In quel momento, la mia testa riaffiorò.
Assurdo. Ero certa di essere annegata.
La corrente non diminuiva. Mi scagliò contro altre rocce; ne sentivo i colpi sulla schiena, secchi e costanti, e sputavo acqua dai polmoni. Ne avevo ingurgitata tantissima, era un vero fiume che sgorgava dalla bocca e dal naso. Il sale bruciava, i polmoni bruciavano, la bocca era così piena da impedirmi di respirare e le rocce contro la schiena facevano male. Non capivo come ma, malgrado la corrente, sembrava che non mi muovessi. Vedevo solo onde che si allungavano verso il mio viso.
«Respira!», ordinò una voce folle d’angoscia e quando la riconobbi mi sentii pugnalare dal dolore: non era Edward.
Non potevo obbedire. La fontana che mi sgorgava dalla bocca non mi lasciava pause per riprendere fiato. L’acqua nera e ghiacciata mi riempiva il petto e bruciava.
Un altro colpo delle rocce sulla schiena, proprio tra le scapole, e tossii l’ennesima sorsata d’acqua dai polmoni.
«Respira, Bella! Avanti!», implorò Jacob.
Il mio campo visivo si riempì di macchie nere, sempre più grandi, che nascondevano la luce.
La roccia mi colpì di nuovo.
Non era fredda come l’acqua, anzi, la sentivo calda a contatto con la pelle. Mi resi conto che era la mano di Jacob, che cercava di liberarmi i polmoni. Anche la sbarra d’acciaio che mi aveva ripescata dal mare era... calda... mi girava la testa, le macchie nere coprivano tutto...
Stavo di nuovo morendo? Non mi andava. L’ultima volta era stata migliore. C’era solo oscurità e nessuna visione piacevole. Il rumore dell’infrangersi delle onde sfumò nel buio e diventò un sussurro silenzioso che sembrava provenire dalle mie stesse orecchie...
«Bella?», chiese Jacob, ancora nervoso ma più tranquillo di prima. «Bells, tesoro, mi senti?».
Il contenuto della mia testa sgusciò e rotolò in un impeto di nausea, come per unirsi alle acque agitate...
«Da quanto ha perso conoscenza?», chiese qualcuno.
L’altra voce mi sorprese e la scossa mi diede un briciolo di lucidità in più.
Mi accorsi di essere ferma. Non ero più in balia della corrente e il dondolio era soltanto nella mia testa. La superficie su cui stavo era piatta e solida. La sentivo ruvida, sotto le braccia nude.
«Non lo so», rispose Jacob, irrequieto. La sua voce era molto vicina. Un paio di mani—tanto calde da poter essere le sue—mi scostarono dalle guance i capelli bagnati. «Da qualche minuto, credo. Non ci è voluto molto per riportarla sulla spiaggia».
Il ronzio soffocato che sentivo nelle orecchie non veniva dalle onde: l’aria era tornata a frequentare i polmoni. Bruciava a ogni fiato: le pareti della gola erano scorticate come se le avessi strofinate con la lana di vetro. Eppure respiravo.
E mi sentivo congelata. Mille gocce affilate e gelide mi colpivano il viso e le braccia, rendendo più intenso il freddo.
«Respira. Si riprenderà. Dovremmo ripararla dal freddo, però. Il colorito non mi piace...». Riconobbi la voce, apparteneva a Sam.
«Pensi che possiamo spostarla senza rischi?».
«Si è rotta qualcosa, durante la caduta?».
«Non lo so».
Tacquero.
Cercai di aprire gli occhi. Mi ci volle un bel po’, ma alla fine riuscii a vedere le nuvole scure, violacee, da cui scendeva la pioggia gelida che mi tormentava. «Jake?», gracchiai.
Il suo viso si stagliò sotto il cielo. «Ah!», esclamò, il volto più tranquillo. La pioggia gli aveva inumidito gli occhi. «Oh, Bella, tutto bene? Mi senti? Ti fa male qualcosa?».
«S-soltanto l-la gola», balbettai con le labbra tremanti dal freddo.
«Allora andiamo via da qui», disse Jacob. Mi prese tra le braccia e mi sollevò senza sforzo, come fossi una scatola vuota. Il suo petto era nudo e caldo; si chinò su di me per proteggermi dalla pioggia. Dal suo braccio spuntava la mia testa penzolante. Con gli occhi sbarrati fissavo le acque furiose che si abbattevano sulla sabbia alle spalle di Jacob.
«L’hai trovata?», chiese Sam.
«Sì, ricomincerò da qui. Torna all’ospedale. Ti raggiungo più tardi. Grazie, Sam».
Mi girava ancora la testa. Non capii affatto il senso di quelle parole. Sam non rispose. Non sentii alcun rumore, forse se n’era già andato.
Mentre Jacob mi portava via, l’acqua sfiorò e poi assalì la sabbia alle nostre spalle, quasi fosse infuriata per la mia fuga. Mentre la osservavo, stanca, una macchia di colore catturò la mia debole attenzione: un piccolo lampo di fuoco danzava sull’acqua nera, al largo. Era un’immagine senza senso, forse non avevo ancora ripreso conoscenza. La testa girò di nuovo al pensiero dell’acqua scura che mi frullava attorno: la sensazione di essermi persa, senza un sopra né un sotto. Persa, sì... ma chissà come, Jacob...
«Come hai fatto a trovarmi?», rantolai.
«Ti stavo cercando», rispose. Correva leggero sotto la pioggia, su per la spiaggia in direzione della strada. «Ho seguito le tracce del pick-up e ti ho sentita urlare...». Ebbe un fremito. «Perché ti sei tuffata, Bella? Non ti sei accorta che sta scoppiando un uragano? Non potevi aspettarmi?». Il sollievo cedeva il posto alla rabbia.
«Scusa», farfugliai. «Sono stata una stupida».
«Sì, davvero stupida», ribadì, e mentre annuiva si scrollò l’acqua dai capelli. «Senti, ti dispiacerebbe tenerti le stupidaggini per quando ci sono anch’io? Non riesco a concentrarmi se appena giro l’angolo ti butti da uno scoglio».
«Va bene. Non c’è problema». Avevo una voce da fumatrice accanita. Cercai di schiarirmi la gola ma trasalii: il tentativo mi provocò una fitta degna della lama di un coltello. «Cos’è successo oggi? L’avete... trovata?». Anch’io ebbi un fremito, benché non sentissi così freddo avvolta dalle sue braccia assurdamente calde.
Jacob scosse la testa. A passo svelto, quasi di corsa, raggiunse la strada che portava a casa sua. «No. Si è rifugiata in acqua. Per i succhiasangue è un vantaggio. Sono tornato a casa di corsa perché temevo che mi precedesse a nuoto. Passi talmente tanto tempo sulla spiaggia...». La sua voce si spense, rotta.
«Sam è tornato assieme a te... anche gli altri sono a casa?». Speravo che non fossero rimasti a dar la caccia a Victoria.
«Sì. Più o meno».
Cercai di decifrare la sua espressione, strabuzzando gli occhi sotto la pioggia battente. Il suo sguardo era torvo, pieno di preoccupazione o dolore.
D’un tratto, le parole di poco prima acquistarono senso. «Hai detto... ospedale. Prima, a Sam. Qualcuno si è fatto male? Vi siete scontrati con lei?». La mia voce salì di un’ottava e rauca com’era risultò ancora più strana.
«No, no. Quando siamo tornati, Emy mi ha dato la notizia. Riguarda Harry. Harry Clearwater ha avuto un infarto, stamattina».
«Harry?». Scossi la testa, cercando di capacitarmene. «Oh, no! Charlie lo sa?».
«Sì. È anche lui all’ospedale. Assieme a mio padre».
«Se la caverà?».
Jacob abbassò lo sguardo. «Per il momento le cose non vanno tanto bene».
Mi sentii nauseata e colpevole: una pazzia sconsiderata tuffarmi dallo scoglio. Far preoccupare tutti proprio adesso.
«Posso fare qualcosa?», chiesi.
In quel momento smise di piovere. Mi resi conto che eravamo a casa di Jacob soltanto quando oltrepassammo la porta d’ingresso. La tempesta scrosciava contro il tetto.
«Puoi restare qui», disse Jacob depositandomi sul divanetto. «Proprio in questo punto, intendo. Vado a recuperare qualche vestito asciutto».
Attesi che la vista si adattasse alla penombra, mentre Jacob frugava in camera sua. Il salottino sembrava vuoto, quasi desolato senza Billy. Mi parve un brutto presagio, probabilmente perché sapevo dove si trovasse.
Jacob tornò dopo pochi secondi. Mi gettò addosso una palla di cotone grigio. «Questi ti andranno larghissimi, ma non ho di meglio. Esco un attimo, così, ehm... puoi cambiarti».
«Non andartene. Sono ancora troppo stanca per muovermi. Resta con me».
Jacob si sedette sul pavimento, con la schiena contro il divano. Chissà da quanto non dormiva. Sembrava esausto quanto me.
Posò la testa sul cuscino accanto al mio e sbadigliò. «Magari mi riposo un attimo...».
Serrò gli occhi. Lasciai che anche i miei si chiudessero.
Povero Harry. Povera Sue. Charlie sarebbe senz’altro uscito di senno. Harry era uno dei suoi migliori amici. Malgrado il pessimismo di Jacob, speravo che potesse riprendersi. Per Charlie. Per Sue, Leah e Seth...
Il divano di Billy era proprio accanto al termosifone e ne sentivo il calore nonostante i vestiti zuppi. Il dolore ai polmoni era tanto intenso da farmi perdere conoscenza, anziché risvegliarmi. Mi chiesi debolmente se non fosse un errore dormire... Jacob iniziò a russare piano e il suono mi cullò come una ninna nanna. In breve mi addormentai.
Per la prima volta da chissà quanto tempo, feci un sogno normale. Un semplice vagare tra vecchi ricordi—visioni di Phoenix sotto il sole abbagliante, il volto di mia madre, una casa improvvisata sull’albero, una coperta sbiadita, una parete a specchi, una fiamma sul pelo dell’acqua scura—ma ogni immagine cancellava del tutto la precedente.
L’ultima fu anche l’unica che mi rimase impressa. Non aveva senso: era una scenografia, sopra un palco. Una balconata di notte, una luna dipinta in mezzo al cielo. Osservavo la ragazza, in veste da camera, mentre parlava da sola appoggiata al davanzale.
Non aveva senso... ma quando lentamente mi sforzai di riprendere conoscenza, pensai a Giulietta.
Jacob dormiva ancora; si era accasciato sul pavimento e il suo respiro era profondo e regolare. La casa era più buia di prima, fuori dalle finestre era calata la notte. Ero intorpidita, ma anche calda e quasi asciutta. La gola mi bruciava a ogni respiro.
Prima o poi avrei dovuto alzarmi, almeno per bere. Ma il mio corpo desiderava restare lì, inerte, senza muoversi più.
Anziché spostarmi, continuai a pensare a Giulietta.
Chissà cos’avrebbe fatto se ad allontanare Romeo da lei non fosse stato il divieto dei genitori, ma un semplice calo di interesse. E se poi Rosalina gli si fosse concessa facendogli cambiare idea? Cosa sarebbe accaduto se fosse sparito, anziché sposare Giulietta?
In cuor mio sapevo come si sarebbe sentita.
Non sarebbe tornata alla sua vecchia vita, non del tutto. Di certo non si sarebbe lasciata il passato alle spalle. Anche se fosse sopravvissuta fino a diventare vecchia e grigia, le sarebbe bastato chiudere gli occhi per rivedere il volto di Romeo. Prima o poi se ne sarebbe fatta una ragione.
Chissà, forse alla fine avrebbe sposato Paride, tanto per placare i suoi e non creare scompiglio. No, probabilmente no. Del resto, di Paride si sapeva molto poco. Era soltanto un personaggio di contorno—un surrogato, una minaccia, una scadenza fissata per forzarle la mano.
E se Paride fosse stato qualcosa di più? Un amico? Il migliore amico di Giulietta? Se fosse stato l’unico a cui la giovane avesse svelato la devastante storia con Romeo? L’unica persona che la capisse davvero, che la facesse sentire quasi un essere umano? Se fosse stato paziente e gentile? Se si fosse preso cura di lei? Che ne sarebbe stato, se Giulietta avesse capito di non poter sopravvivere senza di lui? E se fosse stato davvero innamorato di lei, desideroso di farla felice?
E... se Giulietta si fosse innamorata di Paride? Non come di Romeo. Niente a che vedere, certo. Ma abbastanza per desiderare che anche lui fosse felice?
Nella stanza si udiva solo il suono del respiro lento e profondo di Jacob, come una ninna nanna mormorata a un bambino, come il cigolio sussurrato di una sedia a dondolo, come il ticchettio di un vecchio orologio quando non hai fretta di leggere l’ora... Era il suono della quiete.
Se Romeo se ne fosse andato per non tornare mai più, sarebbe importato qualcosa che Giulietta accettasse l’offerta di Paride? Forse sarebbe stato meglio per lei ricucire i brandelli di vita che si era lasciata alle spalle. Forse, così avrebbe raggiunto quel poco di felicità che le era ancora concessa.
Sospirai e grugnii, quando il fiato mi raschiò la gola. Forse stavo esagerando con le mie riflessioni. Era impossibile che Romeo cambiasse idea. Ecco perché la gente ricordava i loro nomi sempre uniti: Romeo e Giulietta. Ecco perché era una bella storia. Giulietta si accontenta di Paride non avrebbe mai sfondato.
Chiusi gli occhi e mi lasciai trasportare dai pensieri, per allontanarmi dalla tragedia a cui non volevo più pensare. Cercai invece di concentrarmi sulla realtà: sul tuffo dallo scoglio che si era rivelato un errore irragionevole. Non solo, ma anche quello stupido numero da stuntman in motocicletta. E se mi fosse successo qualcosa di brutto? Come l’avrebbe presa Charlie? L’infarto di Harry aveva di colpo ricomposto tutto nell’ottica sensata che avevo rifiutato di considerare, perché -dovevo ammetterlo—mi avrebbe costretta a cambiare atteggiamento. Avrei saputo vivere così?
Forse. Non sarebbe stato facile; anzi, sarebbe stato un vero dramma rinunciare alle allucinazioni e vivere da persona adulta. Ma forse dovevo farlo. E forse avrei potuto. Se ci fosse stato Jacob.
Non potevo decidere lì per lì. Faceva troppo male. Meglio pensare ad altro.
Le immagini della mia acrobazia scapestrata si rincorrevano, mentre tentavo di evocare cose più piacevoli... l’aria che mi sfiorava durante la caduta, l’oscurità dell’acqua, la corrente impetuosa... il viso di Edward... lo contemplai a lungo. Le mani calde di Jacob che cercavano di ridarmi vita... il punzecchiare della pioggia che cadeva dalle nuvole violacee... la strana fiamma sopra le onde...
C’era qualcosa di familiare in quel lampo di colore sul pelo dell’acqua. Ovviamente, non era un vero fuoco.
I miei pensieri furono interrotti dal rumore di un’auto che sgommava nel fango, sulla strada di fronte a casa. La sentii frenare, le portiere si aprirono e chiusero. Considerai la possibilità di sedermi, ma decisi di non farlo.
La voce di Billy era riconoscibile, benché fosse di un tono più basso del normale, quasi un borbottio tenebroso.
La porta si aprì e la luce si accese. Sbattei le palpebre, momentaneamente accecata. Jake si svegliò di soprassalto, col fiato sospeso, e saltò in piedi.
«Scusate», bofonchiò Billy. «Vi abbiamo svegliati?».
Lo misi a fuoco pian piano e poi, non appena decifrai la sua espressione, i miei occhi si gonfiarono di lacrime.
«Oh, no, Billy!», singhiozzai.
Annuì lentamente, lo sguardo pieno di cordoglio. Jake si affrettò a raggiungere suo padre e lo prese per mano. Il dolore sul suo volto lo faceva somigliare a un bambino, una strana combinazione sul suo corpo da uomo.
A spingere Billy oltre la soglia c’era Sam. Sul suo viso angosciato non c’era traccia del solito contegno.
«Mi dispiace davvero», sussurrai.
Billy annuì. «Sarà dura per tutti».
«Dov’è Charlie?».
«Tuo padre è rimasto in ospedale con Sue. Ci sono ancora parecchie cose da... organizzare».
Restai senza parole.
«Meglio che li raggiunga», mormorò Sam uscendo in tutta fretta.
Billy si allontanò da Jacob e scomparve nella propria stanza, passando per la cucina.
Jake lo seguì dopo un minuto, dopodiché tornò a sedersi accanto a me sul pavimento. Teneva la testa tra le mani. Gli massaggiai una spalla; desideravo tanto poterlo consolare con una parola.
Dopo qualche istante, Jacob mi prese la mano e se la avvicinò al viso.
«Come stai? Va meglio? Probabilmente avrei dovuto portarti da un medico o qualcosa del genere». Sospirò.
«Non preoccuparti per me», gracchiai.
Inclinò la testa per guardarmi. Aveva gli occhi cerchiati di rosso. «Non hai una bella cera».
«Non mi sento tanto bene, in effetti».
«Vado a recuperare il pick-up e ti do un passaggio a casa. Meglio che al rientro Charlie ti trovi là».
«Giusto».
Restai inerte sul divano, in attesa del ritorno di Jacob. Billy, nell’altra stanza, taceva. Mi sentivo un’intrusa che sbirciava attraverso le crepe del muro un dolore privato che non mi apparteneva.
Jake non impiegò molto. Il rombo del pick-up spezzò il silenzio prima del previsto. Mi aiutò ad alzarmi dal divano senza parlare, incrociando le braccia sul petto per proteggermi dall’aria gelida. Occupò il posto di guida senza chiedermelo e mi fece accomodare al suo fianco, abbastanza vicina da potermi stringere con un braccio. Posai la testa sul suo petto.
«Come fai a tornare a casa?», chiesi.
«Non torno. Non abbiamo ancora preso la succhiasangue, ricordi?».
Il viaggio proseguì in silenzio. L’aria fredda mi aveva risvegliata. Ero vigile, il mio cervello girava a mille.
E se... Era davvero la scelta migliore?
Ormai non riuscivo a immaginare la mia vita senza Jacob. Rifiutavo anche soltanto di pensarlo. Non sapevo come, ma era diventato un elemento indispensabile alla mia sopravvivenza. E lasciare le cose com’erano... era forse una scelta crudele, come aveva puntualizzato Mike?
Ricordai di aver desiderato che Jacob fosse mio fratello. Mi resi conto che ciò che desideravo davvero era segnare un confine. Certi nostri abbracci non erano soltanto fraterni. Era una bella sensazione: di calore, conforto, familiarità e sicurezza. Ecco, Jacob era un porto sicuro.
Dovevo segnare un confine preciso. Era mio potere farlo.
Avrei dovuto spiegargli tutto, lo sapevo. L’unica maniera di essere leale era chiarire le cose per bene, fargli capire che non mi stavo accontentando, che lui andava anche troppo bene per me. Già sapeva che ero a pezzi, perciò non lo avrei sorpreso del tutto, ma dovevo far sì che cogliesse le dimensioni del mio dolore. Avrei dovuto anche ammettere la mia pazzia e raccontargli delle voci che sentivo. Perché potesse decidere, doveva essere messo al corrente di tutto.
Mi perdevo dietro queste considerazioni, ma sapevo benissimo che mi avrebbe accettata nonostante tutto. E senza pensarci due volte.
Avrei dovuto impegnarmi con tutte le mie forze, impegnare quanto mi era rimasto, tutti i pezzi, uno a uno. Era l’unico modo per essere leale con lui. L’avrei fatto? Ci sarei riuscita?
Tentare di farlo felice era una cattiva scelta? Anche se l’amore che provavo per lui non era che una debole eco di ciò che mi era possibile, anche se il mio cuore era lontano, alla deriva, perso nel dolore e nella vana ricerca del mio volubile Romeo, restava una cattiva scelta?
Jacob arrestò il pick-up di fronte alla mia casa buia e spense il motore, lasciando che il silenzio calasse repentino. Come in tante altre occasioni, sembrava sintonizzato sui miei pensieri.
Mi cinse con l’altro braccio, stringendomi forte al petto, legandomi a sé. Di nuovo, mi sentii bene. Quasi fossi tornata normale e integra.
Immaginavo che pensasse a Harry, ma quando parlò fu per scusarsi. «Mi dispiace. So che non provi esattamente ciò che sento io, Bells. Giuro che non m’importa. Però, sono così felice che tu stia bene, che farei i salti di gioia, ma temo che non sarebbe un bello spettacolo». Sentii la sua risata rauca sull’orecchio.
Il mio respiro salì di una marcia, raschiandomi in gola.
Ma Edward, malgrado di me gli importasse poco, avrebbe desiderato la mia felicità anche lontana da lui? Non mi era rimasto abbastanza amico da augurarsi una cosa del genere? Pensavo di sì. Non poteva incolparmi di nulla: stavo regalando al mio amico Jacob un briciolo dell’affetto che lui aveva rifiutato. In fondo, non era affatto lo stesso amore.
Jake posò la guancia calda sui miei capelli.
Se mi fossi voltata, se avessi premuto le labbra sulle sue spalle nude... sapevo benissimo cosa sarebbe successo. Senza difficoltà. Quella sera non ci sarebbe stato bisogno di spiegazioni.
Ma potevo farlo? Potevo tradire il mio cuore assente per salvare una vita patetica?
Mentre decidevo se voltare la testa o no, le farfalle m’invasero lo stomaco.
Poi, limpida come nei momenti di pericolo, sentii sussurrare al mio orecchio la voce vellutata di Edward.
«Sii felice», disse.
Restai impietrita.
Jacob se ne accorse e mi lasciò andare all’istante, voltandosi verso la portiera.
Aspetta, avrei voluto dire. Solo un minuto. Ma ero immobilizzata, ascoltavo l’eco della voce di Edward nella testa.
L’aria rinfrescata dalla tempesta soffiò nell’abitacolo.
«Oh!», esclamò Jacob di colpo, come se qualcuno gli avesse dato un pugno nello stomaco. «Merda!».
Sbatté la portiera e contemporaneamente girò la chiave nel quadro. Le mani gli tremavano tanto che non capii come ci fosse riuscito.
«Cosa c’è?».
Cercò di riavviare il motore troppo in fretta; con un gemito e un singhiozzo, si spense.
«Vampiro», sibilò.
Mi salì il sangue alla testa in modo vertiginoso. «Come fai a saperlo?».
«Perché ne sento l’odore! Maledizione!».
Lo sguardo impazzito di Jacob perlustrò la via buia. Sembrava accorgersi appena del tremore che sconvolgeva il suo corpo. «Mi trasformo o la porto via?», sibilò, tra sé.
Mi lanciò un’occhiata fulminea, quel poco che bastava ad accorgersi del mio sguardo terrorizzato e del colorito pallido, poi tornò a osservare la strada. «Bene. Ti porto via».
Il motore si accese con un ruggito. Invertì la marcia del pick-up sgommando verso l’unica via di fuga. Mentre i fari illuminavano il marciapiede e accendevano i limiti della foresta nera, con la coda dell’occhio scorsi un’auto parcheggiata dall’altra parte della strada, di fronte a casa mia.
«Fermati!», esclamai.
Era un’auto nera che conoscevo bene. Ero tutt’altro che una fanatica di macchine, ma di quella sapevo tutto. Era una Mercedes S55 AMG. Ne ricordavo la potenza in cavalli e il colore degli interni. Il rombo potente del motore che faceva le fusa sotto il cofano. Il profumo corposo degli interni in pelle, gli speciali finestrini oscurati che trasformavano la luce di mezzogiorno in una sorta di nebbia.
Era l’auto di Carlisle.
«Fermati!», urlai di nuovo, più forte, perché Jacob si stava lanciando a tutta velocità lungo la strada.
«Cosa?».
«Non è Victoria. Fermati, fermati! Voglio tornare indietro».
Inchiodò con tanta forza da rischiare di sbattermi contro il cruscotto. «Cosa?», chiese per la seconda volta, sbalordito. Mi guardava disgustato.
«È la macchina di Carlisle! Sono i Cullen, lo so».
Si accorse della felicità che spuntava sul mio viso e fu colto da uno spasmo violento.
«Ehi, calmati, Jake. Va tutto bene. Non c’è pericolo, okay?».
«Sì, sono calmo», disse d’un fiato, a testa bassa e occhi chiusi. Mentre si sforzava di non innescare la trasformazione, osservai l’auto nera dal lunotto posteriore.
Era soltanto Carlisle. Meglio non aspettarmi nulla di più. Magari Esme... e basta. Soltanto Carlisle. Era anche troppo. Più di quanto avessi mai sperato di riavere.
«C’è un vampiro in casa tua», sibilò Jacob. «E tu vorresti tornare indietro?».
Lo fissai, staccando mio malgrado gli occhi dalla Mercedes, terrorizzata che sparisse da un istante all’altro.
«Certo», dissi, sorpresa e incerta di fronte alla sua domanda. Certo che volevo tornare.
Vidi l’espressione di Jacob irrigidirsi nella maschera di cattiveria che pensavo fosse sparita per sempre. Poco prima che la smorfia ne nascondesse il volto, vidi i suoi occhi fremere per il mio tradimento. Le mani non avevano smesso di tremare. Dimostrava dieci anni più di me.
Riprese fiato. «Sei sicura che non sia un trabocchetto?», chiese con tono serio e lento.
«Non è un trabocchetto, è Carlisle. Riportami indietro!».
Un altro spasmo agitò le sue spalle larghe, ma lo sguardo era di pietra, immobile. «No».
«Jake, va tutto bene...».
«No. Cerca di ragionare, Bella». La sua voce mi colpì come uno schiaffo. Contraeva la mascella, nervoso.
«Senti, Bella», disse con lo stesso tono feroce. «Non posso tornare indietro. Patto o non patto, là dentro c’è il mio nemico».
«Ma non è come...».
«Devo dirlo immediatamente a Sam. Questo cambia tutto. Non possiamo farci trovare nel loro territorio».
«Jake, non è una guerra!».
Non mi ascoltò. Lasciò il pick-up in folle, con il motore acceso, e saltò giù.
«Addio, Bella», disse, voltandosi appena. «Spero proprio che tu non muoia». Scattò via nell’oscurità, tremava così forte che la sua sagoma era sfocata come una foto venuta male. Sparì prima che potessi aprire bocca per richiamarlo.
Il senso di colpa m’inchiodò al sedile per un istante interminabile. Cos’avevo fatto a Jacob?
Ma il rimorso non mi trattenne a lungo.
Scivolai al posto di guida e inserii la prima. Le mani mi tremavano quasi come quelle di Jacob. Dovevo concentrarmi per bene. Invertii la marcia con cautela e tornai a casa.
Spensi i fari e fui avvolta dal buio. Charlie era uscito tanto di fretta da dimenticarsi di lasciare accesa la luce della veranda. Mi sentii pungolare dal dubbio, mentre fissavo la casa nascosta nell’ombra. E se fosse stato davvero un trabocchetto?
Osservai di nuovo l’auto nera, quasi invisibile nella notte. No. La riconoscevo.
Eppure, nell’afferrare la chiave, le mie mani tremarono anche peggio di prima. Quando strinsi la maniglia per aprire, cedette con facilità. Spalancai la porta. Il corridoio era buio.
Avrei voluto annunciarmi, ma sentivo la gola secca. Quasi non riuscivo a respirare.
Un passo avanti in cerca dell’interruttore. Era buio... come sott’acqua. Ma dov’era l’interruttore?
Come l’acqua scura, con quell’assurda fiamma arancio che tremava sul mare. Una fiamma che non era un fuoco, ma allora? Le mie dita correvano sul muro, cercavano tremanti...
All’improvviso, sentii l’eco delle parole di Jacob, quel pomeriggio, e capii... Si è rifugiata in acqua, aveva detto. Per i succhiasangue è un vantaggio. Sono tornato a casa di corsa perché temevo che mi precedesse a nuoto.
La mia mano s’immobilizzò, restai dov’ero, pietrificata, e capii cosa fosse la strana chiazza arancione sul pelo dell’acqua.
La chioma di Victoria scompigliata dal vento, del colore del fuoco...
Era arrivata a un passo. Nel golfo, assieme a me e Jacob. E se non ci fosse stato anche Sam, se fossimo stati soltanto noi due? Non riuscivo a muovermi né a respirare.
La lampadina si accese, ma non erano state le mie dita a trovare l’interruttore.
Sorpresa dalla luce improvvisa, mi accorsi di una presenza che aspettava me.