe e muscolose erano già abbronzate da quel primo sole di maggio. Scompigliò i capelli di Mattia. «Hai detto bene, amore, mamma è più forte!» Guardò suo marito divertita e si attaccò alla bottiglia di Gatorade.

Un lungo sorso a occhi chiusi. Poi smise di bere. Li riaprì. Fabrizio le si avvicinò e le diede un bacio sulle labbra. Erano un misto di dolce e salato. Giorgia tirò la maglietta del padre.

«Papà, ma non possiamo fare la rivincita?»

«Sì, principessa… Ma la prossima volta. Oggi papà ha un sacco di cose da fare.»

E piano piano la famiglia De Luca uscì dal campo: il padre, la madre, due figli, un bimbo di circa otto anni e una bimba di poco più piccola. Se ne andarono quasi abbracciati. Ma non passarono tutti insieme dalla porta. Prima i bambini, poi Fabrizio e per ultima Roberta che si girò.

Il suo sguardo incrociò quello di Tancredi e dischiuse per un istante la bocca, forse un sospiro. Sembrava assorta, come infastidita o in attesa di qualcosa. Ma fu solo un attimo. Poi raggiunse la bambina.

«Su su, dai che mamma deve fare la doccia.»

E così la famiglia perfetta sparì dietro l’angolo della palazzina.

Tancredi rimase a fissarla, curioso di vedere se si sarebbe voltata ancora una volta. Davide piombò tra i suoi pensieri. «Come ti ha guardato, eh?»

«Come una donna.»

«Sì, ma come una che ti desidera molto. Cosa gli fai tu alle donne?»

Tancredi si girò verso di lui, poi sorrise. «Nulla. O

forse tutto. Forse è proprio questo che piace, vogliono uno che sia imprevedibile. Guarda…»

Tirò fuori il telefonino. «Ho avuto il suo numero e le ho mandato un messaggio. Ho fatto finta di aver sbagliato e le ho mandato questa frase: “Ti guarderei per milioni di volte senza mai impararti a memoria”.»

«E poi che hai fatto?»

«Niente. Ho aspettato tutto il pomeriggio. Ho pensato che alla fine mi avrebbe risposto proprio per come è fatta lei.»

«Perché, come è fatta?»

«Educata e lineare. Sono sicuro che, quando ha letto il messaggio, da una parte aveva voglia di rispondere per educazione, dall’altra aveva paura di fare qualcosa che non andrebbe fatto.»

«E alla fine?»

«Mi ha risposto. Guarda: “Credo che lei abbia sbagliato numero”. E io subito le ho scritto: “E se la fortuna mi avesse fatto sbagliare? Se il caso l’avesse voluto?”.

Allora mi è sembrato di sentirla ridere.»

«Perché?»

«Perché era il momento giusto. Per ogni donna, anche la più realizzata, con dei figli, una bella famiglia, soddisfatta del lavoro, arriverà sempre il momento in cui si sentirà sola. E in quel momento si ricorderà di quella risata. E soprattutto che gliel’hai fatta fare tu.»

Davide prese in mano il telefono di Tancredi. Avevano continuato a scriversi. Lesse i messaggi tra lui e lei, il tempo che scorreva sotto i suoi occhi, settimana dopo settimana.

«Per lei diventi un’abitudine, qualcosa che piano piano comincia a far parte della sua vita. Ogni giorno una frase, un pensiero carino, senza nessuna allusione…»

Tancredi sorrise poi diventò serio.

«Poi improvvisamente ti fermi. Per due giorni niente. Neanche un messaggio. E lei si accorge che le manchi, sei diventato ormai un appuntamento fisso, un momento atteso, la ragione di un sorriso. Allora le scrivi e ti scusi, ti giustifichi dicendo che hai avuto un problema e le fai una domanda semplicissima. “Ti sono mancato?” Qualunque cosa risponda ormai il vostro rapporto è cambiato.»

«E se non ti risponde?»

«Anche quella è una risposta. Vuol dire che ha paura. Se ha paura è perché può cedere. Allora puoi esporti tu e dirle: “Tu mi sei mancata”. E spingerti avanti.»

E gli mostrò un altro messaggio e un altro e un altro ancora. Fino all’ultimo. “Voglio conoscerti.”


«Ma questo è di dieci giorni fa. E poi cosa è successo?»

«Ci siamo conosciuti.»

Davide lo guardò. «E?…»

«E naturalmente non ti racconterò nulla di quanto ci siamo conosciuti o dove o quando. Ma questo era per farti capire come a volte ciò che sembra non è. Hai visto quella famiglia? Sembrano felici, hanno due figli splendidi, non gli manca nulla. Eppure la vita è così, da un momento all’altro… puff. Tutto può svanire.»

Tancredi gli mostrò sul telefonino alcune foto di quella donna. Roberta nuda con solo un cappello in testa si accarezzava il seno, e poi altre più spinte dove rideva divertita.

«Quando una donna supera quel confine non si vergogna più di nulla, si lascia andare, ha voglia di libertà.»

Davide non rispose subito, ci pensò su. «Meno male che non hai mai desiderato la mia donna…»

E lo disse con tono duro, leggermente fermo, indeciso se scherzare o no.

«O meglio forse l’hai desiderata… ma per fortuna non sei il tipo di Sara.»

Tancredi si alzò. «Già.»

E si allontanò con un’unica certezza. Quanto ci si può sbagliare a volte su una persona.

«Vieni, pranziamo insieme.»

Si incamminarono nel grande parco del Circolo Antico Tiro a Volo. Di fronte a loro la veduta di Roma Nord, a destra la collina dei Parioli, lì sotto correva il lungo viadotto di corso Francia fino a perdersi lontano, verso la Flaminia, tra le montagne che facevano da sfondo.

Un prato all’inglese, una grande piscina, diversi tavoli coperti da ombrelloni dove un vento leggero muoveva il bordo dei teli e rinfrescava i soci che stavano già pranzando.

Tancredi e Davide presero posto. Poco più in là arrivò la famiglia perfetta. Si sedettero al tavolo. Giorgia e Mattia continuavano a farsi dei dispetti.

«E dai! Non mi rubare dal piatto!»

«Mica è solo tuo! E del buffet e quindi di tutti.»

Mattia prese dal piatto di Giorgia un’oliva e se la mi-se veloce in bocca.

«Non vale!» Giorgia gli diede una botta sulla spalla.

La mamma li rimproverò. «Avete finito di litigare?»

Ma il bambino rubò una piccola mozzarella, la masticò facendo scendere dalla bocca del latte fresco.

«Mattia, non mangiare così!» Gli passò un tovagliolo sulle labbra con forza, fermando quel rivolo di latte prima che gli finisse sulla maglietta. Poi il suo sguardo da mamma si trasformò. Si perse lontano, tra i tavoli, fino a incrociare quello di Tancredi. Lui le sorrise divertito.

Roberta arrossì ricordando chissà quale momento. Poi tornò mamma.

«Se non la smettete di litigare non vi ci porto più qui al circolo.»

Un cameriere si avvicinò al tavolo di Tancredi e Davide. «Buongiorno signori, volete ordinare?»

«Cosa prendi tu?»

«Mah, forse un primo…»

Tancredi glielo suggerì sicuro. «Qui fanno molto buoni i paccheri pomodoro e mozzarella.»

«Ok, vada per quello allora.»

«Per me invece un’insalata fredda di seppie. Ci può portare anche un bianco bello freddo? Uno Chablis, Grand Cru Les Clos del, per favore.»

Il cameriere si allontanò.

«Magari dopo prendiamo un calamaro arrosto o una bella spigola all’acqua pazza. Qui il pesce è freschis-simo.»

E rimasero così, nell’attesa. Tancredi si girò verso il fondo del parco. Gregorio Savini era lì, sulla porta d’entrata del circolo, sembrava non guardare dalla sua parte. Aveva i capelli corti, un completo leggero, e i suoi occhi neri impenetrabili seguivano la gente in maniera quasi distratta, cogliendo tutto e niente, concentrati su ogni eventuale movimento.

«Non ti molla mai, eh?»

Tancredi versò un po’ d’acqua a Davide.

«Mai.»

«Sa tutto della tua famiglia. E da molto con voi.»

«Sì. Ero piccolo quando è arrivato ma è come se ci fosse da sempre.»

Si avvicinò il cameriere, versò del vino e si allontanò.

«È bello avere una persona così. Non c’è nulla che lui non sappia. E difficile non avere segreti per una persona, no?»

Tancredi bevve un sorso d’acqua. Poi posò il bicchiere e guardò lontano.

«Già. È impossibile.»

Davide sorrideva divertito. «Sa anche di questa donna? Di Roberta?»

«E lui che mi ha dato il suo numero e mi ha fornito ogni informazione su di lei.»

«Sul serio?»

«Certo. E lui che m’informa sempre di ogni cosa. I gioielli che una donna indossa, i fiori che preferisce, il circolo che frequenta… Non sarei riuscito altrimenti a fare tutto quello che ho fatto in così poco tempo.»

«E per entrare in questo circolo cos’hai dovuto fare?»

«Capirai, è stata la cosa più facile di questo mondo.

Ho scoperto che avevano alcune spese da affrontare e le ho sostenute tutte comprando più quote.»

Proprio in quel momento un cameriere apparve sulla porta. Si guardò in giro, poi riconobbe la persona che stava cercando.

Attraversò il prato camminando spedito e passò in mezzo ad alcuni tavoli. Tancredi lo vide. «Ecco. Non perderti questa scena.»


L’amico lo guardò curioso. Non capiva a cosa si riferisse. Il cameriere si fermò davanti al tavolo della famiglia De Luca.

«Mi scusi…»

Fabrizio alzò il viso dal piatto. Non aspettava nessuno.

Anche Roberta smise di mangiare.

«Questo è per la signora» e le offrì un bellissimo fio-re, un’orchidea selvaggia, screziata, chiusa in una scatola coperta di cellophane con un bigliettino attaccato.

«E questa invece è per lei, dottor De Luca.»

Fabrizio prese tra le mani una busta. La rigirò curioso, non c’era alcuna intestazione. Proprio in quel momento Roberta aprì il biglietto. “Sul serio mi ami?”

Allora veloce alzò lo sguardo e incrociò il suo. Tancredi finì di versare il vino bianco, la fissò, sollevando il calice come per brindare da lontano. Poi lo assaggiò. Temperatura perfetta.

«Sì, è un ottimo Chablis.»

Poco distante, all’altro tavolo, improvvisamente Fabrizio De Luca sbiancò. Aveva aperto la busta. Non riusciva a credere ai suoi occhi. Alcune fotografie che non lasciavano dubbi. Sua moglie Roberta presa da un altro uomo nelle pose più spinte e violente. E a testimoniare che appartenevano all’oggi, negli scatti si vedeva quel ciondolo che lui le aveva regalato per i loro dieci anni di matrimonio. Allora tutto era accaduto in quelle settimane, visto che il regalo gliel’aveva dato solo un mese prima.

Fabrizio De Luca mostrò le foto alla moglie e, prima che lei potesse riprendersi dal suo stupore, la colpì con un violento schiaffo in pieno viso. Roberta cadde dalla sedia. Giorgia e Mattia rimasero immobili, in silenzio.

Poi Giorgia cominciò a piangere. Mattia, più forte, era interdetto.

«Mamma… mamma…»

Non sapeva che fare. Insieme i due bambini la aiutarono a rialzarsi. Fabrizio De Luca prese alcune foto, sicuramente sarebbero state utili agli avvocati nella causa di separazione e poi se ne andò sotto gli sguardi attòniti dei soci del circolo.

Roberta cercò di consolare Giorgia.

«Su amore, non è niente…»

«Ma perché papà ha fatto così? Perché ti ha pic-chiata?»

In quel momento una foto cadde dal tavolo. Giorgia la raccolse. «Mamma… ma questa sei tu!»

Roberta gliela sfilò di mano e, con le lacrime che le rigavano il volto, se la mise nella tasca posteriore dei jeans. Poi prese in braccio Giorgia, per mano Mattia e cominciò a camminare traballante sotto gli occhi di tutti. La sua guancia segnata di rosso portava le cinque dita stampate sulla pelle. Arrivata davanti al tavolo di Tancredi si fermò.

Davide era imbarazzato. Roberta era in piedi di fronte a loro, in silenzio. Le lacrime continuavano a scenderle senza che riuscisse a trattenerle.

Mattia non riusciva a capire, la tirò per un braccio.

«Mamma, ma perché piangi? Perché hai litigato con papà? Si può sapere che succede?»

«Non lo so, amore.»

Poi guardò Tancredi. «Dimmelo tu.»

Tancredi rimase in silenzio. Prese il vino e ne bevve un sorso. Poi si asciugò le labbra con il tovagliolo e lentamente lo poggiò di nuovo sulle gambe.

«Forse ti stavi stancando della felicità. Quando la ri-troverai, saprai apprezzarla.»


«Amore, ci sei?» Nello stesso istante in cui disse quelle parole, a Sofìa si strinse il cuore. Come sarebbe potuto essere altrimenti? Dove sarebbe potuto andare? E

soprattutto come? E in quel preciso momento le sembrò di sentire l’eco di una frenata e poi uno schianto, i vetri infranti, la lamiera che si accartocciava, quella sequenza quasi al ralenti nella sua mente.

Poggiò la busta della spesa sul tavolo. Si toccò la fronte, era sudata. Poi portò le mani sui fianchi e si guardò intorno. Quella misera cucina, quei bicchieri un po’ segnati dall’uso, quel vetro consumato. Si ritrovò in uno specchio e quasi non si riconobbe. Il suo volto stanco, i capelli scomposti, ma soprattutto il suo sguardo privo di luce. Ecco cosa le mancava: la luce. La sua bellezza, quella che da sempre le avevano tanto decantato come se fosse il suo unico pregio, a volte quasi dandole fastidio, in realtà era sempre lì. Era solo stanca. Sofia si sistemò i capelli. Poi si tolse la giacca e la poggiò su una sedia. Cominciò a mettere a posto la spesa. Mise il latte nel frigo. Fin da ragazza aveva lottato con quella bellezza, avrebbe sempre voluto essere considerata solo per la sua grande passione, il suo incredibile talento, quel dono ricevuto fin da piccola, il suo amore per la musica.

Il pianoforte era la sua unica ragione di vita. Le note riempivano i suoi pensieri. All’età di sei anni, durante le prime lezioni, aveva scelto alcuni pezzi classici. Aveva chiesto di portare a casa gli spartiti e li aveva arrangia-ti e interpretati in maniera diversa, facendoli diventare la colonna sonora della sua vita. Andava sull’altalena, correva, si tuffava in mare, guardava il sole al tramonto, tutto con quelle note in testa. Ogni momento della sua vita era accompagnato da un brano musicale capace di commentarlo al meglio.

Sofia era fatta così. Aveva scelto Après une lecture de Dante di Franz Liszt, lo avrebbe usato come suo inno all’amore.

Aveva deciso che lo avrebbe suonato solo per il suo uomo, quello che l’avrebbe fatta sentire felice e innamorata. Ma non era mai successo. Fino a quando non aveva conosciuto Andrea. Architetto e giocatore di rugby.

Fisico e mente. Proprio come lei. Passione e razionalità.

Si erano conosciuti a una festa e avevano cominciato a frequentarsi. Per la prima volta si era lasciata andare ed era arrivato quel momento. Si era innamorata. Avrebbe potuto suonare il suo inno all’amore. Nei giorni precedenti lo aveva provato più volte perché fosse perfetto, come lei lo voleva, come lei lo sentiva, come lei avrebbe voluto suonarlo per lui, solo per lui, per il suo Andrea.

E quella sera era pronta, se solo non fosse accaduto…

Era appena rientrata a casa quando si accorse che il telefono stava squillando. Sofia chiuse la porta, posò la borsa e corse a rispondere.

«Pronto?»

«Finalmente! Ma dov’eri?»

«A lezione. Sono rientrata adesso.»

«Ok amore. Allora ti ho preso la pizza con pomodori pachino e mozzarella…»

«Ma ti avevo detto solo pomodori pachino, pomodori e basta!»

«Amore, ma perché sei così aggressiva?»

«Perché non mi ascolti mai.»


«Ma la mozzarella quando arriverò a casa sarà fredda e la tirerai via facilmente. Così rimarranno i pomodori pachino e basta, proprio come vuoi tu.»

«Il problema non è la pizza, è che non mi ascolti! Lo vuoi capire o no?»

«Ho capito… sto tornando.»

«Non ti apro!»

«Neanche se torno indietro e ti porto la pizza pachino e mozzarella?»

«Ti ho detto solo pachino!»

«Ma sì… Stavo scherzando!»

«Sì, sì, intanto non mi ascolti e mi tratti sempre come una deficiente!»

«Senti, certo che quando vuoi litigare e ti ci metti, non c’è proprio verso, eh…»

«Mi tratti come mia madre! Me ne sono andata da casa apposta per questo appena ho fatto diciott’anni…

E ora mi ritrovo con uno che non mi ascolta e mi prende in giro.»

E gli chiuse il telefono in faccia. Andrea si rimise il cellulare nella giacca, scosse la testa, riaccese la moto, e accelerò pieno di rabbia, infastidito da questa voglia comunque di discutere a ogni costo. Prima, seconda. “Ma possibile che con lei si debba sempre litigare? E che cazzo! Va be’, non mi sono ricordato che non voleva la mozzarella e allora? C’è bisogno di farla tanto lunga?”

Terza, quarta, sempre più veloce, sempre più rabbioso, giù per la discesa, diretto di nuovo verso quella pizzeria. Ottanta. Cento. Centoventi. Centoquaranta. Per la grande velocità la visuale della strada si strinse, e la col-lera quasi lo accecò, insieme a quelle lacrime causate dal vento, tanto da non vedere in fondo alla discesa quella macchina ferma in un angolo.

Una mano azionò la freccia, lampeggiò una volta, due, poi, senza più aspettare, l’auto sbucò dal buio e saltò in avanti. Si immise nella strada proprio mentre stava arrivando Andrea a tutta velocità. Fu un attimo.

A bordo di quella macchina c’era una signora anziana.

Appena vide quelle luci che arrivavano si spaventò. Si bloccò così, stupita, al centro della strada, senza più andare avanti né indietro, incapace di qualsiasi iniziativa.

“Ma…” Andrea non fece in tempo a scalare, a frenare, restò a bocca aperta, con gli occhi sbarrati. Era come se quell’auto, ferma in mezzo alla strada, si avvicinasse a velocità inaudita.

Non riuscì neanche a gridare, nulla, strinse forte il manubrio e chiuse gli occhi. Non c’era più tempo per fare niente, nemmeno per pregare, solo quell’ultimo pensiero: “Una pizza pomodori pachino, senza mozzarella”. Non avrebbe potuto dimenticarlo. Non più.

Buio.


«Mi preoccupa presentartelo.»

«Perché?»

«Perché potrebbe piacerti più di me…»

«Impossibile.» Benedetta rise portandosi la mano davanti alla bocca. Poi bevve un po’ del Bitter che aveva ordinato e alzò le spalle.

Gianfilippo la guardò incuriosito. «Perché impossibile? È più giovane di me… E più bello di me e, soprattutto, è molto ma molto più ricco di me…»

Benedetta diventò improvvisamente seria. «Allora mi piacerà un casino.»

Gianfilippo sollevò un sopracciglio. «Ah.»

«Sì… soprattutto perché tu sei stronzo.» Ora era de-cisamente irritata. «Ma credi davvero che mi possa interessare perché è più ricco di te?»

«Ho detto molto ma molto più ricco.»

«Allora tu sei proprio molto ma molto più stronzo!»

Gianfilippo bevve un sorso del suo Campari. Poi sorrise e cercò di recuperare. «Ma amore, con te non si può mai scherzare…»

«Non stai scherzando.» Benedetta alzò le spalle decisa e si girò di tre quarti. Guardò lontano nel salone. I quadri, le statue e infine gli ospiti del Circolo della Caccia, uno dei più esclusivi.

Tutti camminavano tranquilli, sicuri. Alcuni si saluta-vano sorridendo, si conoscevano da sempre, una cerchia ristretta, i più potenti e i più facoltosi di tutta Roma.


Gianfilippo provò a prenderle la mano. «E dai, non lare così.»

Benedetta la ritrasse veloce. «È stato uno scherzo di cattivo gusto, non capisco perché ti diverta scherzare sul fatto che sia più ricco di te…»

Gianfilippo allargò le braccia. «Ma io non sto scherzando! Lo è… e moltissimo.»

Benedetta si girò e scosse la testa. Non c’era niente da fare. Non avrebbe capito mai. Ma in fondo era inutile discutere. E poi sicuramente era una sua esagerazione.

Come faceva a essere molto ma molto più ricco di lui?

Gianfilippo era la persona più facoltosa che avesse mai conosciuto. E nello stesso momento in cui si rese conto di aver avuto questo pensiero, si ritrovò a sorridergli un po’ imbarazzata, così cercò subito di distrarlo.

«Dai, non litighiamo. Raccontami qualcosa di più di tuo fratello prima che arrivi, sono curiosa.»

Gianfilippo fece un sospiro.

«È sempre stato uno spericolato. Ha da sempre col-lezionato incidenti con la moto, ha fatto surf e girato mezzo mondo a seconda di dove si svolgevano le gare, Hawaii, Canarie… Poi è stata la volta della canoa, del paracadute, del parapendio. Insomma non si è fatto mancare nulla. Credo che abbia provato apposta tutti gli sport più estremi per rischiare la vita…»

E in quel momento sentì la sua voce. «Quindi tutto sommato non devo essere in gamba!» Benedetta si girò di scatto. Un uomo era di fronte a lei.

«Stando ai suoi racconti sono uno che ha cercato di ammazzarsi e non c’è mai riuscito.»

Era alto, slanciato, snello, aveva una camicia bianca perfettamente stirata, le maniche arrotolate tanto da scoprire l’avambraccio muscoloso, la carnagione leggermente scura, gli occhi di un blu intenso, segnati, vis-suti. “Lo fanno sembrare più grande” pensò Benedetta, “ecco no, forse più sicuro, più uomo, più… Più tutto.”


Gli sorrise. “Non so se come dice Gianfilippo è molto ma molto più ricco di lui, una cosa è sicura, è molto ma molto più bello.”

Si sedette davanti a lei con grande eleganza, quindi le diede la mano presentandosi.

«Tancredi.»

«Benedetta.»

Poi accavallò le gambe e poggiò le braccia sulla poltrona. «Allora, cosa fa una donna tanto bella con uno così… così… non mi viene.»

«Forse fico?» gli sorrise Gianfilippo.

Tancredi storse la bocca. «Veramente non era la parola che cercavo.»

«Se per non essere noioso bisogna fare la vita che fai tu, allora sono felice di esserlo.»

«Perché?» Tancredi lo guardò fintamente stupito.

«C’è qualcosa che non va in quello che faccio?»

In realtà il fratello ignorava la maggior parte di quello che faceva e quel poco di cui era a conoscenza non lo condivideva. Gianfilippo cercò di trovare un po’ di sicurezza. «Be’, già il fatto che tu sia ancora vivo mi sembra un discreto successo, anzi parlerei di miracolo…»

In quel momento Benedetta prese un’oliva, la infilzò con uno stuzzicadenti e la fece girare dentro il bicchiere, nel Bitter rimasto. Poi la mangiò così, un po’ dolce e un po’ salata.

I due fratelli si guardarono, Gianfilippo alla fine sorrise, Tancredi abbassò lo sguardo. Benedetta rimase con l’oliva in bocca stupita di quello strano silenzio.

Gianfilippo la guardò e scosse leggermente la testa, co-me per dire: “Non è niente, poi ti spiego”. Proprio nello stesso istante lei si sentì chiamare.

«Benedetta, che ci fai qui!»

Una ragazza distinta si fermò all’entrata del salotto, poco distante da dov’erano seduti loro. Aveva un tailleur blu con una piccola pochette di Gucci e i capelli raccolti, biondi. Benedetta si alzò sorridendo. «Gabriella! Scusate…» Lasciò i due fratelli e corse a raggiunger-la. Si abbracciarono e iniziarono a chiacchierare.

Gianfilippo guardò Tancredi, gli sorrise. Tancredi alzò il braccio cercando di segnalare la sua presenza al cameriere.

«Scusi?»

Gianfilippo insistette. «Hai visto che strano?»

Tancredi sospirò. «Già.»

Finalmente arrivò un cameriere.

«Per favore, mi può portare una birra?»

«Certo, signore.»

Il cameriere pensò che fosse finita lì e fece per allontanarsi ma Tancredi insistette. «Che birra avete?»

«Tutte, signore.»

«Allora vorrei una Du Demon.»

Il cameriere fece ancora per allontanarsi ma arrivò quell’ultima raccomandazione. «Che sia gelata.»

Tancredi avrebbe voluto far finta di niente ma sapeva che non poteva più evitarlo. Infatti incontrò lo sguardo del fratello. «Incredibile, vero?»

«Sì. È stato strano.»

«Strano? E stata la cosa più assurda che potesse ca-pitare! Ha fatto esattamente come lei…»

E fu come se tornassero insieme a quel ricordo.

Claudine stava facendo girare un’oliva all’interno di un bicchiere, la teneva attaccata a uno stecchino, poi sorrise, la tirò fuori e, proprio quando stava per cadere quella goccia rossa, ci mise sotto la lingua. Poi fece scivolare in bocca l’oliva e ci giocò, come fosse una piccola acrobata, fino a farla sparire. E la mandò giù. «Mmm, buona.» Girò l’indice sulla guancia prendendo in giro il fratellino più piccolo, Tancredi.

«E dai, te le sei mangiate tutte! Quella era mia.»


«Ma sei lento, troppo lento.» E fuggì via così, verso la piscina nel parco. Iniziò a correre come una gazzella tra i cespugli di rose, le siepi verdi e gli alberi.

In un attimo Tancredi fu dietro alla sorella. Lei rideva e ogni tanto si girava. «Non ce la fai, non mi superi…» Accelerò e sfilandosi il vestito leggero lo gettò sul prato, poco prima di arrivare in piscina. Si fermò sul bordo. «Hai visto? Ho fatto prima io.» E si buttò con un tuffo perfetto. Nuotò sott’acqua e riaffiorò poco più in là, al centro della piscina, si portò tutti i capelli indietro, lunghi, scuri scoprendo il viso già leggermente abbronzato, poi socchiuse gli occhi e sorrise, mentre Tancredi si stava ancora sfilando le scarpe.

«Allora? Capirai… lento… troppo lento.»

Rise anche Gianfilippo che stava in acqua seduto su una poltrona gonfiabile trasparente. Teneva ancorata a sé con le gambe la sua ragazza Guendalina. Lei stava a pancia sotto su un materassino arancione e con una mano era attaccata alla gamba di Gianfilippo che penzolava dalla poltrona. E rise anche lei, già perfettamente abbronzata. Il suo costume celeste chiaro metteva in risalto ogni sua più piccola curva. Alla fine Tancredi, rimasto in costume, fece una corsa e saltò. Raccolse in volo le gambe e fece un tuffo a bomba, piombando in acqua e bagnando tutti.

«E dai!» Cominciarono a schizzarsi. Gianfilippo cadde dalla poltrona, si aggrappò al materassino di Guendalina, trascinando anche lei. Finirono sott’acqua e uscirono ridendo, ma Guendalina fu velocissima, iniziò a schizzare così forte Gianfilippo che a lui non rimase altra scelta che spingerla sotto. La tenne per un bel po’

così che quando la lasciò andare Guendalina saltò fuori facendo un lunghissimo respiro.

«Ma sei cretino? Stavo annegando!»

«Macché!»

«Stupido… Sei stupido.»


E lottarono ancora un po’. Alla fine lui la bloccò e cercò di baciarla. Ma lei lo morse.

«Ahia!»

«Ti sta bene.»

Gianfilippo si toccò il labbro per vedere se gli usciva del sangue ma non si era fatto niente. Allora ripresero la lotta e si baciarono di nuovo. Questa volta però Guendalina non lo morse. Era un bacio appassionato, profondo. Tancredi se ne accorse, si girò sorpreso verso Claudine, scosse la testa e agitò la mano come per dire: “Hai visto che roba? Si sono baciati…”.

Ma a Claudine tutto questo non interessava. Anzi, sembrò infastidirla. Così fece due, tre bracciate veloci, si aggrappò al bordo della piscina e saltò fuori. Tutta bagnata se ne andò verso casa. Magra, esile, correva veloce sul prato, senza spiegare nulla di quella reazione improvvisa.

Tancredi, rimasto solo in acqua, nuotò per un po’.

Poi si sentì di troppo. Gianfilippo e Guendalina continuavano a baciarsi abbracciati contro il bordo della piscina. Non sapeva più che fare, così anche lui uscì e si diresse verso casa. Entrò nel salone, salì per la grande scala che portava alle camere da letto.

«Claudine? Claudine?» Bussò alla porta della sua camera, ma non ricevette risposta. Allora piano piano la aprì. La porta scricchiolò. Claudine era seduta sulla sua grande poltrona, le gambe raccolte a sé, i capelli ancora bagnati. Alle sue spalle una finestra aperta. Le tapparelle abbassate a metà facevano entrare una luce soffusa e le tende leggere, mosse dal vento, la illuminavano a tratti.

Tancredi rimase in piedi davanti a lei.

«Perché non mi rispondevi?»

«Perché non mi va!»

Claudine stava mangiando un ghiacciolo all’amare-na. Gli fece una boccaccia. Aveva la lingua tutta rossa, di un rosso forte, violento, e continuava a leccare avidamente il ghiacciolo mentre rideva.

«Allora cosa vuoi, piccolo fratello?»

Tancredi era scocciato. Non gli piaceva quel soprannome.

«Anch’io voglio un ghiacciolo.»

«Non c’è.»

«Non è vero.»

«Sì che è vero. Guarda…» Claudine si alzò e aprì un piccolo frigorifero lì vicino. «Vedi, è vuoto. Era l’ultimo.»

Tancredi ci rimase male. «Chi te l’ha comprato?»

«Secondo te?»

«Non lo so, se no non te lo chiederei.»

Claudine si rituffò sulla poltrona, incrociò le gambe e continuò a leccare il suo ultimo ghiacciolo. «Me l’ha preso papà… E sai perché? Perché io sono la sua preferita… Ma non dire niente a mamma…»

Tancredi si sedette sul letto. «E perché?»

«Perché sì. Un giorno forse ti racconterò una cosa.»

Tancredi insistette. «Ma perché non devo dire niente a mamma?»

Claudine mangiò un grosso pezzo del ghiacciolo, lo staccò con i denti, poi lo riprese con le dita e giocò con le labbra, succhiandolo, mentre tutta la bocca si colorava di rosso. Poi sorrise e furba alzò il sopracciglio, unica proprietaria di quell’incredibile verità che aveva deciso di regalare al suo piccolo fratello. «Perché lui voleva solo me e non voi due…»

«Cerco di non pensarci ma molto spesso entra nei miei pensieri, a te non capita?»

Tancredi fece un lungo sospiro. Ogni volta che si vedevano, Gianfilippo un passaggio su Claudine lo doveva fare per forza.


«Sì. Mi capita ogni tanto.»

Gianfilippo guardò Benedetta che stava ancora chiac-chierando con la sua amica.

«Che te ne sembra?»

«Non la conosco abbastanza.»

Gianfilippo piegò la testa di lato come se veramente gli servisse a osservarla meglio.

«A me fa molto sesso.»

«Tutte ti fanno molto sesso.»

«Non è vero. Silvia era perfetta ma alla fine mi aveva stancato.»

Finalmente arrivò la birra che Tancredi aspettava, il cameriere la lasciò sul tavolo e se ne andò, senza aspettare quel “grazie” che naturalmente non sarebbe arrivato.

Tancredi ne prese un sorso. «Quello credo che accada prima o poi con ogni donna. Magari è quello che provano anche loro nei nostri confronti…»

«Hai un’ottima opinione della vita di coppia. Non pensi di sposarti prima o poi? Io sì. Benedetta potrebbe finalmente essere la donna giusta. In fondo sto per compiere quarantadue anni, lei ne ha trentatré, siamo perfetti per essere una coppia felice, una certa differenza d’età, nove anni tra noi, molte passioni in comune, stessi gusti, stessa visione della vita, sappiamo darci spazio e libertà.»

«Perché no? Magari potrebbe anche andare. Tu credi che bastino degli ingredienti azzeccati per fare una coppia riuscita?»

«Credo di sì. E soprattutto per fare una coppia felice.»

«Conoscevo una coppia felice, anzi una famiglia perfetta. La vedevo ogni giorno al circolo. Bella coppia, ricchi, tutti e due ottimi tennisti, due figli splendidi… e poi improvvisamente puff.»

«Cosa è successo?»

«Lei lo ha tradito.»


«Ma magari è una cazzata che ti hanno raccontato…»

«No, ne sono abbastanza sicuro. L’ha tradito con me.»

Tancredi bevve un altro po’ di birra.

Gianfilippo rimase in silenzio. Tancredi continuò.

«Mi ha dato gusto vedere la perfezione di quella famiglia, la loro felicità… E poi distruggerla. Io odio la felicità. La trovo ipocrita. Quelli che sorridono sempre, che sembra che vada sempre tutto bene. Guarda, guarda la gente…»

Gianfilippo seguì gli occhi di Tancredi che vagavano per il salone del Circolo della Caccia. Uomini e donne eleganti, ricchi, si scambiavano sorrisi, parole, si salu-tavano dandosi la mano, baciandosi sulle guance, e poi risate, e qualche battuta ma sempre detta in modo pa-cato, cortese, educato, mai una parola di troppo o con un tono più alto.

«Ecco, questo è il mondo patinato… Sembrano tutti buoni, onesti, sereni, sinceri. E chissà invece quanti di loro hanno tradito, rubato, fatto del male, fatto soffrire… E fingono felicità. Come quella donna della famiglia perfetta. Era così felice, aveva molto, eppure in un attimo ci ha rinunciato, ha perso tutto, così…» Schioccò le dita. «Per un semplice desiderio…»

«Come l’ha saputo il marito?»

«Gli ho mandato delle foto.» Gianfilippo lo guardò preoccupato, Tancredi gli sorrise. «Dove io sono di spalle e si capisce lei quanto gode.»

Proprio in quel momento tornò al tavolo Benedetta con la sua amica. «Scusate se vi disturbo… posso presentarvi la mia amica Gabriella? Era da una vita che non ci vedevamo.»

Tancredi e Gianfilippo si alzarono quasi insieme.

«Piacere.»

Poi Benedetta abbracciò Gianfilippo per non lasciare alcun dubbio su quale fosse il suo uomo.

«Abbiamo pensato con Gabriella che stasera potremmo andare a mangiare da Assunta Madre, dicono che abbia il miglior pesce di Roma.» E intanto fissava Tancredi. «Perché non vieni con noi?»

Tancredi guardò intensamente Gabriella, tanto che lei alla fine, quasi vergognandosi, abbassò gli occhi. Allora lui sorrise. «No, mi dispiace» si scusò. «Avevo già un impegno e non posso proprio rimandare.»

«Peccato…» disse Benedetta.

«Accompagno mio fratello all’uscita.»

Gianfilippo si allontanò con lui. «Tu non hai un impegno, vero?»

«Sei perspicace.»

«Cosa hai visto che non ti è piaciuto di lei? Mi sembra una bellissima ragazza.»

«Il mondo è pieno di bellissime ragazze. Questa non è sposata, non è fidanzata, forse si è lasciata da poco e vorrebbe semplicemente innamorarsi… E magari io potrei andarle bene.»

«E allora? Cosa c’è che non va? Magari è pure divertente. Chissà quante doti può avere quella donna, come fa l’amore, come cucina, è tutta da scoprire…»

«Sì, ma mi è sembrata banale. Al massimo saprà far bene quello per cui sembrano essere nate tutte le donne.»

«Cioè?»

«Piangere.»

Gianfilippo a quel punto lo lasciò andar via. Rimase per un po’ a fissarlo mentre si allontanava per il corridoio. Poi tornò dalle due donne e si sedette in mezzo a loro. Fece una carezza sulla mano di Benedetta.

«Strano tipo tuo fratello… Però mi piace. Peccato che avesse un impegno…»

«Già.»

«Anzi, ci piace molto… Stavo appunto dicendo a Gabriella che sarebbe bellissimo se ci fosse occasione… Sì insomma, potremmo invitarli da noi in campagna…»


Gianfilippo capì subito a cosa alludeva. «Sì, sarebbe bellissimo. Mio fratello ha solo un piccolo problema…»

Benedetta e Gabriella lo guardarono incuriosite, poi improvvisamente preoccupate.

«Quale?»

«Non vuole essere felice.»


Andrea aveva le cuffie, ascoltava a occhi chiusi quella musica. Poi li aprì e guardò Sofia in quel video. Le sue mani volavano sulla tastiera, teneva il capo chino, coperto dai capelli che le cadevano davanti, ballavano con lei mentre si muoveva sul pianoforte, rapita dalle sue stesse note.

I suoi capelli castani erano più chiari del solito, quasi sbiaditi. Era settembre, il suo ultimo concerto.

Andrea la guardò, la telecamera strinse sul suo viso, ora era di profilo. Sofia aveva gli occhi chiusi mentre suonava il finale del pezzo. Andrea andò a tempo con lei, muovendo la testa, ondeggiando anche lui su quel brano, su quelle ultime note, così sentite, così toccanti.

E senza volere, una lacrima gli scese sul viso. Continuò a muovere la testa e non sapeva se il dolore fosse provocato dal ricordo di quella ripresa fatta proprio da lui, su quel palco, all’interno del conservatorio, quando ancora si poteva muovere, o perché da allora tutto si era fermato. Sofia non aveva mai più suonato, quella sua incredibile e tanto decantata dote era stata messa da parte, abbandonata in una soffitta, dimenticata. Come un regalo che non è stato aperto, un bacio mai dato.

Mentre nel video Andrea ascoltava quell’applauso scrosciante, improvvisamente si sentì osservato e abbassò lo schermo del computer. Davanti a lui comparve la Sofia di otto anni dopo.

«Ehi… con chi stai chattando? Sono gelosa.»


Andrea si tolse le cuffie.

«Ciao amore, non ti ho sentita rientrare…» Le sorrise e provò a spostare il computer sul comodino vicino, ma lo fece con fatica, come se anche quel piccolo peso fosse un problema, una difficoltà insormontabile. Sofia gli fu subito a fianco e lo aiutò. «No, lasciamelo qui… Magari dopo lo voglio usare di nuovo.»

«Te lo rimetto vicino quando esco.»

«Ah…»

«Che vuol dire?»

«No, dico, esci di nuovo…»

«Amore, forse non ti ricordi ma come ogni giorno…

vado a insegnare.»

«Mi sembra assurdo che tu faccia questo. Potresti guadagnare mille volte di più esibendoti e dando uno di quei concerti per i quali venivano ad ascoltarti da mezzo mondo. E tu invece ti ostini a insegnare musica in una scuola.»

«A parte che lo faccio sia in una scuola che al conservatorio… e poi mi piace molto insegnare, ci sono tante giovani promesse.»

«Sì, come quel Daniele che ti ha scritto una lettera d’amore…»

«Ma ha sette anni!»

«E allora? Magari non ha fretta e persiste nel suo sogno.»

«Sì, con un unico piccolo dettaglio, che quando lui avrà diciotto anni io ne avrò quaranta!»

«Be’? Vanno così di moda oggi le coppie dove lui è molto più giovane…»

«Amore…» Sofia gli sorrise dandogli un bacio sulle labbra. «Sai che io amo essere fuori moda, no?» Poi si accorse di aver urtato le sacche delle urine e delle feci.

Sofia fece per prenderle quando Andrea le bloccò la mano.

«No, lascia stare…»


«Ma sono piene.»

Andrea rispose con rabbia. «Ho detto lascia stare!»

Sofia si ritrasse come spaventata da quell’urlo improvviso. Andrea se ne accorse e le parlò con più calma.

«Più tardi verrà Susanna. Preferisco che lo faccia lei.»

«Certo… Hai ragione.» Ma questo non le bastò.

«Scusami…» E subito andò in cucina, finì di aprire le borse della spesa una dopo l’altra e, cercando di distrarsi, iniziò a mettere a posto la roba nel frigorifero. Poi si fermò, poggiò le mani sul tavolo e chiuse gli occhi.

Fece un lungo sospiro e quando li riaprì si guardò intorno. Improvvisamente tutto le sembrava vecchio, era come se fosse fermo, immobile, lì da troppo tempo. La lampada nell’angolo in alto, a destra del frigorifero, i biscotti poggiati sul bancone, il tagliere, quel vecchio grande coltello. Era come se la sua vita si fosse fermata quel giorno.

Guardò l’orologio.

“Non posso crederci, ma quanto ci mette? Io ho una fame… Sono già le nove e mezza. Ma ci vuole così tanto per cambiare una pizza? Se lo avessi saputo non glielo avrei chiesto. Che pizza…” Sofia scoppiò a ridere, non si poteva litigare per una pizza. E poi era così ispirata in quei giorni. Senza dire nulla a nessuno e tanto meno ad Andrea, stava preparandogli una sorpresa. Una co-sa che li avrebbe legati per sempre: da settimane stava studiando in gran segreto il brano di Liszt, Après une lecture de Dante, per lei il pezzo più bello e proibitivo degli Anni di pellegrinaggio. Era un’opera che la com-muoveva profondamente, come si immaginava avesse commosso — anzi, lo sapeva per certo — lo stesso compositore quando l’aveva scritto. Liszt era innamoratis-simo della principessa Carolyne Iwanowska e, dopo centocinquant’anni, lei, Sofia, principessa di nulla, lo dedicava al suo innamorato, al suo principe — sì, non si vergognava di chiamarlo così.

Si sedette al pianoforte e guardò la tastiera. Quanto doveva ancora studiare? Forse due settimane e poi…

e poi al primo concerto con semplicità, dopo l’ultimo applauso del pubblico, avrebbe detto: “Come bis vorrei suonarvi un pezzo di Franz Liszt che dedico a una persona che mi è molto vicina”. Avrebbe guardato Andrea e lui, in prima fila, avrebbe ricambiato lo sguardo. Si sarebbe messa alla tastiera e avrebbe iniziato a suonare, immaginando come lui a ogni passaggio tumultuoso, struggente o virtuosistico sarebbe rimasto stupito sempre di più.

Quello sarebbe stato il loro pezzo, e mai, mai l’avrebbe suonato di nuovo. Iniziò a martellare la tastiera e si dimenticò del mondo che esisteva là fuori. E non si accorse che poco lontano da lei accadeva qualcos’altro.

Il suo cellulare si accendeva in continuazione, una dopo l’altra arrivavano le telefonate, le sue amiche del cuore, i suoi amici e poi ancora i suoi genitori e infine l’ospedale. Ma Sofia continuava a suonare rapita dall’emozione di quel pezzo. Ci aveva lavorato un anno e lo avrebbe suonato solo per lui, per l’uomo che amava, per colui che sarebbe stato per tutta la vita. E sorrise pensando alle solite sciocche discussioni, al suo carattere un po’

capriccioso, alla sua inquietudine di fondo. Poi sorrise forte di quell’unica certezza. “Lo suonerò per te, Andrea. ” E con quell’ultima convinzione si lasciò andare completamente. Muoveva veloce le mani sulla tastiera, sotto le sue dita le note saltavano come impazzite, pic-chiava sui tasti con rabbia, ma a tratti con dolcezza e con passione accompagnò quel pezzo fino alla conclusione. Sfinita, non fece in tempo a staccarsi dalla tastiera che sentì quel rumore. I colpi alla porta e poi di nuovo il campanello. Insistente, continuo, assillante. Come se qualcuno ci si fosse incollato, e di nuovo quei colpi al pesante legno della porta, come se al di là ci fosse più di una persona. “Avrò suonato così male?” Sorrise tra sé mentre andò di corsa alla porta. “E troppo tardi forse? Guardò l’orologio. Posso almeno fino alle dieci e mezza…”

Quando aprì, si meravigliò. Che ci facevano lì Giorgio e Stefania del piano di sotto? «Ma che succede?…

Cosa è accaduto?»

Stefania la guardò negli occhi, indecisa su cosa dire e come, poi scelse quell’unica parola. «Andrea…»

Sofia si portò la mano alla bocca, disperata, poi fece un respiro lungo che le si spezzò in gola. E fu come se in quell’attimo una cattedrale di inni, di cori, di note, di brani, tutta quella musica che fin da piccola aveva tanto amato, si sbriciolasse davanti ai suoi occhi.

Poco dopo fu all’ospedale, all’affannata ricerca del pronto soccorso. Sofia non credeva ai suoi occhi, le sembrava di vivere in un incubo, era come un girone infernale, uomini e donne feriti, bianchi in volto, dalle espressioni doloranti, si aggiravano per quello stanzo-ne. Qualcuno piangeva, qualcuno si disperava, altri stavano in un silenzio attonito, come se non volessero accettare in nessun modo quello che ormai era accaduto.

«Dov’è? Mi dica dov’è…» cominciò a urlare al primo che sembrava un dottore. Poi qualcuno glielo disse. Co-sì si ritrovò davanti alla sala operatoria. Era sola. Aveva avvisato la madre di Andrea che però era in viaggio e lì sarebbe arrivata il prima possibile. Passarono i minuti, interminabili, poi le prime ore. Un silenzio inconcepi-bile. Si sentivano quasi scoccare i secondi. Come se ci fosse stato un unico orologio al centro della Terra che teneva il lento, inesorabile passare del tempo. Sofia era affranta. Era rimasta immobile con le mani che le copri-vano il viso, piegata in avanti su se stessa, appoggiata al-le ginocchia. Poi le parole inesorabili dell’unico dottore che sembrava credibile.


«Lo stiamo operando ma non posso nasconderle che non credo che ce la farà. E se ce la farà sarà durissima per lui. Forse non potrà mai più camminare.»

Sofia si sentì mancare, sarebbe caduta se non ci fosse stato quel dottore a sorreggerla.

«Non potrà più camminare…»

Quelle parole le erano rimbombate nella mente. E

allora che fare? Cosa sperare? Se mai avesse potuto decidere, cosa avrebbe scelto? Se un dottore le avesse chiesto: “Mi dica, Sofia, cosa sceglie per Andrea? La vita… o la morte?”.

“Ma una vita come, dottore? Una vita infelice? Una vita da handicappato, una vita da invalido? Lui che ha sempre amato la sua fisicità, la sua forza, lui, il ragazzo senza confini, che non conosceva paura, lui dei mille sport, delle mille avventure. Lui che sembrava non aver mai sonno, mai essere stanco. Lui e la sua voglia di amare, lui e la sua voglia di vita… Cosa mi sta do-mandando, dottore? Quale scelta ho? E se un giorno tornasse a camminare? Quante volte vi siete sbagliati voi medici…”

E così, su quell’ultimo disperato pensiero Sofia non poté che pregare. «Fa’ che viva, Signore…»

E lentamente cominciò a elencare tutti i possibili voti, una dopo l’altra prometteva silenziose rinunce a tutto ciò che amava, in cambio della vita di Andrea.

Era l’alba quando il chirurgo uscì dalla sala operatoria. Sofia alzò il viso lentamente e incrociò il suo sguardo. Timorosa, chiuse un attimo gli occhi. “Ti prego, Signore, giuro che manterrò tutto quello che Ti ho promesso in cambio della sua vita…”

E quando li riaprì, vide il chirurgo sorridere.

«Ce la farà. Ci vorrà tempo ma ce la farà.»

Allora cominciò a piangere e in quella felicità sentì il silenzioso dolore della sua promessa: non avrebbe suonato mai più.

Più tardi andò a vedere dove era avvenuto l’incidente. Sul bordo della strada c’era ancora la moto completamente accartocciata, alcuni pezzi di vetro della macchina e mille altri, più piccoli, del fanale della mo-to, delle frecce e del contachilometri. Poi Sofia aveva guardato meglio. Per terra non c’era alcun segno di frenata. Non ne aveva avuto il tempo. Poco più in là, l’auto della signora. Lo sportello centrale deformato, il vetro di quel finestrino spaccato, la lamiera tagliata.

Sofia passò la mano sulla portiera. Sentì tra le sue dita l’urlo di Andrea, il dolore, l’impatto, i sogni che si fran-tumavano, i suoi pensieri disperdersi nel vento. Allora la ritrasse spaventata da tutto quello che era andato perduto. Poco più in là, tra radi ciuffi d’erba al bordo della strada, improvvisamente una dolorosa scoperta.

E si sentì in colpa, come se quella tragedia appartenesse solo a lei, come se tutta la colpa fosse sua, solo sua.

Spalancata al cielo, tinta da quell’alba appena nata, una scatola di cartone.

Una pizza, sporca di terriccio, giaceva rovesciata sull’asfalto. Alcune formiche pasteggiavano con quella mozzarella e i pomodori pachino ormai freddi.

Allora Sofia si accovacciò a terra e cominciò a piangere, sentendosi colpevole come non mai e sporca, co-me quella pizza, se non di più.


«La maggior parte dei tuoi guadagni li hai fatti grazie a lui. È anche per questo forse che ti è così simpatico.»

Sara continuò a mettere a posto alcune camicie riti-rate dalla tintoria. Aprì il grande armadio bianco della camera da letto e prese alcune stampelle.

Davide, che era appena rientrato a Torino, la seguì per la stanza. «Mi è sempre stato simpatico. Fin da scuola, e poi non è vero, io non ho mai basato le mie personali valutazioni o i miei sentimenti su un guadagno. Anzi…»

Sara si girò all’improvviso. «Anzi cosa? Vuoi forse dire che non ti ho fatto fare soldi o, peggio, che te ne ho fatti perdere?»

Davide si sedette sul letto. «Non parlavo di te. Parlavo dei miei amici, a volte ho fatto fare a loro degli affari, vedi Caserini. Gli ho fatto comprare casa e non è certo uno che naviga nell’oro… Infatti non ho voluto la per-centuale. Lo avrei messo in difficoltà.»

«Già…» Sara infilò due camicie di seta sulle stampelle e richiuse l’armadio. «Tancredi però stranamente ti è più simpatico di tutti. Gli hai comprato case a Miami, a Lisbona, a New York, a San Francisco, non mi ricordo in quale altro posto del mondo e poi cinque o sei nei più bei posti d’Italia, a Capri, a Venezia, a Firenze, a Roma, tutte enormi e in zona centrale e, come se non bastasse, gli hai fatto comprare anche un’isola…»

«È l’uomo più ricco che io conosca e il meno conosciuto. Vuole sempre me per i suoi affari, per non figurare e soprattutto per non avere problemi. Non capisco perché non lo dovrei aiutare a spendere i suoi soldi.»

Sara si mosse veloce per la casa, Davide la seguì. «E

poi se non lo facessi io ci sarebbe comunque qualcun altro… Solo che lui non si fida di nessuno e ha scelto me.

Che colpa ne ho?»

Sara si girò all’improvviso e gli si avvicinò. Ora era a pochi passi da lui. «Tu? Nessuna, ma devi essere ogget-tivo. Ti è particolarmente simpatico anche perché ti ha riempito di soldi, e non gli trovi un difetto… be’, sempre per la stessa identica ragione.»

Sara andò in cucina. In un attimo Davide le fu dietro.

«Oggi tu vuoi litigare…»

Sara aprì il frigo e si versò un po’ d’acqua. «Assolutamente no. Ne vuoi un po’ anche tu?»

«No grazie.»

Davide si sedette di fronte a lei. «E comunque non è vero, ci sono molte cose che critico. Come quello che ha fatto oggi, per esempio.»

Sara finì di bere, poi gli chiese ironica: «Cosa ha fatto di così grave da meritare una tua critica?».

Davide in un attimo capì che era stato veramente superficiale. A volte la rabbia non ti permette di essere lucido. Se le avesse raccontato la storia di quella donna del circolo, di quelle fotografie portate a tavola davanti ai suoi figli, be’, avrebbe avuto di sicuro qualche problema a continuare a frequentarlo, diciamo che sarebbe finita un’amicizia e con quella anche nuove opportunità di guadagno. Cercò di distrarla cambiando argomento.

«A proposito, ti ricordi la famiglia Quarti? Non sta passando un buon periodo. C’è una villa di loro proprietà, bellissima anche se un po’ diroccata, che Tancredi dovrebbe assolutamente vedere. Varrà almeno quindici milioni di euro ma si può portare via forse a dodici.»


«Allora, si può sapere cosa ha combinato oggi il tuo amico Tancredi?»

Non era riuscito a distrarla.

«Ah sì…» Davide si rassegnò a riprendere quel discorso. «Praticamente ha fatto litigare una coppia. Due amici del circolo, credo…»

«Era amico di lui?»

«Non proprio. Ha agito con leggerezza…»

«Magari faranno pace. Fossero questi i problemi.»

«Già…»

Sara ritornò in salotto. Davide alzò le spalle. “Faranno pace… con quelle foto… Be’, credo che sarà il divor-zio meno problematico di tutti i tempi.”

Sara iniziò a mettere in ordine dei giornali lasciati sul divano, li poggiò sul tavolino basso di fronte al televisore. «Ora che ci penso, non è la prima volta che fa litigare una coppia. Successe al mare, a Tavolara, quando eravamo sul suo splendido yacht.»

«L’ha venduto.»

«Be’, ha fatto bene. Chissà quanto gli costava mante-nerlo durante l’anno…»

«Trecentomila euro, credo. Ma ne ha preso uno ancora più grande.»

«Ah… E comunque aveva fatto litigare quella coppia, sembrava li avesse invitati apposta. E pensare che era una coppia fantastica. Belli, giovani, sembravano innamorati, lei aspettava un figlio… Ti ricordi di quella storia?»

«Vagamente…»

«Sì, va be’… Ti ricordi solo le cose che vuoi tu. Lasciarono tutti e due lo yacht dopo una litigata furiosa.

Si erano picchiati nella cabina.»

«Che ne sai?»

«Lo so perché avevamo quella accanto. Quando scesero dalla barca Tancredi era sul ponte. Stava bevendo qualcosa e li guardò in un modo che mi colpì moltissimo.»


«Cosa fece di così strano?»

«Sorrideva.»

«Ma no, sei tu che hai sempre voluto vederlo in un certo modo.»

«Sei tu che non hai mai voluto vederlo nel modo giusto. Come se lui godesse dell’infelicità degli altri, come se non amasse nessuno, come se guardasse infastidito chiunque è felice… Per non parlare poi di una coppia felice. Ecco, sembra che cerchi in tutti i modi di rovi-narla… Non è strano?»

Davide cercò di buttare un po’ d’acqua su questa discussione. «Be’, se la vedi così, sì…»

«Non ho altre possibilità di vederla. E guarda caso ha sempre avuto avventure che non sono durate nulla.»

“Già” pensò Davide. Tancredi aveva avuto donne fa-mose, attrici, bellissime modelle. Una volta aveva visto in un servizio televisivo una sommelier che spiegava le particolarità dei suoi vitigni in Australia. Era la figlia di un magnate che per divertimento si era buttata nel campo del vino e aveva avuto un grandissimo successo. Attraverso Gregorio Savini aveva saputo di lei tutto quello che poteva interessargli. Poi era partito e le aveva fatto una sorpresa, era atterrato con un elicottero poco distante dalla sua proprietà. Sulla prima collina dove finivano i suoi vitigni aveva imbandito un tavolo con tovaglie di lino e le più diverse specialità italiane, compresi naturalmente i vini migliori. Lei era arrivata lì passeggiando. Prima si era stupita, poi aveva sorriso, lui l’aveva fatta ridere e alla fine l’aveva conquistata.

Il giorno dopo era ripartito lasciandole una rosa e un biglietto: “I tuoi vini sono deliziosi e tu sei molto più di un sogno…”. Ma non l’aveva mai più rivista.

“Quella, come tutte le donne che ha avuto” pensò Davide, “era di una tale bellezza che non l’avresti dimenticata mai più.” Ma anche questo non era proprio il caso di dirlo a Sara.


Si versò da bere e sorrise tra sé, era giunto a una strana conclusione sul rapporto di coppia: un matrimonio dura in base a quanto si è rapidi nel saper scegliere tra cosa dire e cosa non dire. Bevve un sorso del suo Talisker.

«Una storia veramente importante l’ha avuta al liceo…»

Sara andò in camera da letto e iniziò a spogliarsi.

«È vero. Come si chiamava?»

«Olimpia Diamante.»

Lasciò cadere i vestiti a terra e nuda andò verso la cabina doccia.

«Hai ragione, si chiamava così…»

«Che poi è proprio in quel periodo che ci siamo conosciuti» continuò Davide dal salotto. «Chissà che fine ha fatto Olimpia Diamante…»

Davide comparve sulla soglia del bagno. «Tancredi ne era follemente innamorato… Me lo ricordo perfettamente come se fosse ieri…»

Sara aprì l’acqua e infilò la testa sotto il getto, avrebbe voluto non sentire quelle parole. Ma Davide non le dava tregua. «In quel periodo Tancredi ti era pure simpatico, vero? Non avevi questo atteggiamento con lui…»

Sara prese lo shampoo e se lo passò lentamente tra i capelli. Poi li sciacquò, e cominciò a pettinarsi. «Cosa?

Non ti sento…»

«Ok, non fa niente! Non era importante.» Davide al-zò la voce cercando di farsi sentire. «Torno in salotto.»

«Va bene!»

Non era vero. Sara aveva sentito benissimo. Ma non era vero quasi nulla di quello che lei gli aveva sempre detto su Tancredi.


«Chi ti ha fatto entrare?»

«Ho i miei sistemi…»

Sara sorrise allusiva e maliziosa. Tancredi continuò a nuotare, fece qualche bracciata nella grande piscina coperta, poi si fermò dove c’era la Jacuzzi e l’azionò.

Poggiato sul bordo c’era una bottiglia di Cristal, con un solo bicchiere di champagne.

«Ne vuoi un po’?»

«Sai che l’altro ieri è stato il mio compleanno?»

Tancredi sorrise. «Auguri in ritardo.»

«Per me lo sapevi e non me li hai fatti apposta.»

«Me ne sono dimenticato sul serio, scusami.»

Sara piegò la testa di lato per guardarlo meglio, per capire in qualche modo se mentiva.

«Sai che a psicologia mi hanno insegnato a scoprire se una persona ti sta dicendo bugie?»

«Ah sì, e come?»

«Basta osservare il linguaggio del corpo, gli occhi che guardano altrove, le mani che giocano, lo spostarsi su una sedia, il muoversi di una gamba.»

«Ma io sono in piscina!»

«Il parlare troppo o in maniera aggressiva…»

«Quindi?»

«Hai mentito. Sapevi che era il mio compleanno e non mi hai fatto apposta gli auguri. Però forse lo hai fatto per attirarmi in questa piscina?»

«Sara, se fossi così intelligente sarei un uomo diverso.»


«Che vuoi dire?»

«Niente. A volte dico delle cose senza senso.»

«Non è vero, dietro ogni frase c’è sempre un perché.»

«Anche questo ti hanno insegnato a psicologia?»

«Vedi? Mi prendi in giro. C’è un costume per me?»

«Sì, nello spogliatoio.»

Sara si incamminò verso quella porta che Tancredi le aveva indicato in fondo alla piscina. Prima di entrare si girò, lo guardò un’ultima volta e fece un sorriso. Da bambina, forse da monella. Da una che sta pensando di combinare qualcosa o che comunque lo vuole far credere. Poi si chiuse alle spalle la porta dello spogliatoio.

Tancredi uscì dall’acqua, si avvicinò al vecchio mobile e tirò fuori un’altra flûte di cristallo. Ci versò del Cristal e poi lo rimise nel secchiello pieno di ghiaccio.

“Chi l’avrà fatta entrare?” Guardò fuori dalla grande vetrata: i vigneti lontani, alcuni campi illuminati intorno alla proprietà. Erano stati rasati di fresco e anche i cespugli di rose erano tutti perfettamente allineati.

Sullo sfondo due grandi querce tra le quali passava una stradina di pietre bianche che si perdeva dietro un basso colle. Lì c’era la casa dei custodi. Oltre a loro, nella villa lavoravano tre cameriere, il cuoco, l’autista e naturalmente Gregorio, il suo factotum da sempre. Doveva avere quasi sessant’anni ormai, eppure aveva un fisico scolpito e asciutto che non permetteva di dargli un’età esatta. Di una sola cosa era sicuro. Lui non poteva essere stato. Questa cosa lo aveva infastidito. Molto.

Tancredi voleva vivere nella completa solitudine. Deci-deva lui quand’era il momento di incontrare qualcuno, di vedere delle persone, di fare delle feste, di divertirsi o semplicemente di far finta.

Si versò un altro po’ di champagne e lo bevve d’un sorso. Poi riempì di nuovo il bicchiere, lo mise vicino all’altro sul bordo della Jacuzzi, infilò la bottiglia nel secchiello con il ghiaccio e lentamente si lasciò scivolare nell’acqua. Proprio in quel momento la porta dello spogliatoio si aprì e ne uscì Sara. Si era raccolta i capelli e sembrava più ragazzina. Si vedevano i suoi occhi viola e il suo viso, ora così scoperto, appariva più delicato, e in qualche modo più bello. Indossava un accappatoio soffice color indaco, le stava leggermente largo e la faceva sembrare ancora più piccola.

Chissà quale costume aveva scelto, fu il primo pensiero di Tancredi, un bikini o uno intero? Colore scuro, chiaro o fantasia? Ce n’erano di mille tipi e di ogni misura. Aveva fatto fare apposta un armadio con capi per uomo e donna, tutti rigorosamente nuovi con l’etichet-ta ancora attaccata. Li aveva fatti scegliere ad Arianna, la sua personal stylist che si occupava della ricercatezza ed esclusività di ogni dettaglio della sua vita, oltre alle cene e all’ospitalità, che dovevano naturalmente essere perfette.

Arianna era una donna di circa cinquantanni, elegan-tissima ma in maniera molto sobria, quasi austera, amava il suo lavoro e non desiderava apparire in pubblico. Lavorava, come diceva lei, dietro le quinte. Solo un grande lavoro permette un ottimo risultato. Era fidanzata con un ricchissimo uomo inglese che vedeva ogni tanto nei pochi weekend liberi o durante le ferie estive. Tancredi però non credeva molto a quella storia. Credeva invece con più facilità al fatto che potesse amare le donne giovani. Aveva sempre commentato in maniera discreta ed elegante il modo di vestire delle sue conquiste. Ma lui si era accorto soprattutto di come ammirasse la loro bellezza. L’aveva scoperta più volte incantata a fissarle, forse anche con un pizzico di desiderio.

Sicuramente però non era stata lei ad aver fatto entrare quell’ospite inaspettata. Allora guardò di nuovo Sara. Era ferma sul bordo della piscina, vicino al muro.

Allungò la mano e, trovato l’interruttore, abbassò un po’ le luci. Tancredi si chiese come fosse fatta, se avesse (,


un seno grande o piccolo, e il suo sedere e le gambe? In realtà non l’aveva mai guardata con grande attenzione, non perché non fosse bella, anzi. Ma per un semplice, piccolo motivo. Era la ragazza del suo migliore amico.

Ma Sara non era della stessa idea. E in un attimo soddi-sfo tutte le curiosità di Tancredi. Lasciò cadere l’accappatoio per terra. Era nuda.

«Non ho trovato nessun costume adatto.»

Non che non gli piacesse o non gli andasse. “Nessun costume adatto.” Almeno aveva scelto come scusa quella frase particolare. Era rimasta lì ferma, con le gambe leggermente aperte, le braccia distese lungo i fianchi.

La luce fioca esaltava la perfezione del suo corpo, le gambe affusolate e lunghe, la vita stretta, quel seno a pera, naturale. Più giù, tra le gambe, quel pelo perfettamente curato, un triangolo ritagliato con misura. Tancredi si accorse di essere rimasto a fissare quel punto, allora sollevò lo sguardo. Questa volta Sara era diversa, molto più donna.

“Non c’è niente da fare, gli uomini sono tutti uguali”

pensò lei. Aprì le gambe in modo ancora più provocante, si tolse il fermacapelli e lo buttò per terra. Scosse la testa sciogliendo i capelli, poi sorrise e si tuffò. Trattenne il respiro e con una spinta nuotò sott’acqua, così da riemergere poco distante da lui.

Le luci delle lampade, ora più basse, scivolavano silenziose sull’acqua. L’eco della piscina coperta era l’unico rumore insieme ai loro respiri. E al loro silenzio. Sara mise di nuovo la testa sott’acqua e uscendo si portò tutti i capelli indietro.

«Allora?» Gli sorrise, forte della sua completa nudi-tà. «Non mi offri un po’ di champagne?»

Si avvicinò e poggiò il gomito sul bordo della piscina. Muoveva le gambe per essere più leggera, da sotto la luce si mescolava ai suoi movimenti. Tancredi fece qualche piccola bracciata all’indietro ed entrò all’interno della grande Jacuzzi, si allungò un po’ per prendere quella flûte di Cristal appena riempito ma non fece in tempo a girarsi che Sara era già accanto a lui. Sorrise muovendosi lentamente in quell’acqua bassa, poi gli si sedette accanto e prese il bicchiere.

«Grazie…» E lo buttò giù tutto d’un fiato. «Buonissimo. Mmm, gelato al punto giusto poi…»

Mentre parlava, fece scivolare le gambe verso di lui e piano piano gli si accostò. «Me ne dai un altro per favore?»

Tancredi si girò e versò un altro po’ di champagne.

Poi sentì le mani di Sara che lo abbracciavano da dietro.

«Hai degli addominali perfetti…» Si muovevano lente, le sue dita scivolavano sui gradini scolpiti dell’addome di Tancredi che si voltò e le passò il bicchiere di nuovo pieno. «Grazie… Ci sono cose così buone, alle quali è impossibile resistere.»

Un sorriso lungo, più lungo di prima, poi dei lenti sorsi dal bicchiere così da nascondere ogni tanto i suoi occhi. Piano piano con la mano destra Sara continuava a scorrere sulla pancia, andava giù, sempre più giù. E

lo fissava. Poi arrivò al costume. Iniziò a giocare con il fiocchetto centrale, lo tirò con delicatezza, scioglien-dolo. Le dita giocavano con il bordo, lentamente lo aprirono un po’. Per primo l’indice e poi il medio, si infilarono nel costume.

Allora Tancredi la fissò con aria di sfida.

«Dov’è Davide stasera?»

Sara si fermò, poi ritrasse la mano, diede un lungo sorso, finì tutto lo champagne e posò il bicchiere sul bordo della piscina. Poi piegò la testa di lato.

«Il tuo amico credo che avesse l’ennesima riunione a Milano sia oggi pomeriggio che domani. Nuove costru-zioni, nuovi affari e quindi nuovi impegni.»

Poi lo guardò maliziosa.

«Questo però vuol dire una cosa, che posso anche restare da te.» E si alzò un po’ dall’acqua, mostrando il seno. Avanzò verso di lui guardandolo negli occhi. Il suo seno era pieno, sodo, i capezzoli turgidi, induriti dall’acqua, ma anche dalla sua improvvisa eccitazione. Si mise a quattro zampe e piano piano si avvicinò sempre di più a Tancredi, facendo scorrere le gambe di lui sotto il proprio corpo. Arrivata vicinissima al suo viso, si diede una spinta per immergersi e piano piano gli abbassò il costume. Ma improvvisamente le braccia forti di Tancredi la fermarono, costringendola a riemergere. Poi le si sfilò da sotto. Ora era dall’altra parte della vasca.

«Da quanti anni stai con Davide?»

«Da due. Però sono innamorata di te da almeno cinque anni.»

«Una donna ama sempre sentirsi innamorata. A volte anche se non ricambiata. Anzi, meglio se non lo è.»

«Perché?»

«Le permette di essere più troia.»

Sara gli rise in faccia divertita. «Non mi ferisci, Tancredi. Mi piacevi da quando stavi con quella ragazza bellissima al liceo. Come si chiamava?»

«Non me lo ricordo.»

«Non ti credo, comunque te lo dico io, Olimpia. La odiavo e la invidiavo, e non perché fosse bella, perché sono presuntuosa e ho sempre pensato di poter compe-tere con chiunque. Ma perché aveva te.»

«Non mi aveva. Ci scopavo e basta.»

«Nessuna ti ha mai avuto?»

Tancredi rimase in silenzio. Si avvicinò al bordo, si versò un po’ di champagne e lo bevve a piccoli sorsi, poi le sorrise.

«Sei venuta per intervistarmi? Sai che c’è una ragazza in una tv olandese che presenta il meteo nuda? Non ti sei inventata nulla di nuovo.»

Sara si versò un po’ di champagne e poi gli si sedette accanto. Lo sorseggiò più tranquilla.


«Quindi la risposta è no. Nessuna ti ha mai avuto.

Non sei mai stato innamorato. Tutte quelle bellissime donne te le sei solo scopate. E allora perché non con me questa sera? Io ti amo esattamente come ti avranno amato loro, se non di più. Guarda, credo addirittura di essermi messa con Davide solo per vederti più spesso.»

Sara finì di bere lo champagne, poi gli si avvicinò e provò a baciarlo. Tancredi rimase immobile, con le labbra serrate, le braccia aperte sul bordo della piscina.

Piano piano Sara si indebolì, vennero meno la sua irruenza, la sua voglia. Smise di baciarlo. In silenzio si staccò, poi abbassò la testa e quasi sottovoce gli sussurrò: «Cosa ho di diverso dalle altre?».

Questa volta Tancredi rispose: «Niente. Solo Davide».

Sara lo fissò un’ultima volta, poi uscì dall’acqua.

Camminò nuda senza girarsi. Tancredi la guardò andar via senza alcun rimpianto, poi iniziò a nuotare. Arrivato alla fine della vasca, fece una virata e con una capriola ripartì. A metà sentì sbattere una porta ma continuò a nuotare come se nulla fosse.

Il giorno dopo, alle dieci di mattina, Gregorio aveva già scoperto chi era stato a far entrare Sara. Non solo, ma perquisendo la sua camera, aveva trovato altri piccoli dettagli non trascurabili. Era vero. Arianna amava le donne. Il lord inglese che compariva di quando in quando in qualche weekend esisteva sì, ma era solo una copertura.

«Pensavo fosse un’amica che avrebbe visto con piacere.»

«Tancredi non ha amici.»

«Sì, ha ragione ma…»

«Quando riprendo una persona l’unica possibilità che rimanga è che io abbia torto. Lei lo può dimostrare?»

Arianna rimase in silenzio. Poi si girò, andò in camera sua e iniziò a fare la valigia. Lasciò la villa alle undici e un quarto.


A mezzogiorno Gregorio aveva già trovato una nuova personal stylist. Ludovica Biamonti, cinquantacinque anni, sposata e madre di due figli che vivevano all’estero.

Tutti elementi che naturalmente Gregorio aveva controllato con grande facilità.

All’ora di pranzo Ludovica Biamonti aveva già in mano la mailing list delle persone che contavano per Tancredi, la lista di quelle che andavano assolutamente evitate e l’elenco di tutte le sue proprietà, in Italia e all’estero. Era felice di quel lavoro e lo stipendio le sembrava da capogiro.

Nel secondo pomeriggio Ludovica Biamonti si accorse che le ci sarebbero voluti almeno due giorni per capire in cosa consistesse veramente la ricchezza di Tancredi Ferri Mariani. Aveva poco più di vent’anni, quando il nonno gli aveva lasciato un patrimonio di circa cento milioni di euro, e da allora il suo denaro non aveva fatto altro che aumentare. Investimenti, nuove aziende in ogni parte del mondo che commerciavano in legno, in petrolio, in oro, diamanti e materie prime, tutti prodotti pregiati il cui valore in qualche modo poteva crescere sul mercato. Aveva costruito una serie di società con persone scelte e fidate e le aveva organizzate attraverso strutture a forma piramidale dove ognuno doveva controllare quello che faceva chi gli stava accanto. Erano passati più di dodici anni e, oltre ad aver comprato doz-zine di proprietà in ogni angolo della Terra, Tancredi aveva acquistato ogni tipo di mezzo di trasporto, dal jet alla semplice Harley-Davidson. Quando Ludovica Biamonti ormai a notte fonda chiuse l’ultimo file e spense il computer, ebbe solo un rimpianto. Avrebbe potuto chiedere molto, ma molto di più.


Sara uscì dalla doccia e si infilò l’accappatoio. Si mise un asciugamano in testa, si piegò di fronte allo specchio del bagno e cominciò a frizionarsi i capelli. Quanti anni erano passati da quella sera in piscina? Due. No, tre.

Eppure sembrava ieri, un attimo, un secondo fa. Una sensazione forte, calda la prese alla pancia. L’ombra del desiderio. Aveva sempre tenuto nascosto tutto a Tancredi, fino a quella sera. Poi non ce l’aveva fatta più.

Aveva svelato e raccontato ogni cosa, si era messa nuda davanti a lui, e non solo con quell’accappatoio caduto per terra, no, anche con il cuore e con l’anima. Avrebbe voluto essere presa quella notte, consumata, amata. Sua.

Semplicemente sua. Perdutamente sua. Avrebbe voluto morire tra le sue braccia, spegnere così per sempre quella cotta nata per gioco al liceo, cresciuta con desiderio negli anni, attecchita infine nel suo cuore come insana, rabbiosa passione. Lui. Voleva lui e nessun altro e, invece, a quanto pareva, era l’unica che lui non avrebbe mai preso. Per colpa di Davide. Davide che alla fine aveva sposato l’anno dopo, apposta per fare rabbia a Tancredi, per fargli dispetto, per smuoverlo in qualche modo.

Tancredi e quel suo atteggiamento distaccato, freddo, superiore.

Aveva fatto del suo matrimonio l’evento dell’anno.

Si era finta innamorata, aveva curato anche il più piccolo dettaglio, dalla scelta delle preziose fedi di platino ai sofisticati piatti del menu, dalle bomboniere in leggero cristallo di Murano con all’interno veri petali di rosa all’affitto di Villa Sassi sulla collina torinese. E poi un’orchestra di sessanta elementi, il cantante che andava per la maggiore in quel periodo, una scelta di pezzi musicali che spaziavano dalla classica al jazz, degli anni Settanta e Ottanta fino ai successi più recenti.

Aveva fatto spendere a suo padre, un uomo molto ricco, proprietario di un’azienda che produceva tondini di ferro per tutto il mondo, fino all’ultimo euro disponibile.

Ma non perché Davide fosse felice e sorpreso, no.

Perché Tancredi sapesse. Sara era così. Pensava che alla fine, come nelle migliori favole o nei film, proprio mentre stava arrivando all’altare, Tancredi sarebbe entrato di corsa in chiesa. Si sarebbe scusato per quella notte, per quell’errore fatto in piscina, per non aver capito il suo amore di sempre, per aver rifiutato il suo corpo. E

così, davanti a tutti, anche davanti al suo amico Davide, senza pudore, perché l’amore non conosce pudore, l’avrebbe presa in braccio e portata via, fuggendo tra gli invitati sbigottiti ma a modo loro entusiasti di quella nuova favola moderna, di quell’amore a sorpresa, di una passione esplosa improvvisamente.

E invece no. Quando era arrivata con il suo magnifico abito da sposa, accompagnata da suo padre all’altare, aveva trovato lì Tancredi. Aveva incrociato il suo sguardo da lontano mentre camminava su quel tappeto con ai bordi quegli splendidi fiori. Lui le sorrideva, in piedi davanti all’ultima panca, vicino al padre di Davide.

Prima del matrimonio Tancredi aveva detto che forse non sarebbe potuto essere presente. Qualche giorno dopo invece, Sara questo però lo seppe soltanto più tardi, aveva richiamato Davide assicurando la sua presenza, ma non solo, dicendo anche che sarebbe stato felice di fare il testimone.

«Sei sicuro?»


«Ma certo, se ti fa ancora piacere e non l’hai già promesso a qualcun altro. Solo una cosa, però. Vorrei che fosse una sorpresa per tutti, anche per Sara.»

«Anche per lei, e perché?»

«Vuoi che ci sia? Fa’ che non si sappia.»

«Te lo prometto. Ti do la mia parola.»

E Davide l’aveva mantenuta. E così Sara si era trovata a vivere quello che sarebbe dovuto essere il giorno più bello come il suo peggiore incubo. Quando pronunciò il suo sì, il sogno della sua vita era alle sue spalle e, ormai ne era sicura, lo aveva perso per sempre. E

quando uscì dalla chiesa le sembrò di vederlo sorridere.

«Amore?»

Sara smise di asciugarsi i capelli. «Sì?»

«Non mi ricordo più, è sabato che facciamo una cena qui da noi?»

«Sì.»

«Chi viene?»

«I Saletti, i Madia e Augusto e Sabrina…»

«Che dici allora, posso chiamare anche Tancredi con una sua amica?»

Sara rimase per un secondo in silenzio. «Certo… Tanto sicuramente non potrà. Hai fatto caso che non ci frequenta mai insieme? Frequenta solo te.»

Davide ci pensò un attimo. «Non è vero, l’altra volta a casa di Ranesi siamo stati tutti insieme.»

«Grazie, siamo arrivati lì e non ci siamo più visti, c’erano circa duecento persone!»

«Per me è una tua fissazione. Comunque se non ti dispiace provo a chiamarlo.»

«Certo, figurati, anzi mi fa piacere. Ma vedrai che ti dirà di no. Si inventerà una scusa per non venire.»

Davide non le diede retta. Prese il telefonino e compose il numero privato di Tancredi. Era l’unico ad averlo, oltre a Gregorio naturalmente, e già quello era un incredibile segno di stima e di amicizia.

«Ehilà.» Rispose al primo squillo.

«Che combini, Davide? Quale affare per te e fregatura per me mi vuoi proporre?»

Davide decise di stare subito allo scherzo. «Ok, allora chiamo Paoli, non c’è problema…»

Paoli era un imprenditore con cui si erano trovati diverse volte in competizione. Tancredi, pur rimettendo-ci economicamente, l’aveva sempre spuntata. E anche se sulla carta quegli investimenti erano stati fatti più per sfida che per altro, alla lunga erano diventati così vantaggiosi che ci aveva straguadagnato. Era incredibile, ma ogni cosa sulla quale Tancredi metteva le mani diventava un affare.

«Paoli?» Tancredi rise. «Ma ha ancora soldi da spendere? Allora non deve essere un grosso business… Sarà uno di quelli che ti piacciono tanto: compro, rivendo al volo e ci guadagno qualcosina…»

Davide rise. In effetti quel tipo di affare non era ma-le. Dovevi solo avere un po’ di liquidità e trovare la persona che in poco tempo comprasse quello che tu avevi fermato.

«No, no… Stavolta non spendi molto. Al massimo porti una bottiglia o dei fiori per la padrona di casa. Ti volevamo invitare per sabato sera, facciamo una cena qui da noi con i Saletti, i Madia e Augusto e Sabrina che so che ti stanno simpatici…»

Davide aspettò un attimo. Pensò a Tancredi che avrebbe portato un Cristal, anzi due visto che erano un po’ di persone. Ma non era questa la ragione per cui ci teneva a invitarlo. Gli avrebbe fatto veramente piacere vederlo e soprattutto sfatare in qualche modo l’assurda convinzione di Sara. Tancredi dall’altra parte del telefono si alzò dalla scrivania, guardò fuori dalla finestra. Il Golden Gate raccoglieva tutto il colore di quel sole che splendeva sulla Baia di San Francisco. Più tardi sarebbe andato a pranzo con Gregorio nel caffè di Francis Ford Coppola per assaggiare l’ultima annata del suo vino, il Rubicon. Avrebbe parlato direttamente con lui, voleva entrare in produzione con la Zoetrope e finanziare il suo prossimo film, chissà se glielo avrebbe permesso.

Sapeva che Coppola era un tipo che andava molto a simpatia, più che per soldi o per affari. “Meglio così”

pensò Tancredi. “Sarà più facile, gli sarò simpatico.” E

così con l’immaginazione entrò nel mondo del cinema e si figurò la scena.

La cinepresa avanza su un carrello e va a stringere sulla porta di un appartamento. Poi si ferma. Dettaglio di una mano che suona al campanello.

All’interno della casa Sara smette di posare alcune cose sul tavolo da pranzo e attraversa il salotto. “Vado io.” Arriva alla porta e apre senza chiedere chi è. Si trova di fronte un enorme mazzo di rose rosse, contornate da piccoli fiori bianchi di campo. All’improvviso spunta Tancredi.

“Ciao… Possiamo dimenticare quella notte?”

Sara rimane davanti a lui in silenzio. Da piano americano l’inquadratura lentamente stringe sul suo primo piano. Una musica sottolinea l’attesa per la sua risposta.

Tancredi guardò l’agenda sulla scrivania. «Dicevi il sera giusto?»

«Sì.» Fece scorrere l’indice per vedere se aveva impegni. Una serata al circolo ma niente di importante, anzi si ricordava di averla già disdetta. Poi ripensò alla scena di prima con i fiori in mano. Sara è ancora lì in silenzio.

Improvvisamente scuote la testa. “No. Non possiamo dimenticarla.”

Tancredi fece un sospiro. «Mi dispiace Davide, ho controllato ora l’agenda, sarò all’estero. Magari facciamo un’altra volta.»

«Ok, peccato.»


«Salutami tanto Sara e scusami con lei.»

«Certo.» Chiusero la telefonata. Davide avrebbe voluto dirgli: “Sara lo sapeva già”.

«Allora viene o no?» Sara comparve alle sue spalle.

«No, me ne sono ricordato dopo anch’io, me lo aveva già detto… Aveva un impegno.»

Sara sorrise. «Visto? Non ci vuole vedere insieme.»

Davide la raggiunse e la fece girare su se stessa ab-bracciandola. «Amore, ti prego, non ti fissare con questa storia. Tancredi è il mio migliore amico e non farebbe mai una cosa del genere.»

«Cosa?»

«Di averti in antipatia.»

Sara rimase un attimo in silenzio. «Può accadere, sai?

A volte le dinamiche sono così imprevedibili.»

Davide la lasciò andare e si sedette sul divano. Prese il telecomando e accese la tv.

«Sai, ho sempre creduto che invece a te fosse antipatico Tancredi.»

«E perché?»

«Ma non lo so, una sensazione. Un po’ mi dispiaceva e un po’ ne ero felice.»

«Perché?»

«Perché ho pensato, finalmente una donna alla quale Tancredi non piace, anzi le sta addirittura antipatico. Se ti fosse piaciuto magari se ne sarebbe infischiato della nostra amicizia, mia e sua, ci sarebbe passato sopra e avrebbe aggiunto anche te alla sua collezione privata…»

Poi la guardò e le sorrise. «E io sarei morto per questo.»

Sara rimase in mezzo al salotto in silenzio. Davide continuò a fissarla. Man mano che il tempo passava diventava una situazione strana. E lei si domandava se sarebbe riuscita a reggerla.

«Non mi è antipatico. Mi è indifferente. Diciamo che non mi piace come si comporta in certe circostanze. Comunque è un tuo amico e se sta bene a te…»


E detto questo andò in cucina. Davide girò canale, poi decise di aggiungere una considerazione.

«Ricordati però che è cambiato molto dopo la storia di sua sorella!»

Sara si sedette al tavolo. Si sentì improvvisamente svuotata. Era stato proprio da quel giorno che aveva cominciato ad amarlo e desiderato riempire la sua solitudine. Erano passati ormai diversi anni, eppure la passione di Sara non accennava a finire. Chi sa se mai sarebbe accaduto. Solo di una cosa era sicura. Davide, suo marito, era un ottimo immobiliarista ma un pessimo psicologo.


«Non così. Vedi che non stai tenendo il tempo?»

Sofia fece un respiro profondo. Ci voleva pazienza con Jacopo. Molta pazienza. Ma anche quelle lezioni erano importanti e poi guadagnare le era necessario.

«Ma così mi sembra troppo lenta, maestra…»

Sofia sorrise. «Ma se lui l’ha scritta, composta e im-maginata così, vorrà dire che gli piaceva con questo tempo, non credi? Guarda bene, l’indicazione è di per la semiminima! Ora arrivi tu, dopo più di duecento anni che Mozart ha scritto la sua Sonata in Do Maggiore e sembri su una pista di formula uno. Guarda che questo pezzo anche i grandi pianisti lo eseguono molto lento. Lento e preciso, Jacopo.»

Jacopo sorrise. Gli piaceva Sofia, non era come quelle insegnanti che aveva avuto prima, era più simpatica e poi era più giovane e soprattutto più bella. «Okeiii…»

Jacopo strascicò a lungo quell’okay. «Anche se oggi hanno fatto tante di quelle musiche del passato con tempi diversi che secondo me si può fare! L’hai mai sentito il Canone suonato da Funtwo con la chitarra elettrica? Anche nel mio ultimo videogioco c’è una musica pazzesca, la vuoi sentire?»

Si alzò infilandosi la mano nella tasca dei pantaloni, come se volesse tirar fuori chissà quale sorpresa.

«Ti credo» gli disse Sofia facendolo tornare a sedere.

«Tuo padre e tua madre però non sarebbero contenti se giocassi ai videogiochi con te…»


«Già… Anche perché perderesti.»

«Infatti, e non ci tengo assolutamente. E soprattutto loro vogliono che tu a Natale prossimo sappia suonare almeno un pezzo dall’inizio alla fine e senza troppi errori! Cosa che per adesso…» gli scompigliò i capelli sulla testa, «vedo molto improbabile. Forza, l’attacco dell’andante.» Sofia indicò il foglio in alto sul penta-gramma. «E tieni il tempo.»

«Ok.» Jacopo fissò il punto esatto da dove partire e cominciò a suonare. Ogni tanto sbuffava portando in fuori il labbro per levarsi i capelli dal viso. Era stata Sofia, quando glieli aveva scompigliati, a ridurli così.

Lui odiava che gli toccassero i capelli in realtà, o almeno lo odiava quando glielo facevano nonno o papà, ecco sì, soprattutto loro. Quando lo faceva Sofia invece non gli dava fastidio. Che strano. Ora doveva impegnarsi, e suonare al meglio quel pezzo anche se era sempre dell’idea che Mozart dovesse essere più veloce. “Ma se a lei piace così, cioè, se a Mozart piaceva così” si corresse mentalmente. Si concentrò per tutte le quattro pagine e non sbagliò quasi nulla.

«Bravo! Oh, così mi piaci!»

Gli strinse le spalle portandolo a sé. Jacopo quasi cadde dallo sgabello ma fu felice di potersi perdere in quella maglia, di respirare quel buon profumo e soprattutto di poggiarsi su quel morbido seno.

«Ok…» Sofia lo allontanò dolcemente dopo aver in-tuito che si stava trattenendo un po’ più del dovuto.

«Allora ci vediamo la prossima settimana.»

«Va bene…» Jacopo si alzò e prese la sua giacca dall’attaccapanni, poi gli venne un pensiero che in qualche modo lo accese. Forse aveva voglia di giocare ancora con lei. «Ehi Sofia, tu stai su Facebook?»

Anche Sofia si stava rivestendo. «No.»

«Ma nemmeno su Twitter?»

«No.»


«Insomma, non ti si può trovare da nessuna parte?»

Jacopo era deluso, se non altro avrebbe potuto sapere quanti anni aveva o cosa le piaceva, saperne un po’ di più su di lei, magari scriverle.

«Ti dico solo una cosa, Jacopo, ho un computer a casa, ma a essere sincera non lo uso mai…»

L’unico che usava quel computer era Andrea. Rappresentava la sua possibilità di uscire, di avere contatti, vedere gente, filmati, curiosità. Vivere. Anche perché poteva farlo solo così. Ma non era certo il caso di dirlo a quel ragazzino.

«Va be’.» Jacopo alzò le spalle. «Peccato. Non sai co-sa ti perdi. Lì c’è il nuovo mondo, siamo nell’era ….»

Poi quasi per prendersi la rivincita: «Ecco perché ti sembra giusta suonata in quel modo, appartieni all’era analogica».

«Sì sì…» Sofia si mise a ridere uscendo dalla stanza.

«Salutami i tuoi. A mercoledì.»

In fondo quel ragazzo le era simpatico, aveva sì e no dieci anni ed era veramente sveglio e divertente. Aveva anche alcuni atteggiamenti da uomo. Le sarebbe piaciuto avere un bambino così. Un figlio. Per un attimo quell’idea le sembrò lontanissima, come se non facesse parte dei suoi sogni, dei programmi che da ragazza progettava. Allora programmava tutto, tanto da essere addirittura presa in giro dalle sue amiche. Come la chiamavano? Ah sì, “la calcolatrice”. E poi invece un giorno si era arenato tutto. Come una grande nave pronta a salpare, a fare il giro del mondo, carica di provviste di ogni genere, dallo champagne all’acqua minerale, dai formaggi ai dolci, dai vini della Borgogna a quelli au-straliani. Insomma, pronta a stare in mare per sempre, a non dover fare scalo in nessun porto… E poi invece stop. Quella nave si era spiaggiata, e con tale forza, a tale velocità, che non poteva più essere tirata fuori da quella sabbia. Non andava né indietro né avanti, così come la sua vita, inceppata. Come un’arma che scatta male. Un ferro incastrato che fa clang. Ecco. E il suo amore per Andrea? Perché ultimamente faceva questo suono sordo? Perché il suo cuore non sentiva quella musica che tanto amava?

Andò alla macchinetta a prendersi un caffè. Mentre lo beveva, si sentì chiamare.

«Sofia?» Si girò.

La sua anziana insegnante di piano era lì di fronte a lei, nel corridoio buio della scuola dove lei stessa tanti anni prima aveva suonato le sue prime note. «Ciao, Olja.»

Olja, o meglio Olga Vassilieva, insegnava con Sofia alla chiesa dei Fiorentini e al conservatorio. Era russa e vestiva ancora in modo antiquato, portava gonne larghe ricoperte da una strana sopragonna preso da chissà quale baule sopravvissuto al primo arrivo in Italia della sua famiglia. Le due donne si abbracciarono, poi Olja si scostò da lei ma la tenne ancora tra le braccia.

«A cosa pensavi?»

«Perché?»

«Avevi un’espressione… era scomparso il tuo solito sorriso.»

“E per un attimo sei sembrata vecchia come me”

avrebbe voluto aggiungere la sua insegnante, ma sapeva che quelle parole forse l’avrebbero ferita.

«Oh» sorrise Sofia. «Alle cose che ho dimenticato di fare…»

«O a quelle che hai smesso di sognare?» Olja non le diede tempo di rispondere. «Hai avuto un dono specia-le ed era particolarmente bella la tua innocenza.»

«Quale innocenza?»

«Di trovare naturali le capacità che avevano queste fantastiche dita.» Prese le sue mani. «Guarda che non mi dimentico che insieme abbiamo preparato Rachmaninov… e avevi soltanto diciassette anni. Ora invece le vedo segnate, stanche, rovinate. E soprattutto…» cercò i suoi occhi, «ti vedo colpevole.»

«Ma va’, Olja… Io non ho fatto niente.»

«E proprio questa la tua colpa. Non hai fatto niente.»

Ora Sofia era diventata seria. «Te l’ho detto che non avrei più suonato. È stato un voto per lui, per la sua vi-ta. Ho pregato per questo e ho rinunciato alla cosa più bella che avevo, rinunciare al resto sarebbe stato facile… Spero che un giorno lui possa guarire e io tornare a suonare. Ma purtroppo per ora non è stato possibile…»

E Olja vide in quel “per ora” una traccia di speranza, un barlume di luce, quel lumino che a volte si lascia acceso nella stanza dei bambini per rassicurarli se mai si svegliassero di notte. Allora sorrise. Era ancora una ragazzina, ma proprio per le sue capacità, e soprattutto per il suo amore per la vita, doveva essere risvegliata.

«Sei colpevole, Sofia, non perché hai rinunciato alla musica, ma perché hai rinunciato alla vita.»

E rimasero così, nel silenzio di quel corridoio, lì dove Sofia aveva iniziato i suoi studi a sei anni, conseguendo il diploma di pianoforte. L’unica tra tutti gli allievi del conservatorio in grado di suonare i Dodici studi trascendentali di Liszt a memoria prima del decimo anno.

Olja era stata la sua insegnante di pianoforte principale e non si era mai stancata di emozionarsi tutte le volte che la vedeva mettere le mani sulla tastiera, Sofia, la giovane promessa italiana, la pianista che avrebbe sorpreso il mondo, di questo si parlava nell’ambiente.

E ora eccola lì, una semplice insegnante.

Poi Olja la guardò con più dolcezza. «Anche i matrimoni o le storie più belle finiscono, ma non per questo non sono stati importanti. Quasi sempre ci si sforza per capire di chi è stata la colpa quando magari non è di nessuno dei due. Come è successo a te, Sofia.»

Allora lei abbassò gli occhi per trovare un po’ di tranquillità, come accade a quei pianisti che cercano il silenzio del pubblico e la propria concentrazione prima di portare entrambe le mani sui tasti del pianoforte.

Questa volta però non seguì nessuna esecuzione. Poi le fece un semplice sorriso, debole, fiacco ma a suo modo convinto. «Non posso.» E poi quello sguardo pieno di dolcezza che cercava il perdono di un’insegnante. Ma che non trovò. Olja non capiva.

Sofia si allontanò velocemente per il corridoio, poi cominciò a correre, salì le scale, aprì la porta, la spa-lancò e uscì dal conservatorio. Si ritrovò fuori, tra la gente, nella luce del giorno. Ferma in piedi, nella piazza, mentre la gente le passava vicino, davanti, dietro, ignorandola. Qualcuno andava all’edicola, qualcun altro entrava in un bar, altri passeggiavano chiacchieran-do, qualcuno alla fermata aspettava l’autobus. “Ecco”

pensava, “voglio essere così, ignorata, sconosciuta tra la gente. Non voglio fama né successo, non voglio essere una pianista dall’esecuzione perfetta, non voglio che si occupino di me, non voglio domande e non voglio trovare risposte.”

Allora si incamminò lentamente, come se fosse invi-sibile, non sapendo che presto invece si sarebbe trovata ad affrontare la domanda più difficile della sua vita.

Vuoi essere di nuovo felice?


Le pale dell’elicottero giravano veloci. Il pilota piegò di poco a destra la cloche, affrontando dolcemente quell’ultima cresta particolarmente innevata.

«Ecco, siamo arrivati. Il campo è laggiù.»

Gregorio Savini guardò con un potente binocolo a circa cinquemila metri di distanza. Il piccolo campo sembrava disegnato sul profilo del sole che stava sorgendo poco più in là.

Il pilota tirò a sé la cloche e disattivò alcuni inter-ruttori, preparandosi ad atterrare. Le pale rallentarono.

Gregorio lo studiò nei movimenti, era bravo anche se molto giovane. Dopo aver volato per ben sei ore con il jet personale di Tancredi, erano atterrati nell’aeroporto di Toronto e da lì erano ripartiti con l’elicottero per i monti intorno a Thunder Bay. Ormai erano quasi quattro ore che si trovavano in volo e sentiva qualche leggero acciacco. Aveva fatto di tutto nella sua vita: contractor, paracadutista, comandante di aerei e perfino l’elicotterista. Aveva pilotato anche il Sirosky S-, che ora stava guidando il giovane pilota ed era per questo che poteva apprezzarne le capacità. Per un lungo periodo da giovane aveva amato la guerra ed era stato mercenario, aveva conosciuto il sangue, la violenza e la crudeltà, tanto da averne la nausea. Allora era entrato nelle forze di terra impegnate in controlli e verifiche di eventuali attacchi terroristici. Era lì che aveva imparato tutte le più raffinate tecniche di intercettazione, copertura e intelligence. Non c’era persona della quale Gregorio Savini non potesse sapere tutto e anche con una certa facilità. Aveva costruito una rete di amicizie, fatta di favori e regali che piano piano si era estesa in ogni parte del globo.

Questo progetto era stato voluto da Tancredi. All’inizio Gregorio aveva accettato l’incarico con qualche reti-cenza, ma poi aveva capito quanto fosse importante per Tancredi. In poco tempo questa rete era servita a ogni loro necessità, qualsiasi problema trovava facilmente una soluzione o la strada più semplice da percorrere.

Gregorio si era così dovuto ricredere. E da quel giorno aveva guardato con altri occhi quel ragazzo.

Gregorio aveva un ottimo rapporto con Tancredi.

Era stato chiamato da suo padre fin da quando lui era molto piccolo per esserne il tutore, la guardia del corpo, l’autista, ma anche in qualche modo per fare le sue veci.

Era arrivato in quella villa che aveva quasi trent’anni.

«Perché hai la pistola?» Il piccolo Tancredi era spuntato dalla finestra aperta sul giardino. Gregorio se ne era accorto da tempo ma aveva fatto finta di niente.

Tancredi, il più piccolo dei fratelli, era anche quello più curioso nei suoi confronti.

«Questa?» sorrise alzando lo sguardo sul bambino alla finestra. «Serve a far comportare bene le persone cattive.»

Tancredi fece il giro ed entrò dalla porta, si appoggiò alla sedia di paglia che era nell’angolo. «E quante sono le persone cattive? Più di quelle buone?»

Rimase così con lo sguardo ingenuo e un bel sorriso da bambino ad aspettare curioso la risposta.

Gregorio finì di oliare la pistola e se la rinfilò nella fondina che portava sotto la spalla sinistra. «Sono lo stesso numero. Sono i buoni che a volte perdono di vista quello in cui avevano creduto un tempo.»


La risposta piacque a Tancredi, anche se forse non l’aveva capita del tutto.

«Allora devi sparare a Gianfilippo. Aveva detto che avremmo giocato insieme a tennis e ora è al campo che gioca con il suo amico. Prima era buono e ora è diventato cattivo.»

Gregorio gli accarezzò la testa. «Non si diventa cat-tivi per così poco.»

«Ma me l’aveva promesso!»

«Allora un po’ cattivo è stato. Andiamo a vedere i cavalli, ti va?»

«Sì, mi piacciono…»

Raggiunsero le stalle e passarono lì tutto il pomeriggio. Accarezzarono un giovane cavallo arabo, arrivato da chissà dove. Gregorio si trovava bene con Tancredi, aveva sempre desiderato un figlio e chissà che la vita non tenesse ancora in serbo questa sorpresa per lui. Ma per come si era abituato a vivere, non sarebbe stato facile.

Aveva sempre avuto delle relazioni molto brevi, quanto la sua permanenza in un luogo. Certo, ora era già qualche mese che stava con quella famiglia, lo pa-gavano bene, il posto gli piaceva e forse questa volta sarebbe rimasto più a lungo del solito. Magari avrebbe conosciuto una ragazza del posto e passato tutto il resto della sua vita lì.

Tancredi lo tirò per la giacca. «Gregorio, posso salirci?»

«Non hai paura?»

«Perché dovrei? Questo cavallo è mio, me l’ha regalato mio padre.»

“Già, questo bambino ragiona così.”

«Ma non è una cosa, è un animale e gli animali sono diversi dagli uomini. Sono istintivi. Non lo puoi comprare, se si trova bene con te allora non avrai problemi, altrimenti potrebbe anche non essere mai tuo.»

«Neanche se l’ho pagato proprio io…»


Gregorio sorrise. «Neanche in quel caso.»

«E come si può fare allora?»

«Con l’amore. Vieni.» Lo prese in braccio, lo avvicinò al cavallo e piano piano gli portò la mano verso la criniera. «Ecco, accarezzalo, così.» Ma appena Tancredi ci provò, il cavallo nitrì alzando il muso all’improvviso, tanto che il bambino ritrasse subito la mano, spaventato. Gregorio Savini rise.

«Ma come, hai detto che non avevi paura!»

«Me l’hai fatta venire tu con tutti quei discorsi!»

Gregorio lo mise giù. Era furbo. «Tieni, dagli queste…» Gli passò un po’ di zucchero. Questa volta il cavallo fu più tranquillo e Tancredi riuscì a mettergli delle zollette in bocca prima di tirar via la mano. Dopo appena una settimana, era sul cavallo e passeggiava nel recinto davanti alle stalle. Gregorio lo teneva a bada con una lunga corda, facendolo girare in tondo e pian piano Tancredi stesso, dando di tacco per quel che poteva, lo portò al trotto.

«Ecco guarda, Gregorio… Ora va, cammina… Funziona!»

«Ricordati che è un animale e ha bisogno del tuo amore.»

Mentre andava, Tancredi gli accarezzò il collo e gli disse qualcosa all’orecchio. Gregorio fu felice di avergli insegnato ad andare a cavallo. Quella fu la prima delle tante cose che gli insegnò, ma poi Tancredi crebbe e dopo la morte di Claudine cambiò. A diciannove anni decise di abbandonare per sempre la villa in Piemon-te, cominciò a viaggiare e volle Savini sempre con sé.

Forse anche per questo Gregorio aveva abbandonato l’idea di avere un figlio, perché in qualche modo l’aveva trovato in lui e senza le naturali complicazioni di avere vicino una donna. Il loro rapporto era andato crescendo anche se avevano mantenuto sempre un certo distacco.


«Ecco. Siamo arrivati.»

Le pale del motore cominciarono a rallentare mentre i pattini toccavano terra affondando nella neve. Non fecero in tempo a scendere dall’elicottero che un vecchio indiano gli venne incontro.

«Ben arrivati! Com’è andato il viaggio?»

«Benissimo, grazie.»

«Immagino che vorrete riposare un po’… Ci sono due tende tutte per voi. Dentro troverete anche del materiale nuovo per stare più caldi, come mi avete chiesto.

Vi ho fatto prendere giubbotti in pile e microfibra. Andate pure, io vi aspetterò qui fuori.»

Tancredi guardò Gregorio e gli sorrise. Savini aveva pensato proprio a tutto, nei minimi particolari e in pochissimo tempo. Un uomo così era di un valore unico.

“Sono stato fortunato” pensò e scomparve nella sua tenda. Quando più tardi uscì, Gregorio e l’indiano erano già pronti. Montarono tutti e tre sulla jeep e salirono sulla montagna per le strette strade del monte.

«Io sono Peckin Puà. O almeno così mi chiamano da queste parti. Il mio vero nome è molto più lungo e molto più difficile ma è inutile che ve lo dica perché ormai mi sono talmente abituato a questo che, se mi chiamaste con l’altro, forse neanche mi girerei… Ah ah.» E rise da solo con una risata un po’ goffa che alla fine inciampò in un colpo di tosse, facendo intuire in qualche modo il vizio del fumo. Del tutto assente, invece, il senso dell’umorismo.

Tancredi e Gregorio si guardarono. Gregorio allargò le braccia sentendosi in qualche modo responsabile di quell’inutile tentativo di cabaret. Tancredi gli sorrise, tutto sommato anche questo faceva parte della bellezza dello scenario. La jeep saliva lungo la stretta e ripida strada della montagna. Il sole stava sorgendo velocemente, alcune pareti si illuminarono all’improvviso. La neve brillava e rifletteva la luce rosa dell’alba che andava a colpire gli anfratti più bui e nascosti.


«Ci fermiamo qui.» Scesero tutti e tre dalla jeep.

Peckin Puà chiuse gli sportelli e aprì il grande bagaglia-io. «Mettetevi queste…» Allungò a Tancredi e Gregorio delle grandi racchette da neve. Subito le calzarono. «E

ora prendete questi.» Passò loro la vera ragione per cui Tancredi era voluto andare fin lassù. Le balestre in fibra di carbonio. Leggere, precise, mortali. Avevano dieci frecce già pronte nel caricatore e una ipotetica portata e precisione fino a trecento metri. Tancredi aveva scoperto quest’arma micidiale in un articolo e l’idea che in Canada ci fosse quella nuova caccia l’aveva improvvisamente entusiasmato.

«Andiamo di qua e tenete le punte verso il basso.»

Ora Peckin Puà non scherzava più. Camminarono lentamente nel canyon e con grande fatica risalirono una collina di neve fresca. Continuarono così per più di un’ora quando arrivarono all’ingresso di un canyon più piccolo.

«Shhh…»

Peckin Puà si accucciò dietro una roccia.

«Dovrebbero essere qui.»

Piano piano sollevò la testa facendo capolino da dietro un masso. Sorrise. Sì. Proprio come pensava. Pasco-lavano tranquilli in quella piccola radura, staccavano delle piccole bacche da alcuni cespugli. Il sole ormai era alto e faceva più caldo. Tancredi e Gregorio si avvicina-rono a quelle rocce e guardarono il punto indicato da Peckin Puà. Allora li videro. Era una bellissima coppia di cervi bianchi. Uno era più grosso, alto, austero, aveva le corna fitte e forti e ogni tanto le incastrava dentro quei cespugli e li scuoteva e quasi li sradicava tant’era la forza del suo collo. Ma così facendo aiutava la sua compagna a mangiare le bacche che erano cadute nella neve. Peckin Puà prese il binocolo che teneva al collo e li mise a fuoco. Poi guardò la numerazione sopra le lenti. «Sono più di trecento metri. È un tiro impossibile.»


«Difficile ma non impossibile» disse Tancredi, liberando la sicura della balestra.

L’indiano sorrise. «Sì, quasi impossibile e molto fortunato.»

Tancredi si accovacciò, armò la balestra e la poggiò tra le rocce. Poi accostò l’occhio al mirino. E improvvisamente quel cervo maschio comparve nella lente. Bello, distratto, innocente. Continuava sotto il sole la sua lotta con i rami del cespuglio, se li scrollava quasi di dosso, ballava con le corna arcuando la schiena, mostrando la forza dei suoi muscoli, di quelle zampe selvagge abituate da sempre ad arrampicarsi tra quelle rocce. Poi fu come se sentisse qualcosa. Si fermò di colpo nell’aria. Alzò la testa e fissò un punto. Rimase fermo, immobile, sospet-toso. Aveva avvertito qualcosa. Un pericolo, un altro animale, ancora peggio, l’uomo. Il cervo si girò a scatti una volta, due. I riflessi del sole incrociarono il suo sguardo e non vide nulla. Allora, incauto, ritornò a occuparsi del cespuglio.

Tancredi portò l’indice sul grilletto.

«Fermo.» La mano dell’indiano si posò all’improvviso sulla balestra.

Tancredi si girò verso di lui. Lo fissò. L’indiano non si staccò dal suo potente binocolo. «Guarda.» Indicò con la mano in quella stessa direzione. Tancredi rimise l’occhio al mirino e lo spostò di pochi millimetri. Tra i due cervi spuntò all’improvviso un giovanissimo cerbiatto bianco. Arrancava incerto sulle sue giovani zampe, scivolava, cadeva ogni tanto con il muso nella neve.

Allora la madre lo rimetteva in piedi, aiutandolo come poteva, spingendolo da sotto. Al sole, tra quelle montagne innevate, regnava il silenzio.

Alti pini carichi di neve ogni tanto liberavano i propri rami. Si sentiva allora il suono di una cascata attutito da quell’ultimo manto di neve sotto gli alberi e quell’eco aleggiava leggera per tutta la vallata. La famiglia di cervi bianchi era libera, felice, completa, nel suo perfetto ciclo naturale: vivere, nutrirsi, riprodursi.

Peckin Puà sorrideva guardandoli. «Troveremo qualche altro esemplare più in là, spostiamoci.»

Tancredi scosse semplicemente la testa. Gregorio ca-pì cosa intendeva. Fermò l’indiano. «Siamo venuti per cacciare, non per fare i sentimentali.»

«Ma…»

«I soldi che ha voluto, e sono tanti, non guardano in faccia le emozioni.»

La discussione sarebbe potuta andare avanti se non ci fosse stato quell’improvviso sibilo. La balestra eb-be un minimo sussulto. La freccia era partita. Peckin Puà prese il binocolo con tutte e due le mani, lo strinse forte, lo portò subito agli occhi cercando di vedere, di seguire quella freccia, sperando che sbagliasse. Da trecento metri quell’inesperto cacciatore avrebbe potuto non fare centro. E invece… Stock. Quell’immagine im-macolata, i due giovani cervi, il piccolo in mezzo a loro, la montagna bianca alle loro spalle, il manto di neve sugli alberi. Fu come se improvvisamente si incrinasse.

La neve ai piedi di quel quadro cominciò a tingersi di rosso. L’indiano abbandonò il binocolo.

«Ha sbagliato bersaglio.»

Tancredi rimise a posto la balestra. «No. Era il più difficile. Avevo mirato lui.»

Il piccolo cerbiatto piegò le gambe e cadde con il muso a terra frenando nella neve. Il cranio era stato trafitto da parte a parte e una piccola pozza di sangue si formò lentamente intorno a lui. I due cervi adulti erano immobili, osservavano la loro creatura senza capire. La caccia era terminata.

«Torniamo in città.»


Roma. Aventino. Nelle stradine intorno agli antichi archi, all’inizio della via Appia, tra le ville romane e le grandi pietre del passato, Tancredi correva.

Scorci di verde, caldo. Si teneva in forma ogni mattina, dovunque fosse, New York, San Francisco, Londra, Roma, Buenos Aires, Sidney. Correre per lui era una distrazione, un riordinare pensieri, un disporre giorna-te, programmi, desideri. Correndo gli erano venute le idee più belle. Era come se piano piano si mettessero a fuoco da sole, come se diventasse chiaro ogni volta il giusto passaggio.

Aumentò il passo. All’interno del minuscolo iPod ultimo modello c’erano successi di tutto il mondo: Sha-kira, Michael Bublé, i Coldplay, la playlist che Ludovica Biamonti aveva predisposto per lui. Era lei ad aver preso il posto di Arianna e ormai da più di tre anni tutto procedeva nel migliore dei modi. Era una personal stylist perfetta, di un gusto impeccabile. Aveva costruito una rete di persone che curavano ogni minimo dettaglio della vita di Tancredi. L’acqua che lui amava e beveva, la Ty Nant, la trovava in ogni casa, dalla Sicilia al Piemon-te, da Parigi a Londra, da New York alla sua minuscola isola alle Fiji. Dovunque andasse l’acqua sarebbe stata quella. Così come la scelta dei vini, del caffè e di ogni altro prodotto, che veniva testato, assaggiato e valutato prima di occupare il suo posto nelle varie case. Non so-lo. Ogni fine mese veniva fatto in ogni casa l’inventario di tutto, ciò che c’era, ciò che mancava e in qualunque momento Tancredi arrivasse era come se avesse vissuto lì dal giorno prima. Dal pane fresco al latte, dal giornale alla rassegna degli ultimi avvenimenti importanti del luogo dove si trovava e di quelli internazionali.

Ogni anno Ludovica Biamonti sostituiva completamente gli arredi, rendendoli inevitabilmente à la page.

Eccetto la casa alle Fiji, isola talmente bella e naturale, che non aveva bisogno di cambiare troppo nel tempo.

Lì il progetto di un grande architetto aveva reso la villa un gioiello incastonato nelle rocce, in perfetta armonia con il verde dell’isola. Una piscina naturale entrava in casa. Murene, squali, grandi tartarughe, vivevano sul fondo della piscina, al di là di quello spesso cristallo di oltre dieci centimetri. Si poteva quindi fare il bagno come se si fosse all’interno di un grande acquario senza correre assolutamente alcun rischio.

Il salotto era in legno bianco, proveniente dalle grandi foreste russe dove Tancredi aveva comprato per anni grandi appezzamenti di terreni, allargando così a dismisura il suo impero e senza mai figurare in alcun modo.

Agli occhi di tutti era un semplice ragazzo di trentacin-que anni, elegante forse, che amava le cose belle, ma nessuno avrebbe mai potuto immaginare che occupasse i primi posti nella classifica degli uomini più ricchi del mondo.

Ludovica Biamonti aveva pensato a tutto, quella di-mora era incantevole, un salotto elegante, un’unica vetrata immersa nella natura, e i divani color tortora, che si intonavano perfettamente con i due quadri, Aha o e feti? di Paul Gauguin e A Bigger Splash di David Hockney. In un angolo c’era invece la scultura di Damien Hirst, Lo squalo. Quella casa era perfetta per una vita d’amore. Ecco forse perché era quella in cui Tancredi con meno facilità si fermava durante i suoi viaggi. Perché lui era l’uomo colto, ricco, l’uomo che non voleva amare. Quella casa, come del resto le altre, non avrebbe mai udito le risate di una donna felice e amata, come non avrebbe udito le risate di un figlio. Eppure Ludovica Biamonti non sapeva ancora che si stava sbagliando su una cosa.

L’anno dopo averla assunta, Tancredi aveva controllato personalmente tutte le proprietà. Aveva guardato con cura ogni singolo dettaglio, dai frigoriferi alle tende nuove, dai tappeti agli asciugamani, dalle lenzuola ai piatti. Aveva viaggiato ininterrottamente con il suo jet ed era tornato pochi giorni dopo aver visitato tutte le case. Solo allora aveva confermato la sua assunzione.

«È perfetta, prendiamola!» aveva detto a Gregorio e poi, uscendo dall’ufficio, lo aveva guardato. «Ma è sposata sul serio, vero? Non vorrei trovarmi di nuovo con Sara in piscina…» aveva continuato scherzando.

Gregorio aveva riso. Il giorno dopo però era andato a controllare personalmente i documenti del matrimonio della signora Ludovica Biamonti con un certo Claudio Spatellaro. Era tutto vero, sposata in chiesa e in comune. Solo allora Savini aveva tirato un sospiro di sollievo.

Improvvisamente un tuono. Come un segno del destino. A cielo aperto, in uno splendido pomeriggio di giugno. Inaspettato. Violento. Cupo. E subito un capo-volgersi del mondo. Il cielo diventò scuro. Il sole scomparve e un vento leggero alzò le poche foglie finite a terra. Poi quella pioggia improvvisa, violenta, rabbiosa, grossa. A dirotto, come vere e proprie secchiate d’acqua che arrivavano dall’alto, da chissà quale sciocco inqui-lino infastidito dalle chiacchiere notturne di nessuno.

Tancredi stava ascoltando Ben Harper quando si trovò travolto da quell’improvviso nubifragio estivo. E

accelerò il passo, in un attimo completamente zuppo con l’acqua che gli entrava nella maglietta, nei pantaloncini, nelle mutande, nei calzettoni e poi nelle scarpe.

E gli venne da ridere, lui sempre così preciso, metodico, quasi infastidito da qualsiasi imprevisto sulla sua tabella di marcia, si ritrovò ragazzo sotto quell’acqua. Il cielo era diventato ancora più scuro e la pioggia era diventata fredda, un attimo dopo era grandine. Cadeva giù a toc-chi, piccoli e grandi sassi che rumoreggiavano su ogni cosa fosse lì intorno. Secchi dell’immondizia, lamiere, macchine, sembrava un facile tiro al bersaglio dall’alto o uno strano concerto dal ritmo veloce e continuo pescato da chissà quale repertorio africano.

Tancredi decise che era il momento di sottrarsi a quella pioggia. Poco oltre il ciglio della strada vide una chiesa. Fece a due a due gli scalini e arrivato sotto il porticato trovò subito riparo. Ma il vento continuava a soffiare, anzi sembrava aumentato. La pioggia e la grandine ora cadevano di traverso e quel riparo era inutile.

Allora Tancredi si appoggiò al grande portone in legno.

Era aperto. Lo spinse con tutte e due le mani e la cosa che lo colpì di più, entrando in quella chiesa, furono la luce e il calore. Moltissime candele di tutte le dimen-sioni erano accese su antichi candelabri, alcuni piccoli, bassi, altri più elaborati. E tutte le fiammelle ondeg-giavano, si piegavano avanti e indietro assecondando quell’improvvisa corrente. Quando Tancredi accostò il portone tutto tornò come prima. La porta si richiuse da sola con un tonfo sordo, poi dal lato opposto della chiesa tutte insieme delle voci.

Due violini, una viola, un flauto e pochi altri stru-menti. I dieci bambini terminarono un’aria che anche dalle poche ultime note sentite gli sembrò bellissima.

Un lungo silenzio. Poi una donna davanti al coro si mi-se a cantare. In tedesco. Di fronte a lei l’anziana maestra all’organo suonava sorridendo, con sicurezza, come se fosse la cosa più semplice del mondo. Accanto a lei una maestra accarezzava con le mani l’aria indicando per tutti il tempo. Poco più in là le fiammelle delle candele sembravano quasi tenere il tempo e i disegni delle vetrate cambiavano improvvisamente colore, di sicuro per il passaggio di nubi nel cielo. Un gioco di luci e ombre rendeva l’atmosfera di quella chiesa ancora più magica.

Erbarme dich, mein Gott, um meiner Zähren willen!

Abbi pietà, mio Dio, delle mie lacrime…

Poi all’improvviso, senza alcun motivo, Tancredi si girò. Era come se avesse sentito qualcosa. Ma non era stato nulla. O forse tutto. Dal buio di una delle navate, a pochi passi da lui, dalla penombra più fitta, lei fece un passo in avanti. Improvvisamente il suo viso prese luce da quelle fiammelle. Tancredi rimase a bocca aperta.

Quel delicato profilo, quegli occhi azzurro-verdi, quelle leggere lentiggini, quei capelli castani accesi da riflessi biondi, quella donna, quella bellezza, le sue labbra dischiuse, quei denti bianchi, perfetti. Tancredi sbatté gli occhi come se non volesse credere a ciò che vedeva, come se fosse un’apparizione. Ma soprattutto rimase sorpreso: il suo cuore batteva veloce. Quella donna era lì, a pochi metri da lui, nella penombra della chiesa. Ora le fiammelle delle candele ballavano e la illuminavano a tratti, mostrandola per intero. Era alta, snella, con una camicia bianca sotto una giacca blu, dei jeans e delle scarpe da ginnastica. Tancredi cercò di capire da dove venisse, chi fosse. Guardò le sue mani, erano segnate, rovinate dal freddo o da chissà quale incredibile fatica, eppure si muovevano leggere nell’aria. Piccoli, quasi impercettibili movimenti di ogni singolo dito segnavano il tempo, danzavano nel nulla, scandendo perfettamente ogni singola nota. Era sicuramente una pianista.

Tancredi era affascinato da quelle mani. Le guardò di nuovo il viso. Aveva gli occhi chiusi, ondeggiava lentamente la testa a destra e sinistra seguendo la musica.

Tornò a guardarle le dita, cercò il segno di una fede, non la trovò e per la prima volta fu felice. Ma quando guardò meglio e la vide, allora ne fu dispiaciuto. Poi pensò che nulla è per sempre, che avrebbe potuto comunque averla. Poi sorrise. Stava facendo dei pensieri di quel genere proprio all’interno di una chiesa. Continuò a guardarla, e se avesse incrociato i suoi occhi?

Cosa avrebbe fatto? Un sorriso? Uno sguardo deciso e determinato a trasmetterle il suo desiderio?

E proprio in quel momento accadde. La donna si girò lentamente verso di lui e i suoi occhi incrociarono quelli di Tancredi. Lo fissarono. E fu come se in quell’attimo entrassero dentro di lui, nel suo cuore, scardinando antiche regole che lo avevano come chiuso, ibernato, spinto in fondo a una cella segreta. Lei semplicemente sorrise. E fu un sorriso tenero, educato, di una donna che stava condividendo con quell’uomo solo una cosa: la passione per la musica. E Tancredi non seppe cosa rispondere, non resse quel semplice, educato sorriso. Si voltò, fece finta di niente, abbassò la testa addirittura imbarazzato, quasi confuso per quella sua reazione.

Improvvisamente la musica finì. Allora Tancredi fu come se si ridestasse. Si girò. Destra. Sinistra. Quasi sgomento. Lei non c’era più. Poi sentì un applauso, delle risate, guardò verso il centro della chiesa, i ragazzi erano in festa, l’anziana insegnante in mezzo a loro e quella donna li aveva raggiunti. Non riusciva a sentire in maniera distinta le loro voci ma si accorse che dovevano conoscerla. Qualcuno le tirava la giacca, qualcun altro era sotto di lei che la guardava, una bambina sorrideva e poi sbuffava attirando la sua attenzione. Allora la donna si piegò e le scompigliò i capelli e quella bambina l’abbracciò stretta stretta malgrado le sue piccole braccia non riuscissero a superare neanche la metà della sua schiena. Tancredi sorrise. Le volevano tutti bene. Avrebbe voluto essere uno di loro. Poi si mise a ridere immaginando cosa avrebbero detto quelli che lo conoscevano di quel suo pensiero. Be’, se non altro quella donna lo metteva di buon umore.

Sofia prese in braccio Simona, quella piccola peste che non doveva avere più di sei anni, ma che in com-penso aveva una voce melodiosa e perfettamente into-nata. «Allora…» le disse sorridendole, «sei diventata bravissima, ma come hai fatto?»

«La nostra insegnante Olja» e indicò con il mento l’anziana maestra. «E lei che ci spiega tutti i trucchi…»

Sofia la strinse a sé. «Ma non sono trucchi. Non ci sono inganni in quello che fai, solo la tua bravura, il tuo impegno, l’allenamento e la passione.»

Simona l’abbracciò nascondendosi tra i suoi capelli.

«Sì, ma con te mi divertivo molto di più…»

Stette al gioco e le sussurrò a sua volta: «Sì, è vero, noi ci divertiamo sempre un sacco». Poi la mise a terra.

Simona corse di nuovo nel gruppo a giocare con gli altri.

Olja si avvicinò a Sofia. «Mi ha fatto piacere che tu sia passata.»

«Sì.» Guardò tutti quei bellissimi bambini, avevano un candore, una luce e una purezza unici. Aver cantato fino a quel momento li aveva in qualche modo affati-cati. Ora sembravano dei grandi che chiacchieravano educatamente dei tanti impegni della vita, con un’unica differenza: erano privi di qualsiasi malizia. «Sono diventati veramente bravi. Avete fatto la Corale di Bach…

non so, ero davvero affascinata.»

«Già. Potrebbero esserlo ancora di più, tutti possiamo migliorare, lo diceva sempre Bach, appunto.»

Sofia fece finta di non sentire. Olja però la conosceva bene e decise che era il caso di affondare ancora di più la lama. «Pensa a cosa hai rinunciato tu. Ma se proprio non vuoi suonare più, sono sicura che saresti un’ottima mamma. La vita ti si riempirebbe.»

Non si voltò. «Olja, la mia vita era la musica, suonare è ciò che ho amato, amo e amerò per sempre e proprio per questo ho deciso di rinunciare.»

«Ancora oggi, a distanza di così tanto tempo, maestri importanti mi chiedono di te, vorrebbero averti, potresti fare concerti in tutto il mondo. Sarebbero disposti a pagare anche cifre immense.»

«Non mi servono soldi. Quello che mi serve non me lo può dare nessuno.»

«E cosa ti serve, Sofia?»

Solo allora lei guardò la sua insegnante negli occhi.

«Un miracolo.»

A quel punto Olja non seppe più cosa rispondere.

Guardò allontanarsi in silenzio quel talento, quella giovane, superba promessa che sarebbe potuta arrivare lontano e che aveva deciso invece di chiudersi dentro casa. Fece un sospiro.

«Forza ragazzi, facciamo un’ultima prova. Prendete pagina dodici, voglio che alla messa di domenica tutti ri-mangano a bocca aperta con Ich will hier bei dir stehen.»

Fuori aveva smesso da poco di piovere. Sofia si fermò sui gradini della chiesa e fece un lungo respiro.

Chiuse gli occhi inebriandosi di quei profumi di erba bagnata, terra, vita. Sì, vita. E dov’era finita la sua? Il suo entusiasmo, le note del suo cuore? Quando riaprì gli occhi lui era lì, a pochi passi. Aveva visto quell’uomo all’interno della chiesa ed era rimasta sorpresa che un estraneo fosse venuto ad ascoltare quel coro, ma si era subito dimenticata di lui. Le era sembrato uno di quei turisti che vanno a fare jogging sull’Aventino e ne ap-profittano per entrare anche in qualche chiesa. Era un bellissimo ragazzo e le stava sorridendo. Per un attimo le sembrò di conoscerlo. Eppure, si sforzò, non lo aveva mai visto prima, poteva benissimo essere uno straniero.

Aveva degli occhi blu, scuri, intensi e in qualche modo freddi, l’abito poi non poteva aiutarla visto che aveva appena una maglietta e dei pantaloncini.

Mentre aspettava fuori dalla chiesa, Tancredi aveva immaginato il loro incontro. Ma quale sarebbe stata la frase giusta per una come lei? Non sapeva assolutamente nulla di quella donna, non riusciva a capire la sua estrazione sociale, le scuole frequentate, le origini, se fosse di Roma, di quale quartiere, che lavoro facesse.

Sapeva solo che doveva conoscere bene le note musicali. Sì, era una pianista o un direttore d’orchestra o forse una violinista. Ma lui sapeva poco di musica.

Rimasero ancora in silenzio sulle scale di quella chiesa, le nuvole si stavano aprendo. Su un prato poco lontano, a cavallo tra il verde e il cielo, c’era un arcobaleno che segnava la fine di quella pioggia. Tancredi si guardò in giro, quella luce così particolare, loro due fermi su quella scalinata. La situazione stava diventando imbarazzante.

«Sembriamo un quadro di Magritte. Lo conosci Magritte?»

“È italiano” pensò Sofia. “Ed è sfacciato.”

Tancredi sorrideva. Sofia lo fissò. Aveva un fisico asciutto, ben definito, era alto, muscoloso ma propor-zionato, poteva essere chiunque, anche un tipo pericoloso. Il suo sorriso però in qualche modo dava sicurezza, o meglio, c’era qualcosa in lui che lasciava intuire come una sofferenza lontana. Scosse la testa tra sé. Si stava facendo troppi film. Era semplicemente uno sconosciuto che voleva attaccare bottone. O peggio un poveraccio che voleva rubarle la borsa approfittando del suo fascino. Involontariamente la strinse a sé.

«Sì, conosco Magritte. Ma non mi ricordo però di un quadro dove ci sono due personaggi che perdono tempo.»

Tancredi sorrise. «Ti ricordi quel quadro dove c’è una pipa? E quello che conosce la maggior parte della gente. Sopra c’è scritto: “Ceci n’est pas une pipe…”.»


«Che vuol dire: “Questa non è una pipa”, conosco il francese.»

«Non lo metto in dubbio.» Sorrise di nuovo. «E che non mi hai fatto finire. Quel quadro vuol dire che tutto ciò che è, in realtà non è. La pipa è qualcosa di più, non è solo una pipa, è una rappresentazione, è l’uomo o la donna che l’hanno fumata prima o è semplicemente un quadro famoso. Così noi…» Sofia faceva fatica a seguirlo, ma il suo sorriso era di una bellezza imbarazzante, «cioè noi non siamo solo due personaggi che perdono tempo. Se Magritte avesse potuto scegliere magari saremmo altro, ci troveremmo in un suo quadro in chissà quante possibili realtà… Potremmo essere due amanti del passato alla corte di un re, o due che passeggiano a Parigi o a New York o su un prato londinese o in un grande teatro, interpreti di chissà quale rappresentazione in costume. Perché hai visto in noi una perdita di tempo?»

Quasi inebriata da quelle parole, Sofia si era lasciata trasportare attraverso tutti quei quadri che Tancredi le aveva fatto vedere. Loro due modelli di Magritte… E

quell’uomo continuava a sorridere e a parlare e lei quasi non ascoltava, persa nei suoi occhi, nella sua divertita convinzione che tutto fosse possibile.

«E magari tu suoni, sei una pianista in una sala di Parigi e io accanto al tuo pianoforte che giro le pagine del libretto.»

Quell’ultima immagine fu come un sussulto, la riportò di colpo alla realtà, all’impossibilità di tutte queste fantasie.

«Ti devo dare una brutta notizia.» Tancredi rimase come interdetto, tutto quel suo entusiasmo gli si spense in bocca. «Magritte è morto tanto tempo fa.»

Sofia lo superò e prese a scendere veloce gli scalini della chiesa.

Tancredi pronto le fu subito dietro.


«Mi hai fatto preoccupare. Sì, lo sapevo… Ma perché fuggi così? Aspetta…»

Così la fermò sulle scale mentre stava per andar via.

Sofia guardò la sua mano che le bloccava il braccio ma non ebbe paura, anzi. Provò un brivido improvviso, una sensazione nuova, assurda. Appartenere lì sulla scalinata di quella chiesa a uno sconosciuto. Si vergognò di quel desiderio, di quella voglia che l’aveva travolta in quell’istante, sorprendendola. Il cuore le batteva forte.

Ma che sto facendo? Sono pazza? Cos’è che mi ha preso? Sì. Sconvolgere la mia vita, fare l’amore adesso così, su questi scalini, con lui, farmi prendere tra la polvere e il bagnato. Non credeva a quello che le era passato per la testa. Perfino il respiro si era fatto corto, affannato.

Alzò lo sguardo su di lui. Ma Tancredi non capì.

«Scusa… volevo solo non farti andare via.» Abbandonò il suo braccio. «Non credi che nulla accada per caso? Oggi era un giorno qualunque, io stavo correndo quando all’improvviso ha cominciato a piovere a dirotto come non è mai capitato in questi giorni e allora sono entrato in chiesa… Sai da quanto non vado in chiesa?»

Tancredi pensò a Claudine ma fu solo un attimo. «Da quasi vent’anni ormai… Ci volevi tu per farmi ravvici-nare alla fede.»

Sofia sorrise. «Non mi hai fatto ridere. Non si scherza su queste cose.»

«Non è vero, ti ho visto che sorridevi…»

«Be’, allora stavo sbagliando anch’io.»

Tancredi si fermò e fece un lungo respiro. «Hai ragione. Ripartiamo da prima. Non potrebbe essere un segno del destino? Qualcosa che faccia riflettere tutti e due, forse le nostre vite non vanno bene, dobbiamo ricominciare da qui, da oggi…»

Sofia rimase in silenzio. Tancredi pensò che se non se ne era andata e lo stava ascoltando era già un piccolo successo. Non doveva perdere tempo, doveva incalzarla ancora.


«Diamoci solo una possibilità, conosciamoci un po’

di più, prendiamo un caffè, qualcosa in quel bar…»

Indicò un piccolo bar proprio lì vicino. «Passiamo un po’ di tempo insieme…» La vide incerta. «Un’ora. Solo un’ora, poi capiremo che non c’era niente, che non ne valeva la pena, che è giusto continuare per la nostra strada. Ma se così non fosse? Magari era simpatico.

Forse… Chissà cosa mi voleva dire… Ce lo domanda-remo per tutta la vita, non avremo risposta, rimarremo per sempre con quel dubbio…»

Sofia ci pensò su un attimo. Una nuova vita… Si ricordò dei suoi pensieri di qualche giorno prima, davanti a quello specchio in cucina, la sua stanchezza, il tempo che scorre, il mondo in movimento e la sua vita immobile. Poi si ricordò della promessa. Ma chi era quell’uomo davanti a lei? Quel ragazzo. Sì, uno bello…

E poi? Uno che voleva un’avventura, magari una scopata fuori programma, uno che le avrebbe fregato la borsa se si fosse distratta, magari uno che aveva bisogno di soldi. Sì, parlava bene ma a volte le parole non sono suf-ficienti. La vita è un’altra cosa. Servono fatti. Costruire.

Forse un tempo era una superficiale, una capricciosa, una come tante. Ma bene o male la sua vita era cambiata. Ora Sofia si sentiva importante per qualcuno, per il suo progetto, per Andrea e i suoi miglioramenti.

Guardò meglio quel tipo di fronte a lei. Aveva degli occhi blu profondo, pieni di speranza, era come se aspettassero solo una sua risposta. Quello che lei avrebbe detto sembrava la svolta della sua vita. Sofia rimase in silenzio e senza volerlo si morse il labbro. Era bellissimo e quel suo sorriso sicuro le piaceva, la attraeva in maniera pericolosa e in qualche modo le faceva paura.

Poi improvvisamente capì. Quell’uomo era una prova.

Era come il suo desiderio continuo di sedersi a un pianoforte e suonare. Allora fece un lungo respiro, ritrovò l’equilibrio e la forza.


«Mi dispiace. Dovremo vivere con questo dubbio.»

Sofia riprese a camminare, scese gli ultimi scalini e si diresse verso la macchina. Tancredi la seguiva come sconfitto. Cercava disperatamente qualcosa che ancora la potesse fermare, convincere, incuriosire… Ma non gli veniva in mente nulla, non sapeva niente di questa donna se non che era splendida, che lo aveva stregato, che mai nella sua vita si era sentito così coinvolto, dannata-mente preso, disperatamente attratto.

Tentò l’ultima mossa.

«Non ci credo che non hai curiosità, che non vuoi dare una minima possibilità…»

«A chi?»

«A noi due.»

Sofia rise. «A noi due? Ma noi non siamo niente.»

«Non è vero.» Tancredi ora era serio. «Ogni volta che incontri qualcuno la tua vita cambia e che tu lo voglia o no noi ci siamo incontrati, io sono entrato nella tua vita e tu nella mia, come quella musica in chiesa e le tue mani che suonavano nell’ombra mentre eri a occhi chiusi…»

Sofia fu colpita dal fatto che lui l’avesse vista. Tancredi continuò: «Cos’era? Schubert, Mozart…».

«Bach, La Passione secondo Matteo.»

«Ecco, perfetto, un pezzo che io non ho mai sentito, che non conoscevo. Tutto questo secondo me è un segno…» Sofia arrivò alla macchina. Tancredi era davanti a lei. «Non credi? Vorrà dire qualcosa, no?»

«Sì.» Sofia si sedette al volante. «Che dovresti conoscere qualche compositore in più.» Accese il motore e partì. Tancredi, rimasto solo in mezzo alla strada, le urlò dietro: «Sono d’accordo con te. Lo farò!».

Sofia lo guardò nello specchietto retrovisore e sorrise. “Già, ma io non avrò più la possibilità di interrogar-ti…” Non sapeva quanto si stesse sbagliando.

Tancredi vide la macchina fare la curva in fondo alla strada. Si frugò nelle tasche dei pantaloncini. Niente.

Non aveva nulla con sé. Per Gregorio Savini sarebbe stato un gioco da ragazzi. Doveva solo non dimenticare quella targa.


Appena sentì il rumore della porta, Andrea scrisse velocemente una frase e poi chiuse il file. Era soddisfatto, gli mancava poco ma stava venendo un bellissimo lavoro. Sofia sarebbe rimasta senza parole.

«Ciao…» Spuntò sulla porta e gli sorrise.

Andrea poggiò il portatile sul comodino lì accanto.

«Ciao amore. Oggi mi sei mancata moltissimo.»

Sofia alzò le spalle andando verso il bagno. «Lo dici ogni volta…. Non è più credibile.»

«Ma è vero.»

Iniziò a lavarsi le mani e alzò la voce per farsi sentire.

«Ma se ti sono mancata moltissimo anche ieri… Allora è stato più oggi o più ieri?»

«Diciamo che è una mancanza esponenziale… Come la partenza di una piccola palla di neve che diventa una valanga.»

Sofia rientrò dal bagno. «Cioè?»

«Più ti allontani e più cresce la mancanza.»

«Uhm, sei un architetto poco convincente.»

«Ma è così!» Decise che questo gioco era andato troppo avanti. «Cosa hai fatto di bello?»

«Oh, sono andata a sentire Olja e il suo coro in una chiesa dell’Aventino…»

«Era bello?»

«Sì. Si stanno perfezionando e la piccola Simona, che veniva anche qui a casa quando le davo lezioni, te la ricordi? È bravissima.»


Andrea avrebbe voluto riprendere il discorso del pianoforte. Sapeva però quanto lei non volesse tornare più su quella decisione.

«Su che pezzo hanno cantato?»

«Bach, stanno preparando due Corali della Passione.»

«Bellissima. La Passione secondo Matteol»

«Vedo che te la ricordi.»

«Sì. È veramente… inebriante. Ecco, non trovavo la parola giusta. Come un ottimo vino bianco… Sì, inebriante.»

«Ne vorresti?» Sofia andò in cucina. Poco dopo comparve con due calici di un ottimo Sauvignon. Ne passò uno ad Andrea, poi si allontanò, girò un interruttore e abbassò le luci. Andrea la guardava sorpreso.

Lei tornò e alzò il calice. Anche Andrea sollevò il suo.

Brindarono. Rimasero un attimo in silenzio per cercare il motivo di quel brindisi ma Sofia lo trovò subito.

«A questo momento, come dici tu, inebriante.» Poi diede un lungo sorso. Il vino era alla temperatura ideale e scese giù velocemente. Sofia chiuse gli occhi. Per un attimo sentì la mano di quell’uomo sul suo braccio, il suo sguardo penetrante, il suo sorriso. Ma non ricordò nessuna frase, nessuna delle sue parole. Solo il desiderio che aveva provato su quella scalinata. Allora aprì gli occhi e guardò Andrea. Stava bevendo il suo vino a piccoli sorsi, completamente innocente. Sofia finì il bicchiere e se ne versò ancora. Diede un altro sorso, poi poggiò il bicchiere sul comodino e cominciò a togliersi la giacca e la camicetta. Infine le scarpe e i pantaloni.

Prese una sedia e si mise vicino al letto. Andrea la guardava, teneva il bicchiere stretto tra le mani davanti alla sua bocca. Apparve il suo sorriso. La sua voce fu più bassa. «Inebriante… Ti è piaciuta questa parola?»

«Sì…» Sofia si stava accarezzando le gambe. Salì piano piano su dal ginocchio, fino alla coscia, prima con la mano destra, poi con tutte e due, alla fine lentamente le portò verso l’interno e aprì leggermente le gambe guardandolo fìsso negli occhi. Andrea si accorse di quelle bellissime mutandine nere di pizzo. Sofìa le sfiorava dolcemente, chiudeva gli occhi e sospirava. Bevve di nuovo un po’ di vino. Riappoggiò il bicchiere sul comodino e infilò la mano destra sotto le lenzuola. Guardava decisa e determinata Andrea che teneva ancora il bicchiere.

Avanzò sotto le lenzuola, poi salì sulla gamba di Andrea e si infilò nel pigiama. Lui fece un sospiro. «Ah…» L’incidente non gli aveva tolto la sensibilità e la possibilità di provare piacere. Ora Sofia lo accarezzava, muoveva la sua mano sotto le lenzuola su e giù lentamente. Con l’altra mano aveva spostato le mutandine, la muoveva dentro e fuori. Stava dando piacere a tutti e due.

Poi si fermò un attimo. Si versò dell’altro Sauvignon, ne bevve un lungo sorso e lo tenne in bocca, guardò Andrea maliziosa, spinta, monella e si infilò con la testa sotto le lenzuola. Nel buio, sotto le coperte, si mosse velocemente fino a trovarlo e lo prese in bocca, facendo cadere qualche goccia di vino. Andrea ebbe un sussulto di piacere, improvvisamente rapito da quella sensazione fredda e poi di nuovo da quella bocca calda. Stava godendo moltissimo, era eccitato da quella strana Sofia.

E lei, sotto le lenzuola, si sentì improvvisamente au-dace come non mai. Stava pensando a lui. A quell’uomo sconosciuto, alle sue mani eleganti, al suo fisico asciutto e forte, al suo sorriso, ai suoi occhi. In quel buio profondo si vide davanti alla facciata della chiesa, su quella scalinata, gli aveva appena abbassato i pantaloncini e lo stava facendo lì davanti a tutti, alla gente che passava, alla sua insegnante Olja. Con la mano sinistra continuava ad accarezzarsi, poi si sfilò velocemente le mutandine. Si infilò del tutto sotto le lenzuola, abbassò il pigiama ad Andrea e gli salì sopra a cavalcioni. Se lo infilò dentro con facilità, era tutta bagnata ed eccitata e continuò a cavalcarlo così, a occhi chiusi, spingendo avidamente in avanti, sempre più forte, come non aveva mai fatto. In realtà era come se stesse scopando con due persone e in un attimo venne.

Poi cadde in avanti, su Andrea, sudata, sfinita, ancora a occhi chiusi, con la schiena completamente bagnata. Si liberò dal reggiseno, se lo tolse quasi strappandolo e lo buttò per terra, poi mise un seno nella bocca di Andrea che cominciò a leccarlo mentre lei piano piano continuò ad accarezzarlo più giù tra le gambe, fino a quando poco dopo anche lui venne. Rimasero per qualche attimo in silenzio, come abbandonati uno accanto all’altro, con i loro respiri che non riuscivano ad andare a tempo, affannati. Poi Sofia gli diede un bacio veloce sulle labbra.

«Vado a fare la doccia… Vuoi qualcosa?»

Ma era solo una domanda retorica.

«No» fece Andrea. Lei era già schizzata in bagno. Comparve poco dopo, ora più rilassata, con la faccia un po’

arrossata dal vapore, avvolta nel suo grosso accappatoio bianco. Andrea si era messo un cuscino dietro le spalle e aveva spinto il bottone della spalliera portandola più su.

Le sorrise. «Allora?»

«Cosa?» fece lei sedendosi sul letto.

«No, dico… Devi ascoltare più spesso Bach.»

Sofia si mise a ridere buttando indietro i capelli.

«No… È stata la parola inebriante.» E cominciarono a ridere ancora satolli di quella scorpacciata fisica. Sofia gli versò un altro po’ di vino e si riempì a sua volta il bicchiere. Rimasero così a parlare del più e del meno, ad ascoltare musica. Sofia mise su un ed di Leonard Cohen e in un attimo, mentre Andrea chiacchierava del suo lavoro, delle mail ricevute, del fatto che comunque il suo progetto piaceva e stava andando avanti, lei abbandonò quelle sue parole e si perse in un ricordo.

Grecia, Tinos, un’isola sconosciuta. Ci erano capitati insieme a degli amici subito dopo gli ultimi esami all’università della sessione estiva. Quella sera avevano mangiato tutti insieme in una piccola locanda sul porto, dei sou-vlaki, moussaka e lo tzatziki, che a lei piaceva tanto. Gli uomini si erano naturalmente scolati almeno due birre a testa. Poi avevano fatto una passeggiata ed erano finiti in un piccolo pub a pochi passi dalla spiaggia. Quando erano entrati, il primo a vederlo era stato Andrea.

«Dai, non puoi sottrarti, Sofi! È un segno del destino. Secondo me fino a ieri non c’era…»

Un piccolo pianoforte giaceva in un angolo del locale.

Era di legno nero, portava qualche scritta incisa sopra, come semplice ricordo di fugaci amori estivi. Tutti gli amici cominciarono a fare il tifo per lei, ma in maniera così rumorosa che all’interno del locale anche altri turisti, inglesi, americani, tedeschi e perfino una coppia di giapponesi si unirono a quell’entusiasmo senza capire bene il perché. Iniziarono a battere le mani con quegli italiani, pronti ad accogliere con divertimento qualunque cosa potesse accadere da lì a qualche istante.

Sofia capì al volo che non era il caso di far crescere ancora di più l’attesa, così sbuffò e se la prese con Andrea.

«Mannaggia a te, mannaggia… Anche quando siamo in vacanza! E come se io ti facessi disegnare una mappa altimetrica dell’isola, uffa!»

Poi si sedette su uno sgabello tirato via da un tavolino lì vicino e messo davanti a quel pianoforte. Alzò il coprita-stiera. Si sorprese trovando sul panno la scritta in inglese “Life is music”. Scosse la testa a quell’invito e cominciò a suonare. Visto che si trovava in un pub, che il gruppo era quantomeno turisticamente misto, evitò subito la musica classica e la scelta le cadde naturalmente su un pezzo jazz.

Rifece a memoria i brani di St Germain, cercò di andare in tutte le direzioni come uno strano medley umano, suonando qualche pezzo tedesco, spagnolo, americano, e perfino uno giapponese. Andava a orecchio e si era messa in testa un berretto da baseball rubato al volo a un ragazzo che era passato lì vicino. Si era fatta portare anche lei una birra e sperava in un modo o nell’altro di sfangare la serata, superare l’emozione, la timidezza e la vergogna di esibirsi in quel modo e su quel piano con qualche nota stonata. Per concludere dando un tocco di classico a quella sua misera esibizione, aveva deciso di cedere suonando un pezzo di Tony Scott. Lei lo riteneva il più grande jazzista italoame-ricano, stupidamente ignorato dal suo Paese d’origine e, chissà, magari qualcuno dei presenti avrebbe apprezzato quella sua scelta artistica così raffinata.

Suonò un po’ di tutto e concluse la sua buffa esibizione con Music for Zen Meditation. Alla fine ci fu uno scroscio di applausi. A turno un po’ tutti si avvicinaro-no alla pianista battendole sulle spalle delle pacche ami-chevoli, in segno di grande riconoscimento. Qualcuno le offrì un’altra birra. Quando Sofia provò a restituire il cappellino al proprietario, il ragazzo cominciò a muovere velocemente le mani, scuotendo la testa: «No no…

It’s yours, It’s yours». E sorrideva battendole le mani.

Alla fine Sofia diede una spinta ad Andrea.

«Hai visto cosa mi hai fatto fare?»

«Ma sei stata bravissima. Ho già parlato con il proprietario del locale. Farai due concerti a sera e noi ci ritroveremo con la vacanza pagata!»

«Stupido…»

Andrea l’abbracciò divertito ed era veramente sorpreso di come Sofia, abituata ormai a tenere concerti in mezza Europa, una che aveva suonato il Concerto in Do Maggiore di Prokofiev diretta da Chailly, si potesse vergognare a suonare per divertimento di fronte a qualche turista un po’

ubriaco in un piccolo pub greco. Ma lei era fatta così, con le sue improvvise sfuriate e il suo carattere lunatico, a volte dolce e delicata bambina, e poi di colpo donna, passionale e selvaggia. E quello sguardo malizioso e un po’ brillo fecero pensare ad Andrea che doveva essere proprio in quella fase. E così, senza che nessuno li notasse, sgattaiolarono fuori dal pub, mentre tutti cantavano stonati, sulla vaga scia della musica che lei aveva suonato, sbattendo qualche pinta quasi vuota in un clima di grande euforia.

Andrea e Sofia si ritrovarono a camminare sulla spiaggia, poco distante dal porto. Sofia si tolse le scarpe, camminava con i piedi immersi nelle piccole, lente onde che il mare faceva ricadere sul bagnasciuga, spargendo schizzi luminosi di plancton che subito si spegnevano.

Si chinò, prese un po’ d’acqua tra le mani. «Guarda…»

Strani essermi luminosi e minuscoli abitavano quella piccola pozza. Sofia li ributtò in mare. Poco dopo si trovarono in una zona d’ombra, una lingua di sabbia vicino agli scogli. Il raggio del faro lì vicino passava proprio sopra di loro, illuminando il resto della spiaggia. Andrea le alzò il vestito, le sfilò le mutandine, si aprì i pantaloni e in un attimo la prese. Si amarono lentamente, le loro bocche sapevano di quell’aria salmastra, la pelle sembrava morbida e calda, la notte li avvolgeva e non avevano fretta, solo la voglia di amarsi e tutto il futuro davanti…

Il futuro davanti. Sofia si alzò dalla sedia e andò verso la cucina. «Preparo un’insalata. Ah, ho preso anche un po’ di tonno da fare alla piastra, ti va?»

Andrea rimase un po’ male. Le stava raccontando una cosa. Decise di non farci caso.

«Sì, certo… Non troppo cotto, però!»

Sofia entrò in cucina e aprì il frigorifero, cercò l’insalata poi il tonno e li tirò fuori. Mise la piastra sul fuoco, accese il fornello. Il futuro davanti…

Quella sera, dopo aver fatto l’amore, si erano spogliati e tuffati in acqua, poi si erano rincorsi sulla spiaggia perché Sofia era uscita per prima e gli aveva rubato i vestiti.

«Così impari a farmi suonare per forza! Tornerai a casa nudo come un verme!»


Ma Andrea in poco tempo le fu addosso e la placcò, spingendola sulla sabbia. Nudo, ancora bagnato. Con un fisico abituato a giocare a rugby, era stato un gioco da ragazzi per lui.

«Ahi, mi hai fatto male…»

«Ma amore…»

«Amore un cavolo! Non sono mica una della squa-dra io!»

E così la serata era finita in discussione. E il giorno dopo lui si era beccato il suo broncio e lei un bel livi-do sulla coscia sinistra. Ma presto, complice quell’isola bellissima, avevano fatto pace nel migliore dei modi.

Ora quella vita era lontana. Il tonno era già scottato da una parte. Sofia prese una forchetta e lo girò veloce sulla piastra. Fece un sospiro. Era come se quei due ragazzi non ci fossero più. E in mezzo a quel fumo, all’odore di quella carne bruciata sulla piastra, fu come travolta.

Era passata un’ora da quando era arrivata al pronto soccorso. L’ultima infermiera uscita dalla sala operatoria aveva detto di non sapere nulla. Forse non poteva dire niente. Le veniva da sbattere la testa contro il muro, o ancora meglio sfondare a pugni una di quelle grandi vetrate, aveva bisogno di aria, stava impazzendo.

Iniziò a camminare, su e giù per il corridoio, aprì una porta, poi un’altra. Continuò a percorrere un corridoio dopo l’altro. Quando aveva raggiunto l’ultimo che dava sul cortile, tornava indietro fino alla sala operatoria e poi ricominciava di nuovo.

Era passata un’altra ora, stava facendo l’alba quando improvvisamente fece un nuovo corridoio e, aperta quella porta, si trovò lì. Di fronte alla cappella dell’ospedale.

Entrò lentamente, in punta di piedi. Nelle prime file c’era una piccola suora anziana, quasi piegata su se stessa. Pre-gava in silenzio, forse rivolgendo al Signore una richiesta, o forse ripetendo meccanicamente uri Ave Maria o un Padre Nostro. Per Sofia invece era una novità. Nel tempo si era allontanata dalla Chiesa senza una ragione precisa. Era accaduto, punto e basta, come quando, finite le scuole, si comincia a non sentire più un amico.

Le prime luci del giorno facevano capolino attraverso i grandi disegni sulle vetrate. I muri bianchi della cappella iniziarono a colorarsi di viola, di azzurro, di celeste. E

in quell’alba Sofia capì di aver di nuovo bisogno di tutti, anche del Signore, sempre che ci fosse, o di chiunque potesse ascoltare quella sua preghiera. Così si inginocchiò in quell’ultima fila, posò il viso tra le mani e in silenzio si mise a pregare. Cominciò da lontano, come se riprendesse un discorso iniziato tanto tempo prima, giustificando il suo allontanamento, chiedendo scusa. “Perdonami, so che sono scomparsa così all’improvviso senza una ragione e soprattutto senza avvisarti.” E a Sofia sembrò di sentire delle risposte, quel suo silenzioso monologo diventava un dialogo, come se una persona generosa e buona la capisse, la comprendesse e, in qualche modo, la giustificasse. “Ora so che è da vigliacchi ripresentarsi qui solo perché stanotte mi è accaduto questo…” Sofia alzò il viso e guardò in fondo, sopra all’altare, il Cristo dipinto. Sembrava fissarla. “Ma Ti prego, aiutami, non so a chi altri rivolgermi. In questo momento migliaia di persone Ti staranno chiedendo qualcosa, ma Ti prego, occupati solo di me e di Andrea. Sono pronta a tutto.

Rinuncerò a quello che mi chiederai se lo farai vivere.”

E improvvisamente partì una musica lenta, alcune no-te di uri Ave Maria. E quella musica continuò, era bassa, appena percettibile, eppure le sembrò un segno preciso.

Allora chiuse gli occhi e le venne da piangere ma capì che non poteva essere che quella la sua offerta. “Sì. Rinuncerò a suonare se lui vivrà.” Non seppe aggiungere altro. Le sembrava la rinuncia più grande. Improvvisamente calma, si alzò dall’inginocchiatoio. Anche la suora anziana ora non c’era più e la musica era finita.

Ripercorse tutti i corridoi, fino a tornare davanti alla sala operatoria. Si sedette su quella sedia e aspettò. Alle sei e venticinque il chirurgo che aveva operato Andrea uscì dalla sala, si abbassò la mascherina e andò verso di lei. Dovevano averlo avvisato che c’era una ragazza ad aspettarlo. Camminava lentamente, era stanco, provato e il suo sguardo non prometteva niente di buono. Sofia lo vide, guardò il suo viso e si sentì morire. Solo quando le fu vicino il chirurgo sorrise.

«Ce la farà. Ci vorrà tempo ma ce la farà.»

Allora Sofia si piegò su se stessa e cominciò a piangere. Grandi lacrime le scendevano sul viso, sfinito dalla fatica, dalla tensione, dal senso di colpa. In un attimo aveva visto la sua vita finire insieme a quella di Andrea. Il chirurgo l’abbracciò. Poi lei uscì dall’ospedale, si incamminò nell’alba senza dubitare neanche per un attimo che il suo voto potesse non essere valido. Non avrebbe suonato mai più.

Solo nei giorni seguenti capì quanto sarebbe stato lungo e difficile quel percorso. Andrea era diventato paraple-gico. Non avrebbe potuto più camminare. Aveva avuto una frattura delle vertebre inferiori che avevano coinvolto il midollo osseo, rendendo le sue gambe paralizzate. Si ricordò lo sguardo del Cristo dipinto nella piccola cappella dell’ospedale. Si domandò se la sua rinuncia al pianoforte fosse stata abbastanza, se l’avesse sul serio mai sentita suonare, se sapesse a quale passione, a quale incredibile amore aveva rinunciato per salvare Andrea.

«Ehi, avevo detto appena scottato! C’è un sacco di fumo che viene dalla cucina!»

La voce di Andrea la riportò al presente. Otto anni dopo quella sera. Poche cose erano cambiate. «Hai ragione, amore! Scusa! Stavo pulendo l’insalata e non me ne sono accorta, lo levo subito.»

Più tardi si sedette davanti al letto, preparò il poggia vivande e mise un disco adatto a quella serata, un pezzo tranquillo di Diana Krall. Sofia amava quella musica, era una delle sue autrici preferite. Iniziarono a mangiare uno di fronte all’altra. Andrea era di buon umore, si mise a scherzare sul tonno.

«Più cotto di così non si poteva fare…»

«Hai ragione, scusami. Te l’ho detto, mi sono distratta.»

«Ha riecheggiato forse nella tua mente…» Andrea alzò allusivo tutte e due le sopracciglia, «la parola inebriante}»

Sofia scoppiò a ridere. «No… Scemo.»

Andrea si pulì la bocca, poggiò il tovagliolo sul letto accanto a sé e la fissò negli occhi.

«Tu comunque mi sa che non me la racconti giusta.»

«Perché?» Anche Sofia si pulì la bocca con il tovagliolo ma in realtà lo usò per nascondersi. Era arrossita.

Sapeva già dove Andrea sarebbe andato a parare.

Ora era serio. «Neanche prima dell’incidente sei stata così passionale.»

«Sei ingiusto.»

«Sono realista.» Andrea si lasciò andare nel cuscino alle sue spalle. «Oggi tu hai incontrato qualcuno.»

Lei si mise a ridere. Tentò in tutti i modi di convin-cerlo. «Ma ti assicuro di no. Ho incontrato una decina di bambini e Olja. Se credi che siano stati loro la mia ragione come dici tu… inebriante, vuol dire che sono perversa.»

Sofia pensò che quella forse se la poteva risparmiare.

Sarebbe bastato dire di no e basta. Lo guardò di nuovo negli occhi e questa volta fu seria anche lei. «Andrea, ti assicuro, no, non ho incontrato nessuno.»

E alla fine questo suo atteggiamento fu più convincente. Andrea fece un lungo respiro, si rimise il tovagliolo e riprese a mangiare l’insalata.

«Mi è sembrato così strano. Era come se tu fossi un’altra donna.»

Ora Sofia era più tranquilla e si permise di scherzare.

«Ora sono io gelosa. La preferivi?»

«No.» Andrea la guardò in silenzio. «Mi ha fatto paura. Era come se rincorresse la vita, come se volesse essere lontano da qui.»

Sofia poggiò le posate. «Andrea… Avevo semplicemente voglia di fare l’amore con te.» Fece un sospiro.

«Per un attimo non ho pensato ad altro. È una colpa?»

«Scusami. È che sono legato a questo letto, non so cosa c’è oltre quella porta, non so dove vai, chi vedi.»

«Hai le stesse preoccupazioni di mille altri uomini che, pur non avendo avuto un incidente, hanno vicino a loro una donna più o meno bella e desiderabile…»

Sofia si alzò e cominciò a togliere i piatti. «Non farla lunga!»

Andrea le fermò il braccio. «Hai ragione. Scusami.»

«Non fa niente. La prossima volta lo farò con meno impeto.» E andò in cucina.

«E dai, non fare così… Stavo scherzando…»

Sofia mise i piatti nel lavandino, aprì l’acqua, aspettò che diventasse calda poi iniziò a sciacquarli. A un tratto rivide quella mano sul suo braccio, proprio co-me sulla scalinata della chiesa. “Ma perché fuggi così?

Aspetta…” Quell’uomo. Lui l’aveva fermata, lei aveva riso. Eppure quella mano non se l’era più tolta di dosso.

Aveva scopato con lui quella sera, lo aveva desiderato toccandosi, toccandolo, prendendolo in bocca, facendo l’amore sopra quell’uomo e alla fine era venuta con lui.

Ora l’acqua era diventata troppo calda, aprì un po’ di più quella fredda. Per la prima volta aveva tradito Andrea anche se solo con il pensiero. E gli aveva detto una bugia, la prima in dieci anni. Qualcosa si era rotto.


«No. Bisogna comprare.»

Tancredi appese il telefono. Era sicuro delle indicazioni date. Il mercato stava scendendo e bisognava assolutamente continuare a comprare. Nel giro di un anno o due sarebbero risalite tutte le quotazioni su cui aveva puntato di più. Tutti i suoi investimenti avevano prodotto un aumento del venticinque per cento netto nell’ultimo anno e lui lo aveva reinvestito in aziende importanti in difficoltà, comprandone le quote di maggio-ranza. Aveva importato dal Sudamerica qualunque tipo di merce: caffè, frutta, perfino legno, carta, carbone.

Aveva investito in miniere e grandi terreni per la col-tivazione. A capo di tutto questo settore aveva messo un giovanissimo analista finanziario, un broker di poco meno di quarantanni a cui aveva affiancato un com-mercialista. Costruiva per ogni settore quello che lui chiamava il “tris magico”, uno specialista della materia, un capace investitore e uno che facesse tornare i conti.

Il suo segreto era chiudere sempre con un punto in più per se stesso. Dal giorno in cui aveva adottato quella strategia, il suo patrimonio era aumentato in maniera esponenziale.

Erano passati dodici anni da quando aveva ricevuto in eredità il grande patrimonio di suo nonno e da allora non aveva fatto altro che comprare e vendere, mone-tizzare e reinvestire. Ogni anno si liberava di qualche azienda improduttiva e ne comprava nuove nascenti.


Seguiva l’andamento di tutti i mercati, aveva grande curiosità per la new economy e aveva investito già alla fine degli anni Novanta nei nuovi mercati di Cina e India.

Era stato da subito un patito dei social network e di ogni altra novità che producesse denaro, anche se virtuale. In quel campo aveva raddoppiato il numero dei collaboratori: sei. Due specialisti per ogni settore che, fino a quel momento, si erano comportati egregiamen-te. Avevano portato a casa così una cifra pari a mille-cinquecento milioni di dollari e il patrimonio investito continuava a dare profitti.

Tancredi si appoggiò allo schienale della poltrona e guardò fuori dalla finestra. Dall’alto della sua villa a Lisbona, nella parte più verde e più ricca della città, si vedeva l’oceano. Un veliero era piegato nel vento e attraversava quel tratto di mare a grande velocità. Più lontano, all’orizzonte, qualche petroliera sembrava semplicemente un punto fermo. Si chiese curioso se fosse una delle sue.

Fare soldi era la cosa che gli riusciva meglio, gli sembrava la più facile e la più ovvia. Ottenuti dai suoi collaboratori i dati che gli servivano, capiva immediatamente, seguendo il suo istinto infallibile, quale sarebbe stata la mossa vincente. E ogni volta era un successo. Aveva perso il conto delle sue proprietà, delle aziende, delle automo-bili, degli aerei, delle barche, degli immobili. Sapeva solo di avere anche un’isola e di non averne voluto comprare un’altra per paura di confonderle. Quella terra in mezzo al mare era il suo porto, il suo angolo di tranquillità. Solo lì si sentiva stranamente sereno. Era come se, una volta arrivato, tutta la sua inquietudine lo abbandonasse. Forse per questo era il posto che visitava meno spesso? Fermarsi lo faceva tornare indietro a quel giorno. Il giorno di Claudine. Quando era morto il nonno, avevano aperto il testamento. I tre nipoti avevano ricevuto cento milioni di euro a testa e la parte che sarebbe spettata a lei era stata divisa tra lui e suo fratello Gianfilippo. Lo aveva trovato ingiusto: quei cento milioni di euro appartenevano a Claudine, sarebbero dovuti essere qualcosa di importante, di significativo. Avrebbero dovuto rappresentare in qualche modo il ricordo della sorella. Una fondazione o qualcos’altro, qualcosa che comunque rimanesse, che parlasse ancora e sempre di lei.

Gianfilippo non era stato d’accordo. «È stata una decisione di nonno. Lui ha voluto che ci dividessimo la sua parte tra noi. Ognuno ricorderà Claudine come meglio crede. Così è stato deciso.»

Il testamento in effetti poneva la questione in questo modo. Gianfilippo fece versare i cinquanta milioni di euro sul suo conto e poi chissà cosa ne fece, magari li investì in qualcosa di particolare. A Gregorio Savini sarebbe bastata una telefonata per avere quell’informazione, ma Tancredi glielo vietò. Non volle sapere nulla.

Tancredi mise i cinquanta milioni di euro di Claudine in un fondo separato da tutti i suoi conti e un giorno avrebbe deciso quale sarebbe stato il loro impiego. Intanto aveva altro a cui pensare.

Guardò l’orologio, tra poco avrebbe saputo tutto di lei. Gli venne da ridere. Lei. Non sapeva neanche come si chiamasse. Era curioso ma nello stesso tempo stranamente preoccupato. Quella donna all’interno della chiesa, che suonava con le mani nel vuoto, che seguiva la musica a occhi chiusi, anticipandola, con passione.

Quella donna bellissima. Quella donna sulla scalinata, spiritosa, sfuggente, di carattere, con un bel sorriso.

Quella donna aveva riacceso la sua voglia di vivere, di amare. E se quella donna invece fosse stata completamente diversa? Quante volte un’immagine riesce a farci sognare, diventa la possibilità di realizzare tutti i nostri desideri. Ma poi la realtà è tutta un’altra cosa. La vita è una serie di sogni che vanno a male, è quella stella cadente che esaudisce il desiderio di qualcun altro.


Sorrise di questo suo pessimismo improvviso e fu sul punto di fermare quella ricerca su di lei. Ma non fece in tempo a guardare l’orologio. Troppo tardi. Bussarono alla porta.

«Avanti.»

Gregorio Savini entrò e si chiuse la porta alle spalle.

Rimase in piedi per un attimo. Tancredi raggiunse di nuovo la poltrona. «Siediti pure, Gregorio.»

«Grazie.»

Prese posto davanti a lui con una cartella in mano piena di fogli. «Vuoi che te la lasci qui?»

Tancredi si girò verso la finestra che dava sull’oceano. Il veliero era scomparso, le petroliere erano semplicemente più lontane. «No. Leggimi il rapporto.»

Chiuse gli occhi preparandosi a tutto quello che avrebbe potuto sentire. Non sapeva bene cosa aspet-tarsi e non sapeva neppure cosa avrebbe voluto sentire.

Gregorio aprì la cartellina e iniziò a guardare velocemente alcuni appunti battuti al computer.

«Allora, ha compiuto da poco trent’anni, è sposata, non ha figli. Abita in una casa che le è stata lasciata dai nonni, fa qualche lavoro saltuario, non se la passa male ma neanche troppo bene. Non può permettersi spese eccessive fuori programma…»

Gregorio lo guardò, era di spalle, impassibile, così continuò a leggere. «Ha fatto il liceo classico, ottimi voti, qualche relazione con i suoi compagni di classe, storie ordinarie di qualunque ragazza di quell’età. Abita con il marito nel quartiere San Giovanni…»

Tancredi ascoltava in silenzio a occhi chiusi la descrizione della vita di quella ragazza, gli sembrava tutto normale, fin troppo, come se non appartenesse a quell’immagine che aveva conosciuto, a quella sensazione forte che gli aveva dato. Da quei fogli usciva una donna ordinaria, priva di particolarità. Nessuna passione, una vita in qualche modo piatta, né bianco né nero, nessuna luce.


«Ah ecco.» Gregorio sembrava aver letto tra i suoi pensieri. D’altronde erano trent’anni ormai che si conoscevano. Era come se avesse avvertito in lui una certa insoddisfazione. «C’è una novità.» E non sapeva se quello che ora avrebbe letto gli sarebbe piaciuto. «Da qualche settimana tradisce il marito.»

Tancredi aprì gli occhi, rimase fermo, senza reazioni. Fissò l’azzurro del mare di fronte a lui. Ludovica Biamonti aveva svolto un lavoro magnifico. Quella finestra sull’oceano era uno spettacolo. Aveva fatto di-pingere i muri della stanza di un leggero indaco mentre le rifiniture intorno al cristallo formavano come una cornice bianca, così da far sembrare quella vetrata un quadro e nello stesso tempo far risaltare ancora di più la vista. Ora il mare era piatto. Non c’era più nulla, neanche quelle petroliere, solo il suo azzurro. Sembrava un quadro dipinto, tanta era la profondità di quel colore.

Si ricordò la determinazione dello sguardo di quella donna, era tutta d’un pezzo, senza mezze misure, pronta a litigare per la sua migliore amica anche se avesse avuto torto, a non dare spiegazioni in pubblico, ad avere solo un uomo e magari per tutta la vita. E si ritrovò così a darle un soprannome: l’ultima romantica. Allora sorrise e pensò alla sua vita, sempre in giro per il mondo, non fermarsi, vendere, comprare, investire, giocare il tutto per tutto. Era un azzardo continuo. Aveva sempre avuto ragione perché si era fatto guidare dall’istinto. Possibile che proprio questa volta il suo istinto sbagliasse?

Decise di rischiare.

Girò la poltrona verso Gregorio Savini e lo guardò negli occhi divertito.

«Hai sbagliato persona.»

Gregorio Savini smise di leggere, quelle parole erano state come una doccia fredda. Da oltre dieci anni portava a Tancredi registrazioni telefoniche, vere e proprie intercettazioni, documenti, fotografie, rapporti su immobili, su persone comuni, politici, direttori, proprietari di aziende, imprenditori, addirittura su alcuni boss della malavita e fino a quel giorno non aveva mai sbagliato. Sapeva però che c’era sempre una prima volta e poteva essere proprio quella. Così, gelido, chiuse l’incartamento.

«Può essere.»

Avrebbe voluto aggiungere: “Anzi, deve essere, perché questa persona non ha assolutamente nulla che ti possa interessare, per come ti conosco”, ma decise che questo commento faceva parte del suo report personale ed era del tutto inutile.

Così allungò l’incartamento verso Tancredi che lo aprì curioso come un ragazzino. Sfogliò i documenti.

Guardò alcune foto e alla fine sorrise. Aveva seguito il suo istinto e aveva indovinato. La ragazza nella foto era bruna, non era lei. L’ultima romantica, come l’aveva battezzata, gli aveva fatto vincere quella partita con Savini.

«Eccola…» Girò l’incartamento verso Gregorio e gliela indicò. «E quest’altra donna, in questa foto, quella dai capelli castano chiaro. Devono essere amiche.»

Gregorio Savini la guardò attentamente. Aveva sbagliato. Era anche vero che aveva avuto pochi indizi. Solo i numeri di una targa. Tancredi allargò le braccia. «Può succedere, Gregorio. Anzi, dopo trent’anni questa cosa finalmente ti rende umano.»

Savini rise della battuta. «Lo sono fin troppo.» Ne approfittò subito. «Anzi, la mia parte più umana vorrebbe andare un po’ in vacanza.»

«Ci andrai dopo che l’avremo trovata.»

Savini riprese l’incartamento. «Per sapere tutto di lei ci vorrà più tempo.»

«Ho io un’idea. So come trovarla, sarà facilissimo.»


La vide attraverso la vetrata. Non credeva ai suoi occhi.

«Ehi, che succede?» Sofia entrò nel piccolo locale al Pantheon. Il Caffè della Pace lo aveva scelto Lavinia, era un posto dove facevano ogni tipo di tè.

Lavinia la guardò sorpresa. «Perché? Che vuoi dire?»

Sofia si sedette di fronte a lei e poggiò la borsa sulla sedia tra loro. «Di solito non sei mai puntuale e questa volta arrivi addirittura prima di me!»

«Si cambia…» Sorrise come se oltre a quella puntua-lità volesse intendere qualcos’altro. Sofia però non ci fece caso e aprì il menu. «Cosa prendi?»

Lavinia guardò quello aperto sul tavolo vicino a lei.

«Oh, io prenderò un tè verde…»

Sofia si affacciò sorpresa dal suo menu. «E basta?»

«Sì.»

Scrollò la testa. «Non ci siamo… Non ci siamo proprio.»

Lavinia si mise a ridere. «Ma sono semplicemente a dieta, come la maggior parte della gente del nostro Paese, anzi del nostro pianeta, che ha compiuto trent’anni.»

Sofia gliela concesse. «Ok, hai ragione e visto che io li farò tra più di tre mesi mi prendo una bella crêpe ai frutti di bosco.»

«Uhm, ti invidio.»

«Non dovresti, levati questo sfizio… farai qualche lezione di più in palestra. A proposito, come va?»

«Benissimo.»


Sofia adocchiò una ragazza che serviva tra i tavoli e le fece segno di avvicinarsi. «Salve, vorremmo un tè verde, un tè nero con limone a parte, giusto?» Guardò Lavinia per vedere se era quello che desiderava. Lei annuì. «E

poi se mi porta anche due crêpe, una ai frutti di bosco e l’altra con i marron glacé.»

La ragazza segnò tutto sul suo taccuino e si allontanò. Lavinia la guardò malissimo.

«Marron glacé… sei perfida.»

«Perché?» Sofia fece finta di nulla.

«Lo sai benissimo perché. È il mio gusto preferito e tu lo hai fatto apposta, me lo metterai sotto il naso e vedrai quanto resisto…»

«E tu resisterai?»

Lavinia scoppiò a ridere. «Nemmeno un secondo.»

«E allora ho fatto bene. Ci sono dei desideri leciti ed è giusto concederseli, no? Come dire… le tentazioni più dolci e anche le meno pericolose.»

«Già.» Lavinia annuì ma sembrò leggermente nervosa su questo argomento. «Poi gliela spieghi tu all’insegnante di aerobica questa tua teoria…»

«Certo! Anche perché, se ci pensi, è proprio grazie a queste tentazioni che quelle come lei diventano improvvisamente necessarie!»

Poco dopo arrivò la cameriera con le loro ordinazioni. Lavinia prese con la forchetta un pezzetto della crêpe con i marron glacé.

«Ok, lo ammetto, resistenza zero.»

E l’addentò. Scoppiarono a ridere.

«Brava, così mi piaci, sei più sana.»

Continuarono a mangiare e a chiacchierare del più e del meno.

«A proposito. Ancora grazie per la macchina l’altro giorno. Avrei preso la pioggia.»

«Figurati, solo che non dovevi farmi il pieno.»

«Era il minimo!»


«Ma ero al lavoro, non mi sarebbe servita comunque.»

Sofia la guardò con dolcezza. «Comunque ieri ho ri-tirato la mia, è tutto a posto…»

«Mmm» Lavinia bevve un po’ del suo tè. Poi poggiò la tazza facendo il minor rumore possibile. Non voleva rovinare l’atmosfera che si era creata. Erano sazie, avevano riso e scherzato. Quello era il momento ideale per dirglielo. E poi perché la sua miglior amica non avrebbe dovuto capire quest’altra sua debolezza? La guardò.

Stava tagliando con la forchetta un pezzo della crêpe.

Aspettò che iniziasse a mangiarlo. Sofia si portò la forchetta alla bocca e scoprì che Lavinia la stava fissando.

Allora aggrottò le sopracciglia curiosa. Lavinia decise che era quello il momento. Se non altro con la bocca piena avrebbe dovuto comunque prendere tempo per risponderle.

«Ho una storia con uno.»

Sofia per poco non si strozzò. La crêpe le andò di traverso e cominciò a tossire. Lavinia l’aveva considerato. Si alzò, le corse dietro e iniziò a darle dei piccoli colpi sulla schiena. «Guarda in alto… Guarda l’uccel-lino…»

Dopo averlo detto involontariamente, se ne rese conto e le venne da ridere. Poi Sofia bevve un po’ del suo tè, riprese fiato e si pulì la bocca. Fissò Lavinia. «Dimmi che stai scherzando.»

«No, purtroppo.» Lavinia si pentì di quel purtroppo, ma le era scappato. In realtà era felice, stava vivendo una storia bellissima. Sofia cercò di riordinare le idee.

«Perché me lo hai detto?»

«Avevo bisogno di dirlo a qualcuno.»

«Ma perché proprio a me!»

«Perché sei la mia migliore amica.»

«Sì, ma Stefano è lo psicoterapeuta di Andrea, quando verrà a casa da noi come lo guarderò? Sono tua complice, mi sentirò colpevole, già lo so, arrossirò.»


«Ti prego Sofia, fa’ finta che non te l’abbia detto allora, non volevo metterti nei guai.»

«Ormai è fatta.» Bevve un altro sorso di tè.

Lavinia la fissava. «Sei arrabbiata con me?»

Sofia ci pensò un po’ su, poi scosse la testa.

Lavinia le sorrise. «Grazie. È un momento bellissimo e se non lo dicevo a qualcuno, se non lo condividevo con te, impazzivo, sono troppo felice.»

«Lui chi è?»

«L’ho conosciuto in palestra, è alto, bruno, un fisico da urlo…»

Sofia ascoltava la descrizione di quell’uomo e senza volerlo le venne in mente quello che aveva conosciuto lei. Conosciuto… incontrato all’uscita della chiesa. Per un attimo pensò: “E se fosse lui? Ma no, non è possibile. Una coincidenza impossibile”. La interruppe. «Di che colore ha gli occhi?»

«Te l’ho detto, scuri, nocciola credo. Ma non mi stai a sentire?»

«Sì, sì certo…» Fece un sospiro di sollievo e in qualche modo, all’idea che Lavinia potesse stare con quell’uomo, si era sentita come gelosa. Le sembrò assurdo tutto quello che in un attimo aveva pensato.

Continuò ad ascoltare la sua amica e dentro di sé se ne vergognò.

«E soprattutto scopa da Dio…»

«Lavi!»

«Dai, non fare la borghese. È bello fare l’amore, no?

Ecco, con lui lo è ancora di più.»

«Quanti anni ha?»

«Due più di me e comunque è fidanzato.»

«Ah.» Lavinia lo aveva detto come se quella cosa dovesse in qualche modo tranquillizzarla e Sofia non ne capiva il perché. «Abbiamo cominciato a scherzare in palestra, facevamo gli stessi esercizi, certo lui con molto più peso. Poi abbiamo fatto una lezione di aerobica insieme e alla fine, giorno dopo giorno, era come se lo sentissi più vicino a me…»

«Più vicino? Che vuol dire?»

«Non lo so, so solo che quando andavo in palestra e lui non c’era, be’, mi mancava. Una settimana è stato fuori per lavoro e mi sembrava di impazzire. Poi una sera siamo usciti.»

«E cosa hai detto a casa?»

«Che ero con te.»

«Con me? Senza dirmi nulla? E se per caso Stefano mi avesse chiamato? O se Andrea lo avesse cercato perché magari ne aveva bisogno e gli avesse detto che io ero lì con lui?»

«Ho rischiato…»

«Ma tu sei pazza.»

«Sì…» Lavinia abbassò lo sguardo, prese la forchetta e cominciò a giocare con quello che era rimasto nel piatto. Poi alzò il viso. «Quella sera lo abbiamo fatto in macchina ed è stato bellissimo. Mi ha fatto venire due volte.»

Sofia non sapeva più che fare, le sembrava una situazione assurda.

«Lavi, non so che dirti.»

«Sto bene con lui, mi fa sentire importante, parliamo un sacco, mi ascolta, ridiamo e poi mi fa sesso.»

«Ma con Stefano non andava bene?»

«Sì ma… È sempre fuori e quando torna a casa è stanco e non parliamo, non ridiamo, risolve i problemi di un sacco di gente ma ai suoi non ci pensa.»

Lavinia improvvisamente si rese conto che tra i problemi di cui parlava c’era sicuramente anche Andrea.

«Scusa…»

«Non fa niente. In questo momento non è importante.»

«Cosa pensi?»

«Penso che passerà.»


«Ma io non voglio che passi. Sono innamorata.» Sofia rimase sorpresa. La situazione era molto più grave di quel che pensasse. «Mi sento come una sedicenne, ti giuro, gli mando i messaggini sul telefono e se non mi risponde mi dico che sono un’idiota…»

“Be’, non hai tutti i torti” pensò Sofia ma capì anche che la sua amica stava davvero bene. Non era proprio il caso di dirglielo. «Come per la dieta, sei inclusa in una casistica abbastanza larga del nostro Paese…» Le sorrise. «Anzi, come hai detto tu, del nostro pianeta.»

Lavinia sorrise. Sofia continuò. «Ti vorrei dare qualche consiglio ma non so proprio da dove cominciare e soprattutto… cosa dirti!»

Lavinia era disperata. Aveva sperato che Sofia avesse una soluzione per lei.

«L’unica cosa che posso consigliarti è di non dire niente a Stefano…» Sofia la osservò preoccupata. Lavinia aveva abbassato lo sguardo ed era in silenzio. «Non l’hai fatto, vero?»

Lavinia alzò di nuovo il viso. «Stavo per farlo… Una sera gli ho detto “Ti devo parlare…” e proprio in quel momento ha suonato il telefono. Era Andrea, stava ma-le, non dovrei dirtelo ma hanno parlato per un’ora al telefono, quando Stefano è tornato da me non me la sono più sentita…»

Sofia pensò che involontariamente Andrea l’aveva salvata. Che strano però. Di quella telefonata a lei Andrea non aveva detto nulla. Pensò che fosse normale, ci sono mille momenti difficili nella giornata di un uomo nelle sue condizioni.

Proprio in quel momento ripassò la ragazza che serviva ai tavoli. «Volete qualcos’altro?»

«No grazie» fece Sofia, poi disse sotto voce: «In realtà vorrei bere una vodka per riprendermi!».

Lavinia tornò allegra. «E prendila, perché resistere alle tentazioni più dolci?»


«Certo… Così sei giustificata su tutta la linea… Guarda che io intendevo solo per quanto riguarda il cibo.»

«E io il bere!»

«No, tu intendevi il sesso!»

Lavinia rimase di nuovo in silenzio. Poi parlò. «Ce l’hai con me?»

«Ma che dici? Figurati.»

Poi a Lavinia venne una curiosità. «Ma è successo anche a te e non me lo hai raccontato?»

Sofia la guardò stupita. «Oggi per me sei una rivela-zione. Sto conoscendo una Lavinia che non avrei mai potuto immaginare… Se me l’avessero raccontato non ci avrei creduto.»

«Sì, sì… Intanto stai perdendo tempo. Hai mai tradito Andrea?»

«No.»

«Cioè, in tutti questi anni dopo l’incidente, malgrado il fatto che non potete partire, che non può uscire, andare a teatro, al cinema, in pizzeria, in palestra… tu non lo hai mai tradito?»

«A parte che non è che tradisci il tuo compagno solo perché non può fare certe cose… Io credo che sia molto più importante come stai con una persona, come ti senti, quello che provi e non se ci puoi andare o meno in palestra…»

Certo che la situazione, per come Sofia era abituata a ragionare, le sembrava un bel casino. Bevve un po’

del suo tè, era freddo ma andava bene comunque per dissetarsi dopo tutto quel parlare. E proprio in quel momento Lavinia fece un’altra domanda del tutto inaspettata.

«Ma non hai mai tradito Andrea neanche col pensiero?»

Sofia rimase senza parole. Lavinia si era aperta con lei, era stata sincera. E ora quella domanda. Non poteva mentire, non era giusto, non lo meritava.


«Sì, una volta l’ho tradito.»

«Oh!» Lavinia ora sembrava molto più allegra. «Allora vedi che mi capisci? Scusa…» Fermò la cameriera.

«Due vodke, grazie.»


Roma. Aventino. Tancredi guardò l’orologio. Doveva essere finita da dieci minuti circa. I calcoli erano esat-ti. Il grande portone della chiesa si aprì. Un gruppo di bambini uscì di corsa scendendo velocemente le scale.

Era mercoledì, ma a differenza della settimana prece-dente non aveva piovuto. Alcuni genitori aspettavano davanti alla propria automobile, c’era anche un piccolo pullman che avrebbe dovuto accompagnare sicuramente più di un bambino.

Gregorio Savini guardava la scena curioso ma nello stesso tempo sbalordito. Ne aveva fatte di cose in questi ultimi anni ma quella, se non altro per la sua stranezza e semplicità, le superava tutte.

«Eccola, è lei.» Tancredi la indicò con un cenno del viso.

Una piccola bambina dai capelli ricci piena di efelidi sulle guance con due grandi occhi scuri correva giù dalle scale. «Mamma, mamma, eccomi!» Si sbracciava per farsi vedere, come se fra tutte non si notasse comunque.

Era la più allegra, la più vivace e anche la più carina tra quelle appena uscite dalla chiesa. Ma Tancredi, a dire la verità, le altre non le aveva neanche guardate.

Aspettò ancora un po’ prima di muoversi. Per un attimo sperò che da quella chiesa uscisse anche lei, l’ultima romantica, ma sarebbe stato troppo facile. E a lui le cose troppo facili non piacevano. Non sapeva però quanto quella sarebbe stata effettivamente difficile.


La piccola Simona baciò la mamma e subito la tra-volse con tutto il suo entusiasmo senza darle nemmeno un secondo di tregua.

«Ha detto Olja che proverò un assolo, che nel prossimo coro farò la voce solista, mamma, è bellissimo. Mi piace da morire. Magari verrà anche la tv!»

«Ma Simona…»

La mamma su quest’ultima affermazione scosse la testa. Simona si accorse della sua disapprovazione e cercò di recuperare. «No, nel senso che magari vengono quelli del telegiornale, ogni tanto lo fanno la domenica nelle chiese.»

«Ma quella è la messa officiata dal Papa.»

«Che vuol dire officiata? Che non è ufficiale?»

La mamma si mise a ridere. Per un attimo si era dimenticata che quello scricciolo tutto pepe di fronte a lei aveva solo sei anni. «Vuol dire recitata per i fedeli, per tutti i credenti e i cristiani o per quei turisti che sono di fronte al Papa in piazza San Pietro.»

«Ah…»

Le sistemò meglio il golfino, poi aprì lo sportello per farla entrare in macchina ma una voce alle loro spalle la fermò. «Mi scusi, signora…»

Un uomo elegante, con una giacca blu, una camicia bianca e dei pantaloni grigio scuro, era di fronte a lei e le sorrideva. Era un bell’uomo, avrà avuto sui tren-tacinque anni, forse perfino più giovane, abbronzato, i capelli curati, un sorriso gentile e dei magnifici occhi blu. La mamma di Simona rimase un attimo interdetta.

Ma era sicuro che cercasse lei? E cosa voleva? In quel momento, alle spalle dell’uomo, si fermò una macchina scura, una Bentley. Scese un altro uomo più grande di età, ma ugualmente elegante. Che fosse un rapimen-to? “E perché mai? Noi non abbiamo una lira.” Poi quell’uomo più vicino a lei mise fine ai suoi dubbi.

«Mi scusi se la disturbo, ma volevo parlare con questa bambina. È sua figlia?»


«Sì.» La madre si irrigidì. «Ma che cosa è successo?

Perché volete parlare con lei?» Poi, spiazzata da tutto quello che le stava accadendo, tirò fuori il telefonino dalla borsa e lo aprì minacciandoli. «Guardate che chiamo la polizia…»

A Gregorio Savini, sentite quelle parole, caddero le braccia. Tancredi e le sue idee. Avevano affrontato per anni situazioni ben più delicate senza avere un minimo problema. E ora? Ecco come mettere a repentaglio il lavoro di una vita. Ma Tancredi intervenne subito tran-quillizzandola. «No signora, non mi fraintenda. Innan-zitutto mi scusi, sono stato maleducato a non presentar-mi. Sono Tancredi Ferri Mariani e il signore che mi ha gentilmente accompagnato è il dottor Savini.»

“Dottor Savini” pensò Gregorio. “Non mi aveva mai chiamato così. Però… non mi dispiace.”

Tancredi continuò sorridendo.

«E lei è la signora?…»

«Carla Francinelli.»

«E la piccola è sua figlia.»

«Sì. Ma si può sapere cosa è successo?»

«Desideravo solo un’informazione da sua figlia, ma volevo parlarle davanti a lei, così che non ci fossero equivoci.»

La signora sembrava essersi tranquillizzata ma era comunque curiosa di questa strana situazione. Tancredi guardò all’interno dell’auto.

«Come si chiama questa bella bambina?»

Prima che la madre facesse in tempo a rispondere, scese direttamente lei dalla macchina. «Mi chiamo Simona. E lei chi è? E della tv?»

Simona aveva poche idee ma chiarissime.

«No…»

«Ah.» La bambina abbassò le spalle delusa. Allora Tancredi le si inginocchiò davanti e le sorrise. «Però tu potresti aiutarmi.» Simona decise di ascoltare. «L’altra settimana c’era una signora in chiesa, alla fine del vostro coro è venuta da te, ti ha abbracciato, deve essere una signora che sa suonare bene il pianoforte…»

«Sì! È Sofia!»

Tancredi sorrise. L’ultima romantica ora aveva un nome. Era già un piccolo passo avanti. Decise di ri-volgersi alla madre. «Ecco, signora, volevo sapere solo questo… Perché vorrei mandare mia nipote, la figlia di mio fratello, a lezione da lei. Deve essere bravissima. E

vorrei fare una sorpresa a mia nipote, per il suo compleanno.»

Simona sorrise. «Quindi tu non c’entri nulla con la tv.»

Tancredi allargò le braccia. «No, mi dispiace.» Poi pensò che, se quella bambina gli avesse dato indirizzo, numero di telefono o altro di Sofia, avrebbe potuto soddisfare il suo sogno di andare in tv. «Tu sai dove posso trovarla?»

Simona non rispose. Scosse solo la testa dicendo di no.

«La tua mamma non ha il suo numero di telefono?

L’indirizzo di casa?»

Simona fece ancora di no con la testa, poi sorrise.

«Ora mi ricordo dove ti ho visto, eri quel tipo a gambe nude sulle scale della chiesa l’altra settimana!»

Tancredi si rialzò, sorrise leggermente imbarazzato a Simona, poi alla madre e cercò subito di spiegare quel ricordo della figlia.

«Sì, è vero. Ero in pantaloncini. E che quel giorno facevo jogging…» Incontrò lo sguardo di Savini, che per tutta risposta alzò semplicemente un sopracciglio.

Quello non era certo il metodo che di solito lui usava. La bambina comunque sembrava non sapere nulla.

Tancredi le sorrise.

«Va bene, non fa niente. Grazie lo stesso.»

Poi si rivolse alla madre. «Arrivederci e mi scusi se l’ho disturbata.»

«Non c’è problema.» Avrebbe anche voluto aggiungère: “Lei non mi ha disturbata affatto… anzi” ma davanti alla figlia non sarebbe stato il caso.

Tancredi tornò verso la Bentley scuotendo la testa.

«Niente da fare…»

Gregorio Savini risalì in macchina soddisfatto. In qualche modo gli aveva dimostrato che senza di lui non si andava da nessuna parte.

«Signore!» Simona era sfuggita alla mamma ed era di fronte a loro. Savini rimpianse il suo pensiero. «Sofia insegna al conservatorio tutto il pomeriggio, nei giorni dispari alla chiesa dei Fiorentini in piazza dell’Oro.»

Poi sorrise. «Se va lì la trova di sicuro.»

Tancredi salì in macchina e le sorrise. «Grazie…»

Poi le bisbigliò piano: «Non dire niente a mamma ma domenica faccio venire una televisione a fare le riprese solo perte!».

Simona era entusiasta. «Sul serio? Grazie!» e scappò via tornando dalla madre.

Tancredi salì dietro e chiuse lo sportello. «Il pomeriggio è al conservatorio o in piazza dell’Oro… Visto, Gregorio? E tu che non mi davi fiducia.»

«Dottor Savini, prego.» E gli lanciò uno sguardo dallo specchietto. «Mi dà una certa importanza.»

Tancredi sorrise e sprofondò nel sedile, mentre Gregorio accelerò allontanandosi velocemente con la Bentley.

“Sofia. Mi piace questo nome. Non ho mai conosciuto nessuna che si chiamasse così. ” E continuò a fantasti-care su quella donna, su quel poco che sapeva e su tutto quello che era curioso di scoprire.

«Dottor Savini, mi fa avere presto un po’ di materiale su questa Sofia?»

«Certo, dottor Ferri Mariani.»

«Oh no, chiamami sempre Tancredi, non mi va di sembrare più importante del dovuto.»

«Come vuoi…» Lo fissò un’ultima volta nello specchietto. Sofia. Un altro capriccio da soddisfare. Chissà cosa aveva colpito Tancredi questa volta. Savini decise che era impossibile scoprirlo ma era sicuro che anche questa donna sarebbe stata archiviata come tutte le altre.

Non sapeva che invece con lei tutto sarebbe stato più complicato.

Lo stesso Tancredi, per la prima volta da quando era ragazzo, stava pensando a cosa inventarsi, come capita-re da quelle parti e farlo sembrare casuale. “E poi, come mi devo presentare? Ricco, sportivo, di nuovo in cal-zoncini e maglietta? Mi prenderebbe per uno di quelli fissati con il fisico e basta.” Ripensò a quella bambina, Simona, incredibile che lo avesse notato.

Non si era accorto che si era fermata in cima alla scala e aveva visto tutta la scena. Particolari come quello un tempo non gli sarebbero sfuggiti. Sofia lo aveva distratto.

Carla Francinelli guidava tranquilla, guardava con la coda dell’occhio sua figlia che stava seduta dietro sfo-gliando una rivista che aveva trovato sul sedile. Alla fine la madre decise di chiederlo.

«Simona, ma cosa ti ha detto il signore quando sei andata alla macchina?»

Sua figlia smise di sfogliare il giornale e la guardò sorpresa. Non si era preparata una risposta. E ora cosa poteva dirle?

«Oh niente, che sono stata molto gentile. Perché me lo chiedi, mamma?»

«Non lo so, sei tornata che sembravi la persona più felice del mondo… Non è che ti ha detto qualcosa che ha a che fare con la tv, vero?»

Simona un po’ arrossì ma cercò di non farglielo notare. «Mamma, ma ti pare? Ma sei fissata.»

«No, tu sei fissata.»

«Mi piace la televisione e mi piace la musica, e allora?

Prendo bei voti quindi tu non puoi proprio attaccarmi.»


Carla Francinelli guardó sua figlia. “Non puoi proprio attaccarmi. Ma anch’io dicevo queste cose a mia madre? Non credo. Come sono cambiati questi bambini! Ma è colpa nostra? O la colpa è proprio di quella tv che le piace tanto?”

«Mamma, ma secondo te quella persona se l’è inventata la storia di sua nipote?»

«Cioè?»

Simona guardò la madre divertita. «Magari è solo perché gli piace Sofia e non sa come trovarla…»

«Hai troppa fantasia.»

Simona alzò le spalle. «Secondo me gli piace e basta.»

Rimasero un po’ in silenzio.

«E comunque…» fece Simona, «se si mettono insieme io sono felice. Sofia è simpatica, le voglio bene e lui… è uno strafigo!»

«Simona!»

«Ma mamma, è la verità, tu non lo pensi? Per te non è uno strafigo?»

Carla continuò a guidare tranquilla. Rivide come per magia un’immagine di quell’ultima settimana. Suo marito Luca giocava alla PlayStation con degli amici, tutti compagni dell’università. Stempiato, con la pancia, la maglietta slargata e gli occhiali da vista che portava un po’ bassi sul naso. Subito dopo le apparve di nuovo Tancredi con la giacca blu, la camicia bianca, la sua ab-bronzatura, il suo sorriso e i suoi occhi profondi. In effetti strafigo era la definizione giusta. Ma Carla Francinelli era diplomatica e soprattutto una mamma alle prese con una figlia che stava crescendo in fretta. Così le sorrise semplicemente.

«Be’… diciamo che è un tipo.»


«No, non così. Non vedi che hai saltato due note?

Qui c’è un mi e qui c’è un do.» Impostò di nuovo la mano dell’allievo.

«Sì…» Fece un lungo respiro. «E vero.»

“Ci mancava pure che fosse falso. Non capisco perché certi genitori vogliano per forza avere qualcuno in famiglia che sappia suonare il pianoforte. Questo ragazzino mollerà di sicuro. Perché sprecano i loro soldi? Un ragazzo, soprattutto a questa età, deve essere mosso da una passione, se no appena gli sarà possibile abbandonerà tutto” pensò Sofia.

«Quanti anni hai tu, Saverio?»

«Nove.»

«C’è qualcuno in famiglia che suona uno strumento?»

«Oh, nonna suonava molto bene il pianoforte ma non c’è più, zia, la sorella di mia madre, è bravissima ma hanno litigato e mamma avrebbe tanto voluto saperlo suonare ma non ha mai imparato…»

«Sei figlio unico, vero?»

«Sì…»

«E ti piace suonare?»

Saverio rimase un attimo in silenzio, abbassò la testa, poi la rialzò sorridendole. «Abbastanza…»

Sofia pensò che equivalesse a un sincero: “Per niente, ma tanto lo devo fare”.

Sofia guardò senza che lui se ne accorgesse l’orologio. Mancavano cinque minuti. Poteva resistere.


«Ok, Saverio, quali sono le cose invece che ti piacciono proprio tanto?»

«Ah be’, tantissimo guardare la tv, giocare alla PlayStation, alla Wii, leggere i fumetti, mi piacciono da morire Dragon Ball e i Gormiti. Anche andare al cinema, giocare a pallone, andare a nuoto così così perché si fatica troppo e poi bisogna asciugarsi.»

Загрузка...