Il mattino dopo mi sentivo un vero schifo. Non avevo dormito bene, sentivo bruciare il braccio e mi faceva male la testa. E a peggiorare il tutto, il ricordo del volto di Edward dolce ma lontano, mentre mi sfiorava la fronte con un bacio e usciva svelto dalla finestra. Temevo che, nelle ore passate a guardarmi persa nell’incoscienza del sonno, avesse ripensato a ciò che era giusto o sbagliato. L’ansia amplificava il rimbombo dei battiti nella mia testa.
Come al solito lo trovai ad aspettarmi a scuola, ma la sua espressione era strana. Lo sguardo nascondeva qualcosa che non riuscivo a cogliere... e che mi terrorizzava. Non volevo parlare della sera prima, ma non ero neanche sicura che evitare il discorso fosse la mossa migliore.
Aprì lo sportello del pick-up per aiutarmi a scendere.
«Come ti senti stamattina?».
«Splendidamente», mentii, scombussolata persino dallo sbattere della portiera che si richiudeva.
Camminavamo in silenzio, lui accorciava il passo per restare al mio fianco. Avevo tante domande che mi si agitavano in testa, ma avrebbero dovuto aspettare perché erano quasi tutte per Alice: come stava Jasper? Cosa si erano detti dopo che me ne ero andata? Come l’aveva presa Rosalie? E soprattutto, cos’è che lei intravedeva nelle sue strane e imperfette visioni del futuro? Riusciva a leggere i pensieri di Edward, a scorgere il motivo di tanto malumore? Erano fondate le paure istintive e impalpabili che non riuscivo a scrollarmi di dosso?
Il mattino trascorse lento. Non vedevo l’ora di incontrare Alice, anche se sapevo che non sarei riuscita a parlarle in presenza di Edward. Lui restava sulle sue. Di tanto in tanto mi chiedeva come andasse il braccio e rispondevo con una bugia.
A pranzo, Alice ci precedeva sempre: non era costretta a tenere il passo di un bradipo come me. Ma quel giorno non l’avremmo trovata seduta a tavola di fronte a un vassoio di cibo che non avrebbe mangiato.
Edward non disse nulla riguardo l’assenza della sorella. Immaginai che la sua lezione si fosse protratta più a lungo del solito, ma poi vidi Conner e Ben, che frequentavano la quarta ora di francese assieme a lei.
«Dov’è Alice?», chiesi inquieta a Edward.
Mentre fissava una barretta di cereali, sbriciolandola pian piano tra le dita, mi rispose: «Con Jasper».
«Lui sta bene?».
«Per un po’ resterà lontano».
«Cioè? Dove?».
Edward si strinse nelle spalle: «In nessun posto preciso».
«E Alice gli farà compagnia», aggiunsi in preda allo sconforto. Ma certo, era sempre pronta ad assistere Jasper nel momento del bisogno.
«Sì, starà lontana da casa per un po’. Vuole convincerlo a trasferirsi a Denali».
Denali era il luogo d’insediamento dell’unica altra comunità di vampiri speciali—buoni come i Cullen. Tanya e la sua famiglia. Di tanto in tanto ne avevo sentito parlare. Edward si era rifugiato presso di loro, l’inverno precedente, quando il mio arrivo gli aveva reso difficile vivere a Forks. Anche Laurent, il membro più sensibile del piccolo branco di James, li aveva raggiunti, anziché spalleggiare il suo compare contro i Cullen. Consigliare a Jasper di andare a Denali era stata una scelta molto sensata.
Deglutii, cercando di sciogliere il nodo che d’un tratto mi aveva bloccato la gola. Il senso di colpa mi fece chinare la testa e abbassare le spalle. Li avevo costretti a fuggire da casa, come Rosalie ed Emmett. Ero una disgrazia.
«Ti dà fastidio il braccio?», mi chiese premuroso.
«Chi se ne importa del mio stupido braccio?», mormorai nauseata.
Non rispose, e io appoggiai la testa sul tavolo.
Alla fine della giornata, il silenzio era diventato assurdo. Non desideravo essere io a spezzarlo per prima, ma evidentemente non avevo scelta se volevo che Edward mi parlasse di nuovo.
«Puoi venire più tardi, stasera?», gli chiesi mentre mi accompagnava—in silenzio—al pick-up. Veniva sempre a trovarmi.
«Più tardi?».
Fui lieta di averlo sorpreso. «Oggi lavoro. Devo restituire alla signora Newton la giornata libera di ieri».
«Ah».
«Però quando torno a casa puoi venire, d’accordo?». All’improvviso non mi sentivo più sicura delle mie parole e questo non mi piaceva.
«Se vuoi, ci sarò».
«Certo che ti voglio», ribadii, forse con intensità maggiore di quanto si addicesse alla conversazione.
Mi aspettavo che reagisse alle mie parole, almeno con un ghigno o una risata.
«D’accordo», rispose, indifferente.
Mi baciò di nuovo sulla fronte e richiuse la portiera. Poi si voltò e si diresse con grazia verso la sua auto.
Uscii dal parcheggio prima che il panico s’impadronisse di me, ma giunta dai Newton ero già in iperventilazione.
Ha solo bisogno di tempo, mi ripetevo. Supererà questo momento. Forse era triste perché i suoi fratelli l’avevano abbandonato. Ma Alice e Jasper sarebbero tornati presto, così come Rosalie ed Emmett. Se fosse servito a qualcosa, sarei rimasta lontana dalla grande casa sul fiume: non ci avrei mai più messo piede. Non m’importava. Avrei comunque incontrato Alice a scuola. Sarebbe tornata a scuola, no? E aveva passato così tanto tempo a casa mia che non avrebbe voluto ferire i sentimenti di Charlie tenendosene lontana.
E senza dubbio avrei incrociato regolarmente Carlisle al pronto soccorso.
Dopotutto, ciò che era successo la sera precedente non era nulla. Non era successo niente. Ero caduta: il riassunto della mia vita. Un fatto insignificante, se ripensavo agli eventi della primavera appena trascorsa. James mi aveva ridotta a pezzi e avevo rischiato di morire dissanguata... ed Edward aveva sopportato le interminabili settimane di convalescenza in ospedale molto meglio di così. Forse questa volta il problema era che non doveva proteggermi da un nemico, ma da suo fratello?
Probabilmente avrebbe dovuto portarmi via, anziché lasciare che la sua famiglia si disgregasse. La depressione si alleggerì quando pensai a tutto il tempo che avremmo passato da soli. Se Edward avesse retto per quest’ultimo anno di scuola, Charlie non avrebbe potuto obiettare nulla. Ci saremmo iscritti allo stesso college, magari per finta come Rosalie ed Emmett. Aspettare un anno era cosa da poco per Edward. Cos’è un anno per un immortale? Non sembrava lungo neanche a me.
Riuscii a raccogliere la lucidità sufficiente a scendere dal pick-up ed entrare in negozio. Mike Newton mi aveva preceduta e quando entrai mi salutò con un sorriso. Afferrai la divisa abbozzando un cenno verso di lui. Non avevo ancora smesso di immaginare la piacevole possibilità che io ed Edward fuggissimo assieme in qualche località esotica.
Mike interruppe le mie fantasie. «Com’è andato il compleanno?».
«Bah, per fortuna è finito», borbottai.
Lui mi guardò di sottecchi come se fossi pazza.
Il lavoro mi pesava. Desideravo stare con Edward e pregavo che il peggio, qualunque esso fosse, potesse passare prima che ci rivedessimo. Non è niente, mi ripetevo in continuazione. Tutto tornerà alla normalità.
Quando più tardi imboccai la strada di casa mia e vidi l’auto argentata di Edward mi sentii sopraffatta dal sollievo, che mi lasciò però disorientata e con un fondo di preoccupazione.
Sfrecciai verso la porta d’ingresso, facendomi sentire ancora prima di entrare.
«Papà? Edward?».
Dal salotto giunse l’inconfondibile sigla dei programmi sportivi della ESPN.
«Siamo qui», rispose Charlie.
Appesi l’impermeabile all’attaccapanni e girai svelta l’angolo.
Edward era sulla poltrona, Charlie sul divano. Entrambi tenevano gli occhi fissi sullo schermo. Tipico di mio padre, ma non di Edward.
«Ciao», dissi a mezza voce.
«Ciao, Bella», rispose mio padre senza perdere di vista lo schermo. «Ci sono degli avanzi di pizza. Dovrebbero essere ancora sul tavolo».
«Grazie».
Aspettai in corridoio da dove potevo tener d’occhio il salotto, finché... Edward si voltò a guardarmi accennando un sorriso: «Ti raggiungo subito», disse. Poi tornò con gli occhi al televisore.
Restai immobile e sbalordita per un minuto intero. Nessuno dei due sembrò accorgersene. Sentivo qualcosa, forse il panico, crescere dentro. Scappai in cucina. La pizza non mi attirava. Mi sedetti, rannicchiandomi con le ginocchia strette al petto. C’era qualcosa che non andava, era peggio di quanto pensassi. La TV non smetteva di irradiare chiacchiere e battute maschili.
Cercai di controllarmi, di ragionare. Qual è la cosa peggiore che potrebbe succedere? Trasalii. Era la domanda più sbagliata che potessi farmi. Riuscivo a malapena a respirare.
Okay, riprovai, qual è la cosa peggiore che potrei sopportare? Neanche quella domanda mi piaceva granché. Ma ripensai alle possibilità su cui avevo meditato durante la giornata.
Restare lontana dalla famiglia di Edward. Tranne che da Alice, ovviamente. Però, se Jasper fosse stato costretto ad allontanarsi, avrei passato meno tempo anche con lei. Annuii, tra me e me: potevo farcela.
Altra possibilità: andarcene. Forse Edward non voleva aspettare la fine dell’anno scolastico, forse dovevamo farlo subito.
Davanti a me, sul tavolo, i regali di Charlie e Renée erano dove li avevo lasciati, con la macchina fotografica, che non ero riuscita a usare a casa Cullen, accanto all’album. Sfiorai la bella copertina dell’album regalatomi da mia madre e sospirai ripensando a lei. Malgrado mi fossi lasciata da tempo alle spalle la vita con lei, non mi era facile accettare l’idea di una separazione ancor più netta. Charlie, poi, sarebbe rimasto solo, abbandonato. Avrei fatto tanto male a entrambi...
Ma saremmo tornati, no? Saremmo venuti a trovarli, vero?
Non potevo essere sicura della risposta.
Posai la guancia sul ginocchio e fissai quei pegni dell’amore dei miei genitori. Sapevo che la strada che avevo scelto sarebbe stata difficile. E, dopotutto, stavo pensando al peggio che potesse accadere, la situazione più drastica tra quelle che sarei riuscita a superare...
Sfiorai di nuovo l’album e sollevai la copertina. C’erano già gli angoli di metallo per fissare la prima foto. Non era un’idea tanto cattiva fermare qualche momento della mia vita. Sentii lo strano impulso di iniziare subito. Forse non mi restava molto tempo da passare a Forks.
Giocherellai con la cinghia della macchina fotografica, ripensando al mio primo scatto. Sarebbe somigliato almeno vagamente all’originale? Ne dubitavo. Lui, comunque, non temeva che la foto venisse vuota. Sorrisi ripensando alla sua risata spensierata, la sera prima. Ma il sorriso si spense subito. Tante cose erano cambiate all’improvviso. Avevo le vertigini, come sull’orlo di un precipizio.
Non volevo pensarci più. Afferrai la macchina fotografica e salii le scale.
Nei diciassette anni trascorsi dal giorno in cui mia madre se n’era andata, la mia stanza non era cambiata granché. Le pareti erano ancora azzurre, alle finestre c’erano le stesse tende di pizzo ingiallite. Al posto del lettino c’era un letto vero, su cui però stava scomposta una trapunta che lei stessa avrebbe riconosciuto: un regalo della nonna.
Senza pensarci, scattai una foto della mia stanza. Non avevo più granché da fare per quella giornata, fuori era ormai buio, e la sensazione di pochi minuti prima era sempre più forte, tanto da trasformarsi in una spinta irrefrenabile: avrei fissato tutto ciò che potevo, prima di andarmene da Forks.
Tutto stava per cambiare. Lo sentivo. Non era una prospettiva piacevole, non nel momento in cui la mia vita sembrava perfetta.
Scesi le scale con calma, la macchina fotografica in mano, cercando di ignorare le farfalline nello stomaco, mentre pensavo allo strano senso di distanza che non volevo rivedere negli occhi di Edward. Gli sarebbe passata. Forse era preoccupato di sconvolgermi se mi avesse chiesto di fuggire. Volevo lasciarlo meditare senza immischiarmi. E farmi trovare pronta.
Preparai la macchina, appoggiata all’angolo del salotto, senza farmi vedere. Pensavo che non sarei mai riuscita a cogliere Edward di sorpresa, ma lui non alzò gli occhi. Sentii un brivido passeggero e un fremito glaciale mi sfiorò lo stomaco. Feci finta di nulla e scattai la foto.
A quel punto, si voltarono entrambi. Charlie aggrottò le sopracciglia. Il viso di Edward era privo di espressione.
«Cosa fai, Bella?», si lamentò Charlie.
«E dai». Mi sforzai di sorridere e mi sedetti a terra, di fronte al divano su cui era allungato mio padre. «Sai bene che la mamma chiamerà al più presto per chiedermi se sto usando i miei regali. Devo mettermi al lavoro se non voglio deluderla».
«Ma perché fotografi proprio me?», borbottò.
«Perché sei un bell’uomo», risposi scherzosa. «E perché, dato che hai comprato la macchina fotografica, sei obbligato a essere uno dei miei soggetti».
Mormorò qualcosa di incomprensibile.
«Dai, Edward», dissi con indifferenza ammirevole. «Fanne una a me e papà».
Gli lanciai la macchina fotografica, evitando con cura il suo sguardo, e m’inginocchiai accanto al bracciolo su cui Charlie poggiava la testa. Papà sospirò.
«Devi sorridere, Bella», mormorò Edward.
Mi sforzai di farlo e il flash scattò.
«Okay, adesso tocca a voi», propose Charlie. Sapevo bene che voleva soltanto evitare lo sguardo della macchina fotografica.
Edward si alzò in piedi e con grazia gli porse l’apparecchio.
Mi avvicinai a lui e mi sentii costretta in una posa strana e formale. Appoggiò delicatamente una mano sulla mia spalla mentre io con il braccio mi strinsi forte ai suoi fianchi. Avrei voluto guardarlo in volto, ma avevo paura.
«Sorridi, Bella», ribadì Charlie.
Feci un sospiro profondo e sorrisi. Il flash mi accecò.
«Basta foto, per stasera», disse Charlie, che infilò subito la macchina tra due cuscini del divano, su cui si sedette. «Non sei obbligata a finire subito il rullino».
Edward tolse la mano dalla mia spalla e sfuggì alla presa con disinvoltura. Tornò a sedersi sulla poltrona.
Dopo una piccola esitazione, mi sedetti anch’io sul divano. D’un tratto ero così agitata che mi sentii tremare le mani. Le nascosi incrociando le braccia sulla pancia, posai il mento sulle ginocchia alzate e fissai lo schermo della TV, senza vedere niente.
Alla fine della trasmissione non mi ero mossa di un centimetro. Con la coda dell’occhio vidi Edward alzarsi.
«È ora di rientrare», disse.
Charlie non staccava gli occhi dalla pubblicità. «Ciao, ciao».
Goffa e intorpidita per esser rimasta immobile a lungo, mi alzai in piedi e accompagnai Edward alla porta. Lui filò dritto verso l’auto.
«Non rimani?», chiesi, aspettandomi già la sua risposta.
«Stasera no».
Evitai di chiedergli perché.
Salì in auto e io restai a guardarlo mentre se ne andava. Mi accorsi a malapena che pioveva. Rimasi in attesa, di cosa non lo so, finché alle mie spalle non si aprì la porta.
«Bella, che fai?», chiese Charlie, sorpreso di vedermi lì fuori impalata e gocciolante.
«Niente». Mi voltai e rientrai ciondolando.
Fu una notte lunga, niente affatto riposante.
Mi alzai alla prima luce fioca che scorsi alla finestra. Mi preparai meccanicamente per andare a scuola, in attesa che le nuvole si schiarissero. Mangiai una tazza di cereali e decisi che c’era abbastanza luce per scattare qualche foto. Ne feci una al pick-up e un’altra alla facciata della casa. Mi voltai a fotografare la foresta vicino al giardino di Charlie. Che strano, non sembrava più sinistra come un tempo. Capii che mi sarebbe mancata: verde, fuori dal tempo, misteriosa.
Prima di uscire, riposi la macchina nello zaino. Cercai di concentrarmi sul mio nuovo progetto, anziché sul fatto che Edward non sembrava aver fatto progressi durante la notte.
Assieme alla paura, sentivo una punta di impazienza. Per quanto tempo sarebbe andata avanti così?
Be’, per tutta la mattinata. Camminava in silenzio al mio fianco, sembrava che nemmeno mi guardasse. Cercai di concentrarmi sulle lezioni, ma neanche l’inglese riusciva a catturare la mia attenzione. Il professor Berty fu costretto a ripetere la domanda su Madonna Capuleti per due volte, prima che mi rendessi conto che si stava rivolgendo a me. Edward mi suggerì la risposta giusta sottovoce, dopodiché continuò a fare come se non esistessi.
A pranzo, il silenzio proseguì. Temevo di potermi mettere a urlare da un momento all’altro, perciò, per distrarmi, oltrepassai il confine invisibile del tavolo e mi rivolsi a Jessica.
«Ehi, Jess».
«Che c’è, Bella?».
«Mi fai un favore?», chiesi infilando una mano nello zaino. «Mia madre vuole che scatti qualche foto dei miei amici, da mettere in un album. Perciò fai qualche foto in giro, okay?».
Le passai la macchina.
«Certo», disse sorridendo, e scattando sorprese Mike a bocca piena.
Il prevedibile risultato fu una guerra di fotografie. Li guardavo passarsi la macchina attorno al tavolo, ridendo, ammiccando e lamentandosi di essere stati immortalati. Che cosa infantile. Forse quel giorno non ero dell’umore giusto per godermi le risate e i divertimenti di gente normale.
«Oh», esclamò Jessica, scusandosi, quando mi restituì la macchina. «Mi sa che abbiamo finito il rullino».
«Non c’è problema. Avevo già fatto le foto che mi servivano».
Dopo le lezioni, Edward mi accompagnò al parcheggio in silenzio. Anche quel giorno dovevo lavorare, e per una volta ne ero contenta. Passare del tempo con me, ovviamente, non lo aiutava. Forse doveva restare un po’ solo.
Lasciai il rullino al laboratorio del centro commerciale prima di andare dai Newton, e uscita dal negozio passai a ritirare le foto sviluppate. A casa, salutai svelta Charlie, presi una barretta di cereali dalla cucina e sfrecciai in camera mia con la busta delle foto sottobraccio.
Mi sedetti sul letto e aprii l’involucro piena di curiosità. Era ridicolo, ma quasi mi aspettavo che la prima foto fosse vuota.
Quando la tirai fuori, mi tolse il fiato. Edward era bello come nella realtà, e mi fissava con lo sguardo caldo che da due giorni non vedevo. Era quasi incredibile che qualcuno potesse essere così... così... indescrivibile. Migliaia di parole non erano sufficienti a eguagliare quell’immagine.
Sfogliai il resto delle foto alla svelta, ne scelsi tre e le posai sul letto, una accanto all’altra.
La prima ritraeva Edward in cucina, lo sguardo pieno di calore, divertito e paziente. Nella seconda c’erano Edward e Charlie che guardavano la TV. La differenza tra le due espressioni di Edward era netta. Lo sguardo era diventato circospetto, riservato. Era sempre bello da mozzare il fiato, ma l’espressione si era come raffreddata: ricordava una scultura, più che un essere umano.
L’ultima era la foto di Edward e me, goffa al suo fianco. La sua espressione era ancora fredda e statuaria. Ma il dettaglio più inquietante era un altro. La differenza tra noi due era terribile. Lui sembrava un dio. Io un essere umano qualsiasi, e quasi mi vergognavo di risultare tanto anonima. Girai la foto, con un moto d’insofferenza.
Anziché fare i compiti, trascorsi il tempo a metterle in ordine. Con una biro scrissi le didascalie—nomi e date—per ciascuna foto. Giunta all’immagine che ritraeva me ed Edward insieme, senza guardarla troppo, la piegai in due e la infilai negli angoli in modo che fosse visibile solo per metà.
Poi, infilai la seconda serie di fotografie in una busta e scrissi una lunga lettera di ringraziamento a Renée.
Edward non era ancora arrivato. Non volevo ammettere che lui fosse il motivo per cui ero rimasta alzata tanto a lungo, ma ovviamente era così. Cercai di ricordare l’ultima occasione in cui aveva tardato tanto senza una scusa, una telefonata... Non era mai successo.
E, di nuovo, dormii male.
La mattinata a scuola si trascinò nella stessa maniera cupa e frustrante dei due giorni precedenti. La presenza di Edward nel parcheggio mi dava un sollievo che svaniva in fretta. Non era cambiato niente, anzi, lo sentivo sempre più lontano.
Stentavo a ricordare persino il motivo di quel disastro. Il mio compleanno, ormai, sembrava appartenere a un passato remoto. Se solo Alice fosse tornata. Subito. Prima che la situazione sfuggisse di mano.
Ma non potevo contarci. Decisi che, se non fossi riuscita a parlagli quel giorno, a parlargli davvero, sarei andata a trovare Carlisle l’indomani. Dovevo fare qualcosa.
Promisi a me stessa che dopo le lezioni io ed Edward ne avremmo discusso. Non avrei tollerato scuse.
Più tardi, mentre mi accompagnava al pick-up, mi feci coraggio, pronta a sparare a raffica le mie domande.
«Ti dispiace se vengo da te, oggi?», chiese prima che raggiungessimo il veicolo, prendendomi in contropiede.
«Certo che no».
«Adesso?», domandò aprendomi la portiera.
«Certo». Cercai di mantenere un tono di voce regolare, ma il suo nervosismo non mi piaceva affatto. «Prima però passo a spedire una lettera a Renée. Ci vediamo a casa».
Guardò il pacchetto gonfio sul sedile del passeggero. Di scatto, si allungò ad afferrarlo.
«Ci penso io», disse piano. «E vedrai che arriverò per primo». Sfoderò il sorriso sghembo che preferivo, però c’era qualcosa che non andava. Si era spento già prima di raggiungere gli occhi.
«D’accordo», risposi. Chiuse la portiera e si diresse alla propria auto.
Arrivò prima di me. Giunta di fronte a casa, notai la sua macchina parcheggiata al posto di quella di Charlie. Cattivo segno. Non aveva intenzione di trattenersi.
Io scesi dal pick-up, lui dall’auto, e mi venne incontro. Mi tolse lo zaino di mano. Gesto normale. Ma, anziché aiutarmi a portarlo, lo ripose sul sedile. Gesto tutt’altro che normale.
«Facciamo una passeggiata», propose, impassibile, prendendomi per mano.
Restai in silenzio, senza riuscire a trovare un modo di protestare immediatamente, come avrei desiderato. Così non andava. Brutto segno, brutto segno, ripeteva la voce nella mia testa.
Edward non rimase ad aspettare. Mi portò sul lato destro del giardino, quello che confinava con il bosco. Mi lasciai trascinare, cercando di restare lucida nonostante il panico. In fondo era ciò che volevo, mi dicevo. Era la possibilità di chiarire. E allora perché mi sentivo soffocare dall’angoscia?
Ci fermammo dopo pochi passi sotto gli alberi. Non avevamo nemmeno imboccato il sentiero, vedevo ancora casa mia.
Edward si appoggiò a un tronco e mi fissò con un’espressione indecifrabile.
«Bene, parliamo», dissi. Apparivo molto più coraggiosa di quanto non fossi.
Prese fiato.
«Bella, stiamo per andarcene».
Respirai a fondo. Era una scelta accettabile. Mi credevo pronta. Invece, dovevo sapere.
«Perché proprio adesso? Ancora un anno...».
«Bella, è il momento giusto. Per quanto tempo credi che potremmo restare ancora a Forks? Carlisle dimostra a malapena trent’anni e già ne deve dichiarare trentatré. Comunque vada, non passerà molto tempo prima che ci tocchi ricominciare da capo».
La sua risposta mi lasciò perplessa. Pensavo che andarcene servisse a lasciare in pace la sua famiglia. Che senso aveva partire se loro ci avrebbero seguiti? Lo fissai, sforzandomi di capire.
Lui sostenne il mio sguardo, impassibile.
Un attacco di nausea mi confermò che avevo capito male.
«Hai detto stiamo...», sussurrai.
«Intendo la mia famiglia e me». Scandito parola per parola.
Scuotevo la testa avanti e indietro, meccanicamente, cercando di sgombrarla dai pensieri. Lui restò in attesa, senza dare segni di impazienza. Mi ci volle qualche minuto, prima di riuscire a parlare.
«Okay», dissi. «Verrò con te».
«Non puoi, Bella. Dove stiamo andando... non è il posto adatto a te».
«Il mio posto è dove sei tu».
«Non sono la persona giusta per te, Bella».
«Non essere ridicolo». Il moto di rabbia che avrei voluto sfoderare si manifestò in una richiesta implorante. «Sei la cosa migliore che mi sia capitata, davvero».
«Il mio mondo non è fatto per te», rispose risoluto.
«Ma ciò che è successo con Jasper... non conta niente, Edward... niente!».
«Hai ragione. Era semplicemente un gesto prevedibile».
«L’hai promesso! A Phoenix hai promesso di rimanere...».
«Fino a quando fosse stata la cosa migliore per te», precisò interrompendomi.
«NO! Non dirmi che il problema è la mia anima!», gridai, furiosa con le parole che esplodevano, eppure anche quella sembrava una supplica. «Carlisle mi ha detto tutto, ma non m’interessa, Edward. Non m’interessa! Prenditi pure la mia di anima. Senza te non mi serve: è già tua!».
Prese fiato e per un istante il suo sguardo vagò in basso sul terreno. Sulle sue labbra, una smorfia accennata. Quando finalmente mi guardò di nuovo, era diverso, duro, come se l’oro liquido dei suoi occhi si fosse congelato.
«Bella, non voglio che tu venga con me». Scandì quelle parole lentamente, con cura, lo sguardo freddo sul mio viso, in attesa che cogliessi il senso della frase.
Restammo in silenzio mentre ripetevo tra me le sue parole, come ricercandovi un senso o un’intenzione che mi era sfuggita.
«Tu... non... mi vuoi?».
«No».
Lo fissavo senza capire. Con gli occhi su di me, non abbozzò neanche una scusa. Le sue iridi erano color topazio: duro, chiaro e profondo. Sentivo di poter affondare per chilometri nel suo sguardo, eppure da nessuna parte, in quelle profondità, riuscivo a cogliere qualcosa che contraddicesse ciò che mi ero appena sentita dire.
«Be’, questo cambia le cose». Ero sorpresa dal mio tono di voce calmo e ragionevole. Probabilmente era colpa dello shock. Continuavo a non trovarvi un senso.
Guardò verso gli alberi e riprese a parlare. «Ovviamente, a modo mio, ti amerò sempre. Ma quel che è successo l’altra sera mi ha fatto capire che è ora di cambiare. Vedi, sono... stanco di fingere un’identità che non è mia, Bella. Non sono un essere umano». Tornò a fissarmi e le sembianze glaciali del suo viso perfetto non erano umane. «Ho aspettato troppo, e ti chiedo scusa».
«No». La mia voce era un sussurro: la consapevolezza aveva fatto breccia e scorreva come acido nelle mie vene. «Non farlo».
Mentre mi fissava leggevo nei suoi occhi che le mie parole erano giunte troppo, troppo tardi. Aveva già deciso.
«Tu non sei la persona giusta per me, Bella». Rivoltò la frase di poco prima: non avevo scampo. Sapevo benissimo di non essere abbastanza per lui.
Cercai di dire qualcosa, ma restai in silenzio. Lui attese, paziente, il viso ripulito da ogni emozione. Ci riprovai.
«Se... ne sei certo».
Annuì.
Il mio corpo si paralizzò. Dal collo in giù, non sentivo niente.
«Vorrei chiederti un favore, però, se non è troppo», disse.
Forse sul mio viso comparve qualcosa che per un istante catturò la sua attenzione. Ma prima che potessi capire, tornò a nascondersi dietro quella maschera imperturbabile.
«Tutto quello che vuoi», giurai, con un filo di voce in più.
Mentre lo osservavo, i suoi occhi di ghiaccio si sciolsero. L’oro tornò liquido, fuso, e bruciò nei miei con un’intensità travolgente.
«Non fare niente di insensato o stupido», ordinò, con aria tutt’altro che distaccata. «Capisci cosa intendo?».
Annuii, inerme.
Lo sguardo tornò freddo, di nuovo distante. «Ovviamente penso a Charlie. Ha bisogno di te. Stai attenta a ciò che combini... fallo per lui».
Annuii di nuovo. «Lo farò», sussurrai.
Sembrò un po’ più rilassato.
«In cambio, ti faccio anch’io una promessa», disse. «Prometto che è l’ultima volta che mi vedi. Non tornerò. Non ti costringerò mai più ad affrontare una situazione come questa. Proseguirai la tua vita senza nessuna interferenza da parte mia. Sarà come se non fossi mai esistito».
Probabilmente le mie ginocchia avevano iniziato a tremare, perché d’un tratto vidi gli alberi ondeggiare. Sentivo il sangue pompare nelle orecchie più veloce del solito. La sua voce sembrava lontana lontana.
Sorrise dolcemente: «Non preoccuparti. Sei un essere umano... la tua memoria è poco più che un colino. Il tempo guarisce tutte le vostre ferite».
«E i tuoi ricordi?», chiesi. Sentivo una specie di nodo stretto in gola, che mi soffocava.
«Be’...». Fece una breve pausa. «Non dimenticherò. Ma a quelli come me... basta poco per trovare una distrazione». Sorrise. Un sorriso misurato che non accese i suoi occhi.
Fece un passo indietro. «Tutto qui, credo. Non ti daremo più fastidio».
Il plurale catturò la mia attenzione. Ne fui sorpresa, ormai pensavo di essere incapace di cogliere qualcosa.
«Alice non tornerà». Non so come fece a sentirmi—avevo sillabato la frase, muta—ma probabilmente capì.
Scosse la testa lentamente, sempre guardandomi.
«No. Se ne sono andati tutti. Io sono rimasto soltanto per poterti salutare».
«Alice se n’è andata?». La mia voce era piatta, incredula.
«Voleva salutarti anche lei, ma l’ho convinta che un taglio netto sarebbe stato per te meno doloroso».
Ero sottosopra, non riuscivo a concentrarmi. Le sue parole giravano come un tornado nella mia testa, e mi parve di sentire il medico, all’ospedale di Phoenix, la primavera precedente, mentre mi mostrava le radiografie. Vedi, è una frattura netta, diceva indicando con il dito il mio osso spezzato. Meglio così. Guarirà più velocemente.
Cercai di controllare il respiro. Dovevo farcela, trovare una via d’uscita a quell’incubo.
«Addio, Bella», disse con la solita voce tranquilla e pacifica.
«Aspetta!». Il grido restò soffocato in gola mentre volevo abbracciarlo, convincere le mie gambe insensibili ad andargli incontro.
Sembrava che anche lui volesse abbracciarmi. Ma le sue mani fredde mi strinsero i polsi e li riavvicinarono ai miei fianchi. Si chinò fino a sfiorare con le labbra, per un breve istante, la mia fronte. Chiusi gli occhi.
«Fai attenzione», sussurrò, il suo respiro freddo sulla mia pelle.
Un vento leggero e innaturale si alzò. Spalancai gli occhi. Le foglie di un acero rosso tremarono, scosse dalla brezza delicata del suo passaggio.
Non c’era più.
Con le gambe tremanti, senza rendermi conto di quanto fosse inutile, lo seguii nella foresta. Le tracce del suo cammino erano svanite all’istante. Non c’erano impronte, le foglie erano tornate immobili, ma continuavo a camminare senza pensare. Non riuscivo a smettere. Dovevo continuare a muovermi. Se avessi smesso di cercarlo, sarebbe stata la fine.
Amore, vita, significato... la fine di tutto.
Non smettevo di camminare. Il tempo non contava più mentre mi trascinavo nella vegetazione fitta. Le ore passavano come secondi. Forse il tempo si era fermato, perché ovunque andassi, il bosco era sempre uguale. Iniziai a temere di aver girato a vuoto sullo stesso breve tragitto, ma non mi fermai. Incespicavo di continuo e, più scendeva l’oscurità, più spesso cadevo.
Alla fine inciampai in qualcosa—faceva buio, non avevo idea di cosa fosse—e restai a terra. Mi sdraiai sul fianco, per respirare, e mi raggomitolai tra le felci umide.
In quel momento ebbi la sensazione che fosse passato molto più tempo di quanto pensassi. Non riuscivo a ricordare quando era scesa la sera. Di notte era sempre così buio, là sotto? Almeno un po’ di luce doveva filtrare attraverso le nuvole e la chioma degli alberi...
Ma non quella sera. Quella sera il cielo era totalmente nero. Forse non c’era neanche la luna: era un’eclissi, o una notte di luna nuova.
Luna nuova. Non faceva freddo, ma rabbrividii.
L’oscurità durò a lungo, finché non li udii che mi chiamavano.
Qualcuno gridava il mio nome. Voci attutite, soffocate dalla vegetazione umida che mi circondava, ma era senz’altro il mio nome. Non le riconoscevo. Pensai di rispondere, ma ero stravolta e ci volle parecchio per giungere alla conclusione che dovevo rispondere. A quel punto, i richiami erano cessati.
Più tardi, fu la pioggia a svegliarmi. Probabilmente non mi ero addormentata davvero: mi ero soltanto persa in un torpore senza pensieri, stringendomi con tutte le forze all’annebbiamento che mi impediva di capire ciò che non volevo sapere.
La pioggia mi dava fastidio. Faceva freddo. Sciolsi la presa con cui stringevo le gambe al petto, per coprirmi il viso.
Fu in quel momento che mi sentii di nuovo chiamare. Stavolta le voci erano più lontane, e a tratti sembrava di sentirne tante, che gridavano il mio nome tutte assieme. Cercai di prendere fiato. Sapevo di voler rispondere, ma non credevo che mi avrebbero sentita. Sarei riuscita a urlare con la forza necessaria?
All’improvviso, un altro rumore, sorprendentemente vicino. Come un animale che annusava. Sembrava grosso. Non sapevo se averne paura o no. No, ero troppo annebbiata. Non importava. L’animale che annusava se ne andò.
La pioggia continuò, sentivo una pozza d’acqua formarsi sotto la guancia. Mentre cercavo di raccogliere le forze necessarie a voltarmi, vidi la luce.
Sulle prime era solo un bagliore fioco che si rifletteva sui cespugli in lontananza. Si faceva sempre più brillante e illuminava una porzione di spazio più ampia rispetto a una semplice torcia elettrica. La luce penetrò attraverso il cespuglio più vicino e capii che era una lanterna al propano, ma non vedevo altro. La luce mi accecò per un istante.
«Bella».
Una voce profonda e poco familiare, ma piena di gioia. Non mi stava chiamando, era felice di avermi trovata.
Alzai lo sguardo verso il volto scuro chino sopra di me. A malapena considerai che lo sconosciuto sembrasse così alto perché lui era in piedi e io ancora sdraiata.
«Ti hanno ferita?».
Avevo colto il significato della domanda, ma risposi con uno sguardo sconvolto. Quanto contava il senso delle parole, a quel punto?
«Bella, mi chiamo Sam Uley».
Il suo nome non mi era affatto familiare.
«Charlie mi ha mandato a cercarti».
Charlie? Aveva toccato il tasto giusto, perciò cercai di prestare più attenzione a ciò che diceva. Di Charlie, a differenza di tutto il resto, m’importava.
L’uomo che mi sovrastava mi offrì una mano. Restai a guardarlo, incerta su cosa fare.
I suoi occhi neri mi scrutarono per un secondo, poi si strinse nelle spalle. Con un movimento rapido e agile, mi sollevò da terra e mi prese in braccio.
Restai inerte, stretta a lui, mentre si avviava veloce attraverso la foresta umida. Una parte di me sapeva che avrei dovuto infuriarmi e resistere: uno sconosciuto mi stava trascinando via con sé. Ma non mi era rimasto niente che potesse infuriarsi.
Mi sembrò fosse trascorso poco tempo quando mi accorsi delle luci e del chiacchiericcio di tante voci maschili. Sam Uley rallentò, avvicinandosi al chiasso.
«L’ho trovata!», tuonò.
Il vociare s’interruppe per riprendere con intensità ancora maggiore. Attorno a me si muoveva un confuso vortice di volti. La voce di Sam era l’unica che riuscissi a seguire nel caos, forse perché avevo un orecchio schiacciato contro il suo petto.
«No, non mi sembra ferita», rispose a qualcuno. «Continua soltanto a ripetere: “Non c’è più”».
Lo stavo dicendo ad alta voce? Mi sforzai di chiudere la bocca.
«Bella, tesoro, stai bene?».
Era una voce che avrei riconosciuto ovunque, per quanto in quel momento fosse distorta dalla preoccupazione.
«Charlie?». La mia voce sembrava strana e sottile.
«Sono qui, piccola».
Qualcosa sotto di me si mosse e sentii l’odore di cuoio del giubbotto da capo della polizia di mio padre. Charlie traballò sotto il mio peso.
«Forse è meglio che la tenga io», suggerì Sam Uley.
«Ce la faccio», disse Charlie un po’ affannato.
Camminava lento, a fatica. Avrei voluto dirgli di mettermi giù per lasciarmi camminare, ma non riuscivo a emettere alcun suono.
C’erano torce dappertutto, puntate dalla folla che lo accompagnava. Sembrava una parata. O un funerale. Chiusi gli occhi.
«Siamo quasi a casa, tesoro», mormorava Charlie di tanto in tanto.
Riaprii gli occhi al rumore della serratura. Eravamo sotto il portico di casa, il ragazzone alto e scuro di nome Sam teneva la porta aperta per far passare Charlie, un braccio proteso verso di noi, come se fosse pronto ad aiutarlo nel caso avesse mollato la presa.
Ma Charlie riuscì a entrare con me in braccio e a depositarmi sul divano, in salotto.
«Papà, sono fradicia», protestai con un filo di voce.
«Non importa», rispose burbero. Poi si rivolse a qualcun altro. «Le coperte sono nell’armadio in cima alle scale».
«Bella?», chiese una voce nuova. Guardai l’uomo dai capelli bianchi chino su di me e dopo pochi secondi, a fatica, lo riconobbi.
«Dottor Gerandy?», balbettai.
«Indovinato, cara», rispose. «Sei ferita, Bella?».
Mi ci volle un minuto per pensarci. Ero confusa dal ricordo di Sam Uley che mi faceva la stessa domanda, nel bosco. Soltanto che Sam aveva usato parole diverse: «Ti hanno ferita?». La differenza mi sembrava in qualche modo rilevante.
Il dottor Gerandy era in attesa. Un sopracciglio grigiastro alzato, la fronte solcata da rughe sempre più profonde.
«Non sono ferita», mentii. Ma, per quel che chiedeva lui, le parole corrispondevano al vero.
Mi toccò la fronte con la mano calda e mi sentì il polso con le dita. Guardavo le sue labbra mentre contava, gli occhi fissi sull’orologio.
«Cosa ti è successo?», chiese con tono normale.
Restai impietrita, sentii in gola il sapore del panico.
«Ti sei persa nel bosco?», chiese. Sapevo che c’erano altre orecchie in ascolto. Tre sagome maschili dai volti scuri—probabilmente venivano da La Push, la riserva degli indiani Quileute sulla costa—tra cui Sam Uley, erano in piedi, l’una accanto all’altra, e mi fissavano. C’erano anche il signor Newton assieme a Mike, e il signor Weber, il padre di Angela; le occhiate di questi ultimi erano più furtive di quelle degli sconosciuti. Altre voci profonde rimbombavano dalla cucina e da fuori la porta di casa. Mezza città si era messa alla mia ricerca.
Charlie era il più vicino. Si chinò per udire la mia risposta.
«Sì», sussurrai. «Mi sono persa».
Il dottore annuì, pensieroso, mentre tastava con le dita le ghiandole sotto il mio mento. Il volto di Charlie s’irrigidì,
«Sei stanca?», chiese il dottore.
Annuii e chiusi gli occhi docilmente.
«Penso che tutto sommato stia bene», sentii mormorare dal dottore a mio padre, dopo un momento. «È soltanto esausta. Lasci che ci dorma sopra, domani vengo a controllarla». S’interruppe, guardò l’ora e si corresse: «Be’, oggi, in giornata».
Un cigolio, e i due si allontanarono, alzandosi dal divano.
«È vero?», sussurrò Charlie. Ora le loro voci erano lontane. Mi sforzai per ascoltarli. «Se ne sono andati?».
«Il dottor Cullen ci ha pregati di non dire nulla», rispose Gerandy. «Gli è arrivata un’offerta all’improvviso: ha dovuto scegliere su due piedi. Carlisle non voleva che la sua partenza facesse troppo clamore».
«Potevano avvertire almeno con un po’ di anticipo», bofonchiò Charlie.
Il dottor Gerandy sembrava a disagio. «Sì, in effetti, data la situazione, un preavviso sarebbe stato opportuno».
Non volevo più starli a sentire. Cercai l’orlo della trapunta che qualcuno mi aveva sistemato addosso e me la tirai fin sopra le orecchie.
A sprazzi riprendevo lucidità. Udii i ringraziamenti sussurrati di Charlie mentre i volontari, uno alla volta, se ne andavano. Poi le sue dita sulla fronte e il peso di un’altra coperta. Ogni volta che il telefono squillava, correva a rispondere prima che potessi svegliarmi. Si prodigava in rassicurazioni a bassa voce.
«Sì, l’abbiamo ritrovata. Sta bene. Si è persa. Adesso sta meglio», continuava a ripetere.
Sentii le molle della poltrona cigolare quando Charlie ci si accomodò per la notte.
Qualche minuto dopo, il telefono squillò di nuovo.
Con un lamento, Charlie cercò di issarsi in piedi, poi corse, traballante, verso la cucina. Ficcai la testa ancor di più sotto le coperte, non volevo ascoltare per l’ennesima volta la stessa conversazione.
«Sì», disse Charlie e sbadigliò.
Il suo tono di voce cambiò, alla risposta successiva era molto più lucido. «Dove?». Poi, una pausa. «È sicura che sia fuori dalla riserva?». Altra pausa. «Ma cosa potrebbe bruciare, proprio là?». Sembrava preoccupato, ma anche disorientato. «Senta, faccio una telefonata da quelle parti e controllo».
Drizzai le orecchie mentre componeva il numero.
«Ciao, Billy, sono Charlie. Scusa se chiamo a quest’ora... no, sta bene. Dorme... Grazie, ma non è per questo che chiamo. Ho appena ricevuto una telefonata dalla signora Stanley, dice che dalla finestra del secondo piano vede delle fiamme verso la scogliera, ma io davvero... Ah!». All’istante, la sua voce si fece più energica: per irritazione... o rabbia? «E perché fanno una cosa del genere? Ah, ecco. Davvero?». Era sarcastico. «Be’, non scusarti con me. Sì, sì. Bada soltanto che le fiamme non si propaghino... lo so, lo so, mi sorprende che siano riusciti ad accenderli con questo tempo».
Charlie tacque, poi aggiunse di malavoglia: «Grazie per avere mandato Sam e i ragazzi. Avevi ragione: conoscono la foresta meglio di noi. È stato Sam a trovarla, perciò sono in debito... Sì, ci sentiamo più tardi», aggiunse, sempre con tono cupo, prima di riattaccare.
Charlie balbettò qualche parola incoerente, mentre sgattaiolava di nuovo in salotto.
«C’è qualcosa che non va?», chiesi.
Corse al mio fianco.
«Scusa se ti ho svegliata, piccola».
«Un incendio?».
«Niente di che», disse per rassicurarmi. «Solo qualche falò sugli scogli».
«Falò?», chiesi. Il mio tono di voce non era curioso, solo smorto.
Charlie aggrottò le sopracciglia. «Bravate dei ragazzi della riserva», spiegò.
«Perché?», chiesi inebetita.
Sentivo che non voleva rispondere. Abbassò lo sguardo sul pavimento, tra le sue ginocchia. «Festeggiano la novità», disse amareggiato.
C’era una sola novità a cui potessi pensare, volente o nolente. E subito ricomposi il puzzle. «Perché i Cullen se ne sono andati», sussurrai. «I Cullen non piacciono a quelli di La Push... me ne ero dimenticata».
I Quileute si tramandavano certe superstizioni a proposito dei “freddi”, i bevitori di sangue nemici della tribù, così come leggende che parlavano della grande inondazione e dei loro antenati licantropi. Per la maggior parte di loro erano soltanto racconti e storie popolari. Ma qualcuno ci credeva. Per esempio Billy Black, il vecchio amico di Charlie, benché addirittura suo figlio Jacob le giudicasse stupide superstizioni. Billy mi aveva avvertita di stare lontana dai Cullen...
Il nome stuzzicò qualcosa dentro di me, qualcosa che con gli artigli tentava di riaffiorare in superficie, qualcosa che non sapevo come affrontare.
«Che storia ridicola», sbottò Charlie.
Restammo in silenzio per qualche istante. Fuori dalla finestra il cielo non era più buio. Da qualche parte, al di là della pioggia, sorgeva il sole.
«Bella?», chiese Charlie.
Lo guardai, a disagio.
«Ti ha lasciata sola nel bosco?».
Cercai di schivare la domanda. «Come avete fatto a trovarmi?». La mia mente cercava di scansarsi di fronte all’inevitabile consapevolezza che, con rapidità, stava raggiungendomi.
«C’era il biglietto», rispose Charlie, sorpreso. Infilò una mano nella tasca dei jeans e ne estrasse un foglietto stropicciatissimo. Era sporco e umido, spiegazzato dalle mille volte in cui era stato aperto e ripiegato. Lo stirò per bene e lo mise in mostra come una prova decisiva. La scrittura disordinata era straordinariamente simile alla mia.
«Vado a fare due passi con Edward, su per il sentiero», diceva. «Torno presto, B».
«E quando non ti ho vista tornare, ho chiamato i Cullen, ma non ha risposto nessuno», disse Charlie, cupo. «Allora ho provato in ospedale e il dottor Gerandy mi ha spiegato che Carlisle se n’era andato».
«Ma dove?», mormorai.
Mi guardò fisso. «Edward non te l’ha detto?».
Scossi la testa, ritraendomi. Udire il suo nome scatenò la cosa che mi artigliava da dentro: un dolore che mi tolse il respiro e mi stupì per la sua forza.
Charlie rispose guardandomi dubbioso. «Carlisle ha avuto un incarico presso un grosso ospedale di Los Angeles. Immagino che lo abbiano ricoperto di denaro».
La soleggiata Los Angeles. Che in realtà era l’ultimo posto in cui avrebbero potuto rifugiarsi. Ripensai all’incubo dello specchio... la luce del sole, accesa, riflessa dalla sua pelle...
Al ricordo del suo viso mi sentii squarciare da un senso di agonia.
«Voglio sapere se Edward ti ha lasciata da sola laggiù, nel cuore del bosco», insistette Charlie.
Scossi la testa, agitata, sconvolta dal bisogno di sfuggire al dolore. «È stata colpa mia. Quando se n’è andato ero sul sentiero, non lontano da casa... ma ho cercato di seguirlo»,
Charlie fece per dire qualcosa; come una bambina, mi coprii le orecchie. «Non riesco a parlarne, papà. Voglio andare in camera mia».
Prima che potesse rispondere, scattai dal divano e, barcollando, salii le scale.
Qualcuno era entrato in casa e aveva lasciato a Charlie il biglietto. Nell’istante in cui me ne resi conto, un orribile sospetto mi si affacciò alla mente. Mi precipitai nella mia stanza, chiusi la porta a chiave e corsi al lettore CD accanto al letto.
Tutto sembrava identico a come l’avevo lasciato. Pigiai il coperchio del lettore. La chiusura scattò e lo sportello si aprì.
Era vuoto.
L’album di Renée era per terra, accanto al letto, dove l’avevo lasciato. Sollevai la copertina con mano tremante.
Mi bastò sfogliare la prima pagina. Fissata agli angoli di metallo non c’era nessuna foto. Sul foglio bianco spiccava la mia scrittura: «Edward Cullen, cucina di Charlie, 13 settembre».
Non andai oltre. Di sicuro aveva fatto le cose per bene.
Sarà come se non fossi mai esistito, me lo aveva promesso.
Sentii il pavimento di legno liscio sotto le ginocchia, poi sul palmo delle mani e infine contro la guancia. Speravo di svenire, ma purtroppo non persi conoscenza. Le ondate di dolore da cui prima ero stata appena sfiorata ora si innalzavano di fronte a me e mi si infrangevano addosso, trascinandomi giù.
E dal fondo non riemersi.
Ottobre
Novembre
Dicembre
Gennaio