18 Il funerale

Mi precipitai per le scale a spalancare la porta.

Ovviamente, era Jacob. Anche quando era cieca, Alice ci prendeva.

Si era fermato a quasi due metri dalla soglia, il naso arricciato in un’espressione di disgusto, ma il viso era tirato, come una maschera. Non riuscì a ingannarmi: notai il debole tremore delle mani.

Emanava vibrazioni ostili. Come nell’orrendo pomeriggio in cui aveva scelto di stare con Sam anziché con me; per difendermi lo guardai a testa alta.

Sul ciglio della strada c’era la Golf di Jacob, con Jared alla guida ed Embry sul sedile del passeggero. Il senso della loro presenza era chiaro: avevano paura di lasciarlo venire da solo. Provai tristezza e un certo fastidio. I Cullen erano diversi.

«Ciao», dissi per spezzare il suo silenzio.

Jake corrugò le labbra, senza avvicinarsi. Con lo sguardo perlustrò la facciata della casa.

Serrai le mascelle. «Non c’è. Cosa vuoi?».

Attese qualche istante. «Sei sola?».

«Sì», sospirai.

«Possiamo parlare per un minuto?».

«Certo che sì, Jacob. Entra pure».

Lanciò un’occhiata alle sue spalle, verso gli amici in auto. Notai un minuscolo cenno del capo da parte di Embry. Per chissà quale motivo, mi sentii profondamente seccata.

Di nuovo serrai le mascelle. «Coniglio», mormorai tra me.

Lo sguardo di Jake m’inchiodò, le sopracciglia nere e folte curve sugli occhi infossati. Alzò la testa e a passo di marcia—non c’è altro termine per descrivere il modo in cui si mosse—si avvicinò e mi scansò per entrare in casa.

Prima di chiudere la porta, lanciai un’occhiataccia a Jared ed Embry. I loro sguardi non mi piacevano. Davvero temevano che potessi fare del male al loro amico?

Jacob era in corridoio, alle mie spalle, e osservava le lenzuola in disordine che riempivano il salotto.

«Pigiama party?», chiese sarcastico.

«Sì», risposi con lo stesso livello di acidità. Non mi piaceva quando si comportava in quel modo. «È un problema?».

Arricciò di nuovo il naso, come di fronte a un odore sgradevole. «Dov’è la tua amica?».

«Aveva qualche commissione da fare. Senti, Jacob, cosa vuoi?».

Qualcosa, nella stanza, lo rese ancora più nervoso. Le sue lunghe braccia tremavano e non rispose. Entrò in cucina, invece, e la perlustrò tutta con rapide occhiate. Lo seguii. Camminava avanti e indietro, davanti al piano del cucinotto.

«Ehi», dissi sbarrandogli la strada. Lui si fermò e mi guardò negli occhi. «Qual è il problema?».

«Non mi va di dover restare qui».

Colpita in pieno. Trasalii e il suo sguardo si fece più cattivo.

«Allora mi dispiace che tu sia venuto», mormorai. «Perché non mi dici cosa vuoi, così puoi andartene?».

«Ho soltanto un paio di domande da farti. Non ci vorrà molto. Dobbiamo rientrare prima che inizi il funerale».

«D’accordo. Sbrighiamoci, allora». Probabilmente sfidarlo in quel modo era troppo, ma non volevo svelargli quanto mi facesse male. Non mi stavo comportando bene, lo sapevo. Dopotutto, ero stata io a preferirgli la succhiasangue. Ero stata io la prima a ferire.

Prese fiato e le sue dita tremanti si immobilizzarono all’istante. Sul suo volto comparve un’espressione serena.

«Qui con te c’è una Cullen», disse.

«Sì. Alice Cullen».

Annuì pensieroso. «Quanto ha intenzione di restare?».

«Quanto le pare». La mia ostilità era ancora evidente. «È mia ospite».

«Pensi di riuscire... per favore... a spiegarle di quell’altra—Victoria?».

Impallidii. «Gliene ho già parlato».

Jacob annuì. «Forse ricordi che in presenza dei Cullen noi siamo costretti a vigilare soltanto sulle nostre terre. Solo a La Push sarai al sicuro. Qui non posso più proteggerti».

«D’accordo», risposi con un filo di voce.

Gettò lo sguardo verso le finestre sul retro. Non aggiunse altro.

«Tutto qui?».

Rispose senza staccare gli occhi dai vetri. «Una cosa ancora».

Restai in attesa, ma lui non parlava. Cercai di incoraggiarlo. «Cosa?».

«Ora torneranno anche gli altri?», chiese, sereno e tranquillo. Ricordava le maniere posate di Sam. Jacob gli somigliava sempre di più... chissà perché, la cosa mi preoccupava.

Fu il mio turno di rispondere tacendo. Mi guardò in faccia, dritto negli occhi.

«Be’?», chiese, sforzandosi di nascondere la tensione dietro il viso sereno.

«No», risposi infine, mio malgrado. «Non torneranno».

Non si scompose. «Va bene. Non ho altro da dire».

Gli lanciai un’occhiataccia, sentivo rinascere il fastidio. «Be’, ora puoi scappare. Vai a dire a Sam che i brutti mostri non verranno a cercarvi».

«Va bene», ribadì calmo.

Non c’era altro da dire. Jacob uscì svelto dalla cucina. Restai in attesa del rumore della porta di casa, ma non sentii niente, a parte il ticchettio dell’orologio sopra il forno. Incredibile quanto lui fosse diventato silenzioso.

Che disastro. Era assurdo che in così poco tempo fossi riuscita a renderlo una specie di estraneo.

Dopo che Alice se ne fosse andata, mi avrebbe perdonato? E se non lo avesse fatto?

Mi afflosciai contro il piano della cucina, nascondendo la testa tra le mani. Com’era possibile che avessi creato quel disastro? Avevo avuto altra scelta? Nemmeno con il senno di poi riuscivo a pensare a una maniera, a una strada migliore e ideale.

«Bella?», chiese Jacob con voce tremante.

Scoprii il viso e lo vidi imbarazzato sulla soglia della cucina; non era ancora uscito. Solo quando notai le gocce brillare tra le mie dita capii di essere scoppiata a piangere.

L’espressione calma di Jacob era sparita; era ansioso e insicuro. Subito mi si avvicinò e abbassò la testa per avvicinare i suoi occhi ai miei.

«È successo di nuovo, vero?».

«Cosa?», chiesi con la voce rotta.

«Ho infranto la promessa. Scusami».

«Fa niente», mormorai. «Stavolta ho iniziato io».

Fece una smorfia. «Sapevo quanto fossi affezionata a loro. Non avrei dovuto lasciarmi sorprendere così».

Gli leggevo il disgusto negli occhi. Avrei desiderato spiegargli chi era in realtà Alice, difenderla dalle sue accuse, ma qualcosa mi diceva che non era il momento adatto.

Perciò, risposi con un semplice: «Mi dispiace».

«Non preoccupiamoci troppo, va bene? È soltanto in visita, no? Quando se ne andrà, tutto tornerà normale».

«Non posso essere amica di entrambi?», chiesi senza nascondere nemmeno un briciolo del dolore che provavo.

Jacob scosse la testa, lentamente. «No, temo di no».

Singhiozzai e fissai i suoi piedoni. «Ma tu aspetterai, vero? Sarai sempre mio amico, anche se voglio bene ad Alice?».

Evitai di guardarlo in faccia per non vedere la sua reazione e ci mise un bel po’ a rispondere. Forse avevo fatto bene a non alzare lo sguardo.

«Sì, sarò sempre tuo amico», disse torvo. «Non m’importa a chi vuoi bene».

«Promesso?».

«Promesso».

Mi sentii circondare dalle sue braccia e mi strinsi a lui, ancora in lacrime. «Che schifo di situazione».

«Già». Poi mi annusò i capelli e fece una smorfia nauseata.

«Basta!», esclamai. Alzai gli occhi e lo vidi storcere il naso. «Perché ce l’avete tutti con me? Io non puzzo!».

Abbozzò un sorriso. «Invece sì... puzzi come loro. Bleah. Troppo dolce. Nauseante. E... ghiacciato. Mi brucia il naso».

«Davvero?». Strano. Il profumo di Alice era meraviglioso. Per un essere umano, certo. «Ma perché anche Alice dice che puzzo, allora?».

Il sorriso scomparve. «Ehm... forse neanche il mio odore è buono, per lei. No?».

«Be’, a me sembra che entrambi abbiate un buon profumo». Posai di nuovo la testa sul suo petto. Una volta uscito, mi sarebbe mancato terribilmente. Che maledetto rompicapo. Desideravo che anche Alice restasse sempre con me. Mi sarei sentita morire se mi avesse abbandonata, ma com’era possibile restare senza Jake fino a chissà quando? Che casino, pensai.

«Mi mancherai», sussurrò Jacob, in accordo con i miei pensieri. «In ogni istante. Spero che se ne vada presto».

«Non deve essere per forza così, Jake».

Sospirò. «Invece sì, Bella. Tu... le vuoi bene. Perciò è meglio che non mi avvicini. Non sono sicuro di sapermi controllare abbastanza. Sam si infurierebbe se infrangessi il patto e...», il suo tono si fece sarcastico, «non saresti affatto contenta se uccidessi la tua amica».

A quelle parole, tentai di sciogliere l’abbraccio, ma lui strinse la presa e m’impedì di fuggire. «È inutile negare là verità. Così vanno le cose, Bells».

«Non mi piace come vanno».

Jacob liberò un braccio, in modo da prendermi il mento tra le dita e farmi alzare il viso verso il suo. «Già. Quando eravamo umani era più facile, vero?».

Lo guardai fisso per un attimo eterno. La sua mano bruciava sulla pelle. Sapevo che nei miei occhi non c’era altro che tristezza e malinconia: non sopportavo l’idea di doverlo salutare e poco importava che prima o poi ci saremmo rivisti. All’inizio la sua espressione si rifletté nella mia, ma pian piano, mentre restavamo a guardarci negli occhi, cambiò.

Sciolse l’abbraccio per sfiorarmi la guancia con le dita dell’altra mano. Le sentivo tremare, ma non di rabbia. Premette il palmo sulla guancia e il mio volto rimase intrappolato tra le sue mani ardenti.

«Bella», sussurrò.

Io ero impietrita.

No! Non avevo ancora deciso. Non sapevo se ce l’avrei fatta in grado e adesso era troppo tardi per pensarci. Era da pazzi, però, credere che rifiutarlo non avrebbe avuto conseguenze.

Lo guardai a mia volta. Non era il mio Jacob, ma avrebbe potuto diventarlo. Il suo volto mi era familiare e caro. Avevo più di un motivo reale per amarlo. Era il mio sollievo, il mio porto sicuro. In quell’istante avrei potuto decidere di farlo mio.

Alice era tornata, temporaneamente, ma ciò non cambiava nulla. Il vero amore lo avevo perso per sempre. Nessun principe sarebbe mai tornato a risvegliarmi dal sonno incantato con un bacio. In fondo, non ero una principessa. Tra l’altro, che protocollo seguivano, nelle favole, i baci normali? Quelli ordinari, che non spezzavano nessun incantesimo?

Forse sarebbe stato facile, come tenergli la mano o lasciarmi abbracciare. Forse sarebbe stato piacevole. Forse non lo avrei scambiato per un tradimento. Ma poi, chi stavo tradendo? Soltanto me stessa.

Con gli occhi fissi nei miei, Jacob avvicinò il viso. E io ero ancora assolutamente indecisa.

Il trillo acuto del telefono ci fece sobbalzare entrambi, ma Jacob non perse lucidità. Senza togliere una mano dal mio viso, allungò l’altra per afferrare la cornetta. Gli occhi scuri non mollavano i miei. Ero troppo stordita persino per reagire e approfittare della distrazione.

«Casa Swan», disse Jacob con la sua voce rauca, cupa e intensa.

Qualcuno rispose e Jacob cambiò espressione in un istante. Si irrigidì e mollò la presa. Il suo sguardo era neutro, il volto vuoto, avrei scommesso ciò che restava dei miei miseri risparmi che fosse Alice.

Un po’ più lucida, tesi una mano per chiedergli il telefono. Lui mi ignorò.

«Non è in casa», disse minaccioso.

Ne seguì una risposta molto breve, probabilmente una richiesta di informazioni perché lui aggiunse, sdegnato: «È al funerale».

Poi riappese. «Schifoso succhiasangue», mormorò tra sé. Tornò a fissarmi con la sua maschera di cattiveria.

«Posso sapere a chi hai sbattuto il telefono in faccia?», esplosi infuriata. «Il mio telefono, in casa mia.

«Tranquilla! È stato lui a riattaccare».

«Lui? Lui chi?!».

«Il dottor Carlisle Cullen», rispose sarcastico.

«Perché non me l’hai passato?».

«Non ha chiesto di te», rispose freddo. Mi guardava calmo, impassibile, ma gli tremavano le mani. «Mi ha chiesto dove fosse Charlie, e gliel’ho detto. Non credo di aver infranto nessuna regola del bon ton».

«Stammi a sentire, Jacob Black...».

Ovviamente non mi stette a sentire. Lanciò un’occhiata fulminea alle sue spalle, come se qualcuno lo chiamasse dall’altra stanza. Con uno sguardo stralunato si irrigidì e iniziò a tremare. Anch’io restai in ascolto, senza sentire nulla.

«Ci vediamo, Bells», sibilò lanciandosi verso l’ingresso.

Lo rincorsi. «Cosa succede?».

Mi scontrai con lui quando si arrestò all’improvviso, imprecando a mezza voce. Voltandosi mi fece perdere l’equilibrio. Una giravolta e caddi a terra, le gambe intrecciate alle sue.

«Ehi, cavolo!», protestai mentre si affannava a sciogliere il nodo, una gamba alla volta.

A fatica mi rialzai mentre lui lanciava sguardi verso la porta del retro. E restò di nuovo come pietrificato.

Ai piedi delle scale c’era Alice, anche lei immobile.

«Bella», disse con voce soffocata.

Di scatto corsi goffa accanto a lei. Il suo sguardo era sfocato e lontano, il viso contratto e pallido, il corpo slanciato preda di una convulsione profonda.

«Alice, cosa c’è?», urlai. Le sfiorai il volto per calmarla.

Incrociò il mio sguardo di colpo, spalancato dall’angoscia.

«Edward», bisbigliò.

Il mio corpo reagì prima che la mente potesse cogliere il significato del suo nome pronunciato a quel modo. Sulle prime, non riuscii a capire perché la stanza girasse, né da dove venisse il rombo vuoto che sentivo nelle orecchie. Mentre il cervello si dava da fare per intendere da dove venisse l’espressione lugubre di Alice e cosa c’entrasse Edward, il corpo aveva già ceduto e io avevo quasi già perso conoscenza prima che la realtà si abbattesse su di me.

La scala si inclinò a un’angolazione assurda.

Le mie orecchie si riempirono all’improvviso della voce furiosa di Jacob che sibilava una sequela di bestemmie. Sentii il desiderio di rimproverarlo. I suoi nuovi amici avevano su di lui una pessima influenza.

Senza capire come ci fossi arrivata, riaprii gli occhi sul divano, mentre Jacob non smetteva di imprecare. Mi sentivo al centro di un terremoto, col divano che tremava sotto di me.

«Cosa le hai fatto?», chiese.

Alice lo ignorò. «Bella? Bella, riprenditi. Dobbiamo sbrigarci».

«Stalle lontana», la avvertì Jacob.

«Calmati, Jacob Black», ordinò Alice. «Non vorrai fare una cosa del genere di fronte a lei».

«Non penso che avrò problemi a restare concentrato», ribatté, e parve un po’ più tranquillo.

«Alice?», ero quasi senza voce. «Cos’è successo?», chiesi, benché non desiderassi saperlo.

«Non lo so», strillò all’improvviso. «Ma cosa crede?!».

Cercai di alzarmi malgrado l’intorpidimento. Mi resi conto che cercavo di restare in equilibrio reggendomi al braccio di Jacob. Era lui a tremare, non il divano.

Quando la ritrovai con lo sguardo, Alice stava estraendo un argenteo telefonino dalla borsa. Compose il numero così veloce che le sue dita sembrarono invisibili.

«Rose, devo parlare con Carlisle subito». Le sue parole furono un colpo di frusta. «Bene, appena torna. No, sarò in aereo. Senti, hai notizie di Edward?».

Alice restò in ascolto, muta e sempre più sbalordita. Rimase a bocca aperta, spaventata, il telefono le tremava tra le sue dita.

«Perché?», esclamò. «Come hai potuto, Rosalie?».

Qualunque fosse la risposta, serrò le mascelle, infuriata. Aggrottò le sopracciglia, lo sguardo traboccante di rabbia.

«Be’, entrambe le tue conclusioni sono sbagliate, Rosalie, il che è un bel problema, non trovi?», disse acida. «Sì, sta benissimo. Mi sono sbagliata... È una storia lunga... Ma qui sei tu che ti sbagli, per questo ho chiamato... Sì, è esattamente ciò che ho visto».

Il tono di voce di Alice era aspro, parlava mostrando i denti. «Troppo tardi, Rose. Il tuo rimorso vai a sventolarlo di fronte a chi ancora ti crede». E richiuse il telefono con un gesto secco delle dita.

Si voltò verso me, lo sguardo pieno d’angoscia.

«Alice», farfugliai. Non potevo lasciare che parlasse. Dovevo aspettare qualche secondo prima che aprisse bocca e le sue parole distruggessero ciò che restava della mia vita. «Alice, credo che Carlisle sia tornato. Ha chiamato poco fa...».

Mi fissò incredula. «Quando?», chiese con un filo di voce.

«Mezzo minuto prima che arrivassi tu».

«Cos’ha detto?».

«Non gli ho parlato io». Lanciai un’occhiata a Jacob.

Alice lo incenerì con gli occhi. Lui ebbe un fremito, ma non si allontanò. Si sedette imbarazzato, quasi cercasse di farmi scudo con il suo corpo.

«Ha chiesto di Charlie e gli ho risposto che non era in casa», bofonchiò Jacob, sdegnato.

«Nient’altro?», chiese Alice, la voce di ghiaccio.

«Ha riattaccato subito», replicò Jacob. Uno spasmo corse lungo la sua schiena e fece tremare anche me.

«Gli hai detto che Charlie è al funerale», aggiunsi.

Alice si voltò di scatto verso di me. «Quali parole ha usato, esattamente?».

«Ha detto: “Non è in casa”. E quando Carlisle gli ha chiesto dove fosse Charlie, Jacob ha risposto: “È al funerale”».

Un gemito e Alice cadde in ginocchio.

«Dimmi, Alice», sussurrai.

«Al telefono, prima, non era Carlisle», confessò disperata.

«Mi stai dando del bugiardo?», ringhiò Jacob al mio fianco.

Alice lo ignorò e si concentrò sulla mia espressione sconvolta.

«Era Edward». Le sue parole furono un sussurro strozzato. «Crede che tu sia morta».

La mia mente ricominciò a funzionare. Non erano le notizie che temevo e il conforto che provai mi schiarì le idee.

«Rosalie gli ha detto che mi sono suicidata, vero?», dissi e sospirai di sollievo.

«Sì», rispose Alice, torva. «A sua difesa, va detto che anche lei lo credeva. Si fidano troppo delle mie visioni imperfette. Ma si è anche azzardata a contattarlo e a dirgli tutto! Non si rendeva conto... non le importava...». La sua voce si spense, terrorizzata.

«E quando Edward ha chiamato, ha pensato che il funerale fosse il mio». Sentii una fitta al pensiero di quanto vicina fosse stata la sua voce, a pochi centimetri. Infilzai le unghie nel braccio di Jacob, ma lui non fece una piega.

Alice mi lanciò un’occhiata strana: «Non sei sconvolta».

«Be’, un bell’equivoco, ma con il tempo si chiarirà tutto. La prossima volta che telefona, qualcuno gli dirà come... stanno le...». Non riuscii a concludere la frase. Il suo sguardo mi soffocò le parole in gola.

Perché era nel panico? Perché sul suo viso vedevo i segni della pietà e dell’orrore? E qual era il senso di ciò che aveva appena detto a Rosalie? Le sue visioni... e il rimorso di Rose. Impossibile che sua sorella si sentisse in colpa per aver fatto del male a me. Se invece si fosse trattato della sua famiglia, di suo fratello...

«Bella», sussurrò Alice. «Edward non richiamerà. Ha creduto a mia sorella».

«Non. Rie-sco. A ca-pi-re». Sillabai la frase in silenzio. Non avevo abbastanza fiato per chiedere ad alta voce quel che volevo sapere.

«È partito per l’Italia».

Per capire, mi bastò un battito del mio cuore.

E sentii la voce di Edward, ma non era l’imitazione perfetta delle mie allucinazioni. Aveva il suono debole e anonimo dei ricordi. Però le sue parole bastarono a sbriciolarmi il petto e a riaprire la voragine. Venivano da un tempo in cui avrei scommesso qualsiasi cosa sulla sincerità del suo amore per me.

Be’, non sarei mai riuscito a vivere senza di te, aveva detto, in quella stessa stanza, mentre vedevamo morire Romeo e Giulietta. Ma non sapevo come avrei fatto... sapevo di non poter contare su Emmett e Jasper... perciò ho pensato di andare in Italia, a scatenare l’ira dei Volturi... i Volturi non vanno irritati... A meno che non si cerchi la morte.

«NO!». La mia esclamazione fu un grido talmente acuto, dopo i sussurri, da spaventare tutti. Il sangue mi andò alla testa quando compresi cos’aveva visto Alice. «No! No, no, no! Non può! Non può farlo!».

«Ha deciso un istante dopo che il tuo amico gli ha confermato che era troppo tardi per salvarti».

«Ma lui mi ha... lasciata! Non mi voleva più! Che differenza fa, ormai? Sapeva che prima o poi sarei morta!».

«Non credo che avesse in programma di sopravviverti a lungo», rispose Alice a bassa voce.

«Ma come osa!», strillai. Mi ero rialzata in piedi e, tremando, Jacob tornò a fare da schermo tra me e Alice.

«Oh, spostati, Jake!». Sgomitai per farmi strada, disperata e impaziente. «Cosa facciamo?», chiesi implorante ad Alice. Doveva esserci una soluzione. «Non possiamo chiamarlo? Carlisle non può fare niente?».

Fece cenno di no. «È stato il primo tentativo che ho fatto. Ha buttato il cellulare nella spazzatura, a Rio: ha risposto qualcun altro...», sussurrò.

«Prima hai detto che bisogna sbrigarsi. In che senso? Diamoci da fare, in qualsiasi modo!».

«Bella, io... non penso di poterti chiedere di...». Restò in silenzio, perplessa.

«Chiedimelo!», sbottai.

Mi posò le mani sulle spalle per trattenermi dov’ero ed enfatizzò certe parole con movimenti leggeri delle dita. «Può darsi che sia già troppo tardi. L’ho visto andare dai Volturi... a chiedere di morire». Un brivido ci colse entrambe e io fui immediatamente accecata dalle lacrime. Sbattevo le palpebre per spazzarle via. «Dipende dal loro verdetto. Non potrò vederlo finché non prendono una decisione. Se gli dicono di no, ed è probabile che lo facciano—Aro è molto amico di Carlisle, e non credo si permetterà di offenderlo -, Edward ha un piano di riserva. I Volturi sono molto protettivi nei confronti della loro città. Edward sa che se farà qualcosa che ne sconvolga la tranquillità, cercheranno di fermarlo. E ha ragione, lo fermeranno».

Restai a guardarla a denti stretti, in preda al nervosismo. Non era una buona giustificazione per rimanere ancora con le mani in mano.

«Perciò, se accettano di esaudire il suo desiderio, è troppo tardi. Se dicono di no, e lui escogita abbastanza alla svelta un piano per infastidirli, è troppo tardi. Soltanto se cedesse alle sue inclinazioni un po’ teatrali... potremmo avere ancora un margine di tempo».

«Andiamo!».

«Ascoltami, Bella! In tempo o no, ci troveremo nel cuore della città dei Volturi. Se riesce nel suo intento, mi considereranno sua complice. E tu sei un essere umano che non soltanto sa troppo, ma ha anche un ottimo profumo. Ci sono parecchie possibilità che ci eliminino tutti... Nel tuo caso non si tratterà di una punizione, ma di un invito a cena».

«Per questo siamo ancora qui?», chiesi sconcertata. «Se tu hai paura, ci andrò da sola». Feci il calcolo mentale di quanti soldi mi fossero rimasti e mi chiesi se Alice avrebbe potuto prestarmi il resto.

«Temo solo che uccidano anche te».

Risposi con una smorfia sdegnata. «Rischio la vita quasi tutti i giorni! Dimmi cosa devo fare!».

«Scrivi un biglietto a Charlie. Io prenoto l’aereo».

«Charlie», esclamai.

Non che la mia presenza lo proteggesse, ma non potevo permettermi che, da solo, rischiasse...

«Non permetterò che qualcuno gli faccia del male». La voce cupa di Jacob era torva e arrabbiata. «Chi se ne frega del patto».

Alzai lo sguardo verso di lui, che osservava con disprezzo la mia espressione spaventata.

«Sbrigati, Bella», esclamò Alice.

Corsi in cucina, aprii tutti i cassetti e ne rovesciai il contenuto in cerca di una penna. Una mano liscia, bronzea, me ne allungò una.

«Grazie», mormorai, mentre sfilavo il tappo con i denti. In silenzio, mi offrì anche il blocchetto che usavamo come promemoria delle telefonate. Strappai il primo foglio e lo lanciai alle mie spalle.

«Papà», scrissi, «sono con Alice. Edward è nei guai. Quando torno potrai sgridarmi. So che è non è il momento giusto. Mi dispiace tanto. Ti voglio bene, davvero. Bella».

«Non andare», sussurrò Jacob. Lontano da Alice, la rabbia si dissolveva.

Non avevo intenzione di sprecare tempo a discutere con lui. «Ti prego, ti prego, ti prego, sta’ attento a Charlie», dissi sfrecciando verso il soggiorno. Alice mi aspettava in corridoio, con lo zaino in spalla.

«Prendi il portafoglio: ti servirà un documento. Ti prego, dimmi che hai il passaporto. Non ho tempo di falsificartene uno».

Annuii e salii le scale di corsa, con le gambe tremanti e lieta che mia madre avesse deciso di sposare Phil su una spiaggia messicana. Ovviamente, si era dimostrato il suo solito progetto campato per aria. Ma almeno avevo avuto il tempo di occuparmi dei preparativi.

Entrai in camera. Cacciai nello zainetto il mio vecchio portafoglio, una maglietta pulita, i pantaloni della tuta e per ultimo lo spazzolino. Scesi le scale a razzo. La sensazione di déjà-vu a quel punto era fortissima. Se non altro, a differenza della volta precedente—quando avevo lasciato Forks per sfuggire a dei vampiri assetati, anziché per andarli a cercare -, non ero costretta a salutare nessuno di persona.

Jacob e Alice erano bloccati in una specie di discussione, davanti alla porta aperta, tanto lontani da non poter credere che si stessero parlando. Nessuno dei due parve accorgersi della mia rumorosa riapparizione.

«Voi sarete anche capaci di controllarvi, ogni tanto, ma le sanguisughe da cui la vuoi portare...». Jacob, furioso, la stava accusando.

«Sì. Hai ragione, cane». Anche Alice ringhiava. «I Volturi sono il fondamento della nostra razza, il motivo per cui quando senti il mio odore ti si rizza il pelo. Sono la sostanza dei tuoi incubi, la paura che muove il tuo istinto. Ne sono conscia».

«E gliela vuoi offrire come una bottiglia di vino a una festa!», gridò lui.

«Pensi che se la passerebbe meglio se la lasciassi qui, preda di Victoria?».

«La rossa la sistemiamo noi».

«E allora perché è ancora a caccia?».

Jacob ruggì e fu preso da una convulsione.

«Basta!», urlai a entrambi, sconvolta e impaziente. «Discuterete al nostro ritorno, ora andiamo!».

Alice puntò dritta verso l’auto e sparì in un istante. Mi sforzai di stare al passo, ma mi fermò il gesto meccanico di chiudere la porta.

Jacob mi afferrò per un braccio con mano tremante. «Per favore, Bella. Ti scongiuro».

Nei suoi occhi scuri brillavano le lacrime. Sentii un nodo in gola.

«Jake, devo...».

«Invece no. Proprio no. Puoi restare qui con me. E sopravvivere. Fallo per Charlie... Per me!».

Il motore della Mercedes di Carlisle si avviò docile; il ritmo dei pistoni aumentò, quando Alice diede un colpo secco di acceleratore.

Scossi la testa con un gesto brusco che fece scivolare le lacrime sulle mie guance. Liberai il braccio dalla presa e Jacob non fece niente per fermarmi.

«Non morire, Bella», disse soffocato. «Non andare. Non farlo».

Non l’avrei rivisto mai più?

Il pensiero scatenò il mio pianto muto e mi lasciai scappare un singhiozzo. Lo cinsi ai fianchi stringendolo per un istante brevissimo, nascondendo nel suo petto il viso rigato di lacrime. Lui mi sfiorò i capelli, come per trattenermi.

«Ciao, Jake». Sollevai la sua mano e gli baciai il palmo. Non ce la facevo a guardarlo in faccia. «Scusami», sussurrai.

Poi mi voltai e corsi verso l’auto. La portiera era aperta, in mia attesa. Lanciai lo zaino dietro il sedile, entrai e la richiusi con forza.

«Sta’ attento a Charlie!», urlai dal finestrino aperto, ma Jacob era sparito. Mentre Alice dava gas e, con una sgommata stridula come una voce umana, invertiva la marcia dell’auto, notai un brandello bianco ai piedi degli alberi. Un pezzo di scarpa.

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