Il tempo iniziò a correre molto più veloce del solito. Scuola, lavoro e Jacob—non necessariamente in quest’ordine—scandivano un ritmo preciso e facile da seguire. E il desiderio di Charlie si avverò: non ero più depressa. Ovviamente, non potevo prendermi in giro fino in fondo. Quando mi fermavo a rimuginare sulla mia vita, cosa che cercavo di non fare spesso, il significato del mio comportamento mi appariva chiaro.
Mi sentivo una luna solitaria—dopo che il mio pianeta era stato distrutto e sbriciolato da un cataclisma, come nei film—che si ostinava a orbitare attorno a uno spazio vuoto, facendosi beffe della gravità.
Come motociclista stavo migliorando, il che significava meno cerotti e preoccupazioni per Charlie. Ma anche che la voce nella mia testa s’indebolì fino a sparire. Senza scompormi, andai nel panico. Mi lanciai alla ricerca della radura con smania crescente. Fremevo per qualsiasi attività che potesse inondarmi di adrenalina.
Non tenevo il conto dei giorni. Non ce n’era motivo, perché cercavo di vivere il più possibile nel presente: niente passato che scoloriva, niente futuro che incombeva. Perciò fui sorpresa quando scoprii la data di uno dei sabati in cui io e Jacob facevamo i compiti. Fu lui a ricordarmela, quando lo trovai ad aspettarmi sulla porta di casa sua, nel pomeriggio, dopo il lavoro.
«Buon San Valentino», disse, sorridendo e abbassando la testa per salutarmi.
Mi offrì una scatolina rosa, che teneva in equilibrio sul palmo della mano. Dolcetti con le frasi romantiche nell’incarto.
«Be’, mi sento una cretina», mormorai. «Oggi è San Valentino?».
Jacob scosse il capo, fingendo tristezza. «A volte sei davvero fuori dal mondo. Sì, è il 14 febbraio. Ti va di festeggiare San Valentino con me? Visto che non mi hai comprato neanche una scatola di dolcetti da cinquanta centesimi, è il minimo che tu possa fare».
Mi sentivo a disagio. Scherzava, ma fino a un certo punto.
«E questo cosa implica?». Stavo sulla difensiva.
«Il solito: schiavitù eterna e cose del genere».
«Ah, be’, se è tutto qui...». Accettai i dolcetti, sempre in cerca, però, di un modo per tracciare confini chiari. Per l’ennesima volta. Quando Jacob era nei paraggi, si confondevano spesso.
«Allora, domani cosa facciamo? Escursione o pronto soccorso?».
«Escursione», decisi. «Non sei l’unico che si lascia ossessionare dalle cose. Comincio a pensare di essermelo immaginato, quel posto...». Aggrottai le sopracciglia, lo sguardo perso.
«Lo troveremo, stai tranquilla. Moto venerdì?».
Intravidi una possibilità e l’afferrai senza pensarci troppo.
«Venerdì vado al cinema. Una vita fa ho promesso ai miei compagni che sarei uscita con loro, sai com’è». A Mike avrebbe fatto piacere.
L’umore di Jacob colò a picco. Notai l’espressione dei suoi occhi scuri prima che abbassasse lo sguardo.
«Vieni anche tu, vero?», aggiunsi subito. «Oppure pensi che sarà una seccatura uscire con un branco di noiosi studenti dell’ultimo anno?». E tanti saluti alle possibilità di tracciare un confine netto tra me e lui. Non sopportavo di fare del male a Jacob: era come se tra noi ci fosse uno strano legame e il suo dolore stuzzicasse il mio. Inoltre, estendere l’invito anche a lui—certo, avevo fatto una promessa a Mike, ma davvero non ero entusiasta al pensiero di mantenerla—era una tentazione troppo forte.
«Vuoi che anch’io venga con i tuoi amici?».
«Sì», confessai, sapendo che proseguire equivaleva a tirarmi la zappa sui piedi. «Mi divertirò di più, se ci sei. Porta anche Quil, sarà una bella serata».
«Quil impazzirà, in mezzo alle ragazze dell’ultimo anno». Ridacchiò e alzò gli occhi al cielo. Entrambi evitammo di nominare Embry.
Risi assieme a lui. «Cercherò di offrirgli una buona selezione».
Sfiorai l’argomento con Mike durante la lezione di inglese.
«Ehi, Mike», chiesi, dopo la lezione. «Sei libero questo venerdì?».
Mi guardò, un lampo di speranza nei suoi occhi azzurri. «Sì, certo. Usciamo?».
Pesai con cura la risposta. «Pensavo di organizzare una comitiva»- pronunciai la parola con una certa enfasi—«e di andare tutti assieme a vedere Sotto tiro». Stavolta ero stata brava: per non farmi prendere in contropiede avevo già letto anche il finale. Il film, a quanto pare, era un bagno di sangue senza fine. Non mi sentivo ancora abbastanza in forze da resistere a un film sentimentale. «Che te ne pare?».
«Buona idea», disse, con molta meno enfasi.
«Fico».
Dopo un secondo, tornò quasi al livello di entusiasmo iniziale. «Che ne dici di invitare anche Angela e Ben? Oppure Eric e Katie?».
A quanto pare voleva trasformarla in una specie di uscita a coppie.
«O tutti e quattro?», suggerii. «E poi Jessica, ovviamente. E Tyler, Conner, e magari anche Lauren», continuai, ostinata. In fondo, avevo promesso a Quil una ricca scelta.
«D’accordo», mormorò Mike, disorientato.
«E...», proseguii, «ho intenzione di invitare anche un paio di miei amici di La Push. Perciò, credo che ci occorrerà il tuo Suburban, se vengono tutti».
Mike mi fissò con sospetto.
«Sarebbero quelli del tuo gruppo di studio?».
«Già, proprio loro», risposi, allegra. «Più che altro faccio loro da maestra: frequentano il secondo anno».
«Ah», rispose Mike, sorpreso. Ci pensò per un istante e poi sorrise.
Alla fine, però, non ci fu bisogno del Suburban.
Jessica e Lauren dichiararono di essere impegnate non appena Mike fece capire loro che la proposta veniva da me. Eric e Katie erano occupati—festeggiavano le loro prime tre settimane assieme o qualcosa del genere. Lauren avvertì Tyler e Conner prima che Mike potesse invitarli, perciò anche loro rifiutarono. Anche Quil era fuori gioco: in punizione per un litigio a scuola. Alla fine, gli unici disponibili erano Angela e Ben, oltre naturalmente a Jacob.
Le defezioni, però, non indebolirono le aspettative di Mike. Non parlava d’altro.
«Sei sicura di non voler andare a vedere Domani e per sempre?», chiese a pranzo, proponendomi la commedia romantica che dominava le classifiche dei film più visti. «Ho letto ottime recensioni».
«Voglio vedere Sotto tiro», insistetti. «Sono in vena di azione. Voglio vedere il sangue e le budella!».
«Okay». Mike si voltò, ma non prima che riuscissi a notare la sua espressione alla “questa-è-pazza”.
Giunta a casa, nel mio parcheggio vidi un’auto molto familiare. Appoggiato al cofano c’era Jacob, sul volto un sorriso a trentadue denti.
«Impossibile!», gridai, saltando giù dal pick-up. «Ce l’hai fatta! Non ci posso credere! Hai finito la Golf!».
Si illuminò. «Proprio ieri sera. Questo è il viaggio inaugurale».
«Incredibile». Alzai la mano per battere il cinque.
La colpì, ma anziché schiaffeggiarla intrecciò le sue dita nelle mie. «Posso guidare io, stasera?».
«Certo che sì», risposi, con un sospiro.
«Che c’è?».
«Ci rinuncio, non posso competere. Hai vinto. Sei tu il più vecchio».
Si strinse nelle spalle, per nulla sorpreso dalla mia resa. «Ovviamente».
Il Suburban di Mike spuntò da dietro l’angolo. Sfilai la mano da quella di Jacob e lui fece un’espressione che non avrei dovuto vedere.
«Mi ricordo di quel ragazzo», disse a bassa voce mentre Mike parcheggiava sull’altra carreggiata. «È quello che ti credeva la sua fidanzata. È ancora confuso?».
Lo guardai di sottecchi. «Certa gente è difficile da scoraggiare».
«Ma è anche vero», aggiunse Jacob, pensieroso, «che ogni tanto insistere paga».
«Il più delle volte è solo un peso, però».
Mike scese dall’auto e attraversò la strada.
«Ciao, Bella», disse, poi liquidò Jacob con uno sguardo. Anch’io lo osservai con un’occhiata, cercando di essere obiettiva. Non aveva affatto l’aria di uno del secondo anno. Era davvero grosso—la testa di Mike gli arrivava a malapena alle spalle; non volevo nemmeno pensare a quanto sembrassi piccola io, accanto a lui—e il suo viso dimostrava molti anni in più, anche rispetto a un mese prima.
«Ciao, Mike! Ti ricordi di Jacob Black?».
«Non tanto». Mike offrì la mano a Jacob.
«Sono un vecchio amico di famiglia». Jacob si presentò e accettò la presa. Si salutarono stringendo con molto più vigore del necessario. Sfilata la mano, Mike si stiracchiò le dita.
Sentii suonare il telefono in cucina.
«Vado a rispondere, potrebbe essere Charlie», dissi e corsi dentro.
Era Ben. Angela si era presa l’influenza e lui non se la sentiva di venire da solo. Si scusò per il bidone. Tornai lentamente verso i ragazzi in attesa, scuotendo la testa. Speravo che Angela guarisse presto, ma egoisticamente ero anche irritata per com’erano andate le cose. Avremmo passato la serata in tre, io, Mike e Jacob... risultato perfetto, pensai, acida e sarcastica.
In mia assenza, l’amicizia tra Jake e Mike non aveva fatto alcun progresso. Mi aspettavano mantenendo le distanze e badando a non incrociare gli sguardi; l’espressione di Mike era burbera, quella di Jacob allegra come sempre.
«Angela sta male», dissi accigliata. «Lei e Ben non vengono».
«L’ennesima vittima dell’influenza. Anche Austin e Conner erano fuori combattimento, oggi. Forse dovremmo rimandare», suggerì Mike.
Prima che potessi rispondere di sì, Jacob parlò.
«A me va bene lo stesso. Se tu preferisci restare a casa, Mike...».
«No, vengo anch’io. Mi riferivo ad Angela e Ben. Andiamo». Si voltò in direzione del Suburban.
«Ehi, ti dispiace se prendiamo la macchina di Jacob?», chiesi. «Gli ho promesso un giro: ha appena finito di sistemarla. L’ha costruita da zero, con le sue mani». Mi vantavo di lui come una madre orgogliosa durante una riunione genitori-docenti.
«D’accordo», rispose secco Mike.
«Bene», rispose Jacob, come se il discorso fosse chiuso. Sembrava molto più a proprio agio di noi.
Mike salì sul sedile posteriore della Golf con una smorfia di disgusto.
Jacob era solare come sempre e chiacchierò fino a farmi dimenticare di Mike, che rimuginava in silenzio, dietro di noi.
Poi Mike cambiò strategia. Si sporse in avanti e appoggiò il mento sullo schienale del mio sedile. La sua guancia quasi toccava la mia. Mi voltai dando le spalle al finestrino.
«Non c’è l’autoradio, in questa cosa?», chiese Mike, leggermente petulante, interrompendo Jacob a metà di una frase.
«Sì», rispose, «ma a Bella non piace la musica».
Fissai Jacob, sorpresa. Non gli avevo mai detto una cosa del genere.
«Bella?», chiese Mike, infastidito.
«È vero», balbettai, senza staccare gli occhi dal profilo sereno di Jacob.
«Com’è possibile che non ti piaccia la musica?», domandò Mike.
Mi strinsi nelle spalle. «Non so. Mi irrita e basta».
«Vabbe’». Mike affondò nel sedile posteriore.
Giunti al cinema, Jacob mi allungò una banconota da dieci dollari.
«E questa?», domandai.
«Non sono abbastanza grande per entrare», disse.
Scoppiai a ridere. «E tanti saluti alle età relative. Billy mi ucciderà se ti faccio entrare di nascosto?».
«No. Gli ho già detto che sei intenzionata a corrompere la mia innocenza infantile».
Feci un risolino, mentre Mike accelerava per non perdere il nostro passo.
Quasi avrei preferito che Mike fosse tornato a casa. Era ancora imbronciato, tutt’altro che l’anima della festa. D’altronde non desideravo nemmeno uscire da sola con Jacob. Sarebbe stato un problema in più.
Il film era esattamente ciò che ci aspettavamo. Non erano ancora finiti i titoli di testa, che quattro persone erano saltate in aria, più una decapitata. La ragazza di fronte a me si coprì gli occhi con le mani e affondò il viso nel petto del suo compagno. Lui le dava buffetti sulle spalle e di tanto in tanto sobbalzava. Mike non sembrava interessato al film. Era rigido, con lo sguardo fisso verso il lembo di sipario che sovrastava lo schermo.
Per sopportare le due ore successive, mi feci coraggio guardando i colori e i movimenti sullo schermo, anziché concentrarmi sulle sagome delle persone, delle auto e delle case. A un certo punto, però, Jacob iniziò a ridacchiare.
«Che c’è?», sussurrai.
«E dai», sibilò. «Quel tizio zampillava sangue a sei metri di distanza. Più finto di così non si può».
Un’altra risatina, quando l’asta di una bandiera infilzò un uomo inchiodandolo a un muro di cemento.
Da quel momento iniziai a godermi lo spettacolo, ridendo sempre di più a mano a mano che l’apocalisse si faceva più ridicola. Com’era possibile tracciare confini più netti nel nostro rapporto, se assieme a lui mi divertivo così tanto?
Jacob e Mike si erano impossessati dei miei braccioli, uno a testa. Tenevano entrambi le mani inerti, con ilpalmo aperto all’insù, in posizione innaturale. Come tagliole, pronte a scattare. Jacob era abituato a prendermi per mano ogni volta che ne aveva la possibilità, ma lì, al buio del cinema, sotto gli occhi di Mike, il gesto avrebbe avuto ben altro significato, sicuramente lo sapeva anche lui. Non riuscivo a credere che Mike pensasse la stessa cosa, ma la sua mano era nella stessa posizione di quella di Jacob.
Incrociai strette le braccia, sperando che le loro mani si addormentassero.
Il primo a rinunciare fu Mike. Più o meno a metà film, ritrasse il palmo e si chinò in avanti reggendosi la testa tra le mani. Sulle prime, pensai che fosse una reazione alle scene del film, poi sentii un gemito.
«Mike, stai bene?», bisbigliai.
La coppia che ci stava davanti, al secondo gemito, si voltò verso di lui.
«No», disse, senza fiato. «Mi viene da vomitare».
Notai il velo di sudore sulla fronte, illuminato dallo schermo.
Fece un altro gemito e sfrecciò verso l’uscita. Mi alzai per seguirlo e Jacob fu subito alle mie spalle.
«No, resta lì», sussurrai. «Controllo io che stia bene».
Jacob mi seguì comunque.
«Non sei obbligato. Goditi i tuoi otto dollari di massacro», ribadii, mentre uscivamo dal corridoio.
«Stai tranquilla. Tu sì che sai scegliere. Questo film fa davvero schifo». Uscendo dal cinema, la sua voce passò da un sussurro al solito tono.
Nel foyer non c’era traccia di Mike e a quel punto fui lieta che Jacob mi fosse accanto: s’infilò nel bagno degli uomini a cercarlo.
Tornò dopo pochi secondi.
«Oh, è là dentro, tutto bene», disse alzando gli occhi al cielo. «Che pappamolle. Dovresti uscire con gente con lo stomaco più forte. Qualcuno che rida della violenza, anziché vomitare».
«Mi guarderò attorno».
Eravamo soli nel foyer. Entrambe le sale erano a metà proiezione e l’entrata era deserta e tanto silenziosa da riuscire a sentire i popcorn che scoppiettavano dietro il bancone.
Jacob si sedette sulla panchetta rivestita di vellutino che stava contro il muro e tamburellò sul posto vuoto accanto a sé.
«Mi è sembrato che ne avesse per un po’», disse stiracchiando le lunghe gambe, ben disposto ad aspettare.
Mi unii a lui sospirando. Sembrava deciso a cancellare altre linee di confine. Non appena fui seduta, mi si fece accanto e mi cinse le spalle.
«Jake», protestai sciogliendomi dalla presa. Lui lasciò cadere il braccio, senza fare una piega di fronte al mio rifiuto. Con una mano strinse forte la mia e quando tentai di ritrarla raddoppiò la presa e mi bloccò il polso. Da dove veniva quella confidenza?
«Aspetta un minuto, Bella, per favore», disse in tono pacato. «Dimmi una cosa».
Risposi con una smorfia. Non ne volevo sapere. Né in quel momento, né mai. In quel periodo della mia vita non c’era niente di più importante di Jacob Black. Ma lui sembrava deciso a rovinare tutto.
«Cosa?», mormorai acida.
«Ti piaccio, vero?».
«Sì, lo sai anche tu».
«Più di quel pagliaccio che sta vomitando l’anima là dietro?». Indicò la porta del bagno.
«Sì», sospirai.
«Più di tutti i ragazzi che conosci?». Era calmo, sereno... come se la mia risposta non contasse, o la conoscesse già.
«Anche più di tutte le ragazze», precisai.
«Ma non c’è altro», disse, e non era una domanda.
Era difficile rispondere, pronunciare la parola giusta. Rischiavo di ferirlo, di allontanarlo? Avrei sopportato anche questo?
«Sì», sussurrai.
Mi sorrise. «Va bene così, sai. Mi basta sapere che ti piaccio più di tutti. E che pensi che io sia, come dire, bello. Sono pronto a perseguitarti per sempre».
«Non cambierò idea», risposi e, malgrado cercassi di mantenere un tono di voce normale, la tristezza si sentiva.
Lui si fece pensieroso, aveva smesso di provocare. «C’è ancora quell’altro, vero?».
Rabbrividii. Curioso: sapeva che era meglio non pronunciare quel nome, come poco prima con l’autoradio. Aveva colto tantissime cose di me, senza che fossi io a rivelarle.
«Non sei obbligata a parlarne», disse.
Annuii, rincuorata.
«Ma non prendertela con me se ti ronzo attorno, okay?». Picchiettò sul dorso della mia mano. «Perché non intendo rinunciare. Ho un sacco di tempo».
Sospirai. «Non dovresti sprecarlo con me», dissi, ma pensavo l’esatto contrario. Soprattutto se era disposto ad accettarmi com’ero: merce difettosa, prendere o lasciare.
«È ciò che voglio, ammesso che a te faccia piacere starmi accanto».
«Non riesco a immaginare come potrebbe non farmi piacere stare accanto a te», risposi, ed ero sincera.
Lui si illuminò. «È già abbastanza».
«Ma non aspettarti altro», lo avvertii, cercando di ritrarre la mano che si ostinava a stringere.
«Non ti dà fastidio, vero?», chiese, strizzandomi le dita.
«No», sospirai. A dirla tutta, era una sensazione piacevole. La sua mano era molto più calda della mia e in quel periodo avevo sempre troppo freddo.
«E non ti interessa cosa pensa lui». Con il pollice, indicò il bagno.
«Direi di no».
«E allora dove sta il problema?».
«Il problema», dissi, «è che io e te diamo allo stesso gesto due significati diversi».
«Be’», rispose stringendo ancora più forte. «È un problema mio, no?».
«Va bene», borbottai. «Ma non dimenticarlo».
«No. Adesso la bomba innescata è in mano mia, eh?». Mi pizzicò un fianco.
Alzai gli occhi al cielo. A quel punto gli potevo anche concedere di fare battute.
Sghignazzò a bassa voce, mentre con le dita rosa tracciava disegni distratti sul bordo della mia mano.
«Che strana cicatrice hai qui», disse all’improvviso, girandomi il polso per guardare. «Come te la sei fatta?».
Con l’indice seguì il contorno della lunga mezzaluna argentata visibile a malapena sulla mia pelle candida.
Cercai di liquidarlo in fretta. «Credi davvero che mi ricordi come mi sono fatta tutte le cicatrici che porto?».
Aspettai che il ricordo mi colpisse, che spalancasse la voragine. Ma, come spesso accadeva, la presenza di Jacob mi manteneva integra.
«È fredda», bisbigliò premendo con delicatezza nel punto in cui ero stata perforata dai denti di James.
In quel momento Mike barcollò fuori dal bagno, pallido e coperto di sudore. Aveva una gran brutta cera.
«Oh, Mike», esclamai.
«È un problema se torniamo in anticipo?», bisbigliò.
«No, certo che no». Liberai la mano dalla stretta e lo aiutai a camminare. Sembrava poco stabile.
«Il film era troppo per te?», chiese Jacob, spietato.
Mike lo incenerì con un’occhiata. «Non ne ho visto neanche un secondo», bofonchiò. «Mi è venuto da vomitare ancora prima che si spegnessero le luci».
«Perché non hai detto niente?», chiesi mentre zoppicavamo verso l’uscita.
«Speravo che passasse».
«Aspetta un secondo», disse Jacob, sulla porta. Tornò svelto al chiosco interno.
«Potrei avere un secchiello di popcorn vuoto?», chiese alla commessa. Lei guardò Mike e porse immediatamente il contenitore a Jacob.
«Fatelo uscire, per favore», implorò. Evidentemente, pulire il pavimento sarebbe toccato a lei.
Trascinai Mike all’aria aperta, fresca e umida. Fece un respiro profondo. Jacob ci seguiva da vicino. Mi aiutò a caricare Mike sul sedile posteriore e gli porse il secchiello con uno sguardo serio.
«Per favore», furono le sue uniche parole.
Abbassammo i finestrini, nella speranza di alleviare la sofferenza di Mike con una ventata d’aria gelida. Strinsi le ginocchia tra le braccia per tenermi al caldo.
«Hai ancora freddo?», chiese Jacob, cingendomi con il braccio ancora prima che riuscissi a rispondere.
«Tu no?».
Scosse la testa.
«Secondo me hai la febbre o qualcosa del genere», mormorai. Si gelava. Gli sfiorai la fronte, era davvero calda.
«Ehi, Jake, stai bruciando!».
«Sto bene». Si strinse nelle spalle. «Sano come un pesce».
Incredula, lo toccai di nuovo. La sua pelle ardeva a contatto con le mie dita.
«Hai le mani ghiacciate», disse.
«Forse sono io che non sto bene».
Mike mugolava sul sedile posteriore e vomitò nel secchiello. Io feci una smorfia, sperando che il mio stomaco sopportasse il rumore e la puzza. Jacob lanciava occhiate ansiose alle proprie spalle per assicurarsi che l’auto non subisse danni.
La strada del ritorno sembrò più lunga.
Jacob era muto, pensieroso. Sentivo il suo braccio sinistro addosso, era talmente caldo che neanche il vento gelido m’infastidiva.
Guardavo fuori dal parabrezza, consumata dal senso di colpa.
Non mi sembrava giusto incoraggiare così Jacob. Era puro egoismo. Poco importava che avessi cercato di chiarire la mia posizione. Se sperava che il nostro rapporto potesse trasformarsi in qualcosa di diverso dall’amicizia, allora non mi ero spiegata abbastanza bene.
Ma come potevo farglielo capire? Ero una conchiglia vuota. Come una casa sfitta dopo uno sfratto, per mesi ero stata del tutto inabitabile. Ora stavo un po’ meglio. Il soggiorno era in corso di ristrutturazione. Ma era tutto lì: il resto non era cambiato. Lui meritava molto di più: più di un monolocale, di una residenza temporanea in rovina. E qualsiasi cosa vi avesse investito, non sarebbe mai riuscito a rendermi di nuovo abitabile.
Eppure, sapevo che nonostante tutto non mi sarei mai permessa di allontanarlo. Avevo troppo bisogno di lui ed ero egoista. Forse avrei dovuto descrivergli più chiaramente la mia situazione, così avrebbe capito di dovermi lasciar perdere. A quel pensiero sentii un brivido e Jacob strinse l’abbraccio.
Accompagnai a casa Mike guidando il suo Suburban e Jacob ci seguì per dare poi un passaggio a me. Lungo il tragitto rimase in silenzio, preda di pensieri che forse somigliavano ai miei. Che stesse cambiando idea?
«Visto che siamo in anticipo, potrei autoinvitarmi da te», disse mentre parcheggiava accanto al pick-up. «Ma penso che avessi ragione, a proposito della febbre. Mi sento un po’... strano».
«Oh, no, anche tu no! Vuoi che ti accompagni a casa?».
«No». Scosse la testa, aggrottando le sopracciglia. «Non rischio di vomitare. Però... non sto bene. Meglio non insistere».
«Mi chiami, appena arrivi?», chiesi, ansiosa.
«Certo, certo». Lanciò un’occhiata nell’oscurità davanti a sé, senza aggiungere altro.
Aprii la portiera per scendere, ma lui mi trattenne afferrandomi delicatamente per un polso. Sentii di nuovo la sua pelle scottare a contatto con la mia.
«Cosa c’è, Jake?», domandai.
«Ho una cosa dà dirti, Bella... Ma temo che ti sembrerà un po’ sdolcinata».
Feci un sospiro. Era la continuazione del discorso del cinema. «Dimmi».
«È soltanto che... so che sei parecchio infelice. Magari non servirà a niente, ma volevo dirti che io ci sarò sempre. Non ti deluderò: ti prometto che potrai sempre contare su di me. Caspita, questo sì che è sdolcinato. Ma tu lo sai, vero? Che mai e poi mai ti farei del male?».
«Sì, Jake, lo so. E conto già su di te, forse più di quanto tu sappia».
Il sorriso che apparve sul suo volto era come un sole che incendia le nuvole, e a quel punto avrei voluto tagliarmi la lingua. Non avevo detto nemmeno l’ombra di una bugia, invece avrei dovuto mentire. La verità era brutta, lo avrebbe ferito. Io sì, che lo avrei deluso.
Dai suoi occhi emerse uno sguardo strano. «Penso proprio di dover andare a casa», disse.
Scesi alla svelta.
«Chiamami!», gridai mentre ripartiva.
Lo guardai mentre se ne andava, se non altro sembrava in grado di guidare. Restai a fissare la strada vuota, con un vago senso di nausea, ma non per ragioni fisiche.
Quanto avrei desiderato che Jacob Black fosse stato mio fratello, fratello di sangue, per poter reclamare un legame con lui che non mi facesse sentire in colpa. Mai e poi mai mi sarebbe passato per la testa di approfittare di Jacob, ma non riuscivo a interpretare altrimenti il mio comportamento.
Per di più, non mi era mai passato per la testa di innamorarmene. Una cosa mi era chiara e la sentivo in fondo allo stomaco, al centro delle ossa, dalla punta dei capelli alla pianta dei piedi, e nel mio petto vuoto: chi ama ha il potere di distruggere.
E io ero stata distrutta, sbriciolata.
Eppure, avevo bisogno di Jacob come di una droga. Da troppo tempo era la mia stampella e ormai ero coinvolta più di quanto mi sarei mai aspettata. Non sopportavo l’idea di ferirlo, ma non potevo fare a meno di fargli del male. Era convinto che il tempo e la pazienza mi avrebbero cambiata; ero certa che si sbagliasse di grosso, ma sapevo anche che gli avrei concesso una possibilità.
Era il mio migliore amico. Gli avrei voluto bene per sempre, ma non sarebbe mai, mai stato abbastanza.
Entrai in casa, pronta a sedermi accanto al telefono e a mangiarmi le unghie.
«Già finito il film?», chiese Charlie, sorpreso, quando mi vide spuntare. Era seduto per terra, a trenta centimetri dal televisore. La partita doveva essere entusiasmante.
«Mike è stato male», spiegai. «Una specie di influenza che prende lo stomaco».
«E tu?».
«Per ora sto bene», abbozzai. Ovviamente, rischiavo il contagio.
Mi appoggiai al banco della cucina, le mani a pochi centimetri dal telefono, e cercai di aspettare paziente. Ripensai allo sguardo strano di Jacob, prima che se ne andasse, e iniziai a tamburellare. Avrei dovuto insistere per riaccompagnarlo di persona.
Guardavo l’orologio mentre i minuti correvano. Dieci. Quindici. Anche quando guidavo io, per raggiungere La Push impiegavo quindici minuti, ma Jacob era più veloce di me. Diciotto minuti. Afferrai la cornetta e composi il numero.
Lo lasciai squillare parecchio. Forse Billy dormiva. Forse avevo sbagliato numero. Ci riprovai.
All’ottavo squillo, quando stavo per riattaccare, Billy rispose.
«Pronto?». Sembrava diffidente, come temesse una cattiva notizia.
«Ciao, sono io, Bella. Jake è già tornato a casa? È partito una ventina di minuti fa».
«È qui», rispose imperturbabile.
«Gli avevo detto di chiamarmi». Ero un po’ irritata. «Quando se n’è andato non si sentiva bene, ero in pensiero».
«Stava... troppo male per telefonare. Non si è ancora ripreso». Billy sembrava assente. Probabilmente voleva restare accanto a Jacob.
«Se vi serve aiuto, fatemi sapere. Chiamatemi e arrivo». Immaginai Billy sulla sedia a rotelle e Jacob costretto a curarsi da solo.
«No, no», rispose subito Billy. «Tutto a posto. Resta a casa tua».
Il suo tono rasentava la maleducazione.
«Va bene».
«Ciao, Bella».
Riattaccò.
«Ciao», mormorai.
Be’, se non altro era riuscito ad arrivare a casa. Eppure, la mia preoccupazione non diminuì. Salii le scale, nervosa. Magari sarei andata a trovarlo il giorno dopo, prima del lavoro. Portando con me un po’ di zuppa. Da qualche parte ero sicura di averne ancora un barattolo.
Mi resi conto che il piano era irrealizzabile quando mi svegliai nel cuore della notte—l’orologio segnava le quattro e mezza—per correre in bagno. Mezz’ora dopo, Charlie mi ci trovò sdraiata per terra, con la guancia schiacciata contro il bordo freddo della vasca da bagno.
Restò a guardarmi per qualche istante.
Poi disse: «Influenza allo stomaco».
«Sì», mugugnai.
«Hai bisogno di qualcosa?», chiese.
«Per favore, chiama i Newton», dissi con voce roca. «Digli che mi sono beccata lo stesso virus di Mike, perciò oggi non ce la faccio. E che mi dispiace».
«Certo, stai tranquilla».
Passai il resto della giornata sul pavimento del bagno e dormii per qualche ora con un asciugamano raggomitolato per cuscino. Charlie disse che doveva andare a lavorare, ma probabilmente era una scusa, perché gli serviva il bagno. Per mantenermi idratata, mi lasciò un bicchiere d’acqua sul pavimento.
Al suo rientro mi svegliò. Nella stanza c’era buio, era scesa la notte. Salì le scale per venire a controllare.
«Sei ancora viva?».
«Più o meno».
«Non hai bisogno di niente?».
«No, grazie».
Non sapeva cosa dire, era chiaro che si sentiva come un pesce fuor d’acqua. «Bene, allora», esclamò e tornò in cucina.
Qualche minuto dopo sentii squillare il telefono. Charlie parlò con qualcuno a voce bassa, poi riattaccò.
«Mike sta meglio», disse, dal piano di sotto.
Notizia incoraggiante. Si era ammalato otto ore prima di me. Mancavano otto ore. Al pensiero dell’attesa, il mio stomaco si rivoltò di nuovo e io mi trascinai per l’ennesima volta verso il water.
Mi riaddormentai sull’asciugamano, ma riaprii gli occhi nel mio letto e fuori dalla finestra era chiaro. Non ricordavo di essermi mossa; probabilmente Charlie mi aveva riportata in camera insieme al bicchiere d’acqua, ora sul comodino. Mi sentivo ardere. La tracannai in un sorso, anche se dopo una notte intera aveva un sapore strano.
Mi alzai piano, cercando di non innescare un’altra volta il vomito. Ero debole e sentivo un saporaccio in bocca, ma lo stomaco andava molto meglio. Guardai l’ora.
Le ventiquattr’ore di sofferenza erano terminate.
Ci andai con i piedi di piombo e a colazione mangiai soltanto dei cracker. Charlie sembrava lieto di vedermi in ripresa.
Quando fui sicura che non avrei passato il pomeriggio sul pavimento del bagno, telefonai a Jacob.
Rispose lui, ma il suo saluto mi fece capire che non gli era ancora passata.
«Pronto?». La sua voce era rotta, tremante.
«Oh, Jake, mi dispiace. Stai ancora malissimo, eh?».
«Da schifo», bisbigliò.
«Scusa se ti ho costretto a uscire con me. Che situazione!».
«Io sono contento». La sua voce era un sussurro. «Non prendertela. Non è colpa tua».
«Ti riprenderai presto, vedrai. Stamattina, quando mi sono svegliata, io stavo già meglio».
«Eri ammalata?», chiese, senza energia.
«Sì, l’ho presa anch’io. Ma adesso sto meglio».
«Bene». Sembrava moribondo.
«Perciò, è probabile che anche tu migliori nel giro di qualche ora».
Riuscii a malapena a sentire la sua risposta. «Non credo di avere la stessa cosa che hai preso tu».
«Niente influenza?», chiesi, confusa.
«No. È qualcos’altro».
«Cosa ti senti?».
«Tutto», mormorò. «Dolori in tutto il corpo».
La sofferenza nella sua voce era evidente.
«Come posso aiutarti, Jake? Vuoi che ti porti qualcosa?».
«Niente. Non puoi venire qui», rispose secco. Come Billy, la sera prima.
«Ma ormai ho gli anticorpi», insistetti.
M’ignorò. «Ti richiamo appena posso. Ti farò sapere quando puoi tornare».
«Jacob...».
«Devo andare», disse con improvvisa urgenza.
«Chiamami quando ti senti meglio».
«Va bene», disse e la sua voce aveva un che di strano e amareggiato.
Per un momento rimase zitto. Aspettavo che mi salutasse, ma anche lui restò in attesa.
«Ci vediamo presto», dissi infine.
«Aspetta che sia io a chiamarti», ribadì.
«Va bene... ciao, Jacob».
«Bella». Sussurrò il mio nome e riappese.