4 Risveglio

Il tempo passa. Anche quando sembra impossibile. Anche quando il rintocco di ogni secondo fa male come il sangue che pulsa nelle ferite. Passa in maniera disuguale, tra strani scarti e bonacce prolungate, ma passa. Persino per me.


Charlie sbatté il pugno sul tavolo. «Basta, Bella! Ti rispedisco a casa».

Alzai gli occhi dai cereali che rimescolavo meditabonda invece di mangiarli, e lo guardai sbalordita. Non avevo seguito la conversazione—in realtà, non mi ero neanche accorta che stessimo parlando—e non capivo a cosa si riferisse.

«Sono già a casa», mormorai confusa.

«Ti mando da Renée, a Jacksonville», precisò.

Mi guardò esasperato, mentre rimuginavo sul senso della sua frase.

«Cosa ho fatto?». Mi sentii crollare. Non era giusto. Da quattro mesi il mio comportamento era irreprensibile. Dopo la prima settimana, di cui nessuno di noi parlava più, non avevo perso un giorno di scuola né di lavoro. I miei voti erano perfetti. Non infrangevo mai il coprifuoco... be’, non facevo mai nulla che mi costringesse a infrangerlo. Soltanto in rare occasioni servivo avanzi anziché cucinare.

Charlie aggrottò le sopracciglia.

«Non hai fatto niente. Questo è il problema. Non fai niente, mai».

«Preferisci che mi cacci nei guai?», chiesi, stralunata e confusa. Mi sforzai di prestare attenzione. Non era facile. Ero talmente abituata a distrarmi, che mi sentii le orecchie otturate.

«Un guaio sarebbe meglio di questa situazione... tieni sempre il muso!».

Mi sentii punzecchiata. Avevo badato a evitare qualsiasi tipo di fastidio, incluso il broncio.

«Non tengo nessun muso».

«Ho sbagliato parola», si sforzò di ammettere. «Tenere il muso significherebbe comunque che fai qualcosa. Sei... come spenta. Ecco cosa volevo dire».

L’accusa mi centrò in pieno. Sospirai e cercai di rispondere con maggiore energia.

«Mi dispiace, papà». Le scuse suonavano poco convincenti persino a me. Avevo pensato di poterlo raggirare. L’obiettivo dei miei sforzi era evitare che Charlie soffrisse. Che delusione pensare che non fosse servito a niente.

«Non voglio che ti scusi».

«Allora dimmi cosa vuoi che faccia».

«Bella...», disse, e restò in attesa di una mia reazione. «Tesoro, non sei la prima a vivere una situazione del genere, lo sai anche tu».

«Certo». L’espressione con cui accompagnai le parole era debole e poco efficace.

«Senti, piccola. Penso che... forse hai bisogno d’aiuto».

«In che senso?».

Fece una pausa e riformulò la frase. «Quando tua madre se ne andò», disse, cupo, «e ti prese con sé...», fece un respiro profondo. «Be’, quello fu un brutto periodo, per me».

«Lo so, papà», mormorai.

«Ma riuscii a cavarmela», precisò. «Tesoro, tu non te la stai cavando. Ho aspettato, ho sperato che migliorasse». Mi guardò e abbassai gli occhi all’istante. «Penso che sappiamo entrambi che non è migliorato per nulla».

«Sto bene».

Ignorò la risposta. «Forse, be’... forse dovresti parlarne con qualcuno. Un professionista».

«Vuoi che vada da uno strizzacervelli?». Il mio tono di voce si fece più pungente quando capii dove voleva arrivare.

«Forse ti aiuterebbe».

«O forse no, anzi, per niente».

Non sapevo granché di psicanalisi, ma ero abbastanza sicura che non funzionava se il paziente non decideva di essere completamente sincero. Certo, avrei anche potuto dire la verità... se avessi voluto passare il resto dei miei giorni in una stanza con le pareti imbottite.

Scrutò la mia espressione ostinata e cambiò strategia.

«Io non ce la faccio, Bella. Forse tua madre...».

«Ascolta», dissi impassibile. «Se vuoi, esco anche stasera. Chiamo Jess o Angela».

«Non è ciò che voglio», ribatté, frustrato. «Non credo di poter resistere, se continui a sforzarti in quel modo. Non ho mai visto nessuno sforzarsi quanto te. E ci sto male».

Cercai di passare per stupida, fissando il tavolo. «Non capisco, papà. Prima perdi la pazienza perché non faccio niente, poi dici che non vuoi che esca».

«Voglio che tu sia felice... anzi, no, nemmeno. Voglio soltanto che tu non sia triste. Credo che te la passeresti meglio se te ne andassi da Forks».

I miei occhi si accesero della prima fiammella di vitalità da chissà quanto tempo.

«Non me ne vado», dissi.

«Perché no?».

«È l’ultimo semestre di scuola, manderei tutto a monte».

«Sei una brava studentessa, te la caverai».

«Non voglio dare fastidio a mamma e a Phil».

«Tua madre muore dalla voglia di riaverti».

«In Florida fa troppo caldo».

Sbatté di nuovo il pugno sul tavolo. «Sappiamo entrambi, e molto bene, cosa sta succedendo, Bella, e non è affatto positivo per te». Riprese fiato. «Sono passati mesi. Niente telefonate, niente lettere, nessun contatto. Non puoi continuare ad aspettarlo».

Lo guardai in cagnesco. Il mio volto si riscaldò. Non ricordavo più l’ultima volta in cui ero arrossita. Certi argomenti erano tabù e lui lo sapeva bene.

«Non sto aspettando niente. Non mi aspetto niente», dissi con voce bassa e monotona.

«Bella...», balbettò Charlie, la voce velata dall’emozione.

«Devo andare a scuola», lo interruppi, alzandomi e sparecchiando il tavolo dalla colazione che non avevo nemmeno toccato. Buttai la tazza nel lavandino senza nemmeno risciacquarla. Non avrei sopportato una parola di più.

«Mi organizzo con Jessica», dissi, mentre infilavo lo zaino, attenta a non guardarlo in faccia. «Può darsi che non torni a cena. Andiamo a Port Angeles a vedere un film».

Uscii prima che potesse rispondere.

Nella fretta di fuggire da Charlie, fui tra i primi ad arrivare a scuola. L’unico vantaggio fu che trovai un parcheggio molto comodo. Lo svantaggio, invece, era che avevo tempo da perdere, mentre cercavo di evitare con tutte le mie forze i tempi morti.

Prima che potessi ripensare alle parole di Charlie, tirai fuori dallo zaino il libro di matematica. Lo aprii alla pagina della lezione del giorno e cercai di capirci qualcosa. Leggere matematica era anche peggio che sentirla spiegare, però stavo migliorando. Nei sette mesi precedenti, avevo passato su quel libro dieci volte il tempo che gli dedicavo di solito. Di conseguenza, i miei voti tendevano tutti al massimo. Ero sicura che il professor Varner fosse convinto che quei miglioramenti erano dovuti alla sua abilità di insegnante. Se era contento così, non gli avrei rovinato la festa.

Mi sforzai di concentrarmi sul libro finché il parcheggio non si riempì e alla fine fui costretta a correre per arrivare in tempo all’aula di inglese. Stavamo studiando La fattoria degli animali, argomento semplice. Mi andava bene anche il comunismo: era un diversivo ben accetto, dopo i romanzi interminabili di cui era infarcito il programma. Mi sedetti al mio posto, lieta di essere distratta dalla lezione del professor Berty.

A scuola il tempo passava in fretta. La campanella suonò troppo presto. Iniziai a rimettere le mie cose nello zaino.

«Bella?».

Riconobbi la voce di Mike, sapevo cosa mi avrebbe chiesto ancora prima che aprisse bocca.

«Domani lavori?».

Alzai lo sguardo. Era appoggiato al banco, con l’espressione ansiosa. Tutti i venerdì mi faceva la stessa domanda. Poco importava che fino a quel momento non avessi mai preso un giorno di malattia. Be’, tranne una volta, molti mesi prima. Ma non c’era motivo perché mi fissasse con tanta preoccupazione. Ero una dipendente modello. «Domani è sabato, no?», dissi. Dopo che Charlie me l’aveva fatto notare, mi resi conto di quanto spenta sembrasse la mia voce.

«Certo che sì», mi rispose. «Ci vediamo a spagnolo». Salutò con la mano e girò i tacchi. Ormai non si preoccupava nemmeno più di accompagnarmi a lezione.

Mi trascinai fino all’aula di matematica con un’espressione arcigna. La mia compagna di banco era Jessica.

Erano passate settimane, forse mesi, dall’ultima volta in cui si era degnata di salutarmi. Sapevo di averla offesa con il mio comportamento antisociale, perciò mi teneva il broncio. Non sarebbe stato facile ricominciare a parlarle e men che meno chiederle un favore. Valutai le possibilità con cura, mentre indugiavo fuori dalla classe, per prendere tempo.

Non avevo intenzione di tornare a casa senza qualche novità riguardo la mia vita sociale. Sapevo di non poter mentire, benché il pensiero di andare e tornare da Port Angeles da sola—assicurandomi che il contachilometri non perdesse colpi, in caso Charlie avesse controllato—fosse allettante. La madre di Jessica, la signora Stanley, era la peggior pettegola della città e Charlie si sarebbe imbattuto in lei prima o poi, anzi, più prima che poi. E le avrebbe senz’altro chiesto della gita. Mentire era fuori discussione.

Un sospiro e spalancai la porta.

Il professor Varner mi gelò con lo sguardo—aveva già iniziato la lezione. Raggiunsi in fretta il mio posto. Jessica non mi prestò attenzione mentre mi sedevo accanto a lei. Fortunatamente avevo cinquanta minuti per prepararmi.

La lezione trascorse ancora più in fretta di quella di inglese. Succedeva sempre così. Mi pareva che il tempo volasse ogni volta che ad attendermi c’era qualcosa di poco piacevole.

Accolsi con una smorfia l’anticipo di cinque minuti sulla fine della lezione. Il professor Varner sorrise come se ci avesse fatto un favore.

«Jess?». Morivo di vergogna mentre aspettavo che si voltasse.

Lei si girò verso di me e mi riservò un’occhiata incredula. «Stai parlando con me, Bella?».

«Certo», dissi fingendo un’aria innocente.

«Che c’è? Hai bisogno di aiuto in matematica?». Il suo tono di voce era a dir poco acido.

«No». Scossi la testa. «A dir la verità, volevo chiederti se ti andrebbe di... venire al cinema con me, stasera... ho davvero bisogno di una serata tra amiche». Pronunciai la frase come se l’avessi imparata a memoria e la stessi recitando controvoglia, scatenando ancor di più la sua diffidenza.

«E perché lo chiedi a me?», domandò senza un filo di gentilezza.

«Sei la prima a cui penso, quando ho bisogno di un’amica». Sorrisi, sperando di sembrare sincera. Probabilmente era vero. Se non altro, era la prima persona a cui pensavo quando desideravo evitare Charlie. Il senso era quello.

Jess parve addolcirsi un po’. «Be’, non so...».

«Hai da fare?».

«No... penso di poter venire con te. Cosa vorresti vedere?».

«Non ricordo bene cosa diano», azzardai. Ecco la parte più spinosa. Cercai uno straccio di idea nel mio cervello: negli ultimi tempi avevo forse sentito parlare di qualche film in particolare? Avevo visto dei manifesti? «Che ne dici di quello con la presidentessa degli Stati Uniti?».

Mi lanciò uno sguardo strano. «Bella, quello è fuori programmazione da una vita».

«Ah». Aggrottai le sopracciglia. «C’è qualcosa che ti piacerebbe vedere?».

Per quanto cercasse di stare ancora sulle sue, la spontanea vitalità di Jessica venne fuori mentre pensava ad alta voce. «Be’, c’è quella nuova commedia romantica di cui ho letto ottime recensioni. Vorrei vederla. E mio padre ha appena visto Binario morto, gli è piaciuto molto».

Il titolo prometteva bene. «Di cosa parla?».

«Zombie, o qualcosa del genere. Dice che da anni non vedeva niente di così spaventoso».

«Mi sembra perfetto». Piuttosto che vedere un film d’amore, sarei uscita assieme a veri zombie.

«Okay». Sembrava sorpresa. Cercai di ricordare se i film dell’orrore mi piacessero o no, ma non ero sicura. «Vengo a prenderti dopo scuola?», propose.

«Perfetto».

Prima di uscire dalla classe, Jessica mi sorrise, cercando di mostrarsi amichevole. Ricambiai un po’ in ritardo ma con un saluto altrettanto cortese.

Il resto della giornata passò alla svelta e io non pensavo ad altro che alla serata. Sapevo per esperienza che, una volta scatenate le chiacchiere di Jessica, mi sarebbe bastato annuire nel modo giusto al momento giusto. Uscire con lei richiedeva un’interazione minima.

A quel punto, la nebbia fitta che confondeva i miei giorni mi disorientò. Sconcertata, mi ritrovai in camera senza ricordare nulla del tragitto da scuola a casa, né il momento in cui avevo aperto la porta d’ingresso. Ma poco importava. Alla vita non chiedevo altro che di farmi perdere il senso del tempo.

Mi avvicinai all’armadio e lasciai che la nebbia mi avvolgesse. In certi luoghi l’offuscamento era indispensabile. Mi accorsi a malapena di ciò che vedevo, quando aprii l’anta che nascondeva il mucchio di spazzatura sepolto a sinistra, sotto i vestiti che non indossavo mai. Gli occhi non si soffermarono sul sacco nero dell’immondizia che custodiva i regali del mio ultimo compleanno, né videro la sagoma dell’autoradio avvolta nella plastica nera; non pensai alle mie unghie torturate e insanguinate, dopo che l’avevo strappata dal cruscotto...

Afferrai la vecchia borsa, che usavo raramente, dal chiodo a cui era appesa, e richiusi a chiave.

In quel momento sentii suonare un clacson. Presi subito il portafoglio dallo zaino di scuola e lo infilai nella borsa. Ero di fretta, come se affannarmi in quel modo potesse far passare la serata più velocemente.

Mi guardai allo specchio del corridoio prima di aprire la porta, mi preparai un bel sorriso e mi sforzai di mantenerlo.

«Grazie per essere venuta con me, stasera», dissi a Jess mentre salivo dalla parte del passeggero, cercando di farle sentire la mia riconoscenza. Era passato un po’ di tempo dall’ultima volta in cui avevo badato a ciò che dicevo a qualcuno, escluso Charlie. Con Jess era più difficile. Non ero sicura di quali emozioni fingere.

«Figurati. Cos’è stato a scatenarti?», chiese Jess mentre ci allontanavamo da casa mia.

«Scatenare cosa?».

«Perché di punto in bianco hai deciso di... uscire?». Sembrava avesse corretto la domanda in corsa.

Feci spallucce. «Avevo bisogno di aria nuova».

In quel momento riconobbi la canzone alla radio e volli subito cambiare stazione. «Posso?», chiesi.

«Certo, fai pure».

Armeggiai con i pulsanti fino a trovare una trasmissione che fosse innocua. Sbirciai l’espressione di Jess, mentre la nuova musica riempiva l’abitacolo.

Strabuzzò gli occhi. «Da quando ascolti rap?».

«Non so», risposi. «Da un po’».

«Ti piace?», chiese lei, dubbiosa.

«Certo».

Se avessi spento direttamente l’autoradio sarebbe stato molto più difficile interagire con Jessica. Iniziai a ciondolare la testa, sperando che andasse a ritmo.

«Okay...». Spalancò gli occhi sulla strada davanti a sé.

«Come va con Mike?», chiesi svelta.

«Lo vedi più spesso di me».

La domanda non aveva scatenato la sua parlantina come avevo sperato.

«Al lavoro è difficile parlare», farfugliai, poi decisi di riprovarci. «Esci con qualcuno, ultimamente?».

«Non proprio. Di tanto in tanto esco con Conner. Due settimane fa sono uscita con Eric». Alzò gli occhi al cielo, sentivo che era pronta per raccontare. Colsi l’opportunità al volo.

«Eric Yorkie? Chi ha invitato chi?».

Fece una smorfia e parve animarsi. «Ovviamente lui! Non ho trovato un modo gentile di rifiutare».

«Dove ti ha portata?», chiesi, sicura che avrebbe scambiato le mie domande forzate per interesse sincero. «Raccontami tutto».

Attaccò con la sua storia e io mi sistemai comoda e tranquilla sul sedile. Non mi perdevo una parola, tra mormorii di comprensione ed esclamazioni di disgusto, a seconda dei casi. Dopo il racconto della serata con Eric, si lanciò nei paragoni tra lui e Conner senza che nemmeno ci fosse il bisogno di stuzzicarla.

Il film iniziava presto, Jess propose di andare subito a vederlo e dopo mangiare. Ero ben felice di accettare qualsiasi iniziativa; dopotutto, avevo raggiunto il mio obiettivo: scrollarmi Charlie di dosso.

Riuscii a farla parlare anche durante le anteprime, in modo da non badare nemmeno a quelle. Ma, come il film iniziò, m’innervosii. Un ragazzo e una ragazza camminavano su una spiaggia, mano nella mano, e parlavano del proprio reciproco amore in un tono sdolcinato e falso. Resistetti all’impulso di tapparmi le orecchie e iniziai a canticchiare a bocca chiusa. Non avevo pagato per vedere un film romantico.

«Pensavo che avessimo scelto quello con gli zombie», sibilai a Jessica.

«È questo».

«E allora perché non hanno ancora mangiato nessuno?», chiesi disperata.

Mi trafisse con un’occhiata allarmata. «Vedrai che prima o poi succede», sussurrò.

«Prendo dei popcorn. Ne vuoi?».

«No, grazie».

Qualcuno dietro di noi ci intimò il silenzio.

Persi tempo di fronte alla biglietteria, chiedendomi quanti minuti, sui novanta del film, potesse durare la scena romantica. Conclusi che dieci erano più che sufficienti, ma nel rientrare in sala mi fermai a controllare. Gli altoparlanti irradiavano urla di terrore, quindi probabilmente avevo aspettato abbastanza.

«Ti sei persa il meglio», mormorò Jess quando tornai al mio posto. «Ormai sono quasi tutti zombie».

«C’era la fila». Le offrii i popcorn. Ne prese una manciata.

Il resto del film era una sequenza di truculenti attacchi di zombie e urla interminabili dei pochi superstiti, il cui numero calava alla svelta. In teoria non avrei dovuto trovarci niente di fastidioso. Ma non mi sentivo a mio agio e sulle prime non capii il perché. Soltanto verso la fine, osservando uno zombie macilento che si affannava dietro gli strilli dell’ultima sopravvissuta, mi resi conto di quale fosse il problema. Il montaggio alternava primi piani del viso terrorizzato dell’eroina e del volto privo di emozioni del suo inseguitore, con cambi di inquadratura sempre più veloci a mano a mano che la distanza tra lo zombie e la ragazza diminuiva.

In quel momento capii chi dei due mi somigliasse di più.

Mi alzai.

«Dove vai? Mancheranno al massimo due minuti», sibilò Jess.

«Devo bere qualcosa», mormorai e scattai verso l’uscita.

Mi sedetti sulla panchina all’entrata del cinema e mi sforzai di non pensare all’ironia della situazione. Eppure, era davvero ironico, tutto sommato, che alla fine mi fossi trasformata in uno zombie. Non me lo sarei mai aspettata.

Mi era capitato di sognare di trasformarmi in un mostro mitologico, ma di certo non in un grottesco cadavere animato. Scossi la testa per scrollare via quei pensieri e il panico che ne derivava. Non potevo permettermi di rimuginare sui miei sogni passati.

Era deprimente pensare che non ero più l’eroina, che la storia era finita.

Jessica uscì dal cinema guardandosi attorno: probabilmente si chiedeva dove fossi andata a nascondermi. Quando mi vide si tranquillizzò, ma soltanto per un momento.

«Troppo spaventoso per te?», mi chiese arrabbiata.

«Sì, sono proprio una fifona».

«Che strano». Aggrottò le sopracciglia. «Non credevo ti avesse fatto paura: non ho smesso un secondo di urlare, ma tu sei rimasta sempre zitta. Non ho capito perché te ne sei andata».

Mi strinsi nelle spalle. «Paura».

Si rilassò un poco. «Penso sia il film più spaventoso che abbia mai visto. Stanotte avremo dei begli incubi».

«Senza dubbio», dissi cercando di mantenere un tono di voce normale. Per me gli incubi erano inevitabili, ma non era colpa degli zombie. Jess mi lanciò un’occhiataccia. Forse la mia voce non le era sembrata tanto normale.

«Dove vuoi mangiare?», chiese.

«Dove vuoi tu».

«D’accordo».

Mentre passeggiavamo, Jess iniziò a parlare del protagonista maschile del film. Io annuivo mentre lei sbrodolava su quanto fosse fico, ma non riuscivo a ricordare di avere visto nessuno che non fosse uno zombie.

Mi lasciavo guidare senza nemmeno far caso a dove stessimo andando. Mi accorsi soltanto che era sceso il buio e che c’era silenzio. Mi ci volle più del necessario per capirne il motivo: Jessica aveva smesso di blaterare. La guardai, contrita, sperando di non averle rovinato l’umore.

Jessica non restituì l’occhiata. La sua espressione era tesa, teneva lo sguardo fisso davanti a sé e camminava svelta. Mi accorsi delle sue continue occhiate sulla destra, dall’altra parte della strada.

A quel punto mi voltai anch’io.

Percorrevamo un breve tratto di marciapiede non illuminato. I negozietti che si affacciavano sulla strada erano ormai chiusi, le vetrine buie. A mezzo isolato di distanza le luci erano accese e all’orizzonte già vedevo risplendere la M dorata del McDonald’s verso cui puntava Jessica.

Sull’altro marciapiede c’era un locale aperto. Le finestre erano oscurate dall’interno e coperte da insegne al neon, pubblicità luminose di varie marche di birra. L’insegna più grande, in verde brillante, era quella con il nome del bar: Pete il Guercio. Magari l’arredo, invisibile da fuori, ricordava il ponte di un galeone di pirati. La porta di metallo era aperta. Dentro, la luce era fioca, per strada giungevano il mormorio di tante voci e il tintinnio del ghiaccio nei bicchieri. Appoggiati al muro esterno c’erano quattro uomini.

Tornai a osservare Jessica. Teneva gli occhi fissi sul marciapiede e si muoveva frettolosa. Non sembrava impaurita, soltanto preoccupata, desiderosa di non attirare l’attenzione.

Senza pensarci mi fermai e guardai i quattro, in preda a un déjà-vu. Era un’altra via, un’altra sera, ma la scena sembrava proprio la stessa. Uno di loro era persino basso e scuro. Alzò gli occhi, incuriosito, quando mi fermai e mi voltai verso di loro.

«Bella?», sussurrò Jess. «Ma che fai?».

Scossi la testa, perché non lo sapevo neanch’io. «Mi sembra di conoscerli...», farfugliai.

Cosa stavo facendo? Avrei dovuto fuggire da quel ricordo il più lontano possibile, rimuovere l’immagine dei quattro uomini fuori dal locale e proteggermi con l’annebbiamento senza il quale non riuscivo a vivere. Perché passeggiavo confusa in mezzo alla strada?

Mi sembrava una coincidenza assurda ritrovarmi a Port Angeles con Jessica, in una via buia. Misi a fuoco il più basso dei quattro, cercando di confrontare i suoi tratti con ciò che ricordavo dell’uomo che mi aveva minacciata, la sera di quasi un anno prima. Chissà se c’era un modo di riconoscerlo, se era davvero lui. Di quella sera, quel momento in particolare era come sfocato. Il corpo lo ricordava meglio della mente: la tensione nelle gambe mentre decidevo se correre o restare ferma, la gola secca poco prima che cercassi di emettere un urlo efficace, le dita strette in un pugno, i brividi lungo la schiena quando l’uomo dai capelli scuri mi aveva chiamata «bellezza»...

I quattro irradiavano una sensazione di minaccia, indefinita e inespressa, ma non avevano niente a che vedere con quella serata lontana. Nasceva dal fatto che erano degli sconosciuti, c’era buio, ed erano più numerosi di noi, tutto qui. Ma fu abbastanza per riempire di panico la voce di Jessica che mi chiamava.

«Bella, andiamo via!».

La ignorai, procedendo lentamente, senza nemmeno prendere la decisione razionale di mettere in moto le gambe. Non capivo perché, ma la vaga minaccia che i quattro rappresentavano mi attirava verso di loro. Era un impulso insensato, ma anche il primo che sentivo dopo tanto tempo... Perciò lo seguii.

Qualcosa di poco familiare irruppe nelle mie vene. L’adrenalina, che da chissà quanto non mi scorreva dentro, faceva galoppare il cuore e mi scuoteva dall’apatia. Che cosa strana: perché l’adrenalina, se non avevo paura?

Non c’era motivo di avere paura. Sentivo che al mondo non era rimasto niente da temere, non fisicamente almeno. Uno dei pochi vantaggi, quando si perde tutto.

Ero in mezzo alla strada e Jess mi raggiunse, afferrandomi per un braccio.

«Bella! Non puoi entrare in un bar!», sibilò.

«Non sto entrando», dissi, assente, scrollandomi dalla sua presa. «Volevo soltanto vedere una cosa...».

«Sei pazza?», sussurrò. «Vuoi suicidarti?».

La fissai. «No, certo che no». Sembravo incerta, ma era la verità. Non volevo suicidarmi. Nemmeno all’inizio, quando la morte sarebbe parsa un sollievo definitivo, avevo preso in considerazione una tale possibilità. Ero in debito con Charlie. Mi sentivo troppo responsabile nei confronti di Renée. Dovevo pensare a loro.

E avevo promesso di non fare niente di insensato o stupido. Per tutte queste ragioni, respiravo ancora.

Ricordai la promessa e provai un senso di colpa, ma ciò che facevo in quel momento non contava. Non era esattamente come avvicinarsi una lama alle vene.

Jess spalancò occhi e bocca. La domanda sul suicidio era retorica, ma non l’avevo capito.

«Vai a mangiare», dissi indicandole il fast food. Non mi piaceva come mi squadrava. «Ti raggiungo tra un minuto».

Mi voltai e tornai agli uomini che ci guardavano divertiti e curiosi.

«Bella, piantala immediatamente!».

I miei muscoli si immobilizzarono e restai dov’ero, pietrificata. Perché non era stata Jessica a rimproverarmi. Era una voce furiosa, familiare, incantevole, morbida come il velluto anche da arrabbiata.

Era la sua voce—badai con tutte le mie forze a non pensare al suo nome—e rimasi sorpresa di non essere caduta in ginocchio nel sentirla, né di essermi raggomitolata a terra, torturata dal senso di perdita. Non c’era dolore, nemmeno un po’.

Nel momento in cui sentii la voce, tutto si fece più chiaro. Come se fossi appena riemersa da una pozza scura. Ero più consapevole di tutto: ciò che vedevo e udivo, l’aria fredda di cui non mi ero accorta e che ora mi pungeva le guance, gli odori che uscivano dalla porta aperta del locale.

Mi guardai attorno sbalordita.

«Torna da Jessica», ordinò la voce, ancora arrabbiata. «L’hai promesso, niente di insensato o stupido».

Ero sola. A pochi metri da me c’era Jessica che mi guardava terrorizzata. Appoggiati al muro, gli sconosciuti mi osservavano, confusi, senza capire cosa stessi facendo immobile in mezzo alla strada.

Scossi la testa cercando di capire. Sapevo che lui non c’era, eppure mi sembrava assurdamente vicino, vicino per la prima volta da quando... era finita. La rabbia nella sua voce nasceva dalla preoccupazione, la stessa rabbia un tempo tanto familiare, qualcosa che non sentivo da una vita.

«Mantieni la promessa». La voce stava sfumando, come se qualcuno stesse abbassando il volume di una radio.

Iniziai a temere di essere stata colta da un’allucinazione, frutto di qualche scherzo della memoria: il déjà-vu, la situazione stranamente familiare...

Considerai alla svelta tutte le possibilità.

Prima opzione: ero pazza. Definizione comune per coloro che sentono voci nella propria testa.

Possibile.

Seconda opzione: il mio subconscio mi stava offrendo ciò che in realtà volevo. Era un desiderio esaudito, un sollievo momentaneo, generato dall’idea che a lui importasse qualcosa della mia vita. Una proiezione di ciò che avrebbe detto se A) fosse stato accanto a me, e B) il rischio che mi succedesse qualcosa lo avesse irritato.

Probabile.

Non vedevo una terza opzione, perciò sperai che si trattasse della seconda e fosse soltanto colpa del mio subconscio che andava a briglia sciolta, anziché di qualcosa che mi avrebbe condotta al manicomio.

Eppure, reagii in maniera tutt’altro che coerente: fui grata di quelle parole. Avevo temuto di dimenticare il suono della sua voce, perciò, più di ogni altra cosa, fui felicissima che la parte irrazionale del cervello lo avesse conservato meglio di quella razionale.

Non mi concedevo mai di pensare a lui. In questo cercavo di essere molto rigida. Ovviamente, ogni tanto cedevo; in fondo ero un essere umano. Ma pian piano ci avevo fatto il callo, tanto da riuscire a evitare il dolore anche per giorni interi. Il prezzo da pagare era un interminabile annebbiamento. Tra il dolore e il nulla, avevo scelto il nulla.

A quel punto, mi aspettavo il ritorno del dolore. Non ero annebbiata, anzi, mi sentivo ipersensibile, dopo mesi di offuscamento, ma la sofferenza rimase a distanza. L’unico fastidio era la delusione per lo spegnersi della sua voce.

Avevo un secondo per scegliere.

La cosa più saggia sarebbe stata fuggire da una tentazione potenzialmente distruttiva e sicuramente pericolosa per la mia salute mentale. Che stupidaggine, incoraggiare le allucinazioni.

Ma la sua voce svaniva.

Azzardai un altro passo avanti, per metterla alla prova.

«Bella, girati», ruggì.

Feci un sospiro di sollievo. La rabbia era ciò che desideravo sentire: la prova falsa e prefabbricata che era preoccupato per me, un regalo ambiguo del mio subconscio.

Le mie riflessioni erano durate pochissimi secondi. Il mio pubblico sparuto mi osservava, curioso. Probabilmente sembrava loro che stessi decidendo se avvicinarmi o no. Come facevano a sapere che mi stavo godendo un inaspettato momento di pazzia?

«Ciao», disse uno degli sconosciuti, in tono amichevole e sarcastico. Pelle chiara, capelli biondi, aveva l’atteggiamento disinibito di chi si considera piuttosto carino. Non ero in grado di capire se lo fosse o no. Forse i miei standard erano troppo alti.

La voce nella mia testa rispose con un ringhio delizioso. Sorrisi e il cordiale sconosciuto lo prese per un incoraggiamento.

«Serve aiuto? Ti sei persa?». Sorrise e fece l’occhiolino.

Badai a non entrare con i piedi nella canalina di scolo piena d’acqua nascosta dal buio.

«No, non mi sono persa».

Ora che mi trovavo più vicina—e che lo vedevo con una strana lucidità—osservai il volto dell’uomo scuro, quello più basso. Non mi era affatto familiare. Provai un bizzarro dispiacere quando scoprii che non si trattava del brutto ceffo che un anno prima aveva cercato di aggredirmi.

La voce nella mia testa taceva.

Il tipo più basso si accorse del mio sguardo. «Posso offrirti qualcosa?», chiese, nervoso, apparentemente lusingato dalle mie attenzioni.

«Sono troppo giovane», risposi automaticamente.

Restò deluso, non capiva perché mi fossi avvicinata. Mi sentii in dovere di spiegare.

«Da lontano somigliavate a dei miei conoscenti. Scusate, mi sono confusa».

La minaccia che mi aveva spinta ad attraversare la strada e a raggiungere l’altro marciapiede era evaporata. Non erano gli uomini pericolosi che ricordavo. Probabilmente erano bravi ragazzi. Innocui. E io persi ogni interesse.

«Non c’è problema», disse il biondo, amichevole. «Resta pure con noi, se ti va».

«Grazie, ma non posso». Jessica mi aspettava in mezzo alla strada, a occhi sbarrati, offesa e tradita.

«E dai, solo qualche minuto».

Feci segno di no e tornai da Jessica.

«Andiamo a mangiare», la invogliai, quasi senza guardarla. Benché per un momento mi fossi tolta la maschera da zombie, mi sentivo ancora lontana dalla realtà. Ero preoccupata. Il senso di morte, confortevole e annebbiante, non tornava e con il passare dei minuti diventavo sempre più ansiosa.

«Cosa ti è saltato in mente?», sbottò Jessica. «Non li conosci... e se fossero stati degli psicopatici?».

Feci spallucce, sperando che lasciasse perdere. «Pensavo di conoscere quel tizio».

«Sei proprio strana, Bella Swan. Non ti riconosco più».

«Scusa». Non sapevo cos’altro rispondere.

Ci avvicinammo al McDonald’s in silenzio. Di sicuro Jess avrebbe preferito spostarsi in auto, anziché percorrere a piedi la breve distanza dal cinema, per poter approfittare del McDrive. A quel punto, anche lei come me non vedeva l’ora che la serata finisse.

Mentre mangiavamo, cercai più volte di iniziare una conversazione, ma Jessica non cooperava. Doveva sentirsi profondamente offesa.

Quando tornammo in auto, sintonizzò la radio sulla sua stazione preferita a un volume altissimo, per coprire qualsiasi tentativo di chiacchiere.

Per ignorare la musica non fui costretta a sforzarmi, come al solito. Benché la mia mente, per una volta, non fosse del tutto offuscata e vuota, avevo troppe cose a cui pensare per concentrarmi sui testi delle canzoni.

Restai in attesa dell’annebbiamento, o della sofferenza. Il dolore sarebbe tornato. Avevo infranto le mie regole personali: anziché tenermi lontana dai ricordi, ero andata loro incontro, pronta ad accoglierli. Avevo sentito la sua voce, nitida, nella testa. Mi sarebbe costato caro, ne ero sicura. Soprattutto se non fossi riuscita a sprofondare di nuovo nella mia nebbia protettiva. Ero troppo vigile, e ciò mi impauriva.

Ma l’emozione più forte era adesso il senso di sollievo; un sollievo che nasceva davvero dal profondo.

Per quanto cercassi di non pensare a lui, non mi sforzavo di dimenticare davvero. Lottavo—nel cuore della notte, quando l’insonnia indeboliva e abbatteva le mie difese—contro il timore che tutto mi stesse realmente sfuggendo. Che la mente fosse un colino e che un giorno non avrei più ricordato il colore dei suoi occhi, la sensazione della sua pelle fresca, o la grana della voce. Non potevo pensarci, ma dovevo ricordare. Perché c’era una sola cosa alla quale dovevo credere se volevo continuare a vivere: la certezza della sua esistenza. Per me era tutto. Al resto avrei saputo resistere. A patto che lui fosse ancora vivo e reale.

Ecco perché ero più intrappolata che mai a Forks, e perché avevo litigato con Charlie quando mi aveva proposto di cambiare aria. In realtà, poco importava: non dovevo aspettarmi nessun ritorno.

Se fossi andata a Jacksonville, o in un altro posto qualsiasi, pieno di luce e poco familiare, come avrei fatto a credere alla sua esistenza? In un luogo in cui non fossi riuscita a immaginarlo, quella certezza avrebbe rischiato di svanire... e io non sarei sopravvissuta.

Ricordare era vietato, dimenticare mi faceva paura; era un confine difficile da attraversare.

Infine Jessica parcheggiò di fronte a casa mia. Che sorpresa: il viaggio non era durato molto, ma per quanto breve non avrei mai pensato che Jess potesse rimanere zitta così a lungo.

«Grazie per avermi accompagnata», dissi mentre aprivo la portiera. «Mi sono... divertita». Speravo che “divertita” fosse la parola giusta.

«Certo», mormorò lei.

«Scusami per... dopo il film».

«Non importa, Bella». Lanciò un’occhiata verso la strada. Sembrava che la rabbia si fosse accumulata dentro di lei piuttosto che scemare durante il viaggio di ritorno.

«Ci vediamo lunedì?».

«Okay, ciao».

Rinunciai a insistere e chiusi la portiera. Lei ripartì via senza degnarmi di un sguardo.

Mi bastò entrare in casa per dimenticare.

Charlie mi aspettava in mezzo al corridoio, le braccia conserte e lo sguardo severo.

«Ciao, papà», dissi distratta, aggirandolo per correre subito sulle scale. Avevo pensato a lui troppo a lungo e volevo tornare di sopra prima di subirne le conseguenze.

«Dove sei stata?».

Guardai mio padre, sorpresa. «Al cinema con Jessica, a Port Angeles. Come ti ho detto stamattina».

Borbottò qualcosa.

«Tutto a posto?».

Studiò la mia espressione, spalancando gli occhi come se qualcosa lo avesse sconcertato. «Sì, tutto a posto. Vi siete divertite?».

«Certo», risposi. «Abbiamo visto un sacco di zombie mangiarsi la gente. Davvero bello».

M’incenerì con lo sguardo.

«’Notte, papà».

Mi lasciò passare e corsi in camera.

Pochi minuti dopo m’infilai sotto le coperte, rassegnata a subire il ritorno del dolore.

Mi sentivo menomata, come se qualcosa mi avesse scavato una voragine nel petto, asportato gli organi vitali e lasciato cicatrici malconce e mai guarite, che malgrado il passare del tempo non smettevano di pulsare e sanguinare. Razionalmente, sapevo che i miei polmoni erano ancora intatti, eppure mi sentivo soffocare e la testa mi girava come se gli sforzi per prendere aria fossero vani. Di sicuro anche il mio cuore batteva, ma non ne udivo le pulsazioni; avevo le mani fredde e intorpidite. Mi raggomitolai e incrociai le braccia strette per non sentirmi sbriciolare. Cercavo l’annebbiamento, il ripudio di me stessa, ma non riuscivo a raggiungerlo.

Eppure, capii che potevo sopravvivere. Ero vigile, sentivo il dolore—il senso di perdita che bruciava e s’irradiava dal mio petto in tremende ondate di sofferenza che si abbattevano contro il mio corpo e nella testa—ma me la sarei cavata. Sarei sopravvissuta. Non perché il dolore si fosse indebolito con il passare del tempo, ma perché a quel punto ero divenuta abbastanza forte da reggerlo.

Qualunque cosa fosse successa quella sera—merito degli zombie, dell’adrenalina o delle allucinazioni—mi aveva risvegliata.

Per la prima volta dopo tanto tempo, non sapevo cosa aspettarmi dal nuovo giorno.

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