I

«Certo!»

«Va bene, se invece l’impegno che avevi è saltato resti con me fino a mezzanotte…»

«Perfetto.»

Tancredi le tese la mano. «È una scommessa.»

Sofia la strinse. Sentì un brivido, lui la guardò negli occhi. «E le scommesse si pagano.»

«Io le pago sempre.»

Le sorrise. «Meglio così.»

Era bello e molto sicuro di sé. A volte le faceva paura, altre la faceva ridere. Poi Sofia tirò via la mano. «Mi dispiace. Hai perso…»

Tancredi rise. «Ma come fai a esserne così sicura?»

«Perché una mia amica ha preso dei biglietti…»

«Per un concerto.»

Sofia rimase colpita. Come faceva a saperlo? Magari lo immaginava soltanto, aveva tirato a indovinare.

«Sì, e siccome sa che era una cosa che mi piaceva da morire…»

«Non ti darebbe mai una fregatura, giusto? Ma forse è successo un imprevisto, qualcosa che tu non hai considerato. Forse ti ha scritto un messaggio per avvisarti che purtroppo non può più venire…»

Sofia lo fissò. Non poteva crederci, non era possibile.

Ci stava provando, stava bluffando. Non conosceva Lavinia. Non poteva aver organizzato tutto questo. Aprì la borsa, cercò nelle tasche, sotto il portafoglio, l’agenda, le chiavi finché non trovò il telefonino. Lo aprì e vide la bustina che lampeggiava. Sì, ma poteva essere chiunque, Andrea, un suo amico, l’avviso di una telefonata arrivata quando il telefonino non prendeva. Allora Sofia lesse il messaggio e rimase senza parole. Era Lavinia.

“Non ti arrabbiare. Vado con Fabio a vedere gli U, non posso dirti niente ma credo che il tuo programma ti piacerà di più, ti voglio bene.”

Tancredi la guardò sorridendo. «Mio padre mi diceva sempre: “Nell’essere troppo sicuri, si perdono le scommesse più facili”.»

Sofia non aveva più parole. Chi era quell’uomo? Perché faceva così? Aveva conosciuto anche Lavinia? Era lui che le aveva dato i biglietti? Come faceva a sapere degli U? Le sembrava di impazzire. «Fammi scendere.»

Tancredi divenne serio. «Ma non è giusto. Hai perso la scommessa. I debiti si pagano.»

L’auto continuava ad andare. «Ho detto fammi scendere!»

Sofia iniziò a battere con il pugno sul vetro che la divideva dall’autista. Savini se ne accorse. Guardò Tancredi dallo specchietto e lui gli fece cenno di sì. La macchina accostò. Sofia scese di corsa, Tancredi le fu subito dietro.

«Aspetta, dai, non ti arrabbiare…» Provò a fermarla.

Lei si liberò subito e gli si avvicinò affrontandolo.

«Non mi toccare, mi metto a urlare.»

«Hai ragione, scusa, però parliamone…»

Sofia riprese a camminare veloce, Tancredi le stava accanto. «Volevo solo vederti.»

«Non mi piaci. Non sai chiedere le cose.»

«Ma se le chiedo normalmente mi dici sempre di no!»

«Vuol dire che è no e basta, fattene una ragione.»

Tancredi cercava di recuperare. «Ma scusa, sei ingiusta, avrei potuto chiederti molto di più! Io sapevo già di aver vinto! In un certo senso sono stato onesto…»

«Hai uno strano concetto di onestà.»

«Allora diciamo che non ne ho approfittato, ti ho chiesto solo un po’ di tempo in più… Dai, non fare così.»

Le appoggiò di nuovo la mano sul braccio, lei si bloccò di scatto e lo guardò scocciata. Tancredi alzò subito le braccia come per dire: “Hai ragione, vedi, non ti tocco”. Sofia fece un sospiro.

«Come hai conosciuto Lavinia?»


«È stato un caso, sono amico di Fabio.»

Non era vero, ma questo la tranquillizzò. Rimasero un attimo in silenzio. «Hai ragione, ho sbagliato. Allora facciamo così, anche se hai perso la scommessa per farmi perdonare ti presto l’autista!..»

Quest’ultima cosa la fece ridere. Poi tornò seria. «Non mi imbrogliare più.» Si girò di spalle e tornò verso la macchina camminando veloce;

Tancredi la raggiunse e le aprì lo sportello. Sofia lo guardò negli occhi. «Questa cosa te la ripeto per l’ultima volta: non mi imbrogliare mai più.»

Tancredi fece per muovere la mano.

«E non giurare da scout.»

Sofia salì sull’auto. Quando anche Tancredi fu a bordo, Gregorio Savini ripartì. Ogni tanto buttava l’occhio nello specchietto retrovisore per vedere come andavano le cose. Era strana quella ragazza, sembrava diversa da tutte le altre. Aveva più carattere, una sua indipen-denza, per quel poco che aveva letto e capito dalla documentazione trovata, era una ragazza profonda e sensibile. Savini guardò di nuovo nello specchietto. Ora le cose si erano sistemate, stavano di nuovo ridendoj Tancredi sarebbe riuscito ad averla ancora vinta? E, una volta avuta, si sarebbe stancato subito di lei? Sì.

Sarebbe stata come tutte, l’avrebbe lasciata una mattina presto con un pensiero, un biglietto, dei fiori, con una delle tante frasi che aveva già usato per farsi dimenticare senza rancore.

E se invece fosse stata quella giusta? Esiste una donna giusta per ogni uomo? Quella era la donna destinata a Tancredi? Savini sorrise. Tancredi innamorato, questa sì che sarebbe stata bella.

«Allora, posso offrirti qualcosa?» Tancredi aprì un piccolo mobile in legno chiaro al centro dell’auto, incassato tra i due sedili davanti. Una luce illuminò ogni tipo di bevanda, birra, birra analcolica, Crodino, Bitter bianco o rosso, Campari, una bottiglia da mezzo litro di vino bianco, di rosso, un piccolo champagne.

Sofia non mostrò nessuna sorpresa.

«Un Crodino, grazie.»

Tancredi lo prese, lo stappò e lo versò in un bicchiere. «Ecco tieni, vuoi anche qualche oliva, patatine, noc-cioline?»

«No grazie…»

Aspettò che anche lui prendesse qualcosa. Tancredi aprì una birra, la versò in un bicchiere e lo alzò verso di lei. «Alla nostra prima uscita…»

Sofia lo guardò. Avrebbe voluto aggiungere “… e anche l’unica” ma le sembrava troppo scortese, co-sì brindò e iniziò a sorseggiarlo. Intanto lo guardava.

Che strano, lo aveva conosciuto in pantaloncini e maglietta, bagnato e senza nulla addosso e se lo ritrovava elegante, con una splendida auto e addirittura l’autista.

“Come inganna l’apparenza” si disse spiandolo da dietro il bicchiere. “È bello, è misterioso, è sicuramente ricco e forse disonesto. Chissà come ha costruito la sua ricchezza. Pensa se mi arrestassero in sua compagnia!

Cosa potrebbero pensare Andrea, i miei genitori, le mie amiche, Olja!”

«Ehm, cosa fai tu nella vita?»

«Intendi che lavoro faccio?»

«Be’ sì, oltre al fatto che hai molto tempo libero…»

«Già.» Le sorrise, quella era una stoccata precisa.

«Tu cosa credi che io faccia?»

Sofia se lo immaginò tutto sudato con una mascherina sul viso, in una grande hacienda in Bolivia, che gira tra le vasche e controlla le fasi di lavorazione della pasta di coca.

«Mah, non so. Forse sei nel commercio…» Bevve un po’ di Crodino. «Spero lecito…»

«Mi occupo anche di quello. Abbastanza lecito.»

Sofia lo guardò preoccupata. «Nel senso che ho delle aziende all’estero e cerco di sfruttare al meglio le possibilità dell’import-export. Ti faccio un esempio, se del legname tagliato in Canada arriva direttamente in Italia paghi una cifra, se lo acquisti da altre nazioni europee e solo dopo lo importi in Italia risparmi un cinquanta per cento…»

«Ah…» Ma questo non l’aveva aiutata a capire di co-sa si occupasse effettivamente, così decise di essere più diretta. «Non vorrei trovarmi in qualche casino proprio oggi che è, come dici tu, la nostra prima uscita…»

«No. Per oggi non mi arrestano… Ho visto l’orosco-po.» Tancredi le avrebbe potuto raccontare delle centinaia di azioni del suo patrimonio, dei suoi investimenti e della sua infinita ricchezza ma lo trovò del tutto inutile. Sapeva perfettamente che a lei tutto questo non interessava. «Tu invece insegni musica?»

«Sì, ma questo te l’aveva detto Simona, la tua spia di sei anni. Hai molte informatrici donne.»

«Eh già.» Tancredi sorrise.

Sofia si chiese cosa gli avesse realmente raccontato Lavinia, se gli aveva parlato dei suoi successi internazionali, della sua storia privata, del perché aveva smesso di suonare…

«Non mi ha raccontato altro.» Aveva capito i suoi pensieri e non voleva che si sentisse in difficoltà. «Tranne una cosa…»

«Cosa?»

«E una sorpresa.»

«Vorrei sapere…»

«Ma se ti ho detto che è una sorpresa la roviniamo.

Allora guarda…» Controllò l’orologio. «La saprai tra massimo cinque o sei ore. Puoi resistere?»

Sofia pensò che non doveva essere nulla di importante. Sì, avrebbe potuto resistere e lasciò perdere. Gli raccontò quel che aveva pensato di lui la prima volta.

«Ma ti rendi conto? Ho pensato ma cosa vuole questo qui, in pantaloncini, tutto bagnato, come minimo mi ruba la borsa o peggio la macchina, che tra l’altro mi aveva prestato proprio Lavinia.»

«Ma dai!»

«Sì! E quando ti ho incontrato al bar, all’inizio ho pensato sul serio che fosse un caso. Certo che a volte sono proprio ingenua…» Poi lo guardò male. «A volte però no, eh… se m’impegno.»

«Ah certo… Non ne dubito.»

«Non mi credi?»

«Come no! Vuoi scommettere di nuovo? Ho giusto qualche data libera per la prossima settimana…»

«Meglio di no! Chissà in quale altra storia finisco…

Tu sapevi già che Lavinia ci sarebbe andata con Fabio.

Sei stato scorretto.»

«Mai detto il contrario, non avrei messo a repentaglio così facilmente il mio autista.»

Continuarono a ridere e scherzare.

«Ma cos’era quella musica del coro…»

«Bach, La Passione secondo Matteo.»

«Era straordinaria, anche se non l’avevo mai sentita.»

«Pare che Bach in quell’opera, mentre scriveva della crocifissione, si sia messo a piangere bagnando di lacrime la partitura…»

Tancredi era incantato a guardare la sua bocca, le sue labbra, le sue espressioni buffe.

«Ma mi stai ascoltando?»

«Ma certo, Bach…»

«Ma quello l’ho detto un’ora fa…»

E rise di gusto e, per la prima volta da diversi anni, si accorse che non stava pensando a niente, proprio a niente e si sentì leggera e allegra. Ma all’improvviso smise di sorridere, senza volerlo, si trovò a guardarsi da fuori.

Era uno dei tanti pedoni, si trovava su quel marciapiede, vedeva passare quella macchina con autista e dietro c’erano un uomo e una donna che ridevano. Ridevano.


E quella donna era lei. Allora si ricordò di quel che le aveva detto Andrea, poco prima che si sposassero.

“Sai di cosa ho paura?”

Lei stava mettendo a posto delle camicie nell’armadio.

“Tu? Ma se non hai avuto paura di niente in vita tua…”

“Aspetta, aspetta, riguarda te…” aveva detto lui dalla camera da letto. Allora Sofia si fermò, comparve sulla porta, pronta ad ascoltarlo.

“Di cosa?”

“Che un giorno potresti avere voglia di essere corteggiata…”

“Ma ci sarai tu, spero! “

“No, di essere corteggiata da qualcuno che non conosci. E di corteggiare. E questa la cosa che mi fa paura.

La tua voglia di essere ammirata, la tua voglia di piacere e di conquistare. Quelle frasi dette a metà quando ci si conosce appena, quei sottintesi, quelle allusioni, quella scherzosa schermaglia che a volte avviene tra un uomo e una donna per decidere chi avrà il potere…”

“Il potere? E di cosa?”

“Dell’amore.”

Era rimasta in silenzio a riflettere su quelle frasi. Pensò che si trattasse di una paura normale prima del grande passo e decise di non darle troppa importanza. E

ora, dopo cinque anni, quel discorso le tornò in mente all’improvviso. Andrea aveva avuto ragione? Tancredi la richiamò al presente con un battuta e lei rise, perché sapeva che quello era il momento di ridere. E perché faceva ridere, perché quell’uomo era spiritoso e bello e misterioso e ricco e affascinante. E la stava corteggian-do. E lei si sentiva ammirata, le piaceva piacergli e in qualche modo voleva conquistarlo. Poi finì di bere quel Crodino. Cinque anni prima non aveva risposto a quelle domande, ma lo fece in quel momento. “È solo un divertimento, Andrea, non ti preoccupare, non dobbiamo decidere in questo caso chi avrà il potere dell’amore. È


una semplice fuga. Te l’ho già detto, dopo questa volta non lo vedrò mai più, che lui abbia giurato o meno, lo giuro io e tu sai come sono fatta”. Allora Sofia fuggì via e tornò da Tancredi, a quel gioco.

«Me lo vuoi dire o no dove stiamo andando?»

«Non posso, fa parte della sorpresa…»

«Ah…»

Ma fu come se all’improvviso un’altra domanda di Andrea piombasse nella sua mente.

“Sei sicura di sapere come sei fatta? Non potresti essere cambiata in tutto questo tempo?”

Lei fece finta di niente. Andrea continuava. “Che fai, non mi rispondi? Non lo sai, vero?”

Chiuse per un attimo gli occhi. Era stanca. Stanca di dover rendere conto.

«Siamo arrivati.» Tancredi le stava sorridendo e la salvò da quella raffica di domande che sarebbe rimasta senza risposta. Si alzò una sbarra, l’auto entrò in un grande spiazzo. Solo allora lei lesse la scritta. «Ma è un aeroporto…»

Gregorio Savini teneva aperto lo sportello della macchina. «Prego, di qua.» La fece scendere..

Tancredi allargò le braccia. «E questo è un aereo.

Nella scommessa non avevamo detto che non ci potevamo spostare…»

Sofia era senza parole, camminava come inebetita tra loro. «Ma io non ho nulla…»

«Non serve nulla…» E in un attimo si ritrovò seduta su una grande poltrona in pelle, il portellone si chiudeva davanti a lei.

«Guarda che io per mezzanotte devo essere a casa…»

«Sei peggio di Cenerentola. Ci sarai.»

Sofia si mise a ridere, poi una hostess elegante e carina le chiese se desiderava qualcosa. «Niente, grazie…»

Un capitano dai capelli brizzolati e la voce un po’ grossa la salutò. «Buonasera.»


Poi si diresse verso la cabina dove c’era un secondo pilota. Il capitano gli si sedette accanto. Li vide spingere alcuni bottoni, abbassare alcune leve, anche il secondo la salutò con un sorriso. «Quando saremo decollati se vuole può venire in cabina.»

«No, no… Grazie» rifiutò educata.

Dopo un attimo si ritrovò un bicchiere tra le mani.

«Allora, brindiamo?»

Sofia alzò il calice. «A cosa?»

Tancredi ci pensò su. Poi non esitò. «Alla musica.

Che la si insegni, che la si ascolti, che faccia parte della nostra vita, che siano sempre le note più belle… Alla musica dentro di noi.»

E Sofia fu felice di brindare con lui, sorrise e poi bevve. Lo champagne era molto freddo, pieno di bollicine, leggero, secco, perfetto. E non fece in tempo a posare il bicchiere che arrivò la hostess e glielo riempì di nuovo. Poi come d’incanto sparì. Le luci si abbassarono.

Dal grande oblò Sofia poteva guardare la città. Erano alti ormai, alcune piccole nuvole si coloravano di ro-sa, sembravano batuffoli di lana che le ali tagliavano a metà. Più lontano si vedeva il mare. Su tutto quel blu apparivano degli spruzzi bianchi improvvisi, dovevano essere le onde. Poi le si avvicinò lo steward.

«Vuole venire, signora? Il capitano vorrebbe che andasse da lui.»

Sofia guardò Tancredi come per chiedere permesso ma anche semplicemente: “Cosa faccio?”.

«Vai se ti va…» Tancredi rise. «Vuole solo te. Di me non ne può più.»

Così, scortata dallo steward, arrivò in cabina. Il comandante la salutò. «Prego, si accomodi.»

«Ma non è che tocco qualcosa e faccio un casino?»

Il comandante rise. «Almeno così movimenta un po’ í la serata…» Poi la tranquillizzò. «Non si preoccupi, non può accadere nulla.»


Sofia si sedette accanto a lui. Guardò avanti. Non c’era nulla se non l’orizzonte lontano e, quando entravano in una nuvola, tutto accadeva a una velocità incredibile. Non si faceva in tempo a vederla che era già passata. Oltre. Ecco cos’era volare. Essere oltre. Come se non ci fossero più distanze, in un attimo essere altrove e appartenere al mondo. Fu quella la strana sensazione che provò Sofia, seduta accanto al comandante.

«Grazie. E bellissimo.»

«Si figuri» fece lui. E lei continuò a guardare quell’infinito davanti ai suoi occhi, più sotto vedeva sfilare ma-re, città, boschi, strade, laghi, ancora boschi più scuri.

E piano piano divenne sera.

«Mi scusi, dovrei riprendere il mio posto» le disse il secondo sorridendo imbarazzato.

«Ma certo… Scusi lei.» Si alzò e uscì dalla cabina.

Gregorio Savini osservò la ragazza che tornava al suo posto mentre la porta alle sue spalle si richiudeva. Si sorrisero, lui continuò a sfogliare il giornale. Sofia si sedette. Quando la vide arrivare, Tancredi si alzò. «Allora come è stato? Paura?»

«Per niente. E incredibile. A un certo punto ha fatto una curva a destra, quindi andiamo di là…»

Indicò una direzione cercando, curiosa, di capire.

Tancredi annuì. «Sì…» Poi le spostò di poco il braccio.

«Ma un po’ più in là.»

«Ah.» Sofia fece finta di aver capito.

«Sai, è la prima volta che sono felice di aver perso una scommessa.»

Tancredi le sorrise. «E io è la prima volta che sono felice di andare a Verona.»


L’aereo atterrò poco dopo. All’uscita dell’aeroporto li attendeva un’auto identica a quella di Roma. Tancredi fece lo spiritoso, aprì il cassettino in legno, in mezzo ai due sedili.

«Allora, posso offrirti qualcosa? Una birra, un Bitter bianco o rosso, un po’ di vino, dello champagne…»

Sofia stette al gioco. «Mi sembra di averla già vissuta questa scena.» Appoggiò l’indice sulle labbra fingendo di fare la ragazzina. «O no?» Quel gesto eccitò moltissimo Tancredi. «Sembra di stare in quel film dove ogni giorno si ripeteva la stessa storia…»

«Ho capito quale dici, quello con Bill Murray, do-ve lui vive sempre la stessa giornata e quindi conquista qualsiasi donna perché ha imparato a conoscerne i gusti. La prima volta si può anche sbagliare, ma se alla fine uno sa tutto di quella persona è chiaro che gli riesce facile…»

«Già.»

«Però non ci sarebbe neanche divertimento, no?»

«Sì, credo di sì.»

Tancredi fece finta di niente. Poi ci ripensò. «Alcuni film fanno sembrare la vita molto più facile di quanto non sia. È per questo che poi si rimane delusi.»

«O forse si rimane delusi perché si è preteso troppo.»

Rimasero in silenzio per un po’. Poi Sofia si girò verso di lui. «Ma stasera però è bella come un film.»

«Sono felice che ti diverti. Ecco, siamo arrivati.»


La Bentley si fermò davanti al Due Torri Hotel Baglioni. Gregorio Savini scese e aprì lo sportello facendola scendere. Sofia fu colpita dalla bellezza di quell’albergo, in pieno centro di Verona. Poi si irrigidì. Che c’entrava la fermata in un albergo? A cosa serviva? Cercò di tranquillizzarsi. Forse faceva parte della sorpresa.

«È qui il segreto?»

Tancredi scosse la testa. «No, qui ci riposiamo un po’…»

«Ma io non sono stanca.»

«Facciamo due chiacchiere se vuoi, una doccia.»

«E qui che porti le tue donne?» gli chiese infastidita Sofia, ma l’arrivo in quell’istante del direttore salvò Tacredi.

«Dottor Ferri Mariani. Finalmente, mi fa piacere questa sua visita, sono felice di conoscerla.»

«Vedi, è la prima volta…» sussurrò Tancredi.

Il direttore chiamò dei facchini. «Avete delle valigie, qualcosa?»

«No, siamo di passaggio, ripartiamo quasi subito.»

Il direttore rimase sorpreso. «Quando l’altr’anno mi ha fatto quella telefonata per avere notizie su quest’albergo mi sono sentito molto lusingato, quando poi lo ha comprato mi sono sentito anche molto responsabile…

Vuole vedere l’albergo?»

«No, tornerò presto. Oggi siamo in vacanza.»

«Benissimo, come desidera lei, allora vi accompagno.»

Il direttore passò alla reception, poi presero l’ascensore.

«Ecco, di qua, signora. Questa è la sua suite…» Aprì una porta con la tesserina magnetica, e invitò Sofia a entrare.

«Prego… Questa è la camera da letto, se vuole riposare, questo il salotto, di qui c’è il bagno e questa è la finestra che dà sul terrazzo. Di qua si possono vedere i campi e le vigne del nostro buon Valpolicella, di là l’Arena dove…»

Si accorse dello sguardo di Tancredi e capì che stava dicendo troppo. «Be’, è famosa insomma. Per qualunque cosa ci chiami, saremo felici di esserle utili.»

Rimasta sola, Sofia si sedette sul letto, si lasciò andare all’indietro e cadde distesa con la faccia rivolta al soffitto. “Non ci posso credere. Questo albergo è bellissimo e lui l’ha comprato. Solo questa stanza è più grande di tutta casa mia.” Gironzolò un po’ per il salotto, c’era un televisore al plasma di almeno cinquanta pollici attaccato al muro come un quadro poi un lettore di ed Bang&Olufsen poggiato sul tavolo, con due grandi casse e una superficie piatta verticale per i cd, che si apriva semplicemente sfiorandola. Poi andò in bagno, era in marmo perfettamente lavorato, la doccia aveva un soffione quadrato enorme. Provò l’acqua, era regolabi-le con dei pulsanti. Poteva avere una specie di pioggia tropicale, oppure un getto più lento come l’acqua che scende dalle grondaie, oppure un getto unico, più forte, come una cascata.

Sentì suonare il telefono. Si poteva rispondere anche dal bagno.

«Sì?»

«Sei a letto? Dormi?»

“Ecco, lo sapevo” pensò Sofia. «No. E poi se dormivo come potevo rispondere?»

«Be’, magari ti avevo svegliato… Puoi uscire in terrazzo?»

«Certo.» Sofia riattaccò e si diresse verso la finestra.

Uscì fuori, confinava con l’altra camera, si guardò in giro.

Tancredi era in fondo alla balaustra, lei lo raggiunse.

«Guarda…» Le indicò le colline lontane e il sole ancora alto sui vigneti. «Quando il direttore mi ha parlato di questo, mi ha convinto. Non sembra una donna distesa nel verde, con i suoi seni, le gambe lunghe? E quei vigneti la stoffa del suo vestito e il sole lì in fondo un suo sorriso?»


Sofia socchiuse gli occhi. Quelle colline ricordavano proprio il corpo di una donna. «È vero.»

«A volte non sappiamo osservare quel che ci circonda. Abbiamo sempre troppa fretta…»

«Cosa intendi dire?»

Scosse la testa. «Vedi? Tu cerchi altro nelle mie parole, magari un’allusione, invece io volevo dire semplicemente quello che ho detto. La bellezza è intorno a noi.

A volte siamo ciechi.»

Sofia allora sorrise e finalmente si rilassò. Tancredi se ne accorse. «Ecco, ora mi sono spiegato bene, lo vedo.

È un peccato perdersi le cose belle di questa vita. Ci vediamo giù alle sei?» Guardò l’orologio. «Tra quaranta minuti, va bene?»

«Sì.» Sofia rientrò nella stanza, si levò le scarpe e si stese sul letto, incrociò la gambe e mise le mani sulla pancia, chiuse gli occhi e cominciò a pensare. E piano piano ripercorse tutto quello che era successo con Tancredi. Quell’incontro in chiesa, la chiacchierata sulle scale, poi quel nuovo incontro al bar e infine quella giornata, Lavinia, i biglietti per gli U, Ekaterina Zacharova, l’aereo e ora Verona. Non riusciva a crederci, era stata come travolta, strappata alle sue sicurezze. E lei si era lasciata andare. Dove sarebbe finita?

Scoppiò a ridere. Che esagerazione, dove poteva finire? Da nessuna parte. Avrebbe vissuto quella giornata e se la sarebbe ricordata. L’avrebbe raccontata a Lavinia dopo averla sgridata per bene. Conoscendosi prese il telefonino, impostò la sveglia per le. e lo spense. D’altronde era a lezione con i suoi ragazzi, no?

Non poteva mica tenerlo acceso e su questo pensiero si addormentò.

Un cielo rosato al tramonto, alcuni gabbiani che vo-lano bassi, sempre di più, sfiorano l’acqua. Uno di loro con il becco afferra qualcosa, per un attimo si vede in controluce, brilla nel blu del mare, poi riprende quota, sale su, più su e si perde tra le nuvole, con il suo pesce. Sofia è distesa sulla sabbia, poggiata sui gomiti, le gambe leggermente piegate. Non porta nulla, è nuda, è abbronzata. Tra le sue gambe quei riccioli chiari e nessun segno del costume. Si tocca il seno, si accarezza il capezzolo, si mette ancora un po’ di crema.

«Ehi, ma che combini da sola? Non mi aspetti?»

La sua voce. Calda, sensuale, maliziosa, con dentro una risata. Sofia guarda a destra, a sinistra, alle sue spalle. «Sono qui…» Allora finalmente lo vede. E in acqua, davanti a lei. Sofia chiude un po’ le gambe mentre lui esce dal mare. Sorride mentre cammina. Ha l’acqua fino al petto, poi scende, più giù, alla pancia, alla vita. Ma…

Anche lui non ha il costume. Continua a camminare.

Ora l’acqua è all’altezza delle sue cosce e Sofia, quando lo vede, arrossisce. Ma non si gira, fissa il suo desiderio.

Anche Tancredi sorride, senza vergogna, senza pudore, guardandola tra le sue gambe ora dischiuse. Poi un verso forte di un gabbiano, più forte, sempre di più. Il mare sembra come ritirarsi, le nuvole sparire, il cielo si schiarisce.

All’improvviso Sofia apri gli occhi. La sveglia. “Di già? Ma è volato il tempo! Secondo me è la tensione di tutta questa storia.” Si sentiva ancora calda ed eccitata. “Meno male che è suonata la sveglia.” Chissà cosa sarebbe successo dopo, si sarebbe steso vicino a lei, e poi? Arrossì. “Per fortuna che mi sono svegliata. Chissà come lo avrei guardato se avessi sognato fino in fondo!” Si mise a ridere, andò in bagno, si lavò il viso con l’acqua fredda, si mise quel poco di trucco che aveva con sé e si pettinò i capelli. Poi si guardò allo specchio.

“Ma che ti sta succedendo? Di solito non ti ricordi mai i tuoi sogni!” Poi usci dalla stanza. Chiamò l’ascensore e, arrivata nella hall, si guardò intorno.

Il direttore le venne incontro. «Il dottor Ferri Mariani la sta aspettando fuori.»


Sofia lo ringraziò e si diresse verso l’uscita. «Eccomi!»

Tancredi era fuori che stava pedalando su una bicicletta. «Quella è la tua.» Indicò con il mento una bicicletta parcheggiata davanti all’albergo, leggermente inclinata sul cavalletto.

«Ehi, ma ci sai andare, vero? Non è che cadi? Chi li sente poi i tuoi alunni che, invece di avere la Zacharova per un giorno, ce l’hanno per tutto il mese!»

Sofia rise divertita. «Ma figurati! Sono ancora fortis-sima!»

E così dicendo sollevò il cavalletto, salì sulla bicicletta e cominciò a pedalare. «Guarda… so andare anche senza mani.» Le tolse e fece qualche metro, poi vedendo che sbandava riprese il manubrio. «Allora dove si va?»

«Di qua…»

«Sicuro?»

«Il direttore mi ha fatto una mappa!»

E così si misero a pedalare uno vicino all’altra, tranquilli, sereni, senza fretta.

«Hai riposato un po’?»

«Sì…»

Sofia pensò al sogno, a quando lui era uscito dall’acqua eccitato. Piegò la testa facendo cadere i capelli davanti al viso e si nascose sentendo di arrossire.

«Ecco, siamo arrivati. Questa è la famosa casa di Giulietta.» Poggiarono le biciclette di lato. «Ma tu eri mai stata a Verona?»

«Solo una volta.» Si ricordò Sofia che aveva suonato all’Arena per un concerto importantissimo con grandi musicisti anche stranieri. «Ma non ero stata alla casa di Giulietta.»

«Ecco, quello è il balcone e quella è la statua. Sai come si fa no…»

«Sì.» Accarezzò il seno sinistro di Giulietta e chiuse gli occhi.


«Quale desiderio hai espresso?»

«Non si può dire, se no non si realizza più.»

«Ma se si realizza me lo dici?»

«Sì…»

Poi anche Tancredi toccò quel seno. Si girò e la guardò. «Anch’io te lo dirò… Se si realizza.»

E lo disse senza sottintendere niente, almeno così le sembrò. Poi ripresero le bici.

«Ma è tardi, tra poco arriva la macchina in albergo, dobbiamo sbrigarci! Te la senti di fare una gara?»

«Certo!»

Sofia cominciò subito a pedalare veloce.

«Non vale!»

«Come no!» Si alzò sul sellino per dare ancora più forza alle gambe, a tutta velocità attraversò piazza delle Erbe, spingendo sempre di più, una volata lungo corso Sant’Anastasia e fino ad arrivare all’albergo. «Prima!»

Frenò quasi impennando sulla ruota davanti, dovette mettere subito i piedi per terra per non cadere. «Visto?

Ho vinto.»

Poco dopo arrivò anche Tancredi. «Secondo me ti alleni la domenica.»

«Ma che sciocco… È da quando sono bambina che non ci andavo più…» Poi si passò una mano dietro la schiena. «Piuttosto devo fare una doccia. Sono tutta sudata!»

«Ok, quando hai fatto ti aspetto giù.»

Sofia prese l’ascensore e, arrivata al piano, entrò in camera.

Mentre si spogliava si ritrovò a sorridere. Si stava divertendo. Era tanto tempo che non passava una giornata così… Leggera. Ecco, era la parola adatta.

Stava bene con Tancredi, la faceva sentire sempre a suo agio. Era una cosa molto importante per lei. Si infilò sotto la doccia con un unico pensiero. “Ma gli troverò un difetto? E soprattutto, cosa ancora più grave, ce l’avrà?” Aprì il getto dell’acqua, si lavò rapidamente, si asciugò ancora più rapidamente e in pochi minuti fu pronta.

Tancredi era seduto al bar che l’aspettava. La guardò avanzare verso di lui. Le sorrise. Lei si fermò, lui la raggiunse e la prese sottobraccio.

«Non mi vuoi dire dove andiamo?»

«Tra poco lo saprai.»

«Mi sembra di essere in un film.»

«Lei era Julia Roberts. Ma tu sei più bella.»

Usciti dall’albergo, Savini scese dall’auto, aprì lo sportello a Sofia facendola accomodare. Tancredi salì dalla parte opposta e si sedette accanto a lei. La macchina partì tranquilla e si infilò nel traffico di Verona. Sofia sorrise a Tancredi, poi gli indicò il pulsante che serviva a separarli dall’autista.

«Posso?»

«Certo.»

Fece salire il cristallo. Ora erano soli.

«Sai, penso che tu sia veramente un tipo strano.»

«Anch’io lo penso di te.»

«No sul serio, non sto scherzando.»

«Neanch’io.»

«È come se ti nascondessi, in realtà sarebbe tutto molto più semplice, ma è come se tu la normalità non volessi accettarla.»

«Interessante questa analisi. E perché secondo te?»

«Forse perché hai paura.»

«Quindi alla fine il fifone sono io…»

«Forse… Oppure sotto sotto non ti importa proprio niente di niente.»

«Interessante anche quest’altra analisi. E quale pensi che sia quella giusta? O ce n’è una terza?»

«La terza potrebbe essere questa: tu pensi che sia tutto tuo, non solo le cose, ma anche le persone. Per un attimo concedi loro il mondo, le fai divertire, le fai sentire al centro dell’universo poi, secondo me, quando ti annoi, allora le butti via.»

«Pensi che io sia così cattivo?»

«Forse.»

«Non ci potrebbe essere un’altra lettura ancora?»

Sofia sorrise. «Sì, potrebbe essere. Forse.»

«Tu ti diverti?»

«Molto. Ma non ti darò soddisfazione, io non ci rimarrò male e comunque dopo stasera sarà tutto finito.»

Tancredi guardò fuori dal finestrino. «Ne sei così sicura?»

Sofia rimase un attimo in silenzio. «Sì. Ho deciso.»

«Ma non potrebbe essere tutto più semplice come dicevi tu?»

«Cioè?»

«Non ho mai trovato la persona giusta.»

«Troppo semplice.»

La Bentley procedeva in mezzo al traffico di Verona, sul Lungadige, poi svoltò a sinistra e infine superò alcune auto, portandosi velocemente a destra fino all’Arena.

«Quindi dopo stasera non ci vedremo più?»

«Esatto.»

«E non potresti avere un ripensamento?»

«No.»

«A volte si risponde con troppa sicurezza solo perché non si è affatto sicuri…»

Sofia gli sorrise. «E vero. Ma non in questo caso.»

Tancredi si girò verso di lei. «Ok, ma ora non roviniamo la sorpresa, siamo arrivati.»

L’automobile si fermò davanti a un grande cancello.

Un uomo della sicurezza controllò il pass poggiato sul cruscotto della macchina. Era tutto a posto. Fece un cenno a un collega all’interno del cortile. Il cancello si aprì e l’auto entrò nel parcheggio. Uno degli steward dell’Arena venne subito ad accoglierli. Tancredi e Sofia scesero dalla macchina.

«Grazie.»

«Prego signore, mi può far vedere i biglietti?» Lo steward diede un’occhiata veloce. «I vostri posti sono in fondo a destra. Buona serata.»

Tancredi prese sottobraccio Sofia. Lei provò a sbir-ciare tra le sue mani, a leggere quei biglietti, per capire quale spettacolo avesse scelto per lei. Tancredi se ne accorse e li mise in tasca.

«Ci sediamo?»

Si misero uno accanto all’altra. Il palco era in penombra, uno spot di luce tagliava il buio ma non dava modo di capire cosa stesse per accadere. Tancredi la guardò sorridendo. «Dai, manca poco… Resisti.»

Sofia cominciò a guardarsi intorno, cercava disperatamente un indizio, una scritta, un biglietto tenuto in mano da qualcun altro, un programma, un cappellino, una maglietta, niente. Non c’era niente. Studiò la gente intorno a lei. C’erano signori anziani eleganti ma anche giovani, ragazzi, ragazze, stranieri, italiani, qualcuno di colore, un giapponese. Non c’era nessun elemento che la potesse aiutare a capire. Niente.

Tancredi se ne accorse.

«Vuoi spostarti? Non ti piace dove stiamo?»

La prendeva in giro. Aveva voluto per lei le poltrone migliori.

«No grazie, va benissimo qui…»

«Ah, no perché vedevo che ti guardavi in giro…»

Proprio in quel momento si spensero le luci.

Tancredi le sorrise nel buio e cominciò a parlarle con una voce calda.

«Ha trentun anni, ha vinto nove Grammy Awards…

Piace… Sì, insomma, abbastanza, ma molto a te. Il suo nome comincia con la N…»

Una voce americana urlò. «Buonasera, Italia!» Si acceserò alcune luci sullo sfondo, dei fuochi d’artificio blu, bianchi e rossi salivano da dietro il palco. «Buonasera, Verona.»

E subito cominciò a cantare salendo da dietro.

In your message you said…

Sofia era a bocca aperta. «Norah Jones…»

«Eh già, hai indovinato…»

Sofia si alzò in piedi e cominciò a ballare divertita insieme a tutte le altre persone che le stavano intorno, seguendo il ritmo a occhi chiusi, con le mani in alto, agitandosi a tempo sulla musica di Chasing Pirates.

Norah Jones cantava con la sua voce calda, le coriste alle sue spalle si muovevano perfettamente a tempo.

«Ti piace?»

«Moltissimo! E una sorpresa stupenda…»

Tancredi era contento di vederla così entusiasta, si muoveva a tempo e ballava come una qualsiasi sedicenne. E continuò così sui diversi pezzi…

Thinking About You. Poi Be Here To Love Me e infine su December. Uno dopo l’altro Norah Jones eseguì gli ultimi pezzi fino a quando l’Arena si accese di piccole luci, i telefonini, gli accendini con la fiamma al vento e la gente che gridava: «Bis! Bis!». E un attimo dopo Norah Jones ricomparve sul palco e fece Don’t Know Why, ancora meglio di tutti i pezzi cantati fino a quel momento, come se non avesse sentito il peso di quel concerto. E poi Come Away with Me come se avesse appena iniziato a cantare e alla fine chiuse con un bellissimo sorriso e un grido: «Grazie, Verona! A kiss to Giulietta e Romeo!».

Lentamente si alzarono le luci e la gente cominciò a raggiungere l’uscita.

Tancredi guidò Sofia verso l’auto.

«Mi è piaciuto moltissimo… Troppo! È stato pazze-sco!»

«Già…»


«Ma tu come facevi a saperlo…»

«L’avevo letto sul giornale.»

«No, che Norah Jones è la mia cantante preferita.»

Tancredi aveva sperato che non facesse quella domanda. «Ah scusa, me lo ha detto la tua amica Lavinia.»

«Ah, certo…»

Salirono in auto. Sofia era diventata taciturna. Tancredi se ne accorse.

«Che c’è, qualcosa che non va?»

Lei si girò verso di lui.

«No, no, stavo pensando che mi sono persa uno dei suoi pochi concerti in Italia, a Lucca. Credo fosse nel.»

«In qualche modo abbiamo rimediato…»

«Sì.»

Arrivarono subito all’aeroporto, scesero dall’auto e salirono sull’aereo.

Il comandante gli andò incontro. «Tutto a posto?

Possiamo partire? Siamo giusto in tempo con lo slot…»

«Sì grazie, comandante.»

Si sedettero, si allacciarono la cintura. L’aereo cominciò subito a rullare, si portò verso il centro della pista, aumentò il giro dei motori, sempre più veloce, poi si staccò da terra. Poco dopo passarono alti proprio sull’Arena. Sofìa si affacciò dal finestrino.

«Poco fa eravamo proprio lì… È stato un bellissimo concerto. Grazie.»

«Ma figurati. È piaciuto molto anche a me. Mi stai facendo scoprire tante cose.»

«Tipo?»

«La musica classica, Ekaterina Zacharova, Norah Jones. Un nuovo mondo. Credo che ogni volta che una persona ne incontra un’altra si creino nuove direzioni…

Chissà cosa accadrà adesso.»

Sofia sorrise. «Chissà… Per adesso una cosa molto più semplice. Dovrei andare in bagno…»


«È lì in fondo.»

Si alzò dalla poltrona e si diresse verso la cabina che le aveva indicato, la aprì, attraversò una camera da letto matrimoniale molto elegante, in legno chiaro e alcanta-ra e andò in bagno. Si pettinò i capelli. Controllò il telefonino. Nessun messaggio. Andrea non l’aveva cercata.

Sapeva che stava con Lavinia e non la voleva disturbare.

Quando uscì dalla cabina vide che Tancredi era seduto a un tavolo. Era stato apparecchiato e c’era una candela al centro. Tancredi la stava accendendo.

«Mangiamo qualcosa, ti va? Avrei voluto portarti a cena in un bellissimo ristorante sulle colline veronesi che mi hanno consigliato, ma non saremmo arrivati in tempo a Roma… Magari un’altra volta.» Sofia lo guardò e fece di segno di no con la testa, poi si sedette di fronte a lui. «No, non vuoi mangiare o…»

«No, magari un’altra volta.»

«Ok, come desideri. Tieni, ho preparato il menu Sofia.» Glielo passò. Era stampato sul serio con il suo nome sopra. Lei sorrise e lo aprì. C’erano tutte cose che le piacevano, piatti tipici delle regioni più diverse.

Pasta alla Norma siciliana, trofie al pesto genovese, penne all’arrabbiata, cotoletta alla milanese e spigola alla,palermitana. E a seguire contorni, frutta e dolci.

«Non ho potuto metterne di più perché qui la cucina è piccola. Non ti dico che la prossima volta mi organizzerò meglio, perché già so che scuoteresti la testa…»

«Esatto.»

Arrivò la hostess e Sofia ordinò tutto siciliano.

«Hai voglia di scegliere un vino? Ne abbiamo diversi nella cantinetta o vuoi dello champagne?»

Sofia guardò la carta. «Sceglilo tu.»

«Ok. Mi porta un Cometa di Pianeta?»

La hostess scomparve.

«Hai scelto tutto cibo siciliano, a me piace di solito accompagnare ciò che mangio con il vino della stessa regione…»

Poco dopo cenarono volando, a lume di candela con un ottimo vino bianco freddo, ridendo, raccontandosi ognuno un po’ del proprio passato. Tancredi naturalmente conosceva ogni particolare ma fu abilissimo nel farle credere di sentire tutto per la prima volta.

«E così hai cominciato a suonare… Il tuo primo concerto a soli otto anni… Incredibile.»

E ascoltava attento ogni dettaglio ripercorrendo nella sua mente le foto di quel periodo, le frasi sul diario, un articolo, un filmato, qualcosa che in qualche modo arricchiva ancora di più quel semplice racconto.

Poco dopo atterrarono. «Ecco… Siamo arrivati.»

«Grazie…»

Salutò la hostess, il secondo pilota e poi il comandante.

«È stata veramente una serata magnifica…»

Tancredi la accompagnò alla sua auto al parcheggio.

«Eccoci qua.»

«Eccoci tornati alla realtà.»

«Sei stata bene?»

«Abbastanza.»

Tancredi rimase sorpreso di questa risposta. Non era abituato ad “abbastanza”. Sofia lo guardò negli occhi.

«Non so come hai fatto a sapere tutte quelle cose su di me. All’inizio mi ha dato fastidio, ora non me ne importa più niente. Però c’è stato un errore.»

«Quale?»

«Norah Jones. Mi hai detto che lo hai saputo da Lavinia, lei però non ha mai saputo che mi piacesse Norah Jones.» Poi sorrise. «Ti avevo detto di dirmi la verità.

Ora ti dico una cosa più importante. Io odio i bugiar-di.» Tancredi non trovò nulla che potesse dirle. Aveva sbagliato.

Sofia entrò nella sua auto. «Per un attimo ho pensato ehe tu fossi l’uomo perfetto…» Poi gli sorrise. «Ora sono molto più serena.»

Chiuse lo sportello e partì.

Tancredi rimase a guardarla. Poi prese il telefonino dalla tasca.

Sofia guidava veloce verso casa. Trovò subito posteg-gio, scese dalla macchina e guardò l’ora. Mezzanotte.

Tutto era credibile. Entrò nell’ascensore e spinse al suo piano. Si ricordò per un attimo la bellezza dell’ascensore dell’albergo di Verona, quella suite, il terrazzo, il concerto, l’aereo, la cena al ritorno… Era tutto fuori dalla sua portata, anche dalla sua immaginazione. Poi tirò fuori il telefonino dalla borsa. Due messaggi. Il primo era di Lavinia.

“Mi perdoni? È stato bello? Il mio concerto è stato fantastico! Ci sentiamo domani? Tvb.”

Lo cancellò. Era proprio una ragazzina. Poi il secondo messaggio. “Scusami, non volevo dirti una bugia. Il concerto degli U è stato perfetto, l’ultimo bis è stato Where the Streets Have No Name. Non ti disturberò più. Questo è il mio numero. Cercami tu se vuoi. Buonanotte. Tancredi. “

Rimase con il telefonino in mano davanti alla porta di casa indecisa se cancellarlo o no. Il pollice era fermo sul tasto. Guardava quel messaggio, poi prese la sua decisione ed entrò in casa.

La voce di Andrea arrivò dalla camera da letto.

«Amore, ti sei divertita?»

«Sì molto….» rispose dal salotto.

«Vieni qui?»

Sofia fece un lungo respiro, si sentiva in colpa. Poi pensò: “In realtà non ho fatto proprio niente, è stata tutta colpa sua e di Lavinia”. Così andò in camera.

Andrea leggeva un libro, Pastorale americana di Philip Roth. Lo poggiò sulle gambe e le sorrise.

«Sono sempre bravi, eh! Li ho visti una volta allo Stadio Flaminio nel, ancora non ci conosceva-mo…»

«Sì, bravissimi.» Gli diede un bacio sulle labbra.

«Vuoi bere qualcosa?»

«Sì, un po’ d’acqua. Ah, toglimi una curiosità.»

Sofia era di spalle, chiuse gli occhi. Non sarebbe stato facile. Allora si girò e gli sorrise.

«Certo, dimmi.»

«Hanno fatto un bis alla fine del concerto?»

«Sì…Where the Streets Have No Name.»

E solo in quel momento si sentì veramente colpevole.


I giorni seguenti furono particolari per Sofia. Era co-me se avesse sognato tutto, come se si fosse svegliata stranamente di malumore, c’era qualcosa che le piaceva molto e qualcosa che invece stonava. Era come quando ti svegliano di soprassalto, ti ricordi cosa stavi sognando ma ormai è troppo tardi. Nei sogni va tutto come vuoi tu, senza difficoltà, senza che nessuno si dispiaccia o abbia da ridire qualcosa. I sogni sono semplici.

Era tutto come prima: faceva colazione, usciva presto, faceva la spesa, tornava per pranzo e poi il pomeriggio lezione come al solito al conservatorio o alla scuola di musica. E non c’era una volta nell’arco della giornata che si ritrovasse a pensare a lui, a tutto quello che era accaduto, a quella fuga improvvisa dalla sua realtà. Se lo era imposto. E ci era riuscita.

«Come vi siete trovati con Ekaterina Zacharova?»

«Chi?»

«L’insegnante dell’altro giorno…»

«Oh bene, benissimo… Voleva vedere a che punto stavamo con te e poi ci ha fatto suonare qualcosa, minima fatica, massimo divertimento!» Così aveva commentato Jacopo, il più severo e anche il più simpatico dei suoi alunni maschi, quello che voleva trasportare tutta la musica classica nel mondo del computer e del virtuale.

«Sai cosa ho pensato che sarebbe un affare?»

«Che cosa?»


«Arrangiare delle musiche classiche per farne delle suonerie, è un mercato in continua espansione. Ci si guadagna moltissimo…»

«Sì, sì, va bene. Vediamo intanto come te la cavi con il reale!» E così dicendo gli piazzò sotto gli occhi lo spartito delle Invenzioni a tre voci di Bach. Jacopo sbuffò e cominciò a suonare lento, sicuro di sé, con una innata naturalezza. La N. in Do Minore. Sofia fu soddisfatta anche degli altri, compresa Alice, la più vitale delle sue alunne, che le parlava sempre delle sue cotte.

«Ce n’è uno che mi piace, solo che è più grande di me.»

«Quanti anni ha?»

«Sedici.»

«Ma Alice, è grandissimo, ha dieci anni più di te.»

«Sì, lo so. Però mi ha detto CBCR.»

«E che vuol dire?»

«Cresci bene che ripasso!»

«Ma scusa, te l’ha detto così, senza conoscerti?»

«Sta con una che abita nel mio palazzo e ha la sua età. Ci siamo incontrati un sacco di volte, ma quando lui viene a prenderla aspetta e aspetta, e aspetta… E così alla fine abbiamo parlato! Io il mio ragazzo non lo farò aspettare!»

«Voglio proprio vedere se quando avrai un ragazzo non lo farai aspettare… E poi anche se uno aspetta mica ci deve provare con un’altra? Se no vuol dire che comunque non è serio.»

«Quando parli così mi fa strano. Neanche la mia mamma mi parla così.»

Sofia capì che si stava per aprire il capitolo casa e famiglia, che poteva essere problematico. Decise di andare sul sicuro, anche a lei mise davanti uno spartito. Alice sistemò bene lo sgabello e attaccò la K di Mozart.

La suonò con incredibile facilità, come se l’avesse composta lei. Sofia rimase sorpresa. «Ehi, dovrei assentarmi più spesso!»


«Non dirlo neanche per scherzo… Mi sei mancata un sacco.»

«Ma se è stata solo una lezione!»

«Ma la mia maestra sei tu!»

«Ok, cercherò di non fare più assenze, ma anche tu devi continuare a suonare così.»

Si sorrisero, tra loro c’era una bellissima sintonia.

E così, quando alla fine di quella giornata Sofia uscì dal conservatorio, era felice e serena, non aveva nessun pensiero e nessuna aspettativa. Anche quando quell’au-to scura si fermò lì davanti, la guardò in maniera tranquilla. Lo sportello si aprì e scese una donna. Salutò il guidatore e si diresse verso il palazzo. Arrivata davanti al portone aprì la borsa, prese le chiavi ed entrò. Allora l’auto ripartì. Non era lui. Sofia si incamminò verso la sua macchina. E se fosse stato lui? Cosa avrebbe detto?

Come avrebbe reagito? Fece un sospiro. Non avrebbe voluto trovarsi in quella situazione. Erano stati chiari.

Non si sarebbero rivisti e lui non l’avrebbe più cercata.

E di questo Sofia era sicura. Se era un uomo intelligente, e lo doveva essere, aveva capito perfettamente come era fatta. Un altro incontro sarebbe stato sbagliato.

Salì in auto e posò la borsa sul sedile accanto. Quante cose sapeva di lei? Accese il motore. Aveva il suo numero di telefono, aveva scoperto dove insegnava, conosceva i suoi gusti, aveva conosciuto Lavinia, aveva trovato Ekaterina Zacharova, era riuscito a farla venire a Roma, sapeva degli U e di Norah Jones. Guidò silenziosa verso casa. Cos’altro sapeva quell’uomo della sua vita? Sofia posteggiò, spense il motore e rimase seduta in macchina, in silenzio. Ripensò a tutta quella storia.

Avrebbe voluto essere lei a spiarlo di nascosto. Avrebbe voluto seguirlo, entrare nella sua vita, nella sua casa, nel suo ufficio, aprire i suoi cassetti, scoprire cosa sapeva di lei, fino a che punto. Ma era impossibile. Solo in quel momento se ne rese conto: lui sapeva tutto di lei e lei fi

non sapeva assolutamente nulla di lui. La rabbia ebbe il sopravvento. Rimase in macchina per calmarsi. Più tardi salì a casa.

Non appena Andrea sentì il rumore della porta, subito la chiamò. «Amore?»

«Sì?»

«Vieni di qua… Ti voglio far vedere una cosa.»

«Arrivo.»

Quando lei entrò nella stanza Andrea sorrideva, aveva il computer poggiato sul tavolino del letto. «Guarda…»

Sofia prima lo baciò, poi guardò nello schermo. Una casa in d. Andrea fece partire il filmato. La soggettiva avanzò velocemente verso la porta che si aprì. «È la casa dei nostri sogni» le sorrise Andrea. Il filmato continuava, mostrava le diverse camere all’interno di quella casa.

«Questa è la cucina, grande, spaziosa, il salotto, la stanza da letto per noi, quelle per i nostri bambini… E questo è il tuo bagno, la doccia, la grande vasca con l’idromassaggio… Ti piace? È tutta per noi…»

Andrea aveva progettato una simulazione in d. Era una villetta su misura con grandi spazi e arredata ma-gnificamente, quadri, divani, tappeti, colori degli asciugamani, degli accappatoi, delle mura della cucina, della camera da letto. Sofia era entusiasta.

«C’è tutto quello che mi piace, amore… Grazie, hai scelto al meglio per me.»

Si baciarono. Poi cenarono e passarono una serata tranquilla. Anche i giorni seguenti furono molto tranquilli.

Poi una mattina Sofia sorprese Andrea.

«E adesso cos’è questa novità?»

«Ecco, lo sapevo. Non ti piaccio.»

«Moltissimo, ma quando avremmo potuto farlo insieme mi hai sempre detto che non ti andava…»

Rimasero un attimo in silenzio. Sofia era davanti a lui in tuta da ginnastica.


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«Ma sono successe mille cose da allora, amore. Non la devi leggere come un’offesa se ho deciso di andare a correre. Sto per fare trent’anni, mi sento fuori forma, non mi muovo abbastanza…» Poi si rese conto di quello che aveva detto e cercò di recuperare. «Vado a correre solo tre volte a settimana e di mattina.»

«Non vai in palestra, vero?»

Sofia si mise a ridere. «No, non ci vado. E comunque anche se fosse non mi comporterei mai come Lavinia.»

«Sì, sì, ma sai, certi ambienti alla fine creano le tentazioni…»

Sofia si rivide da sola con lui sul suo aereo, in albergo, rivide le loro suite comunicanti, il ritorno, la cena a lume di candela…

«Ma io credo che se uno vuole tradire non è che ci sia un posto che lo giustifichi, lo si può fare comunque…

E dovunque.»

«Anche correndo?» Andrea cercò di essere spiritoso.

«Sì. È che io non voglio tradirti.»

Rimasero a guardarsi per un po’.

«Me lo diresti?»

«Sì. Credo di sì. Forse però dovrei trovarmi in quella situazione per essere veramente onesta. Tu lo vorresti sapere davvero?»

«Non lo so. Ci devo pensare. Forse no.»

«Be’, allora pensaci. Intanto io vado a correre.» Sofia si fermò sulla porta. «Una persona a volte può cambiare. Io credo e spero di essere cambiata in meglio.»

La cosa più difficile in quei giorni fu cercare di rimandare l’incontro con Lavinia. Sofia non rispose alle sue chiamate. Poi le arrivò un messaggio. “Ehi, guarda che sono stata quasi costretta! E poi, scusa, potevi dire di no… no? O hai detto no?”

Sofia non diede risposta nemmeno al messaggio e co-sì, alla fine, una mattina se la trovò sotto casa.

«Ti posso accompagnare?»


«Ho la macchina.»

«Ma dove vai in tuta?»

«Secondo te?» Poi decise che non era il caso di fare tanti indovinelli. «A correre.»

«Ma scusa io vado in palestra, potevi iscriverti con me!»

«Sì, e con Fabio e gli amici di Fabio. E poi Andrea non vuole, ha detto che è un luogo di perdizione.»

Lavinia sorrise. «Gli hai detto che è il mondo a essere un luogo di perdizione? Il tradimento può essere dietro l’angolo, ma anche durante un concerto… o in aereo.»

Sapeva anche quello.

Sofia non ci poteva credere. “Si è perfino fatto bello con la mia amica!”

«Quando hai parlato con lui? Cosa ti ha raccontato?»

«No, non ci ho più parlato. Quel pomeriggio però mi aveva detto che ti avrebbe portato a Verona e che saresti tornata in tempo, quindi ho dedotto…»

«Tu che deduci, figuriamoci!»

«Allora se vuoi saperla tutta ho dedotto che è un gran fico e che in qualche modo si è innamorato di te!

Quindi vorrei sapere com’è iniziata, com’è continuata, cos’è successo e soprattutto come continuerà.»

«Nient’altro?»

«Be’, man mano che mi racconti sono sicura che mi verrà qualche altra domanda! E comunque secondo me noi donne ormai siamo in tutto e per tutto come gli uomini. Perché non dovremmo vivere anche noi di tradimenti? Di conquiste e vittorie? Loro è una vita che lo fanno. Ma scusa! Non abbiamo lottato per la parità?»

«Non credo fosse questo l’obiettivo delle prime fem-ministe.»

«Be’, qualcuna di loro secondo me ce l’aveva già in mente. Dimmi cosa c’è di più divertente. Ti sei annoia-ta quella sera?» Sofia scosse la testa. Lavinia le sorrise.

«Vedi? Mi dai ragione.»

Sofia capì che era fatica sprecata. «Ok, se hai voglia di accompagnarmi al parco ti racconto.» Così si misero a camminare verso l’inizio dell’Appia. Lavinia la guardava in silenzio, pendeva dalle sue labbra, curiosa fino a impazzire.

«Allora? Quanto devo ancora aspettare?»

«Volevo vedere quanto resistevi…»

«Io? Ma se lo sai! Resistenza zero.»

E quella ammissione di debolezza in qualche mo-do la intenerì. Sofia iniziò il suo racconto, l’arrivo al-la chiesa, l’incontro con la sua vecchia compagna di studi Ekaterina Zacharova che doveva sostituirla, la scommessa.

«Hai capito? Ho scommesso su di te e ho perso!»

«Ma allora è troppo forte, ecco perché mi aveva detto di mandarti il messaggio a quell’ora precisa. Aveva calcolato tutto. Cioè, Sofi, questo è un genio!»

«Ma un genio di che? Voleva solo portarmi a letto!»

«Sì, ma almeno lo fa in modo geniale!»

Sofia continuò il suo racconto. L’aereo, la macchina a Verona, la suite nel suo albergo.

«L’ha comprato per far colpo su di te… Ma dai, Sofi, questo è un sogno…»

«Dipende dai punti di vista, per me è anche inquie-tante.»

«Anch’io vorrei un uomo che mi causasse queste in-quietudini… Oltre a quelle che mi fa vivere Fabio naturalmente!»

«Ah certo naturalmente…» Poi continuò il racconto, le parlò del concerto, della cena in aereo. «Pensa che c’era anche una cabina con il letto matrimoniale.»

«Aveva anche una cabina con il letto matrimoniale?»

«Sì.»

«Sul serio? E quindi… avete trombato.»


«Lavi! Ma così non è più neanche il discorso del fem-minismo, sei una vera e propria camionista.»

«Sì! Che poi non ho capito perché i camionisti devono sempre essere ritenuti volgari, una volta ne ho conosciuto uno colto, con una sua eleganza.»

Sofia rimase sorpresa. «E dove lo hai conosciuto?»

«In palestra!»

Sofia allargò le braccia. «Ma allora è un vizio!»

«Ma dai, scherzavo. Insomma, ci sei andata o no a letto?»

«Assolutamente no.»

«Cioè non c’hai fatto niente, non c’hai trombato…

Va be’, sì, insomma, non hai fatto l’amore?»

«Nooo!»

«Un bacio?»

«Neanche.»

«Niente?»

«Niente.»

«Non ci credo.»

«Non ci credere. Sei liberissima.»

«Ma scusa, l’aereo, la cena, il concerto, la suite…

Sei in totale controtendenza! Qualunque altra donna avrebbe detto di sì per un decimo di queste cose.»

«Hai una pessima opinione delle altre…»

«Scusa, eh, ma oltre a fare splendide sorprese è anche un bellissimo uomo.»

«Sì, solo che tu non pensi alla cosa più importante, quella che mi ha fatto dire di no in partenza.»

«E qual è?»

«Sono sposata. So di darti un dispiacere ricordando-telo, ma credo che lo sia anche tu!»

Poi le fece un mezzo sorriso e cominciò a correre lasciandola lì. Lavinia rimase a fissarla cercando cosa dire, la frase giusta, la controbattuta a quella sua affermazione, perché sapeva che c’era, c’era, ma non le veniva in mente. Poi sorrise. Qualcosa di buono l’aveva trovato.


«E l’amore? Eh? Dove lo metti l’amore?»

Ma Sofia continuò a correre, facendo finta di non sentire o non avendo sentito sul serio. Fece un giro leggero, senza spingere troppo sulle gambe. Era da tanto che non faceva sport e aveva deciso di cominciare piano. Così si mise gli auricolari del suo iPod, spinse su “classifica” e partì sulle note dei Franz Ferdinand e continuò su quelle degli Arctic Monkeys.

Quando finì il primo giro aveva ancora un po’ di fiato. Ma proprio mentre ripartiva dal punto da cui aveva iniziato, una mano l’afferrò fermandola e sfilandole gli auricolari.

«Ehi, ma mi hai sentito? E l’amore, eh? Dove lo metti l’amore?»

«Nelle favole… solo nelle favole.»

E ricominciò a correre.

Lavinia le corse dietro per un po’.

«Non ci credo… Sei diventata cinica! Stai facendo un grande errore. Sai cosa disse una volta Borges? Sono colpevole solo di una cosa, di non essere stato felice.»

«Ma ti è rimasta impressa solo quella? Avrà detto anche altre cose forse. La felicità va costruita, non è una scopata in macchina o in aereo! Abbiamo proprio due visioni diverse della vita.»

«Forse.» Lavinia smise di correre. «È che non capisco perché la tua debba per forza essere quella giusta!»

«Siamo sposate. Una donna, anche se ti può sembrare strano, deve avere le palle!»


Una settimana dopo. Sofia, rientrando a casa di pomeriggio tardi, li sentì parlare.

«Ma ti rendi conto? Cosa vuol dire?»

«Forse voleva che tu lo sapessi.»

«Si può?» Comparve sulla porta, sorridendo, come se nulla fosse, anche se in realtà in fondo al suo cuore sapeva già cosa era successo.

«Sì, ciao, amore, certo che si può… Stefano comunque stava andando via.»

«Ah, ti accompagno alla porta.»

«Non ti preoccupare.» Le sorrise. «Ormai conosco la strada.»

«Lo so… Ma ti voglio accompagnare lo stesso.»

«Come vuoi. Ciao, Andrea, ci vediamo martedì.»

Uscirono dalla stanza e attraversarono quel corridoio. A Sofia sembrò lunghissimo, camminava davanti a lui in silenzio e sentiva sulla schiena il peso del suo sguardo, le sue domande, la sua curiosità morbosa. Non si poteva continuare così, quel silenzio era troppo pesante.

«Vuoi bere qualcosa prima di andare?»

Aspettò un attimo prima di guardarlo negli occhi.

Pensò che si sarebbe trovata di fronte a uno sguardo severo, duro, un uomo che avrebbe voluto scavare in lei, conoscere ogni minimo dettaglio, perché comunque una cosa era certa, lei sapeva. E invece vide un uomo fragile. Stefano la guardava come arreso, in lei cercava solo qualche speranza, un barlume, la possibilità di vivere ancora il suo amore per Lavinia. Erano arrivati alla porta. E lui la salutò con una voce bassa e incerta.

«No grazie, non voglio niente.»

Sofia avrebbe voluto dirgli: “Allora ci vediamo presto, magari una cena qui da noi oppure un film…”.

Ma non ci riuscì. Sorrise e con un semplice «Ciao»

chiuse la porta. Poi andò da Andrea.

Lui era li con le braccia conserte. Quando la vide scosse la testa.

«Non ci voleva.»

«Vi ho sentito prima…»

Gli diede un bacio, poi si sedette ai piedi del letto, Andrea la guardò dispiaciuto.

«Mi hai costretto a mentire.»

«Io? E che c’entro io?»

«Non avrei voluto sapere. Si sta così bene senza sapere nulla.»

«Ma allora è come non vivere. La vita è sporca, l’hai detto tu, Andrea.»

«Sì, ma non così. Perché? Così è troppo. Alla fine me lo sono immaginato anch’io, ho visto Lavinia con quest’altro… In macchina.»

«In macchina?» Sofia fece finta di cadere dalle nuvole.

«Sì, la tua amica l’ha fatto in macchina. Anche questa cosa è assurda. In macchina si fa a diciott’anni, a venti…

Sembra che lo faccia apposta, che si senta come una ragazzina che vuole trasgredire…»

Sofia non voleva crederci. Come avevano fatto a saperlo? «Ma sei sicuro?»

«Stefano ha letto tutti i messaggi del telefonino, la tua amica neanche si preoccupa di cancellarli, capito? Ci so-no descrizioni intime e dettagliate con tanto di botta e risposta degli incontri, anche nell’ascensore di casa sua…

Oltre alla macchina.»


Sofia non voleva credere alle sue orecchie.

Andrea continuava. «L’iPhone sembra inventato per quei messaggi hot. Pensi che me lo stia inventando? Me li ha fatti vedere, li ha stampati tutti. Sembrano una chat erotica. “Quando me lo hai messo così, quando mi hai preso in quel modo. ” Li leggevo e non volevo più rial-zare la testa, ti giuro, mi sentivo morire, mi sarei sotter-rato, sarei voluto sparire… È stato terribile cercare di trovare qualcosa da dire.»

«E cosa gli hai detto?»

«Niente. Non ho trovato niente da potergli dire. So-no rimasto in silenzio come un cretino. Anche perché lui continuava dicendomi: “Ti rendi conto? Lavinia, no dico Lavinia, mia moglie, dieci anni insieme, sposati da sei e ora questi messaggi con uno più piccolo di me.

Capisci?”. Era fuori di sé, si attaccava alla cosa più stupida, che il tipo fosse più piccolo di lui… e poi ha continuato. Mi diceva: “Lo avresti mai potuto immaginare tu?”. Che gli potevo dire? Non è che lo immaginavo, io lo sapevo proprio…»

Andrea guardò Sofia poi scosse la testa.

«Non è giusto, cazzo. Mi sento sporco, mi sento colpevole, non vorrei mai aver saputo nulla di tutta questa storia, nulla.»

Sofia gli fece una carezza. «Amore, non è colpa tua, se quel giorno non mi avesse chiesto se mi ero divertita e tu non avessi capito che Lavinia mi usava come copertura, non avresti saputo nulla… E Stefano che ci ha messo in questa situazione.»

«Ah, poveraccio, ora è perfino colpa sua…»

«Ha voluto sapere, così come lei ha voluto farglielo scoprire.»

Andrea rimase in silenzio. Era scoraggiato, deluso.

Poi parlò. «Perché tutto inizia e finisce con questa facilità, perché non c’è la voglia di costruire, di andare avanti, di rinunciare, di essere forti. Perché non si ha più voglia del bello, dell’amore pulito, dell’amore onesto… Perché…» Chiuse gli occhi. Le lacrime lentamente gli stavano salendo. Poi improvvisamente aprì gli occhi, tornò lucido. «Anche tu sei così? Anch’io devo frugare nella tua vita, devo essere meschino, devo rinunciare alla mia dignità per sapere se sei stata in macchina o in uno squallido albergo con un altro?»

Sofia si irrigidì. Nessuna pietà. Nessun dolore. Si al-zò dal letto. «Te l’ho detto.» La sua voce era ferma e dura. «Quando non ti amerò più ti lascerò. Non darmi colpe che non ho.»

«E tu non rimanere mai con me per compassione.»

«Ti sembra un discorso d’amore questo? Non c’è un briciolo d’amore in quello che dici. Mi fai sentire sempre in colpa per qualcosa. Eppure sono passati otto anni e siamo stati felici. Siamo felici. Perché non capisci che il nostro amore ha resistito anche a quella prova?»

«Vieni qui…»

«No.»

Sembrò di nuovo la ragazza capricciosa e testarda di sempre.

«Ti ho detto vieni qui.»

«E io ti ho detto di no.»

Andrea sorrise. «Vieni qui, per favore.»

Rimasero per un po’ in silenzio. Andrea ci riprovò.

«Dai…»

Solo allora Sofia si mosse. Gli si avvicinò ma tenendo sempre il broncio, le braccia abbandonate lungo i fianchi, la testa bassa, ferita da quel paragone, da quel tempo buttato al vento così senza attenzione. Andrea le prese la mano, la tirò a sé e la baciò. «Hai ragione, perdonami.»

«Non dirlo mai più.»

«Ti amo.»

«Ecco, questo, invece, dillo sempre.»


Guardava in alto, i grandi soffitti del conservatorio, le travi invecchiate ascoltando musica. Le piccole finestre.

Aveva fatto sempre così quando lei la rimproverava.

«Ti ho mai chiesto niente? Sono stata una persona che ti è stata a fianco, mi sembra, in silenzio, senza chiederti mai un perché, mai una spiegazione. Non puoi dirmi che non è vero.»

Olja l’aveva trattenuta finite le lezioni, dopo che se ne era andato l’ultimo alunno. Erano rimaste a parlare sulle panche di legno, dove Sofia all’età di sei anni si era seduta per la prima volta. Avevano scherzato su quel periodo.

«Ti ricordi? Volevi sempre strafare, volevi essere la prima.»

«Ero la prima.»

Olja sorrise. «Una volta mi hai fatto paura, volevi suonare il Preludio in Sol Minor e di Rachmaninov e non ci riuscivi e piangevi, e battevi i pugni, ti graffiavi e avevi solo undici anni. Mi ero spaventata quella volta, sai? Te la ricordi?»

«Certo che me la ricordo. Ma ne avevo dieci di anni.

Era tutta scena però.»

«Sul serio?»

«È che era troppo difficile per me, soprattutto gli stacchi della mano sinistra, figurati a dieci anni.»

«Ah, quello sì. Chissà perché ti eri impuntata. Mi ricordo che quando hai visto che quell’altra ragazza più grande di te…»


«Ekaterina…»

«Sì, quando hai visto che lei lo eseguiva pulito… ti sei impegnata ancora di più.»

«E dopo due settimane anch’io c’ero riuscita.»

Olja le sorrise. «Posso chiederti una cosa?»

Sofia le prese la mano e gliela accarezzò. «Sì.»

«Sai che ti voglio bene…» Olja voleva continuare, ma non trovava le parole per farle quella richiesta. Alla fine pensò che la cosa migliore fosse provarci.

«Puoi accompagnarmi in un posto lunedì mattina?

Ti chiedo solo di darmi un’ora del tuo tempo. Nulla di più.»

Sofia rimase in silenzio, si chiese cosa potesse signi-ficare quella richiesta, cosa ci fosse dietro quelle parole e soprattutto chi. “No” sorrise dentro di sé, “non può essere, l’aveva promesso, anzi giurato. E se fosse arrivato fino a Olja? È un tipo che non si ferma di fronte a nulla. Tancredi è uno che giura, che dà la sua parola sapendo di non mantenerla. Ma perché mi ostino a pensare che dietro tutto quello che accade nella mia vita debba esserci sempre lui? È perché in realtà vorrei che fosse così?”

«Stai serena, non ti devi preoccupare…» Olja era entrata nei suoi pensieri con la sua solita educazione, in punta di piedi, come una zarina russa abituata all’eleganza e al rispetto. Aveva sentito immediatamente che Sofia si era messa in allarme.

Sofia arrossì. Non era certo quello a cui stava pensando. Poi guardò Olja, sorrideva teneramente, aspettava speranzosa una sua risposta. “Cosa potrà mai essere?”

si chiese Sofia.

«Si tratta di lavoro? Riguarda la musica?»

«Sì, ma in un modo particolare. È difficile da spiegare. Credo che la cosa più semplice sia fare insieme questo incontro.»

Continuare con le domande sarebbe stato scortese.


Sofia annuì. Olja le stava semplicemente chiedendo un’ora del suo tempo. Allora si rivide in quella stanza seduta a quel pianoforte con lei vicino, tanti anni prima.

“Quando suoni, tieni più attaccati i gomiti al busto.

La postura, Sofia! Schiena dritta!” Le mani della sua insegnante ripetevano alcuni passaggi, e poi era lei a provare. Piccole dita di bambina che arrancavano per cercare di starle dietro. Poi le sue mani si erano fatte più lunghe, più affusolate, più sicure, mentre quelle della sua insegnante piano piano invecchiavano, si facevano nodose, meno vivaci. Quanta pazienza aveva avuto Olja con lei, quanto amore. E il suo sogno di allevare una grande pianista, le rinunce, l’attesa di tutti quegli anni, la fatica, tutto si era improvvisamente spezzato.

Sofia guardò Olja, il suo viso stanco e segnato dal tempo, ma nei suoi occhi intravide un barlume di felicità, una speranza accesa. Non poteva dirle di no.

«Certo, Olja, ti accompagnerò volentieri.»

Quella mattina, ferma davanti alla chiesa, Olja teneva le mani congiunte sulla pancia, stringeva una piccola borsa di pelle e si guardava continuamente in giro aspettando l’arrivo di Sofia. Eccola. Riconobbe la sua macchina, aveva un’andatura tranquilla. Olja non riuscì a resistere e guardò l’orologio. Le dieci e un quarto.

Erano in orario, l’appuntamento era per le undici. La Golf si fermò davanti a lei. Sofia si allungò dalla parte del passeggero per aprirle la portiera. La chiusura era sempre un po’ difettosa. Olja salì in macchina. Sofia ripartì.

«Da quanto mi aspetti?»

«Oh, da poco.» Non era vero. Era arrivata alle dieci meno venti, preoccupata di poter essere in ritardo.

«Tieni…» Sofia la aiutò a mettersi la cintura. Olja riuscì a bloccarla.


«La sai la strada?»

«Certo, ho guardato su internet l’indirizzo, l’ho anche stampato.» Sofia tirò fuori un foglio dalla borsa. «Eccolo qui. È all’Eur. Tra mezz’ora dovremmo essere lì.»

«Bene.» Olja si tranquillizzò. Si sedette più comoda sul sedile e rimase così, con le mani poggiate sulla borsa che teneva sulle gambe. Mentre guidava, senza che Olja se ne accorgesse, Sofia guardò come si fosse vestita. Era elegante ma forse un po’ severa. Aveva scelto un vestito grigio troppo scuro. Sotto aveva una camicia bianca, abbottonata fin su, con un colletto piccolo, rotondo e dei bottoni piatti, madreperlati. Indossava una collana che Sofia le aveva visto addosso nella grandi occasioni.

Notò solo ora che il ciondolo conteneva un’icona russa in miniatura. Sofia sorrise, non era certo il simbolo della modernità.

«Fatta colazione? Ti va un caffè?»

«No, no grazie. Sono a posto.» Olja non aveva molta voglia di parlare. Si vedeva che era tesa, Sofia se ne accorse e così accese la radio e la sintonizzò su un canale di musica leggera. «Senti che voce! E una delle poche can-tanti insieme a Laura Pausini che ha sfondato all’estero…»

Olja si girò verso di lei e le sorrise. «È bravissima.

Proprio una bella voce.» Continuarono ad ascoltare quella canzone. «Come si chiama?»

«Elisa. Questo è un suo pezzo bellissimo, si chiama Luce.»

«Triste?»

«Quando una musica e una voce sono belle, non possono essere tristi. La musica sa esprimere così tanto. Soprattutto la musica classica, ma non lo devo dire a te.»

Olja la osservò seriamente. «Ti manca?»

Sofia guardava dritta la strada. «Moltissimo.»

Olja le poggiò una mano sul braccio e le fece una carezza, poi sorrise. «Lo capisco.»

Poco più tardi arrivarono a destinazione. Posteggia-rono l’auto ed entrarono in un grande edificio. Sulla destra c’era un tavolo di cristallo. Poggiava su due antiche colonne di marmo e dietro era seduto un giovane portiere con i capelli corti e la divisa impeccabile.

«Buongiorno.»

«Buongiorno, avevamo un appuntamento con l’avvocato Guarneri.»

Il portiere controllò su una agenda. «Mi scusi, come si chiama?»

«Olga Vassilieva.»

«Sì, prego. La stanno aspettando, quinto piano.»

Sofia chiamò l’ascensore e intanto si guardò intorno.

C’erano dei quadri importanti alle pareti e una scultura in legno di Brancusi. Osservò una targa in ottone appesa al muro. Doveva essere uno studio legale. Oltre all’avvocato Guarneri figuravano altri nomi di professionisti, insieme a quelli di due società. Si chiamavano Atlantide e Nautilus. Poi arrivò l’ascensore, e salirono al quinto piano, dove trovarono una segretaria ad aspettarle.

«Buongiorno, prego di qua, seguitemi.»

Avrà avuto più di trent’anni, era vestita con un tailleur pantaloni blu scuro molto sobrio. Sofia osservò l’ambiente. Era un bellissimo ufficio, elegante, i muri erano beige, con dei quadri dalle cornici di poco più chiare. Passando vide diverse stanze perfettamente ar-redate, alcune erano vuote.

La ragazza si fermò davanti a una porta e l’aprì. «Prego accomodatevi, volete che vi porti qualcosa, un caffè, un po’ d’acqua, un succo, una spremuta?»

«Io niente, grazie» fece Sofia entrando.

«E lei?»

«Anche per me nulla.»

«È sicura? Neanche un po’ d’acqua?»

«Va bene, allora un bicchiere d’acqua, grazie.»

La ragazza sorrise, le portò subito un po’ d’acqua e poi si chiuse la porta alle spalle. Sofia e Olja si accomodarono su un elegante divano in pelle scura. Per terra c’era un tappeto nuovo, color panna, il pavimento era in cemen-to e resina marrone chiaro, in mezzo un tavolino basso di cristallo con sopra alcune importanti riviste. Sofia ne sfogliò una. Riportava diversi paesaggi immortalati in un momento particolare di luce, delle foto spettacolari dei più suggestivi angoli del mondo.

Poco dopo la ragazza tornò. «Prego, se volete seguir-mi, l’avvocato Guarneri sarà felice di ricevervi.» Si fermò davanti a una porta chiusa e bussò. «Avanti.» Fece passare Sofia e Olja e si allontanò.

«Oh, buongiorno, che piacere vederla.» L’avvocato si avvicinò a Olja eseguendo un perfetto baciamano.

«E lei invece deve essere la famosa Sofia Valentini. Io sono l’avvocato Mario Guarneri.» Si presentò dandole la mano.

«Famosa… Forse mi sta confondendo.»

L’avvocato sorrise. «È famosa, è famosa, glielo assicuro. Ma posso presentarvi, il mio caro amico, il dottor Arkadij Voronov?»

Un signore dall’aria distinta con una barba bianca molto curata si alzò da un divano e raggiunse le due donne. Portava dei piccoli occhiali con una montatura leggera, dei ciuffi di capelli bianchi sopra le orecchie scendevano in maniera un po’ disordinata dietro la testa. Aveva l’aria simpatica, una faccia tonda e un bel sorriso. Strinse prima la mano a Olja e la salutò in perfetto russo, poi si presentò a Sofia in un italiano sicuro ma dallo spiccato accento russo.

«Sono molto contento di conoscerla…»

L’avvocato Guarneri invitò i suoi ospiti a sedersi.

«Mettiamoci qui, staremo più comodi.»

Presero posto sui divani in maniera che la riunione fosse più informale.

«Allora, eccoci qua.» L’avvocato Guarneri riprese subito la parola. «Finalmente l’abbiamo trovata.»


Sofia ascoltava incuriosita, ma l’avvocato non le diede il tempo di intervenire. «Il dottor Voronov è il direttore dell’Istituto di cultura e lingua russa e ha il compito di organizzare un evento che coinvolga l’Italia e il suo Paese. Ha deciso di affidare a un’artista l’apertura del festival, a una donna particolare che l’ha colpito per le sue grandi capacità…»

L’avvocato Guarneri fece un sorriso, poi prese due telecomandi dal tavolo. Con il primo accese un televisore al plasma e con l’altro fece partire un lettore dvd.

Sullo schermo comparve il primissimo piano di due ma-ni sui tasti di un pianoforte, poi su quelle prime note l’inquadratura televisiva si allargò.

«La donna che vorremmo aprisse il nostro festival…

è lei» disse l’avvocato Guarneri mentre al centro del televisore si vedeva il volto di Sofia.

Suonava sorridendo YOp di Beethoven, il finale delicatissimo con tutti quegli staccati, quei trilli che ormai ossessionavano il vecchio musicista e che avrebbero portato alle soluzioni estreme delle ultime due sonate.

Era una interpretazione eccellente, come se nella chiusa la pianista avesse già compreso i lavori che Beethoven avrebbe di lì a poco concepito.

Sofia guardava a bocca aperta quel filmato. Si ricordò perfettamente di quella serata, era a Parigi alla Salle Pleyel per l’apertura della stagione concertistica. Aveva vent’anni e il vestito che indossava le era stato regalato da Armani per quella grande serata. Dieci anni prima.

Dieci. Era fidanzata da poco con Andrea. Dieci anni prima, prima che accadesse, prima che avesse l’incidente, prima che finisse tutto… Non si era mai più guardata da allora. Non aveva mai più visto una sua foto al pianoforte o un filmato in cui suonasse. Fu travolta dall’emozione e a fatica trattenne il pianto. Sentiva gli occhi di tutti puntati su di lei. Fece un lungo sospiro, in qualche modo doveva pur uscirne. Allora ricacciò giù quelle lacrime, ruppe quel groppo che aveva in gola e alla fine riuscì a parlare.

«Mi avete fatto venire fin qui per vedere questo filmato? Potevate risparmiarvi tutta questa fatica. Ce l’ho anch’io.»

L’avvocato Guarneri le sorrise. «Non l’abbiamo chiamata solo per questo. Il dottor Voronov mi ha chiesto di cercarla e io l’ho fatto. Ha una proposta importante da tutti i punti di vista, soprattutto per i rapporti tra Italia e Russia.»

«Come mi avete trovato?»

L’avvocato Guarneri era preparato a questa domanda. «Tutti sanno che al conservatorio è stata allieva della signora Olga Vassilieva.» Guarneri si girò verso Olja e le sorrise. «E bastato chiedere a lei.»

Olja ricambiò il sorriso, poi guardò Sofia cercando la sua complicità ma la trovò fredda e silenziosa. Allora abbassò la testa dispiaciuta. Voleva tornare in Russia e tornarci con Sofia e sentirla di nuovo suonare sarebbe stato il migliore dei modi. Forse tutto questo poteva ancora accadere, in fondo non le era stata fatta ancora nessuna proposta. Il dottor Voronov prese finalmente la parola.

«Si tratta di un evento molto importante, destina-to a rinforzare i rapporti tra due grandi Paesi. Sarà un grande scambio di cultura e di musica tra molta gente.»

Rimase in silenzio a guardarla con un sorriso, sperando che quelle parole avessero fatto in qualche modo brec-cia in lei.

Sofia era immobile, muta. Ora aveva perso la sua durezza, era più serena. Aveva deciso di ascoltare fino in fondo ma non si sarebbe mai aspettata una proposta del genere. Il dottor Voronov si sedette più diritto sulla sua poltrona.

«Per lei ci sono duecentocinquantamila euro per aprire il festival e chiuderlo tre giorni dopo. Starà in uno dei migliori alberghi di San Pietroburgo, il Grand Hotel Europa, avrà una macchina con autista a disposizione e un voucher full credit per qualunque cosa lei abbia intenzione di fare…»

Poi si girò verso Olja. «Naturalmente sarà accompagnata dalla sua insegnante e da qualunque altra persona lei intenda portare con sé. Il governo e noi tutti le saremmo grati se accettasse questo nostro invito.»

Sofia rimase impassibile, poi sorrise al dottor Voronov. «Mi dispiace ma non posso accettare.»

Olja si sentì morire. Il dottor Voronov si lasciò cadere sullo schienale della poltrona.

L’avvocato Guarneri cercò subito di trovare una soluzione. «Non deve darci subito una risposta. È tra venti giorni, c’è tutto il tempo. Vada a casa, ci rifletta, si consigli con suo marito… Magari lui la lascerà andare senza problemi.»

E improvvisamente a quella frase lei non ebbe più dubbi. Si alzò di colpo.

«Mi dispiace. Ora devo andare.»

Guarneri e il dottor Voronov si alzarono insieme.

Olja stancamente fece lo stesso. Il dottor Voronov le salutò. «Peccato. Mi dispiace.»

L’avvocato le accompagnò alla porta, poi si avvicinò a Sofia e le disse a bassa voce per non farsi sentire: «Ci pensi su, la notte porta consiglio, le lascio il mio biglietto da visita».

Sofia lo prese e lo lasciò cadere nella borsa.

Guarneri poi le sorrise. «Se poi fosse solo un problema di prezzo, sono sicuro che troveremo la soluzione.

Sono qui apposta.»

Sofia allora cambiò completamente atteggiamento.

Diventò dura e tagliente come non era mai stata. Si avvicinò a Guarneri e glielo disse piano, quasi sussurran-dolo: «Dica al suo padrone che aveva giurato di lasciarmi stare. Non suonerò mai per lui».

Poi tornò di nuovo normale e sorridente.


«Vieni Olja, o rimani?»

«No, vengo con te.»

La donna sorrise ai presenti e uscì con Sofia.

Poco dopo erano in macchina. Era calato un silenzio pesante. Olja stringeva forte i manici della sua borsa, li stropicciava, li torturava cercando di spegnere così il suo nervosismo. Sofia guidava veloce, cambiava in continuazione le marce tentando anche lei di sfogarsi in questo modo. Era tutto troppo strano. Un viaggio lontano dall’Italia, l’avvocato sapeva che lei aveva un marito che non si poteva muovere, una macchina con l’autista per girare a San Pietroburgo e infine tutti quei soldi. Era lui. Ne era sicura.

«Mi dispiace, Sofia…»

Solo allora si ricordò di Olja e piano piano rallentò.

Dopo un po’ le sorrise tranquilla.

«Non è colpa tua, tu non c’entri niente.»

«È che io volevo tornare in Russia e saremmo andate insieme, ti sarebbe stata riconosciuta l’importanza che hai sempre meritato e non hai mai avuto. Saremmo ripartite da lì, avresti ricominciato a suonare e avresti conquistato il mondo, ne sono sicura.»

Sofia la guardava con tenerezza. Olja sembrava un’altra. Era piena di passione.

«Ti avrei seguito in questi venti giorni prima di partire, sono sicura che saresti riuscita a suonare perfino il Rach»

Sofia rise. «Tu hai troppa fiducia in me, sarebbe difficile ricominciare proprio da Rachmaninov!»

Olja insistette. «Non è questione di allenamento. E

un problema qui…» Si toccò la testa, «e qui» mettendo-si una mano sul cuore. «Ce l’avresti fatta.»

Sofia la guardò con amore.

Olja si girò di nuovo verso di lei. «E poi erano un sacco di soldi, è come fare cinquemila lezioni in tre giorni!»


Sofia questa volta rise. «Olja, era un uomo che mi voleva, non la Russia.»

Olja si girò turbata verso di lei. «Ma cosa dici?»

Sofia annuì. «E così, credimi.»

Olja scosse la testa. «Un uomo ti paga così tanto per avere la tua musica?»

«No, vuole la mia anima.»

«Allora non c’è prezzo. Dovrebbe saperlo.»

Sofia sorrise, poi allungò la mano e prese la sua, la strinse forte. «Un giorno torneremo in Russia… solo co-me turiste però.»

Olja la guardò annuendo. «Come vuoi tu.»

«Vedrai che ci divertiremo molto di più.»

«Quando tu suoni io mi diverto sempre. In quel momento per me è come fare il giro del mondo.»

Olja tornò con le mani sulla sua borsa e guardò fuori dal finestrino. Non si dissero più nulla fino alla chiesa.

Gregorio Savini entrò nella stanza dell’avvocato Guarneri. L’avvocato era alla sua poltrona dietro la scrivania, deluso dell’insuccesso.

«Non è andata, vero?»

«No.»

Il dottor Voronov allargò le braccia. «Sarebbe stato un bellissimo concerto. Non credevo suonasse così bene. E poi era una cifra folle quella che le avete offerto.»

Savini si mise le mani in tasca. «Doveva essere almeno il doppio.» Poi entrò Tancredi.

«Con lei non è una questione di soldi. È una questione di principio.»

Guarneri lo guardò dritto negli occhi. «Credo allora che la cosa sia più complicata del previsto. Aveva capito che c’era lei dietro tutto questo.»

Tancredi rimase sorpreso. «Cosa glielo fa pensare?»


«Mi ha detto: “Dica al suo padrone che aveva giurato di lasciarmi stare”.» Poi sorrise a Tancredi. «Siamo riusciti a concludere dei grandissimi affari con gente molto più complicata e sospettosa.»

Tancredi, divertito, si lasciò cadere sul divano. «Benissimo. La partita si fa più interessante. Dobbiamo solo trovare qualcosa alla quale non possa dire di no.»

Gregorio Savini lo guardò preoccupato.

«Ma c’è qualcosa?»

Tancredi si versò da bere dell’acqua.

«Se c’è lo troverete. Se non c’è, farete in modo che esista. Siete pagati per questo.»


«È più di due anni che non li vedo. Mi mancano.»

Sofia finì di fare la borsa.

Andrea la guardava sereno, con amore. «Certo. Sono felice che tu vada. Mi fa piacere che tu sia riuscita a trovare una sostituta.»

«Già.»

Ekaterina Zacharova aveva dato la sua disponibilità per tre giorni. Sofia ne fu sollevata. Sarebbe stata fuori anche il weekend e sarebbe tornata solo la domenica sera.

«Ciao, amore. Ti chiamo più tardi.»

Gli diede un bacio leggero sulle labbra.

Lui la fermò prima che si staccasse del tutto. «Un altro. Non mi bastano mai.»

Si baciarono di nuovo. Andrea trattenne le sue labbra, era come se non la volesse lasciare andare via, co-me se la tenesse a sé semplicemente respirandola. Poi si separarono.

«Ti chiamo quando arrivo.»

Il taxi era già sotto casa, non trovò traffico sulla strada per l’aeroporto e anche il volo era in orario. Non aveva detto niente ai suoi genitori, li aveva chiamati qualche giorno prima e fatto le solite domande.

«Come va? Tutto bene? Papà si sta riposando? Che fate mercoledì?»

«Siamo a casa.»

Già, cosa avrebbero dovuto fare? I suoi non uscivano quasi mai e, da quando erano tornati a vivere a Ispica, quelle che erano state le loro brevi ma frequenti visite a Roma erano andate sempre più diradandosi, fi-no a cessare del tutto.

Il volo era arrivato in perfetto orario. C’erano pochi taxi all’uscita dell’aeroporto di Catania. Sofia attese con pazienza. Finalmente ne arrivò uno. Mentre andava verso casa, rivide dal finestrino il panorama che le aveva fatto compagnia nelle sue vacanze da piccola. Quelle montagne, quel verde, quei cactus. Era una terra dai colori forti, la roccia delle montagne a contrasto con quel mare così vicino. Pagò il taxi e andò verso il portone, lo aprì con le sue chiavi ma, quando arrivò di fronte alla porta di casa, preferì suonare al campanello.

«Chi è?» si sentì da dietro la porta.

«Vince’, ma che, aspettavi qualcuno tu?»

«No… Perché?»

Sofia sorrise ascoltando le voci dei suoi genitori in quello strano e curioso dialogo. Poi sentì dietro la porta qualcuno che si muoveva, spostava piano il coprispion-cino per guardare chi fosse.

Sofia sorrise e salutò con la mano. «Sono io… Sofia.»

Le serrature della porta fecero un gran rumore aprendosi.

Era Grazia, sua madre. «Che bella sorpresa! Sofia, ma non mi avevi detto nulla! Che bello che sei qui!»

Si abbracciarono e subito dopo dal salotto comparve Vincenzo, suo padre.

«Questa è proprio bella!» Anche loro si abbracciarono, poi la fecero entrare e chiusero la porta.

«Ma non ci posso credere, più tardi ti avremmo chiamata, pensa se non ti avessimo trovata e Andrea ci avesse detto che eri qui! Addio sorpresa!»

«Ma Andrea non ve lo avrebbe detto…»

«Ah, sì? Eravate d’accordo?»

Sofia li guardò con tenerezza, erano invecchiati, ormai erano anziani e l’unica cosa che avrebbe potuto dar loro di nuovo un po’ di vita sarebbe stato un nipote.

«Dov’è Maurizio?»

«Ah, tuo fratello è sempre in giro, lui e i suoi computer… Ha avuto un bell’ordine dal comune di Noto e quelli devono essere tutti incapaci perché lo chiamano un giorno sì e l’altro pure, c’è sempre qualche problema!» Le sorrise.

Il padre le prese la borsa dalle mani. «Vieni, ti accompagno nella tua stanza.»

«Grazie, papà, ma ce la faccio.»

«Non sia mai che una donna porti la valigia.» Portò quel trolley non troppo pesante fino alla stanza di Sofia e lo posò sulla sedia. «Per qualunque cosa chiama.»

«Aspetta, aspetta…» Arrivò la madre prima che chiu-desse la porta. «Ti ho portato questi.» E mise alcuni asciugamani sul letto. «Sistema le tue cose. Noi ti aspet-tiamo di là.» Poi uscì dalla camera e chiuse la porta, lasciandola sola.

Sofia si guardò in giro. C’era tutto quello che aveva fatto parte della sua adolescenza, i peluche, i manifesti, le foto. Sul tavolo, infilate sotto il vetro c’erano alcune cartoline, bellissime immagini di posti lontani spedite dai suoi amici durante le loro vacanze.

Sofia si spogliò, andò in bagno e fece una bella doccia. Si asciugò e si infilò una comoda tuta di ciniglia.

Quindi raggiunse sua madre in cucina che stava sfo-gliando una rivista. Quando la vide entrare, la chiuse e ci poggiò tutte e due le mani sopra.

«Come sono felice di vederti.»

«Anch’io, mamma.» Sofia si sedette di fronte a lei.

La madre la osservò con aria indagatrice.

«A cosa dobbiamo questa sorpresa? Va tutto bene?

Andrea?»

«Tutto bene, mamma. Avevo voglia di vedervi un po’.»

«È tanto che non stiamo insieme.»


«Sì, almeno un anno.»

«Due, figlia mia, sono passati due anni.»

«Sul serio? Come passa il tempo.»

Poi la madre guardò verso la porta. Si sentiva la televisione accesa in salotto. Decise che avevano bisogno di un po’ di tranquillità, così si alzò e chiuse la porta della cucina. Tornò a sedersi di fronte a lei sorridendo.

«Oh, così stiamo un po’ tranquille fra noi donne.»

Le stropicciò le mani tra le sue per manifestare la sua felicità. Poi ritornò seria. «Davvero non ci sono problemi, figlia mia?»

Sofia fece segno di no con la testa.

«Me lo diresti?»

«Penso di sì.»

Sapeva come era fatta sua figlia. Se diceva una cosa era quella. Si tranquillizzò, era ancora più contenta di averla lì.

«Allora sono proprio felice, sul serio.»

Sofia sorrise. «E tu, mamma, come stai?»

«Bene. Un po’ di dolori, ma quello è normale, tua mamma ha sessantacinque anni, te lo ricordi, vero?»

«E con papà litigate ancora tanto?»

«Abbastanza.» Poi rimase in silenzio. «Sai, una volta lo stavo per lasciare sul serio.»

Sofia rimase in silenzio. No, quello non se l’erano mai detto e non se l’aspettava.

Grazia continuò. «Non so neanche se è il caso di dirtelo.»

«Come vuoi tu, mamma.»

«Quando fai così mi innervosisci.»

«Sei tu che hai detto che forse non è il caso…»

«Ma è un modo di dire. Be’, io te lo racconto lo stesso.» Raccolse le idee, poi cominciò. «Era un uomo bello, alto, con degli occhi scuri, con un profumo magnetico…»

Sofia trasalì. Ma cosa le stava raccontando sua madre? Grazia si accorse del suo stupore.


«Magnetico, che ti piace molto, che ti attira. Sei una donna, puoi capirmi.»

Sofia continuava a non credere alle sue orecchie.

“Mia madre ha sessantacinque anni, mio padre settan-tasei e lei mi parla di un uomo dal profumo magnetico?

La vita riesce sempre a sorprenderti.”

Poi Grazia le sorrise. «E tu lo hai conosciuto.»

E questa cosa lasciò Sofia ancora più stupita. «Io l’ho conosciuto?»

«Sì, e sono sicura che ti è anche piaciuto.»

«Mamma, guarda che io non me lo ricordo. Ma sei sicura? Ma a Roma o qui?»

«Era qui in Sicilia, era d’estate. Avevi quattro anni!»

Sofia fece un sospiro. «Ah… Cioè più di vent’anni fa!

E chi se lo poteva ricordare.»

«Eravamo al parco e lui venne mentre ero con te e tuo fratello e ti prese in braccio. E tu, che di solito scalciavi, che non amavi essere presa da sconosciuti, quella volta invece sei stata tranquilla tra le sue braccia e ti sei messa a ridere, facevi la smorfiosa. Me lo ricordo come se fosse oggi.»

La madre sospirò e andò indietro nel tempo, ricordando qualche altro episodio, una telefonata, delle parole, forse un momento di segreta intimità. Poi ritornò da sua figlia. «Te lo ricordi? Si chiamava Alfredo, ti regalò una bambola con la maglietta rossa.»

Quella Sofia se la ricordava. L’aveva chiamata Fiore, come un’amichetta che aveva da piccola a scuola e che poi non aveva più visto, quella bambola invece ce l’aveva ancora lì, nella sua stanza.

«Ero pazza di lui» continuò Grazia. «Era la passione, il sogno, la fuga… Quando non lo sentivo per qualche giorno ero nervosa, arrabbiata e piangevo. Era tutto quello che vostro padre non mi aveva dato.»

Si fermò senza aggiungere altro, lasciandole il tempo di accettare quel segreto, quella confessione dopo così tanto tempo.


«Perché non hai lasciato papà?»

Grazia tacque. Avrebbe voluto dire: “Per te, per tuo fratello Maurizio, perché comunque ero sposata, perché era solo un’avventura”. Poi disse la verità.

«L’ho fatto. Una mattina voi eravate dalla zia, tuo padre era a Roma, allora ho preparato la valigia, avevo trentanove anni, mi serviva poco, avevo l’amore ed era tutto, così l’ho raggiunto al parco. C’eravamo dati appuntamento nel boschetto subito dietro la piazzola, lì, dove ci vedevamo molto spesso.» E fu come se Grazia fosse di nuovo lì, ad aspettarlo.

«Amore…» Gli corse incontro facendo cadere la valigia ai suoi piedi, lo strinse forte, abbracciandolo e cominciò a baciarlo sulla bocca senza freno, senza pudore e subito le loro passioni si accesero. Lei aveva una gonna leggera e le gambe abbronzate che sapevano di crema appena messa. Si sedettero sulla prima panchina che trovarono senza pensare a niente. Le sue mani avide scivolarono sotto la gonna, accarezzarono quelle gambe, le strinsero forte.

Lei cercava di aprire la sua cintura, dopo diversi tentativi ci riuscì e, come per magia, tutto divenne più facile. E furono come rapiti. Morsi di passione, di voglia, respiri rubati, sotto il verso di cicale lontane quei sospiri sempre più forti, perfino un grido e la sua mano a tap-parle la bocca. Poi quello sguardo alla fine. Scoppiarono a ridere per quel tempo perfetto. Rimasero fermi così, appagati e soddisfatti su quella panchina, leggermente sudati d’amore, uno sull’altra.

Solo allora lui sembrò accorgersi di quella valigia.

Lei vide il suo sguardo. «Vengo con te…»

Lui si staccò da lei, le sorrise e la tenne tra le braccia.

«Non si può.»

«Perché? Non mi va di aspettare che torni tra dieci giorni.»


Lui fece un sospiro e lasciò cadere le braccia liberan-dola, ma la guardò negli occhi. «Sono sposato.»

Lei rimase in silenzio. Perché non le aveva mai detto nulla? E ora? Ma poi pensò che non era così importante. Alla fine sorrise. «Anch’io. Ma che vuol dire?»

Quella volta Alfredo si scostò da lei, la fece sedere al suo fianco, poi si rimise a posto i pantaloni, si tirò su la zip e si chiuse la cintura. Solo allora la guardò di nuovo.

«Sì, ma io l’amo.»

Grazia si sentì morire. Le lacrime le salirono subito agli occhi, allora si alzò di scatto, cercò sulla panchina le sue mutandine ma non le trovò. Poi le vide. Erano cadute a terra, erano piene di polvere, le raccolse, le scrollò e le infilò nella borsa. Poi andò verso la valigia, la prese e cominciò a camminare. Le lacrime le scendevano sul viso e non riusciva a girarsi. Avrebbe però voluto sentirsi chiamare, a ogni suo passo era quella la sua speranza.

“Grazia!” avrebbe voluto sentire gridare. “Non è vero.

Amo te!” Oppure: “Grazia, amo anche te…”. Sarebbe stato peggio, ma pur sempre qualcosa. E invece Alfredo non disse nulla. E quando lei finalmente riuscì a girarsi, su quella panchina non c’era più nessuno.

«Perché me l’hai detto?»

Grazia fece un lungo sospiro e si sistemò una ciocca ribelle dietro le orecchie. «Non lo so.»

Ora però il suo sguardo sembrava più sereno, come se confessando il suo tradimento si fosse tolta un peso.

«Avevo bisogno di raccontarlo a qualcuno.»

Sofia si alzò e andò verso il frigorifero, si versò un bicchiere d’acqua. «Vuoi qualcosa, mamma?»

«No grazie. Non bere veloce che è fredda.»

Sofia non ascoltò il suo consiglio. Poi, quando stava per uscire, la madre la fermò. «Non l’ho mai più sentito né cercato.»


Lei le sorrise. «Hai fatto bene. Era sposato.»

E se ne andò in camera sua. Si mise a leggere cercando di distrarsi.

Poi più tardi sentì rientrare suo fratello. Allora usci dalla camera e gli corse incontro.

«Non ci posso credere. Sofia!» Si abbracciarono con affetto e si baciarono.

«Maurizio, sai che stai proprio bene?»

«Ma se mi son venuti gli occhi storti a furia di stare per ore di fronte a quei computer.»

Il padre si incuriosì. «È un problema di questo paese…»

«Che cosa?»

«Che nessuno sa come si usano!»

Grazia passò proprio in quel momento. «Ma è quella la tua fortuna! Forza, a tavola.»

Fu una cena molto buona con tutte le specialità si-ciliane. Pasta alla Norma, sarde a beccafico, panelle e una cassata fresca comprata alla pasticceria all’angolo.

«Ma voi mi fate ingrassare!»

Il padre era sorridente. «No, no, così ti ricordi quanto è buona la nostra cucina e torni più spesso!»

Anche il fratello era d’accordo. «Sì, torna presto…

che non si mangia mai così bene, te lo assicuro.»

Grazia non disse niente. Guardava sua figlia in silenzio. Poi lei se ne accorse. La madre le sorrise. Sofia abbassò lo sguardo e continuò a mangiare. Forse sua madre voleva farle digerire il suo racconto. Quando fi-nì la cena tutti aiutarono a sparecchiare. Poi Maurizio uscì perché aveva una sfida a biliardo. Grazia si mise al telefono con un’amica. Questa volta fu Sofia a chiudere la porta del salotto su indicazione del padre.

«Meglio, se no ci rimbambisce… Sai che può parlare un’ora di seguito senza dare modo a chi sta dall’altra parte di intervenire? Ha fatto così anche con te?»


«Quando?»

«Oggi, nel pomeriggio. Ho visto che vi siete chiuse in cucina.»

«Sì… Ma mi sono difesa!»

«Brava, figlia mia.»

«E a te come va, papà?»

«Sai…» fece un piccolo sospiro. «Un po’ mi manca il lavoro…» Cominciò a raccontare della sua vita da pensio-nato, degli incontri in piazza, di chi purtroppo non c’era più, di chi era diventato nonno. Sofia ascoltava le sue parole, cercava di sembrare attenta, ma in realtà pensava a tutt’altro. Riviveva il racconto di sua madre e soffriva nel vedere suo padre ignaro di quel tradimento, pensando a come la sua vita sarebbe potuta essere diversa se un altro uomo avesse detto a sua moglie: “Sì, vieni via con me”.

«Mi stai seguendo?»

«Certo, papà…» Allora Sofìa gli prestò più attenzione.

«Se non ci fosse tua madre… È lei alla fine che mi obbliga a partecipare alle feste della pro loco.»

“Qualche merito almeno ce l’ha” pensò Sofia.

«Lunedì prossimo per esempio c’è la cena in piazza, mi fa piacere andarci con tua madre, ci divertiamo, anche se si devono fare delle offerte e non si può mai dare troppo poco.»

«Be’, sì, certo…»

Continuò ad ascoltarlo ma finì per distrarsi di nuovo.

Pensò a Stefano, a come la sua vita fosse simile a quella di suo padre. Passano gli anni, arrivano nuove genera-zioni, ma alcune cose restano tristemente uguali.

«Vado a dormire, papà.»

Salutò anche sua madre, si chiuse in camera, fece una telefonata ad Andrea e poi si addormentò, senza pensare troppo. Non sognò, o almeno, se lo fece, non ricordò nulla.


I giorni seguenti furono di completo relax, qualche passeggiata fino al mare, un salto al mercato per gli im-mancabili “cazzilli” ai quali fin da piccola non aveva saputo rinunciare e per colpa dei quali si era dovuta spesso mettere a dieta.

Poi, il pomeriggio prima di partire, incontrò quel ragazzo. «Sofia Valentini!»

Si girò sorpresa da quell’urlo.

«Non ci posso credere! Che ci fai qui? Troppo bello per essere vero! E troppo bella per essere reale! Ma sei tu, vero?»

Sofia si mise a ridere. «Si, sì, sono io… Ma non ti offendere, non mi ricordo proprio.»

II ragazzo si mise le mani sulla testa. «Non ci credo, com’è possibile?» Ma non le diede il tempo di rispondere. «Sono Salvatore Catuzzo!»

«Dai, mi prendi in giro?! Salvatore!»

Sofia allora lo abbracciò e si scambiarono un bacio.

«Quanto tempo!»

«Una vita.»

Ora Sofia lo guardò meglio. Era stato il suo sogno da ragazzina, era follemente innamorata di lui ed era stato anche il suo primo bacio. Adesso si ricordava tutto perfettamente. Un giorno d’inverno durante le vacanze, verso le cinque del pomeriggio, Salvatore l’aveva portata sulla scogliera dell’elefante. Il mare quel giorno era in tempesta e faceva anche freddo. Tirava un maestrale teso e pungente. Ma lui si era ostinato. Erano arrivati fino a là in bicicletta.

«Mettiamoci qui!»

«Ma è pericoloso, c’è troppo mare.»

«Macché, Sofia! Come sei esagerata.»

Così si erano fermati in cima alla scogliera. Le onde erano talmente forti che alcuni schizzi arrivavano fin lì.

«Sofia, tu mi piaci.»

«Anche tu.»


La loro dichiarazione non era sembrata un granché a Sofia. In effetti nei film le dichiarazioni prima dei baci erano sempre belle e poi con delle parole sognanti. Però Salvatore le piaceva molto, così chiuse gli occhi, come le avevano consigliato le sue amiche e, quando sentì quelle labbra sulle sue, aprì la bocca, sempre come le avevano detto le sue amiche. Ma quando Salvatore infilò la lingua, lei si sentì morire.

Non aveva mai pensato che potesse essere così lunga e a dire il vero questo le sue amiche non gliel’avevano detto. Poi mentre resisteva a quello strano attorci-gliamento, era arrivata una grande onda che li aveva bagnati tutti.

«Marò, che roba, ti ricordi?»

«Sì, e chi se lo può dimenticare?»

Quel bacio era stato unico in tutto e per tutto ma il Salvatore di adesso non aveva più nulla di quello del ricordo. Era ingrassato, aveva una pancia bella spor-gente, ed era completamente pelato.

«Salvo, vieni, dobbiamo tornare a casa.»

Sulla strada poco più in là una ragazza bionda della stessa stazza, con un bambino e una bambina per mano, lo fissava curiosa, aspettando una risposta.

«Arrivo! Ma lei te la ricordi?»

Sofia la guardò meglio. «No…»

«E dai, non ti ricordi nulla! È Gabriella Filoni! Me la sono sposata, ora abbiamo due bambini.»

«Ah, sì, ora ho capito chi è, bravi, sono troppo felice per voi.»

Rimasero un attimo in silenzio. «Va bene, io scappo, che Gabriella mi aspetta. Ti fermi molto?»

«No, domani parto. Mi ha fatto piacere vederti.»

«Anche a me.» E così si allontanò, raggiunse Gabriella, prese per mano il maschietto e poi se lo mise in braccio. Iniziò a parlare con Gabriella incamminandosi verso l’auto. Gabriella si girò e la guardò di nuovo, sicuramente stavano parlando di lei. “Non ti preoccupare, non lo bacerò più, stai serena.” Sofia si mise a ridere e tornò a casa.

Il giorno dopo, mentre stava per partire, le si avvicinò suo padre. «Ma non ti posso portare io? Mi fa piacere.»

«Papà, è troppo tardi, poi devi tornare da solo fino a qui, ho già chiamato il taxi!»

«Come vuoi, però promettimi che torni presto.»

«Te lo prometto.»

Così si baciarono.

Salutò Maurizio che stava aggiustando il computer di casa. «Pure questo non va, sorellina, è un’epidemia.»

Si fece accompagnare da sua madre Grazia fino in strada, visto che aveva tanto insistito. Arrivate fuori dal portone, del taxi non c’era nessuna traccia. Rimasero in silenzio. Sofia sperò che arrivasse presto. Alla fine Grazia parlò.

«Ti è dispiaciuto che te l’abbia raccontato?»

«Non lo so. Forse. Avrei preferito non saperlo.»

«Forse il fatto che io oggi te l’abbia raccontato ha anche un suo perché.»

Sofia la guardò. «Non credo, mamma, l’unico perché che ci vedo è perché lo hai fatto. Non sei stata felice e non è servito a nulla.»

«Le cose accadono.»

«Ma noi possiamo anche non farle accadere. Ieri guardavo la televisione con papà e per la prima volta in vita mia non sapevo cosa dire, volevo solo andarmene…»

«Mi dispiace. Ma se non fossi andata al parco quella mattina avrei vissuto tutta la vita con un rimpianto. Ora invece sono serena.»

Arrivò il taxi e in qualche modo tolse Sofia da quell’imbarazzo.

«Ciao, mamma.» La baciò. «Ci sentiamo.»


«Sì. Vivi fino in fondo la tua vita. I conti li fai da sola, e alla fine.»

Sofia avrebbe voluto dirle tante cose ma preferì tacere. Il taxi partì.

Grazia rientrò in casa e andò a mettere a posto la camera di Sofia. Sotto il tavolo, dentro il secchio, trovò la bambola Fiore con la sua maglietta rossa.


L’auto superò la Gran Madre e poco dopo si fermò davanti al parco del Valentino.

Gregorio Savini si girò verso di lui. «Eccola, è lei.»

Indicò una donna vestita con dei pantaloni larghi gessati. Era alta, capelli castani leggermente schiariti, grandi orecchini pendenti. Sorrideva cercando di aiutare un bambino piccolo su un triciclo.

«E dai, Nicolò, se fai così freni, devi spingere in avanti…»

Allora il bambino ci riprovò ma, ogni volta che metteva i piedi sopra i pedali, gli scivolavano giù e finivano per terra. La madre gli poggiava le mani sulle spalle per guidarlo in avanti.

«Tanto non è capace, non è capace!» comparve di fianco a loro una bella bambina dai capelli chiari che si mise spavalda le mani sui fianchi.

«Greta, non fare cosi. Anche tu quand’eri piccola non ci riuscivi. Dai tempo a tuo fratello!»

«Ma è negato, mamma.»

«Non dire così.»

«Ma lo è!»

Nicolò si concentrò, mise tutti e due i piedi sui pedali e cominciò a spingere facendoli girare veloce, la madre cercava di camminargli accanto. «Piano… Vai piano.»

Ma Nicolò accelerò, pedalava deciso adesso e alla fine scappò via per un rettilineo. Madre e figlia iniziarono a corrergli dietro. Greta rideva divertita. Alla fine Nicolò sbagliò direzione, finì nel prato, la ruota posteriore salì sulle radici di un albero e il triciclo si rovesciò.

Nicolò cadde a pancia in giù, con le mani avanti e il mento per terra.

«Nicolò!» gridò la madre raggiungendolo mentre il bambino scoppiava a piangere. Arrivò anche Greta.

«Te l’avevo detto, è negato.»

La mamma aiutò Nicolò a rialzarsi e controllò che non si fosse fatto niente. Aveva il ginocchio destro solo un po’ sbucciato.

«Amore, è tutto a posto…»

Il bambino tirava su con il naso. La mamma gli portò indietro i suoi capelli scuri, gli accarezzò la guancia mentre lui, con la mano chiusa a pugno, si stropicciava l’occhio destro. Ora non piangeva più.

Tancredi alzò il finestrino poi fece un segno a Gregorio Savini che cominciò a leggere i fogli.

«Olimpia Diamante ha due figli. Greta sei anni e Nicolò quattro, suo marito la tradisce da un anno e mezzo.

Lei l’ha scoperto sette mesi fa. Hanno avuto una grande discussione, lei gli ha imposto di andarsene, lui ha fatto di tutto per rimanere e alla fine ci è riuscito. Le ha promesso che non avrebbe più rivisto l’altra donna ma dopo tre giorni è stato di nuovo con lei. La ragazza ha ventiquattro anni, lavora nel suo ufficio come segretaria, si chiama Samantha con l’acca ed è fidanzata con un tipo di Napoli, Gennaro Paesanielli, che faceva il buttafuori in qualche locale della periferia, poi si è trasferito a Torino dopo una rissa nella quale è rimasto ferito un famoso pregiudicato. Qui ha conosciuto la ragazza e ormai da due anni hanno una relazione molto turbolenta.»

Gregorio Savini alzò la testa dai fogli che stava leggendo. «Il marito è Francesco D’Onofrio, stava nella tua scuola, al Collegio Sacra Famiglia.»

Tancredi continuò a guardare fuori dal finestrino la ragazza. «Sì, me lo ricordo. Vai avanti.»


Savini riprese a leggere. «Olimpia ha scoperto la scorsa settimana che la relazione tra Samantha e suo marito continua. Hanno avuto un’altra violenta discussione durante la quale lei si è tagliata con la scheggia di un bicchiere rotto. Le sono stati messi dei punti alla mano sinistra…»

Tancredi osservò meglio, solo ora si accorse di una fasciatura che spuntava dalla giacca.

Olimpia aveva rialzato il triciclo e stava aiutando Nicolò a salirci di nuovo sopra. Savini continuò a leggere.

«Olimpia è andata allo studio Levrini che si occupa di separazioni e divorzi e ha parlato con l’avvocato Alessandro Vinelli, lui le ha spiegato tutte le procedure e i tempi ma in realtà lei non ha ancora preso una decisione.»

Savini chiuse l’incartamento.

«Poi ci sono altri dettagli sulle varie spese della casa, le vacanze che hanno fatto, gli altri immobili che pos-siedono ma anche le vacanze e gli alberghi dove lui ha portato Samantha durante l’ultimo anno.»

Prese una busta. «Qui ci sono anche alcune foto di lui con l’amante.»

Tancredi l’aprì e guardò quelle foto. Samantha era una bella ragazza vestita sempre in maniera vistosa, scarpe alte, magliette cortissime, top tigrati o colorati, scollatura provocante, capelli raccolti con delle pinze dozzinali. C’erano anche alcune immagini di baci dati in un parco, in auto, loro che entravano in un albergo, delle foto che li ritraevano attraverso una finestra mentre si spogliavano e altre ancora più spinte. Tancredi rimise le foto nella busta e gliele ripassò. Savini rimase in silenzio.

Tancredi continuò a guardare Olimpia. Ora rideva con i suoi bambini. Erano saliti tutti e tre su una giostra e lei tirava con forza il cerchio centrale, cercando di farli partire. Quando cominciarono a muoversi aumentò la velocità. Si divertiva con i suoi bambini, buttava indietro la testa e forse le girava anche un po’, ma sotto sotto si vedeva che era infelice. Era come se la sua stessa risata e il suo sguardo fossero velati da tristezza. Eppure un tempo lei non era certo così.

«Non mi guardare, mi vergogno.»

Olimpia si copriva il seno con le braccia incrociate e per metà era nascosta dietro la porta. Tancredi stava facendo scorrere l’acqua nella vasca, cercando di rego-larla perché era troppo calda.

Si girò verso di lei e le sorrise. «Ma come ti vergogni?

Dopo tutto quello che abbiamo fatto!»

Olimpia lo colpì con un pugno sulla schiena. «Stupido! Che c’entra? Quello è diverso.»

Tancredi fece finta di provare dolore. «Ahia, mi hai fatto male!»

«Sì, e io ci credo… Ma quanto manca?» Infilò la ma-no nell’acqua. «E perfetto, dai, entriamo…»

Olimpia piano piano si immerse nella vasca. Tancredi chiuse l’acqua e rimase fermo davanti a lei, completamente nudo. Olimpia maliziosa tirò fuori la gamba, un po’ di schiuma era rimasta sul ginocchio. Cominciò con il piede ad accarezzare la coscia di Tancredi e lentamente salì su. Poi sorrise. «Mmm, ti faccio effetto.»

«Moltissimo.» Tancredi era eccitato. Il piede di Olimpia non accennava a fermarsi. Continuava a muoverlo lentamente fino ad arrivare a sfiorarlo. Tancredi entrò lentamente nella vasca e ancora eccitato si mise in ginocchio tra le sue gambe, le aprì.

«Ahi, piano…»

Tancredi sorrise. «Sì, e io ci credo…»

«Devi crederci, mi hai fatto sbattere contro il rubinetto.»

Cominciarono a ridere mentre lui cercava degli ap-pigli per scivolare dolcemente sopra di lei. Finalmente ci riuscì e con dolcezza cominciò a spingere con i glutei fino a esserle dentro.

«Ecco, così.» Olimpia lo stringeva forte, aggrappata alle sue spalle, bagnata, appoggiava il volto al suo collo, si mordeva le labbra mentre lui la prendeva con dolcezza.

«Ma a che ora tornano i tuoi?» chiese Tancredi.

«Hanno detto più tardi.»

«Ma sei sicura?»

«Sì… Dai… Non ti fermare.»

Tancredi non ci pensò più. Continuarono ad amarsi dentro quella vasca, fluttuando appassionati nell’acqua calda. Poi il suono di un clacson.

«Oddio.» Olimpia si irrigidì. Si tese in avanti mentre lui continuava a muoversi sopra di lei. «Fermo.» Rimase concentrata per sentire ogni possibile rumore. Una serranda salì all’improvviso. «E il nostro garage. Sono i miei. Sono già tornati.»

«Cosa?»

«Sì, muoviti.»

Uscirono dalla vasca al volo. Tancredi scivolò per terra. «E dai muoviti, che fai lì!»

«Ma sono caduto.» Si alzò dolorante. Il desiderio di prima si era del tutto spento. In un attimo furono nella camera di Olimpia e si vestirono in fretta e furia tutti e due. Tancredi, ancora bagnato, provò inutilmente a infilarsi i calzini, mise i boxer, poi i pantaloni, la camicia e infine le scarpe. I calzini li appallottolò in tasca.

«E dai, quanto ci metti, muoviti che stanno salendo.»

Così si accomodarono in salotto e accesero la tv. Proprio mentre i genitori entravano.

«Olimpia? Ci sei? Sei tu?»

«Sì, mamma, siamo in salotto.»

Tancredi si alzò quando i genitori entrarono. «Buonasera…»

«Ah, ciao Tancredi.»


«Salve, signora.»

Giorgio, il padre di Olimpia, gli sorrise.

«Ma non vedi le partite?»

Tancredi si scusò.

«Sì, stavo cambiando canale ma ora devo andare a casa perché più tardi c’è una festa.»

«Ah, già, è vero. Stasera c’è la festa di diciott’anni della tua amica Guendalina.» Il padre di Olimpia guardò l’orologio. «Dovete fare presto però.»

«Sì sì, infatti ora vado. Arrivederci, signora. Buonasera.» Tancredi fece per uscire dal salotto ma, infilando le mani in tasca per prendere le chiavi dell’auto, gli cadde un calzino. Prima che il padre potesse racco-glierlo Olimpia lo prese al volo. «Il tuo fazzoletto… Ti accompagno.»

E andarono così verso la cucina.

Giorgio guardò la moglie. «Ma quello era il fazzoletto?»

«Sì, facciamo finta di sì, come il fatto che stavano vedendo la tv.»

Tancredi e Olimpia si diedero un bacio sulla porta.

«Che figura, tuo padre stava per raccogliere il calzino.»

«Eh… come al solito ti salvo… Se non ci fossi io!»

Lo spinse fuori.

Tancredi si girò verso di lei. «Ma secondo te hanno capito?»

«Macché… Credono a tutto.»

Tancredi sorrise. «Ok, ci vediamo tra un po’. Svuota la vasca però.»

«Sì, a dopo. Non fare troppo tardi.»

«No.» Poi si girò un’ultima volta e le sorrise. «Ma poi riprendiamo quel discorso? Mi stava piacendo. Da Guendalina ci sarà una vasca, no?»

«Vattene!» E chiuse la porta.

Tancredi guidò velocemente fino a casa con la sua Porsche. Si spogliò, si mise sotto la doccia, si asciugò in un attimo, si mise un completo scuro e la camicia bianca, i calzini neri, infilandoseli sorrise, poi si allacciò delle Church’s ultimo modello. Scese giù di corsa, sal-tando a due a due gli scalini di casa, fino a quando non la incontrò. «Ciao…» Claudine era ferma, in piedi nella penombra, appoggiata a quel muro.

«Sei qui… pensavo stessi dormendo.»

«Ti ho sentito rientrare.»

«Ah, scusa, ti ho svegliato.»

«Non dormivo.»

«Meglio così, sorellina.»

Le diede un bacio sulla guancia. Poi, prima che scap-passe via, lei lo fermò. «Ti devo parlare.»

«Sorellina, sono in ritardissimo. Non possiamo parlare domani?»

«No.» Rimase in silenzio e abbassò la testa. «Adesso.»

Allora Tancredi le parlò in maniera tranquilla, la ascoltò strappandole un sorriso e alla fine la convinse a riparlarne la mattina successiva. Poi uscì di corsa, salì sulla Porsche, mise in moto, fece il giro della piazzetta e sgommando sulla ghiaia uscì dalla villa a tutta velocità.

Tancredi fece un lungo sospiro e chiuse il fascicolo.

Quella sera alla festa si erano divertiti, avevano trovato un bagno e avevano fatto l’amore. Non nella vasca però, per terra, su un tappeto. Era stato bellissimo.

Guardò di nuovo Olimpia, il suo sorriso, i suoi bambini. Olimpia aveva sposato Francesco D’Onofrio, quello stesso ragazzo che lui aveva proposto a Claudine un pomeriggio d’estate, in piscina. Ma non le era piaciuto.

La vita è come un grande puzzle incompleto.

Allora si ricordò di una sera, aveva fatto con suo padre Vittorio un puzzle difficilissimo. Riproduceva la Monna Lisa. Ci avevano messo più di tre ore e, quando era quasi finito, si erano accorti che mancava l’ultimo pezzo, proprio il tassello che avrebbe completato il suo famoso e misterioso sorriso. L’avevano cercato dap-pertutto. Eppure la scatola l’avevano aperta in quella stanza e non si erano spostati di lì. Quell’opera sarebbe rimasta incompiuta, sarebbe mancato sempre un pezzo.

Poi Tancredi vide Buck, il loro golden retriever, che scodinzolava in un angolo del salotto. Allora gli si avvicinò.

“Ecco chi ce l’aveva! ” Il pezzo mancante era lì, nella sua bocca. Glielo tolse con facilità e anche se un po’

bagnato, un po’ masticato, riuscì a incastrarlo, comple-tando quel sorriso.

Ma ci sono pezzi finiti chissà dove che non si trove-ranno mai più.

Dopo quella sera non aveva più visto Olimpia, né risposto alle sue telefonate. L’aveva voluta vedere oggi, dopo vent’anni. Non era felice. Esattamente come lui da allora.

«Parti, Gregorio.» L’auto si mosse lentamente e presto si confuse nel traffico di Torino.

Tancredi in silenzio guardava fuori dal finestrino rin-correndo chissà quale altro ricordo. Savini lo guardò dallo specchietto retrovisore. Decise che era questo il momento di dirglielo.

«Forse ho trovato una soluzione.»


«Sai quante cose belle ci sono nella vita?»

«Tantissime, ma non per questo le puoi fare tutte.»

Lavinia la guardò in silenzio.

Sofia le sorrise e continuò. «Non riesci ad accettare il mio punto di vista, eh?» Sofia cercò qualcosa che la potesse aiutare, un esempio che le potesse in qualche modo far capire.

«Ecco. Prendi me con la musica. Io amavo suonare, io amo ancora suonare il pianoforte, però ho smesso.

Ogni tanto quando sono sola, quando anche l’ultimo alunno se ne è andato, credi che io non senta la voglia di mettere le mie mani su quel pianoforte?» Fece una pausa. «Ma resisto, anche se sono molto innamorata di Bach, di Mozart, di Chopin, di Rach, ma nessuno di lo-ro mi farà tradire la persona che viene prima di tutto.»

Questa volta Lavinia sembrava aver capito. «Andrea?»

Sofia le sorrise e scosse la testa. «No, me stessa. Il mio voto. E questo dolore, questa sua mancanza non è che me la fa amare di meno… Anzi. Credo che sia diventato ancora più grande il mio amore per la musica.

Prego ogni giorno perché io possa tornare a suonare…»

Lavinia fece un respiro lungo, lunghissimo.

«Sofia, ci rinuncio. Non ti capisco. Se una cosa mi piace così tanto, la amo come dici tu, come posso poi non viverla? Non ha senso, è come rinunciare a vivere.»

Sofia scosse la testa sconfitta. Niente. Non era riuscita a convincerla. “Ognuno ha la sua sensibilità. Forse neppure io sono capace di capire fino in fondo il piacere che lei sta provando ora in questa sua storia, la sua voglia di libertà, che è così grande che addirittura le fa rinnegare la sua promessa di matrimonio…”

Ora era Lavinia a sorriderle.

«Pensi che non ti capisca, vero? Forse…» Alzò le spalle. «Però ho pensato anche un’altra cosa. Magari suonare non ti piace abbastanza, se no in nessun modo mai, per niente al mondo, per nessun voto avresti rinunciato. Io adesso mi sento viva come non mi sentivo da anni. Quando torno a casa invece mi sento morta, mi sembra di tradire il mio cuore, ecco! Se una è innamorata, è innamorata e basta, non è che ci stanno tanti ragionamenti da fare. Anzi, ora ti dirò una cosa che potrebbe sembrare anche assurda. Sono così felice di questa cosa che la vorrei raccontare perfino a Stefano, ti giuro! E non sai quante volte sono stata lì lì per farlo…»

«Però non l’hai fatto. Ti sei chiesta perché?»

«Sì, ci ho pensato spesso. Forse perché lui la prenderebbe male, non capirebbe… A volte lascio il telefono sul tavolo, poi mi alzo e vado di là. Ma glielo lascio apposta sotto gli occhi perché vorrei che lui leggesse i messaggi e potesse capire quello che sto vivendo.»

«Ma, Lavinia, allora parlaci, fallo tu, abbi il coraggio!

Perché vuoi lasciare tutto in mano a un telefonino…»

Poi Sofia si ricordò cosa le aveva detto Andrea. Stefano aveva già letto quei messaggi. Sapeva tutto. Si era dilaniato il cuore su quelle parole, su quelle descrizioni, su quella voglia affamata di giovani amanti menefreghi-sti e distratti.

«E se li avesse letti?»

«Sì, e fa finta di niente? Non mi dice nulla? Non si arrabbia come un pazzo? Allora non mi ama.»

«E se invece proprio per questo ti amasse così tanto?

Magari non te ne parla perché ha paura di perderti…»

«A me tutti questi ragionamenti sembrano troppo F

complicati. Amo una persona, scopro che mi tradisce, faccio un casino e basta.»

«Amiamo in maniera diversa. Forse il suo amore è più grande della nostra capacità di immaginarlo. Magari pensa che è solo un’avventura e finirà…»

Lavinia ci pensò su. «Allora è un gran casino.»

«Sì.»

Questa fu l’unica cosa sulla quale tutte e due furono completamente d’accordo. Sofia si alzò dalla panchina.

Lavinia la fermò. «Ma se tu fossi al posto mio, cosa faresti?»

«Perché me lo chiedi? Mi fai ridere, vuoi sempre sentire cosa farei io e poi fai il contrario.»

Lavinia le sorrise. «Va bene, fai un ultimo sforzo, dai per favore…»

«Sai che non potrei mai stare al posto tuo, vero?»

«Sì, sei pesante! Facciamo conto che ti svegli e per uno strano incantesimo sei dentro il mio corpo, nella mia mente e nel mio cuore. Puoi prendere al posto mio qualsiasi decisione, ti va bene così?»

«Sì, allora per prima cosa mi prenderei a schiaffi.»

Sofia si liberò dalla sua mano.

«Così non vale!»

«Ok…» Sofia cominciò a correre piano piano. «Sei pronta? Ora ti do la soluzione: lascialo.»

Lavinia sorrise. Poi le venne giustamente un dubbio.

«Sì, ma quale dei due?»

«Be’, io ti ho dato una soluzione, ora mi chiedi un miracolo.»

Più tardi, quando entrò a casa, Andrea era al tavolo, in salotto.

Stava controllando dei fogli, sparsi alla rinfusa. La vide e le sorrise. «Ciao, amore…» Era un viso pieno di felicità, una luce nuova, una gioia mai vista prima.


«Ciao.» Sofia gli si avvicinò un po’ incuriosita e lo baciò mentre lui raccoglieva i fogli sul tavolo, si spingeva in avanti sulla carrozzella cercando di raggiungere anche quelli più lontani.

«Aspetta che ti aiuto.»

«No, no, faccio io, li sistemo che ti voglio far vedere una cosa…»

Si muoveva agile su quelle ruote, le braccia forti, ormai allenate da anni, lo trascinavano su e giù lungo il tavolo. Raccolti tutti i fogli, guardò i numeri delle pagine e ogni tanto ne spostava qualcuna per essere sicuro che fossero nell’ordine giusto. Poi quando finalmente ne fu convinto, li sbatté due volte sul tavolo, fino a farli quadrare perfettamente tra loro. «Ecco, tieni, guarda.» Sofia si sedette sulla poltrona e cominciò a leggere.

Andrea ruotò la carrozzella e si mise davanti a lei, in silenzio, con le braccia ferme sulle gambe, il viso sorridente, in religiosa attesa. Sofia lesse la prima pagina, poi la seconda, ne sfogliò altre, poi lo guardò sorpresa.

«Non ci posso credere. Forse hanno trovato una soluzione.»

Andrea fece cenno di sì. Aveva gli occhi gonfi di lacrime ma riuscì a resistere, poi spinse forte sulle ruote la carrozzella e si mise di fianco alla sua poltrona.

«Guarda…» indicò il secondo foglio. «Un’operazione chirurgica che prevede l’inserimento di cellule staminali dentro il midollo osseo, alla base della spina dorsale, che rida vita ai nervi e ai tessuti paralizzati… Vedi? Lo spiega qui.»

Sofia continuò a leggere. Poi si fermò.

«Sì, ma hanno fatto solo pochissimi interventi.»

«Tutti perfettamente riusciti.»

L’entusiasmo di Andrea era incredibile, era come una nuova speranza, l’occasione di una seconda vita.

Guardò Sofia con un’espressione fragile, quasi da bambino, come per dire: “Ti prego, lasciami sognare, non fare obiezioni, magari non lo faremo mai, ma lasciami sognare, almeno quello”.

E Sofia, vedendolo così, si sentì stringere il cuore.

Allora continuò a leggere finché la vista le si annebbiò.

Vedeva delle righe sfuocate e il labbro inferiore cominciò a tremarle. Le prime lacrime iniziarono a scendere silenziose, una dopo l’altra, come un fiume in piena trat-tenuto per troppo tempo dietro quella diga. Andrea se ne accorse, le passò il braccio dietro la schiena e la strinse a sé. Sofia nascose la testa nella spalla e cominciò a sin-ghiozzare. Lui sorrise e appoggiò la testa sulla sua.

«Ma allora non ti posso raccontare più niente…

Amore, non fare così. Non sai da quanto te ne volevo parlare e tu mi fai così!»

Si mise a ridere scostandosi da lei, asciugandole tutte quelle lacrime con le dita, portandosele poi alla bocca.

«Uhm… buone… Un po’ salate!»

«Che scemo!»

Ora Sofia rideva e tirava ogni tanto su con il naso, poi piangeva e di nuovo rideva, alla fine fece uno strano broncio con tutte e due le labbra, come se fosse solo sua la colpa.

Andrea prese le pagine tra le mani e cominciò a spiegare. «Ho cercato su internet, avevo sentito parlare di questa azienda privata, la Berson, che sostiene un grandissimo professore giapponese che opera allo Shepherd Center di Atlanta. E stato un grande ricercatore e i suoi studi l’hanno portato a tentare l’applicazione delle cellule staminali in tutti i campi. Sono praticamente delle cellule che “a comando” possono essere applicate come diversi meccanismi riparatori. Fino a quando non è arrivato a questo prodotto: il GRNOPCl.»

Le mostrò in fondo a un foglio una vera e propria di-mostrazione tecnica del tipo di impianto che Mishuna Torkama aveva fatto nei suoi primi interventi.


«Si viene sottoposti al bombardamento di milioni di cellule iniettate nel punto della lesione…» Indicò sul foglio successivo alcuni passaggi. «Ecco, vedi, queste cellule vengono programmate per trasformarsi in “oli-godendrociti” che sono i responsabili della trasmissio-ne di segnali tra neuroni. Praticamente renderebbero di nuovo nervosa la mia spina dorsale. Insomma sarebbe un miracolo…»

Rimasero in silenzio. Poi le indicò un altro foglio.

«Ma anche i miracoli oggi hanno un costo. Si parla di cinque milioni di euro.»

Andrea le sorrise.

«Per potermelo permettere dovrei disegnare una serie di edifici per i più grandi magnati della Terra e me li dovrebbero strapagare. Anche impegnandomi al massimo nei prossimi anni potrei coprire solo un decimo di quella cifra.»

Cinque milioni di euro. Sofia rimase in silenzio. Poi parlò. Non piangeva più e la sua voce era stranamente ferma. «Oppure io potrei riprendere a suonare.»

Andrea la guardò con tenerezza. Dopo otto anni poteva tornare a essere la grande pianista che era stata? E

comunque per una cifra del genere, ci sarebbero voluti tantissimi concerti. Ma non disse nulla. Sofia gli sembrava stranamente decisa.

«Per questa operazione potrei ricominciare.»

Sofia si alzò e preparò da mangiare. Cenarono in silenzio guardando un po’ di tv e quasi senza chiacchierare. Poi lei lo aiutò a mettersi a letto.

«E tu non vieni?»

«No, non ho sonno, rimango un po’ in salotto a leggere.»

Si diedero un bacio, poi lei uscì dalla camera da letto e accostò la porta. Si sedette sulla poltrona e riprese quei fogli. Li lesse di nuovo, più attentamente, senza emozione, cercando di capire bene i passaggi di tutta quell’operazione. Tornava ogni tanto indietro per rileg-gere qualcosa, usò internet per tradurre qualche termi-ne tecnico e anche per controllare la veridicità di tutte quelle notizie. Su YouTube trovò filmati di operazio-ni, servizi di telegiornale. Era tutto vero. Era dal che quella società privata, la Berson, stava lavorando sulle cellule staminali. Alla fine aveva compreso perfettamente tutto. L’obiettivo era quello di formare una nuova “mielina”, una guaina che permettesse ai neuroni compromessi di comunicare di nuovo. Era rischioso, ma lo Shepherd Center di Atlanta era specializzato nella cura della spina dorsale. Era un pericolo ma anche una speranza.

Si alzò dalla poltrona, andò in bagno, si struccò, si la-vò il viso, i denti, poi si infilò la camicia da notte. Spense le luci ed entrò in punta di piedi in camera da letto.

Andrea dormiva. Sentiva il suo respiro lento e sereno.

Stava sognando? Forse proprio quell’operazione. Scivolò lentamente sotto le lenzuola. Piano piano si abituò al buio. Aveva gli occhi aperti, stava immobile a pancia in su. Cominciò a ragionare: ipotizzava, prendeva in considerazione, scartava, valutava le conseguenze. Era possibile, si poteva fare, non sarebbe stato un peccato.

E quando finalmente vide con estrema chiarezza tutti i passaggi, si addormentò.


Sofia Valentini aveva una memoria fotografica. Si ricordava immagini, frasi, scene di film, momenti della sua vita e poi strade. Molti dei suoi ricordi erano legati a qualche cosa che l’aveva fatta ridere o piangere, qualcosa di strano o particolarmente emozionante. Le sue amiche, Lavinia, lo stesso Andrea la prendevano in giro per quella sua memoria che la “teneva sempre così attaccata al passato” e che in qualche modo non le permetteva di andare avanti.

«E dai, dimenticati qualcosa!»

E lei ne rideva, scherzava ma sotto sotto sapeva che era vero. Non aveva problemi a buttar via un golf, un vestito o un qualsiasi oggetto, ma non riusciva a dimenticare.

Ecco perché, anche se quel giorno aveva guidato senza particolare attenzione, riuscì a tornarci con grande facilità.

Un lieve bussare alla porta. L’avvocato Guarneri si tolse gli occhiali e posò quel contratto che stava leggendo sul tavolo.

«Avanti.» Si aprì la porta e si affacciò Silvia, la segretaria, leggermente timorosa. «Mi scusi…»

«Le avevo detto che non volevo essere disturbato per nessuna ragione.»

«Sì, lo so ma…»

L’avvocato Guarneri l’ascoltava con espressione sec-cata. «Ma… cosa?»


«È che c’è la signora Valentini. È venuta qui a sorpresa. E pensavo che forse era il caso di disturbarla…»

L’avvocato Guarneri si alzò dalla poltrona di scatto. «La faccia accomodare nella sala riunioni. Arrivo subito.»

Silvia richiuse la porta. Poi fece un sospiro. Il suo lavoro consisteva anche nel saper fare delle scelte. E

quella volta, ora ne era certa, aveva fatto quella giusta.

«Prego, signora, si accomodi.» Guidò Sofia nella sala riunioni. «Tra un attimo l’avvocato sarà da lei. Vuole qualcosa da bere?»

«Un caffè, grazie.»

Poco dopo Silvia tornò con un vassoio, lo posò sul grande tavolo, poi le sorrise e chiuse la porta. Sofia sentì il profumo del caffè. Mise lo zucchero nella tazzina, mescolò e alla fine bevve lentamente, perché era molto caldo.

L’avvocato Guarneri prese un blocco, si fermò davanti allo specchio, si sistemò la cravatta e si accorse che aveva dei capelli fuori posto. Ci passò sopra il palmo della mano destra lisciandoseli dietro le orecchie.

Poi si sorrise. “Che fai, Mario? Vorresti avere del fascino, piacerle? Lo sai che non ti riguarda, vero? Una così non ti vede neanche. Anche se non hai ancora cinquant’anni e guadagni bene, anche se, come dicono molte, sei un bell’uomo.” Allora sospirò. “La cosa che mi dà più fastidio è aver perso questa scommessa. Lui aveva detto che sarebbe passata oggi e così è stato.

Non c’è niente da fare. È uno psicologo eccezionale, soprattutto delle donne.” Si chiuse la porta alle spalle e si incamminò verso la sala riunioni, sapendo che avrebbe dovuto svolgere il suo ruolo da avvocato e nulla di più.

«Buongiorno, che piacere rivederla.»

Guarneri la salutò baciandole la mano, poi si accomodò davanti a lei. Notò subito il suo grande cambiamento rispetto al primo incontro. Era truccata, aveva un tailleur beige molto elegante, delle calze leggere color miele e scarpe di vernice impeccabili, marrone scuro, con il tacco alto. Già allora gli era sembrata molto interessante, ma ora era ancora più bella del suo ricordo. Guardò la sua camicia di seta color crema, era trasparente e faceva intravedere un reggiseno di pizzo chiaro.

Sofia si accorse di quello sguardo e incrociò i suoi occhi serena, come per dire: “È tutto a posto?”. L’avvocato arrossì e cercò subito di darsi un tono professionale.

Aprì il blocco e tirò fuori dalla tasca una penna, poi la poggiò sul foglio bianco e congiunse le mani.

«Allora! A cosa devo questa visita? E come mai è senza la sua insegnante?»

Sofia sorrise. «So suonare anche da sola.»

«Sì, sì, certo.» Guarneri capì che non sarebbe stato semplice. «Ha ripensato alla nostra proposta? Magari possiamo tentare per un’altra data. Il festival in Russia è già iniziato…»

Sofia lo guardò con sufficienza.

«Mi tratta da sciocca?»

«Non vorrei mai.»

«Ma lo sta facendo.»

Rimasero in silenzio.

«Il mio prezzo è di cinque milioni di euro non trat-tabili.»

L’avvocato Guarneri rimase senza parole. Non avrebbe mai immaginato che potesse chiedere una cifra simile. Deglutì.

«Non sono autorizzato a prendere nessuna decisione del genere. Devo sentire, sì, insomma, devo parlare con lui…»

Sofia si alzò. «Non c’è problema. Lo faccia presto però.» Guardò l’orologio. «Sono le dieci, entro mezzogiorno vorrei avere una risposta.»

«Ecco, non so se ce la faccio. Magari l’orario potrebbe non essere lo stesso.»


Sofia sorrise. «In qualunque parte del mondo sia, sa-rà raggiungibile. Lo svegli. Sarà una buona notizia per lui. Ci teneva tanto. Gli dica semplicemente che ci ho ripensato e che aveva ragione lui. C’è sempre un prezzo.»

Sofìa fece per uscire.

«Ma come facciamo a metterci in contatto con lei?»

«Lui ha il mio numero. Anzi, non credo che ci sia qualcosa di me che voi non conosciate. Arrivederci.»

Poi uscì da quella stanza.

Quella mattina Sofia andò in centro. Si concesse una libertà che non viveva da molto tempo e per la prima volta provò una sensazione strana. Si sentiva come una straniera, una turista. Molte cose le sembravano cambiate, le insegne dei negozi, le commesse, la gente, i clienti che entravano e uscivano da Hermès, Bulgari, Louis Vuitton. Si ricordò quel film che aveva visto una sera con Andrea prima dell’incidente e che l’aveva colpita moltissimo. Eyes Wide Shut. Non il film di per sé, anche se Stanley Kubrick era eccezionale. Era stata atti-rata dal suo punto di vista. Era bastato che quel giorno il protagonista Tom Cruise uscisse un’ora più tardi del solito da casa, perché tutto quello che gli era sempre apparso in un certo modo si rivelasse diverso. Tutto aveva un’altra luce e forse, per certi aspetti, la vera luce. Ec-co, era la stessa sensazione che stava vivendo lei. Tutto era improvvisamente cambiato eppure era tutto uguale.

Era come se avesse perso le sue preoccupazioni di sempre, essere a posto, truccata nel modo giusto, vestita in maniera idonea. Si sentiva libera. Entrava nei negozi, chiedeva un prezzo, provava un vestito, senza sentirsi osservata o giudicata. Senza curarsene. Si sentiva sicura.

E si chiese perché provava tutto questo. Ma non trovò risposta. Sapeva solo che stava bene. Si fermò davanti a una vetrina, si guardò allo specchio, si trovò diversa e quell’impressione che aveva avuto qualche tempo prima, di essere invecchiata, era scomparsa. Si piaceva. Allora sorrise maliziosa e capì. Si sentì calda, come travolta da una strana passione. Era libera dal senso di colpa. Aveva la licenza di tradire. Un uomo incrociò il suo sguardo allo specchio e le fece i complimenti con un semplice sorriso. Poi non la guardò più, si perse tra la folla, come se avesse saputo che quella donna era già impegnata. Aveva un appuntamento da cinque milioni di euro. E in quel momento il suo telefonino squillò.


La segretaria l’accompagnò fino alla stanza, poi aprì la porta.

«Prego, si accomodi.»

Sofia entrò. La porta si chiuse alle sue spalle. Di fronte aveva l’avvocato Guarneri e, seduto su un divano la-terale, c’era un altro uomo che già conosceva: Gregorio Savini.

L’avvocato si alzò. «Buongiorno.»

Fece il giro della scrivania. «Prego, sediamoci qui»

indicò una poltrona davanti a lei e lui si sedette sull’altra. Gregorio Savini era tra loro e, al passaggio di Sofia Valentini, si alzò e le porse la mano.

«È un piacere rivederla.»

Sofia ricambiò il saluto. «Grazie.» L’avvocato Guarneri aveva con sé un blocco e alcuni fogli di appunti.

Gregorio Savini le sorrideva. Chissà cosa pensava.

Forse alla fine anche lei, come tutte le altre, aveva accettato. Era stata solo una questione di soldi. Ma lei sapeva che non era così. Quei soldi sarebbero stati una nuova vita.

«Allora…» Guarneri prese la parola. «Sono contento che si possa trovare un accordo.»

Sofia precisò: «Veramente è una richiesta non trat-tabile».

Guarneri alzò un sopracciglio. «Sì, sì, certo…»

Gregorio Savini abbassò lo sguardo sorridendo.

L’avvocato prese dei fogli e li passò a Sofia. «Vorrei solo che leggesse questi, è un proforma affinché sia tutto chiaro.»

Sofia rimase immobile. «Senta. Trovo ridicolo tutto questo. Vi ho fatto una richiesta ed è stata accettata.

Cinque milioni di euro sul mio conto, ora che ci sia addirittura un contratto mi sembra troppo. Farò quello che vuole. Noi non abbiamo niente da discutere.»

«Sì, ma…»

Savini alzò la mano per frenare il suo intervento.

L’avvocato subito si zittì lasciando a lui la parola.

«Signora…» le sorrise. «È solo per non avere nessun tipo di problema, per maggior chiarezza.»

Sofia sorrise a sua volta. «Paga per scoparmi, più chiaro di così. E quello è il mio prezzo.»

«Non credo sia proprio così. Vuole cinque giorni.

Un milione di euro al giorno per cinque giorni. Dove lo decide lui, quando lo decide lei!»

«Sì, ma io come faccio a sparire cinque giorni? Non è credibile.»

«Non si preoccupi. Avrà una copertura completa.

Ci saranno più concerti in quei giorni. Usciranno degli articoli e delle notizie che renderanno tutto questo credibile. Cinque concerti grandiosi, tanto da essere pagati cinque milioni di euro.»

«Naturalmente partirò solo dopo aver visto i soldi sul conto.»

Intervenne di nuovo l’avvocato Guarneri.

«Sì, piuttosto ci deve far sapere su quale conto li vuole.»

«Sul mio. Immagino che già sappiate qual è e se non lo sapete già ci metterete un secondo.»

Guardò Savini, poi continuò: «Bene, credo che ci siamo detti tutto. E chiaro che dopo quei cinque giorni io non sarò più tenuta a niente. Voi non mi contatterete e io non lo dovrò incontrare mai più».

Savini le sorrise. «A meno che non lo vorrà lei…»

Sofia rimase per un attimo in silenzio. Era vero, lui non l’aveva più cercata. Era stata lei a farlo. Per la prima volta anche Sofia sorrise. «Ha ragione. A meno che non lo vorrò io.» Diede la mano a Savini. Poi salutò con un cenno l’avvocato e uscì.

Guarneri tornò alla scrivania.

«Non ha firmato nulla. E se poi dovesse cambiare idea?»

Savini si versò dell’acqua. «È di parola.»

«E se ti sbagliassi su di lei?»

Savini lo guardò divertito. «Tu avevi detto che non sarebbe più tornata. Lui invece era sicuro del contrario.»

«È vero. Siete stati bravi.»

Savini finì di bere. «Ho trovato io la notizia. Ma poi lui è andato oltre.»


Sofia si alzava presto la mattina e andava a correre al parco, tornava, si infilava sotto la doccia, poi faceva colazione con Andrea e subito usciva di nuovo. Passeggiava molto, andava in centro, si divertiva, si sentiva leggera in quella sua nuova dimensione, come una persona che sta aspettando un appuntamento importante al quale sa che non potrà mancare. Ogni tanto si fermava davanti ai negozi più eleganti, rimaneva lì a guardare quel bel vestito in vetrina, poi entrava e lo provava, sfilava, si guardava allo specchio, chiedeva il prezzo. Erano comunque troppo costosi. Poi una volta le venne da ridere.

«Costosi? Ma io tra poco avrò cinque milioni di eu-ro…»

Anche quel giorno uscì dal negozio senza comprare nulla. Comunque quei soldi non erano per lei. Era per questo che poteva accettarli. Ne aveva parlato a casa cercando in qualche modo di preparare il terreno.

«Ti ricordi Olja, la mia insegnante?»

«Sì, certo…»

«Sta prendendo contatti con le maggiori agenzie internazionali per vedere se posso tenere qualche concerto in giro per il mondo…»

Andrea sorrise, smise di battere al computer e la guardò con tenerezza. Cinque milioni di euro. Quanti concerti avrebbe dovuto fare per raggiungere quella cifra? Sofia indovinò i suoi pensieri.


«Guarda che poco tempo fa mi avevano fatto una proposta molto importante in Russia… Mi davano una marea di soldi e ho rifiutato.»

«E perché?»

«Ho fatto un voto e soprattutto allora non avevo nessuna ragione per accettare…»

Andrea la guardò con amore. «Qualunque cosa deciderai di fare, io sarò felice. E se per caso ci riuscirai…»

piegò la testa di lato, «lo sarò ancora di più. Tutto questo comunque non era previsto, io non potevo neanche sperarlo…»

Cercò qualcosa sul computer come per distrarsi. Poi parlò di nuovo, con voce più bassa e senza guardarla.

«Ma è un sogno a occhi aperti, solo l’idea di poter tornare a camminare… Non mi sembra possibile, mi è vie-tato perfino sperarlo…» Allora alzò lo sguardo. «Non posso essere paralitico per la seconda volta.»

Sofia si sentì morire. Si tolse vestito, reggiseno e mutandine e si infilò nel letto accanto a lui. Lo abbracciò, voleva amarlo ed essere amata. Scivolò con la gamba sinistra sulla sua pancia, sentì la sua pelle e lentamente il suo desiderio. Allora scese dal letto, abbassò un po’

la serranda, gli tolse il computer e spostò il tavolino.

Poi eccitata gli salì sopra. Si iniziò a muovere lentamente, libera, abbandonata, senza pensieri né aspettative, senza pensare al suo appuntamento, al passato o al futuro, e così piano piano venne. Lo fece gemendo, sospirando, sempre di più, quasi urlando, tanto che al-la fine cadde su di lui, sudata, con i capelli tutti avanti, sulla sua bocca che dischiusa respirava veloce e le sue labbra umide, bagnate, che alla fine lui baciò.

«Come va, amore? Tutto bene?»

«Sì…» Era ancora affannata. «È stato bellissimo…»

Andrea sorrise. «Lo immagino.»

Allora lei si mise a ridere e lo baciò di nuovo, poi scivolò sotto le lenzuola, gli spostò più giù il pigiama e con la bocca gli diede piacere fino a sentire gemere anche lui.

Poco dopo gli fu di nuovo a fianco e lo abbracciò.

Rimasero così, fermi, immobili, mentre lentamente i loro respiri tornavano regolari. Silenzio. Silenzio nella stanza. Si sentiva solo il battito dei loro cuori. Qualche macchina lontana. Un allarme ancora più distante. Dei fuochi d’artificio di chissà quale festa, un’eco fuori tempo per nessuna particolare ricorrenza.

Poi Andrea parlò.

«Amore, grazie per tutto quello che fai per me.»

Sofia non disse nulla. Rimase in silenzio. Lentamente delle lacrime cominciarono a scenderle sulle guance, calde, salate. E avrebbe voluto fermarle, saper resistere, magari perfino sorridere, essere felice e non sentirsi in colpa. Ma non ci riusciva. Chiuse gli occhi. Avrebbe voluto essere lontano, essere una bambina, ecco sì, una bambina da amare e basta, senza pensieri, senza responsabilità. Una bambina che doveva lavarsi i denti, andare a letto e fare il sogno più bello che avesse mai potuto immaginare… Ma non le era più permesso. Era passato quel tempo. Allora l’abbracciò più forte, lo strinse a sé, sperando che non avesse capito nulla, poi corse in bagno. E il giorno dopo arrivò quella telefonata.


La segretaria Silvia l’accompagnò in una stanza all’ultimo piano. La fece accomodare in una sala d’attesa molto elegante, che non aveva niente da invidiare ai salotti delle migliori riviste d’arredamento.

«Le posso portare qualcosa?»

«No grazie, molto gentile.»

«Benissimo.» Le sorrise uscendo. La segretaria non aveva detto né fatto niente che potesse metterla in imbarazzo o fuori posto, si era comportata esattamente come se quella fosse stata la prima volta che si incontravano.

Eppure Sofia era nervosa. Forse perché non c’era più la possibilità di tornare indietro, di ripensarci, forse perché sapeva che altri conoscevano la sua storia, quello che stava per fare. Le venne in mente Lavinia e il senso di colpa e la Chiesa ma non fece in tempo a pensare ad altro perché proprio in quel momento la porta si aprì.

«Buongiorno. Come sta?»

L’avvocato Guarneri le diede la mano.

«Bene, grazie.»

«Le presento Marina Recordato, la mia assistente personale, la seguirà nelle piccole cose che dovremo fa-re perché tutto sia a posto…»

«Buongiorno.»

Marina Recordato era una donna di circa quaranta-cinque anni, capelli corti, occhiali e un tailleur grigio gessato. Aveva un bel corpo, notò Sofia, e un modo raf-finato ed elegante di muoversi. Si chiese quante altre “pratiche” di quel genere avesse trattato ma decise che era meglio non pensarci.

«Prego, accomodiamoci.»

Sofia si sedette di nuovo sul divano, l’avvocato su una poltrona in pelle davanti a lei, la sua assistente di fianco a Sofia. L’avvocato aprì una cartellina.

«Allora, lei partirà tra dieci giorni, questo è il contratto tra lei e la Abu Dhabi Cultural Foundation. Saranno cinque importanti concerti ad Abu Dhabi, la prima grande occasione in cui la cultura verrà prima della ricchezza…» La guardò sorridendo. «Ha capito quanto sarà importante questa sua partecipazione?»

Sofia non aveva voglia di scherzare. Guarneri se ne rese conto.

«Allora andiamo avanti, procedo. Lei dovrà firmare qui sotto e tenerne una copia, noi ne avremo tre. In realtà non si troverà negli Emirati Arabi. Le verrà da-to un telefonino con possibilità di chiamare e ricevere senza alcun problema. Fra tre giorni daremo notizia di questo grande evento, verrà creato un sito con aggior-namenti continui, dopo il suo primo concerto saranno pubblicati dei commenti da parte del pubblico che avrà apprezzato la sua esibizione. Questi sono i cinque concerti che lei farà…»

Le passò una cartella stampa che conteneva un programma di sala stampato in modo impeccabile. Quando lesse i pezzi che avrebbe dovuto suonare rimase esterre-fatta: era una vera e propria provocazione ma anche, per così dire, un meditato e intelligente messaggio in codice. Quello non era altro che il leggendario programma che Glenn Gould suonò nel nella Sala Grande del Conservatorio di Mosca! Impossibile non riconoscerlo.

All’epoca Gould era un venticinquenne quasi sconosciuto che un paio di anni prima si era distinto per un’incisione particolarmente brillante delle Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach. La sera del suo primo concer-I

to a Mosca la sala era semivuota ma l’interpretazione fu talmente straordinaria che nei giorni successivi si sparse la voce in tutta la città e il suo secondo concerto, che si tenne il maggio, solo cinque giorni dopo il primo, fu un vero trionfo. Il Conservatorio fu preso d’assalto, centinaia di persone non riuscirono a trovare il biglietto e dovette intervenire la polizia per placare gli animi di chi era rimasto escluso. Tra il pubblico c’erano anche Boris Pasternak e Maria Iudina, la famosa pianista amata da Stalin. Sofia si ricordò di quell’aneddoto secondo cui Stalin aveva sentito la Iudina interpretare Beethoven alla radio e aveva chiesto di poter avere il suo disco. E quando gli avevano risposto che non era possibile perché non esisteva una registrazione, aveva ribattuto: “La voglio domani”. E il giorno dopo l’incisione era pronta.

Il programma prevedeva brani di Berg, Webern, Kre-nek e si chiudeva con Bach — tre contrappunti dell’Arte della fuga e sei pezzi delle Variazioni Goldberg. L’interpretazione di Gould fu indimenticabile, originale ed entusiasmante. Di quel concerto fu fatta una registrazione che Sofia possedeva. Era la versione restaurata della Glenn Gould Edition della Sony. Sofia si domandò come avevano potuto avere quell’idea e soprattutto chi l’aveva avuta. Guarneri? Savini? Tancredi? Poi si ricordò di un pezzo sul “Corriere della Sera” che parlava di quel concerto a Mosca e pensò che in fondo non fosse così segreto…

«Se vuole cambiare qualcosa del programma non c’è problema.» Guarneri si accorse del suo silenzio.

«No, è un bel programma» rispose lei.

Guarneri la guardò con intensità come se si aspettasse un commento ma Sofia sostenne muta lo sguardo.

«Benissimo, allora lo potrà portare a casa come ricordo di questa esperienza.»

Le passò cinque programmi su carta bianca molto elegante, con al centro in rilievo un pianoforte in fì-


ligrana d’oro. Lo aprì. Erano state riportate tutte le opere che Sofia avrebbe eseguito in quella serata con un’orchestra e sotto la direzione di un famoso maestro tedesco. Sofia rimase sorpresa.

«E quando questo direttore si accorgerà che il mondo parla del suo concerto ad Abu Dhabi, mentre lui è da tutt’altra parte, cosa accadrà?»

Guarneri le sorrise. «Il direttore è stato molto contento di prendersi una vacanza di cinque giorni. Era molto stressato, è un grande amante del gioco, forse troppo grande rispetto alle sue finanze. Aveva un grosso debito, molto grosso, che noi siamo stati felici di can-cellare. Le fa sapere che è orgoglioso di dirigerla, anche se non la conosce personalmente.»

«E se un giorno parlasse?»

«Sarà la sua parola contro quella dei giornali e di una rete di persone che avrà assistito al vostro concerto.»

Poi le sorrise.

«Noi cerchiamo di risolvere problemi, non certo di crearli… Questi sono i biglietti aerei.»

La sua assistente li tirò fuori dalla cartellina e li mise sul tavolo.

«Viaggerà in prima classe, partirà alle. da Fiumicino il giugno e tornerà il a Roma, ritorno sempre in prima classe.»

Sofia guardò i biglietti.

«Ma sono veramente per Abu Dhabi?»

«Certo, lei partirà e tornerà da Abu Dhabi. Lì ci sarà un aereo privato ad aspettarla che la porterà alla sua reale destinazione.»

«E dove?»

«Questa è l’unica cosa che non so. Non mi hanno dato possibilità di saperlo, forse perché temevano che io potessi cedere di fronte alla sua insistenza.»

Per la prima volta da quando si erano conosciuti, Guarneri le sembrò simpatico.


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