Come nascondiglio per le moto, il casotto di Jacob era più che sufficiente. Sulla sedia a rotelle, Billy non era in grado di affrontare il terreno irregolare tra la rimessa e la casa.
Jacob iniziò immediatamente a smontare la prima moto, quella rossa, destinata a me. Aprì la portiera del passeggero della Golf per farmi accomodare sul sedile anziché per terra. Mentre lavorava, chiacchierava allegro e mi bastava annuire appena perché la conversazione proseguisse sciolta. Mi aggiornò sui suoi progressi scolastici, sulle lezioni del secondo anno e sui suoi due migliori amici.
«Quil ed Embry?», lo interruppi. «Che nomi strani».
Jacob sghignazzò. «Quil l’ha ereditato da qualche parente, ed Embry si chiama così in onore di una stella delle soap opera. Non so dirti altro. Se inizi a prenderli in giro giocano sporco: ti attaccano, due contro uno».
«Begli amici». Lo guardai con diffidenza.
«No, lo sono davvero. L’importante è che non tiri in ballo i loro nomi».
In quel momento sentimmo una voce in lontananza. «Jacob?», gridò qualcuno.
«È Billy?», chiesi.
«No». Jacob abbassò la testa, un velo di rossore sulle guance scure. «Parli del diavolo...», mormorò.
«Jake? Sei là fuori?». Il grido si avvicinava.
«Sì!», urlò Jacob e sospirò.
Aspettammo per poco in silenzio, finché due ragazzi longilinei, dalla pelle scura, girarono l’angolo ed entrarono nella rimessa.
Uno era slanciato, alto quasi come Jacob. Aveva i capelli lunghi fino alle spalle, con la riga in mezzo, da una parte tirati dietro l’orecchio, dall’altra sciolti. L’altro era più basso e tarchiato. La maglietta bianca attillata conteneva a malapena i suoi pettorali ben sviluppati, di cui sembrava consapevole e contento. Aveva i capelli cortissimi, quasi rasati.
Alla mia vista, i due esitarono. Il magro lanciava occhiate a Jacob e a me, il muscoloso non mi staccava gli occhi di dosso e a poco a poco si sciolse in un sorriso.
«Ciao, ragazzi», li salutò Jacob senza troppo entusiasmo.
«Ciao, Jake», disse il basso, sempre fissandomi. Mi sentii costretta a rispondergli con un sorriso, tanto era malizioso il suo sguardo. Lui reagì strizzando un occhio. «Ehilà».
«Quil, Embry, questa è la mia amica Bella».
Quil ed Embry, ancora non sapevo chi fosse chi, si scambiarono uno sguardo pieno di sottintesi.
«La figlia di Charlie, giusto?», chiese il muscoloso, offrendomi la mano.
«Esatto», confermai, e la strinsi. La sua presa era salda, sembrava stesse flettendo il bicipite.
«Io mi chiamo Quil Ateara», annunciò, pomposo, prima di allentare la morsa.
«Piacere di conoscerti, Quil».
«Ciao, Bella. Io sono Embry, Embry Call. Ma a questo punto l’avrai capito da te». Sorrise timido e salutò con la mano, che infilò subito nella tasca dei jeans.
Risposi con un cenno del capo. «Piacere di conoscere anche te».
«Che fate di bello, ragazzi?», chiese Quil, che non smetteva di fissarmi.
«Io e Bella ripareremo queste moto», spiegò Jacob, vago. Ma “moto” fu la parola magica. I due ragazzi vollero sapere tutto, mitragliando Jacob di domande tecniche. La maggior parte dei termini che utilizzavano mi era sconosciuta, evidentemente per capire tutto quell’entusiasmo era obbligatorio possedere il cromosoma Y.
Erano ancora immersi nei loro discorsi su pezzi di ricambio e componenti meccaniche, quando decisi di tornare a casa, prima che fosse Charlie a raggiungermi. Sospirando, scesi dalla Golf.
Jacob alzò gli occhi, come per scusarsi. «Ti stiamo annoiando, vero?».
«Nah». Non era una bugia. Mi stavo divertendo, anche se era strano. «Devo tornare a casa a preparare la cena per Charlie».
«Ah... be’, io stasera finisco di smontare queste e cercherò di capire cosa ci occorre per ricostruirle. Quando vuoi che continuiamo il lavoro?».
«Se torno domani è un problema?». Le domeniche erano la piaga della mia esistenza. I compiti a casa non bastavano mai a tenermi occupata.
Quil diede di gomito a Embry e si scambiarono un ghigno.
Jacob sorrise, entusiasta. «Va benissimo!».
«Se prepari una lista, possiamo andare a cercare i pezzi», suggerii.
Jacob perse un po’ del suo entusiasmo. «Non sono ancora sicuro di voler lasciar pagare tutto a te».
Scossi la testa. «Non se ne parla. I soldi li metto io. Tu ci metti la manodopera e l’abilità».
Embry lanciò un’occhiataccia a Quil.
«Non mi sembra giusto», disse Jacob scuotendo il capo.
«Jake, se le portassi da un meccanico, quanto pensi che mi chiederebbe?», lo feci ragionare.
Lui sorrise. «In effetti stai facendo un affarone».
«Per non parlare delle lezioni», aggiunsi.
Quil fece un gran sorriso a Embry e gli disse sottovoce qualcosa che non riuscii a cogliere. La mano di Jacob colpì svelta la nuca di Quil. «Adesso basta, andatevene», disse.
«No, sul serio, è tardi», protestai, già diretta verso la porta. «Ci vediamo domani, Jacob».
Non appena fui fuori portata, sentii Quil ed Embry gridare in coro: «E vaaai!».
Poi il rumore di una piccola zuffa, punteggiato di «Ahi!» e chiuso da un «Basta!».
«Se anche solo uno di voi osa mettere piede qui domani...». Era la voce di Jacob che li minacciava. Svanì a mano a mano che procedevo tra gli alberi.
Non riuscii a trattenere una risatina. Ne sentii il suono e spalancai gli occhi, meravigliata. Ridevo, finalmente ridevo, e non perché qualcuno mi osservava. Mi sentivo leggera e continuai a ridere per non farmi sfuggire quella sensazione.
Giunsi a casa prima di Charlie. Quando arrivò, stavo togliendo il pollo fritto dalla padella per farlo asciugare su una pila di tovaglioli di carta.
«Ciao, papà». Sfoderai il mio sorriso.
Restò sorpreso, ma si ricompose subito. «Ciao, tesoro», disse incerto. «Ti sei divertita da Jacob?».
Iniziai a servire le portate. «Altroché».
«Be’, sono contento». Procedeva con cautela. «Cos’avete fatto?».
Adesso toccava a me essere cauta. «Sono stata nella sua rimessa a guardarlo lavorare. Sai che sta ricostruendo una Volkswagen?».
«Sì, mi sembra di averlo sentito dire da Billy».
L’interrogatorio avrebbe dovuto finire con l’inizio della cena, ma Charlie continuò a studiare la mia espressione anche mentre mangiava.
Più tardi, ancora sovreccitata, pulii la cucina due volte e feci i compiti lentamente, in soggiorno, mentre Charlie guardava una partita di hockey. Attesi il più possibile, finché mio padre non disse qualcosa a proposito dell’orario. Non risposi e lui si alzò, si stiracchiò e salì le scale spegnendo la luce. Controvoglia, lo seguii.
Quando salii in camera mia, sentii svanire i rimasugli della bizzarra sensazione di benessere del pomeriggio, sostituiti dalla paura sorda di ciò che mi sarebbe toccato vivere da quel momento in poi.
Non ero più annebbiata. Quella notte, senza dubbio, sarebbe stata terribile come la precedente. M’infilai nel letto, rannicchiandomi, pronta a sostenere l’assalto. Strizzai gli occhi e... un secondo dopo era mattino.
Guardai la luce pallida e argentea filtrare dalla finestra. Ero strabiliata.
Per la prima volta in più di quattro mesi, avevo dormito senza sognare. Sognare o urlare. Non avrei saputo dire quale emozione fosse più forte: il sollievo o la sorpresa.
Restai immobile a letto per qualche minuto, in attesa che tornasse. Perché qualcosa doveva tornare. Se non il dolore, almeno l’annebbiamento. Aspettai, ma non accadde niente. Mi sentivo più riposata che mai.
Ero certa che non sarebbe durata. Stavo in equilibrio su un filo scivoloso e precario, bastava poco per cascare a terra. Anche perlustrare la stanza con lo sguardo, improvvisamente a fuoco—e accorgermi quanto fosse strana, troppo ordinata, come se non ci fossi mai vissuta—costituiva un pericolo.
Cercai di rimuovere quel pensiero e di concentrarmi, mentre mi vestivo, sul fatto che avrei rivisto Jacob. Quella prospettiva mi diede un briciolo di... speranza. Forse sarebbe andata come il giorno prima. Forse non avrei dovuto sforzarmi di sembrare interessata e di annuire o sorridere al momento giusto, come facevo con chiunque altro. Forse... forse neppure questo sarebbe durato. Ero convinta che non sarebbe stato facile come il giorno prima, ma non ero disposta ad affrontare una tale delusione.
A colazione, anche Charlie ci andò con i piedi di piombo. Cercò di studiarmi senza farsi notare, lanciava occhiate dal piatto quando pensava che non lo stessi guardando.
«Oggi che fai?», chiese, concentrandosi su un filo che gli spuntava dal polsino, come se della risposta gli importasse poco.
«Torno a trovare Jacob».
Annuì senza alzare gli occhi. «Ah», rispose.
«È un problema?». Finsi di essere preoccupata. «Se vuoi resto...».
Mi lanciò un’occhiata fulminea, l’ombra del panico nei suoi occhi. «No, no! Vai pure. Tanto io ero già d’accordo con Harry, viene qui a vedere la partita».
«Magari puoi chiedergli di passare a prendere anche Billy», suggerii. Meglio allontanare i testimoni indiscreti.
«Bell’idea».
Non ero sicura che la partita fosse uno stratagemma per cacciarmi di casa, ma a quel punto Charlie mi sembrava piuttosto entusiasta. Corse al telefono, mentre m’infilavo la giacca impermeabile. Mi sentivo a disagio con il libretto degli assegni nella tasca del giubbotto. Non lo usavo mai.
Fuori pioveva a dirotto. Ero costretta a guidare ancora più lentamente di quanto volessi; vedevo a malapena le sagome delle auto di fronte al pickup. Ma alla fine, tra una strada fangosa e l’altra, riuscii a raggiungere la casa di Jacob. Prima ancora che spegnessi il motore, la porta d’ingresso si aprì e lui mi corse incontro con un enorme ombrello nero.
Mi riparò mentre scendevo dal pick-up.
«Ha chiamato Charlie per avvertirci del tuo arrivo», spiegò Jacob sorridente.
Spontaneamente, senza che dessi un ordine preciso ai muscoli delle labbra, sul mio volto sentii spuntare un sorriso. Avvertivo in gola una strana sensazione di calore, malgrado la pioggia che mi sferzava le guance.
«Ciao, Jacob».
«Bella idea, invitare Billy da voi». Mi offrì la mano per farsi dare un cinque.
Per colpirla fui costretta ad allungarmi in punta di piedi, così tanto che Jacob scoppiò a ridere.
Harry passò a prendere Billy pochi minuti dopo. Mentre aspettavamo di rimanere soli, Jacob mi mostrò la sua cameretta.
«Allora, dove andiamo, signor meccanico?», domandai non appena Billy chiuse la porta.
Jacob estrasse un foglietto ripiegato dalla tasca e lo lisciò. «Prima di tutto alla discarica, vediamo se siamo fortunati. La faccenda potrebbe rivelarsi un po’ costosa», mi avvertì. «Prima che tornino a funzionare, quelle due moto hanno bisogno di parecchia assistenza». Non gli sembrai troppo preoccupata, perciò proseguì: «Se vuoi una cifra, siamo attorno ai mille dollari».
Sfoderai il libretto degli assegni, mi feci aria con quello e alzai gli occhi al cielo, beffandomi delle sue preoccupazioni. «Siamo coperti».
Fu una giornata davvero strana. Mi divertii. Persino alla discarica, sotto la pioggia battente e nel fango fino alle caviglie. Chissà, forse era soltanto un’altra fase della ripresa dall’annebbiamento, ma come spiegazione non mi sembrava sufficiente.
Avevo il sospetto che fosse merito di Jacob. Non perché era sempre felice di vedermi, o perché non mi trattava con la condiscendenza riservata ai pazzi o ai depressi. Io non c’entravo.
Jacob era fatto così, e basta. Sempre allegro, condivideva con chiunque gli fosse accanto la felicità che lo seguiva come un’aura. Come il Sole con la Terra, scaldava chiunque entrasse nel suo campo gravitazionale. Era una qualità naturale e spontanea. C’era poco da meravigliarsi che fossi tanto impaziente di vederlo.
Non andai nel panico nemmeno quando fece un commento sul buco che spiccava nel mio cruscotto.
«Sì è rotta l’autoradio?», domandò.
«Sì», mentii.
Frugò nell’apertura. «Chi l’ha tolta? È un bel danno...».
«Sono stata io».
Rise. «Meglio che non tocchi le moto, allora!».
«Sta’ tranquillo».
Secondo Jacob, la spedizione alla discarica aveva dato buoni frutti. Era entusiasta di aver rimediato quelli che per me erano solo pezzi di metallo deformati e anneriti dall’olio; mi sembrava già una gran cosa che riuscisse a capire cosa fossero.
Poi ci trasferimmo a Hoquiam, all’officina di Checker. Con il pick-up, sull’autostrada che scendeva a sud tra mille curve, impiegammo più di due ore, ma con Jacob il tempo passava piacevolmente. Chiacchierammo dei suoi amici e della scuola, e mi ritrovai a fargli domande senza neanche fingere, ma sinceramente curiosa di ascoltare i suoi racconti.
«Sto parlando solo io», si lamentò, dopo un lungo aneddoto sui guai in cui si era cacciato Quil dopo che aveva chiesto di uscire alla ragazza di uno dell’ultimo anno. «Perché non racconti qualcosa tu? Che succede a Forks? Scommetto che c’è molta più vita che a La Push».
«Ti sbagli», sospirai. «Non succede niente. I tuoi amici sono molto più interessanti dei miei. Mi piacciono. Quil è divertente».
Aggrottò le sopracciglia. «Secondo me anche tu piaci a lui».
Scoppiai a ridere. «È troppo giovane per me».
Jacob si fece ancora più scuro in viso. «Non così tanto. Appena un anno e pochi mesi».
Avevo il sospetto che non stessimo più parlando di Quil. A bassa voce, lo stuzzicai. «Certo, ma considerata la differenza di maturità tra ragazzi e ragazze non credi che l’età vada considerata come quella dei cani? Io, per esempio, è come se avessi circa dodici anni di più, no?».
Rise e alzò gli occhi al cielo. «Okay, ma se proprio vuoi fare la difficile, allora devi anche considerare le nostre dimensioni. Tu sei così piccola che dal conteggio totale dovrei togliere dieci anni».
«Un metro e sessanta è perfettamente nella media». Arricciai il naso. «Non è colpa mia se tu sei un fenomeno da baraccone».
Scherzammo in quella maniera fino a Hoquiam, alla ricerca della formula più precisa per calcolare l’età—persi altri due anni perché non sapevo cambiare le gomme, ma ne ripresi uno perché a casa ero io a occuparmi della contabilità—finché, giunti da Checker, arrivò il momento di concentrarci sul lavoro. Jacob trovò tutto ciò che aveva messo in lista e si disse fiducioso che con quel bottino potessimo fare parecchi progressi.
Tornati a La Push, io avevo ventitré anni e lui trenta... grazie a un conteggio sfacciatamente rigirato a suo favore.
Non avevo dimenticato la ragione di tanti sforzi. E, malgrado mi stessi divertendo più di quanto avessi mai potuto pensare, le mie intenzioni originali non erano state affatto accantonate. Volevo essere un’altra persona. Era un gesto insensato, ma non m’importava. Volevo comportarmi nella maniera più spericolata possibile a Forks. Non intendevo restare l’unica a rispettare una promessa già violata. Passare il tempo con Jacob era un extra, e molto più piacevole di quanto potessi chiedere.
Billy non era ancora rientrato, perciò riuscimmo a trasportare il nostro bottino senza dover sgattaiolare tra gli alberi. Finito di disporlo sul pavimento di plastica, accanto alla scatola degli attrezzi, Jacob si mise subito al lavoro, senza smettere di parlare e ridere, mentre le sue dita vagliavano sicure quegli strani pezzi di metallo che gli stavano davanti.
Era stupefacente quanto fosse bravo con le mani. Sembravano troppo grosse, eppure compivano operazioni delicate con facilità e precisione. Mentre lavorava, sembrava persino aggraziato. Ma quando era in piedi... in quella posizione, l’altezza e i piedoni lo rendevano pericoloso quasi quanto me.
Quil ed Embry non si fecero vivi, probabilmente avevano preso sul serio l’avvertimento del giorno precedente.
La giornata trascorse fin troppo in fretta. Fuori dal garage il buio scese prima che me ne accorgessi e a un certo punto sentimmo il richiamo di Billy.
Scattai in piedi per aiutare Jacob a nascondere tutto, incerta perché non sapevo dove mettere le mani.
«Lascia stare», disse lui. «Continuerò a lavorarci più tardi».
«Però non dimenticare i compiti e tutto il resto», dissi, con un vago senso di colpa. Non volevo metterlo nei guai. Quel piano riguardava soltanto me.
«Bella?».
Entrambi drizzammo le orecchie al suono familiare della voce di Charlie smorzata dagli alberi. Si stava avvicinando.
«Oh cavolo!», mormorai. «Arrivo!», gridai in direzione della casa.
«Andiamo». Jacob sorrise, felice di quell’atmosfera da cospirazione. Spense la luce e per qualche istante restai cieca. Jacob mi prese per mano e mi trascinò fuori dal garage, in mezzo agli alberi, guidandomi senza incertezze per il sentiero. La sua mano era ruvida e molto calda.
Malgrado il sentiero, incespicavamo a ogni passo. Perciò, quando la casa apparve, ridevamo entrambi. Non erano risate profonde, ma lievi e superficiali, eppure piacevoli. Ero certa che non avrebbe notato la mia leggera isteria. Non ero abituata a ridere, mi sembrava giusto e allo stesso tempo totalmente sbagliato.
Charlie ci aspettava sotto il piccolo portico sul retro e Billy era seduto dietro di lui, sulla soglia.
«Ciao, papà», esclamammo entrambi nello stesso momento, e questo diede il via ad altre risate.
Charlie ci fulminò con un’occhiata puntata sulla mia mano, ancora stretta in quella di Jacob.
«Billy ci ha invitati a cena», disse Charlie, in modo distratto.
«Stasera spaghetti, con la ricetta supersegreta che custodisco da generazioni», disse Billy, solenne.
Jacob ridacchiò. «Non mi pare che il ragù sia una scoperta così antica».
Quanta gente, in casa. C’erano Harry Clearwater e la sua famiglia: la moglie Sue, di cui avevo ricordi vaghi che risalivano alle mie estati a Forks da bambina, e i due figli. Leah frequentava la mia stessa classe ma aveva un anno più di me. Era una bellezza esotica—pelle perfettamente bronzea, occhi neri luccicanti, ciglia lunghe e fitte—e imbronciata. Quando entrammo era al telefono e non si staccò un attimo dalla cornetta. Seth aveva quattordici anni; pendeva dalle labbra di Jacob, il suo idolo.
Il tavolo della cucina era troppo piccolo per contenerci tutti, perciò Charlie e Harry portarono le sedie in giardino e mangiammo gli spaghetti, tenendo i piatti in grembo, alla luce tenue che usciva dall’interno della casa. Gli uomini parlavano della partita, Harry e Charlie programmarono una battuta di pesca. Sue provocò il marito rinfacciandogli i suoi problemi di colesterolo e tentando, inutilmente, di indurlo a mangiare verdure e insalate. Jacob parlò soprattutto con me e Seth, che si inseriva energico nel discorso ogni volta che si sentiva messo in disparte. Charlie mi osservava, cercando di non farsi notare, con sguardo appagato ma circospetto.
C’era molto rumore, quasi confusione, i discorsi si sovrapponevano e le risate che nascevano da una parte coprivano le battute dell’altra. Non fui costretta a parlare granché, ma sorrisi molto, sempre genuinamente.
Non avevo voglia di andarmene.
Era pur sempre lo Stato di Washington, però, e a interrompere la festa giunse l’inevitabile acquazzone, e il salotto di Billy era troppo piccolo perché ci trasferissimo tutti al coperto. Charlie si era fatto accompagnare da Harry, perciò mi toccò dargli un passaggio a casa. Mi chiese com’era andata la giornata e gli raccontai quasi tutta la verità: avevo accompagnato Jacob a prendere dei pezzi di ricambio e l’avevo guardato lavorare, in garage.
«Tornerai a trovarlo presto?», chiese, con falsa disinvoltura.
«Domani, dopo la scuola. Mi porto i compiti da fare, non preoccuparti».
«Ci mancherebbe!», esclamò, cercando di nascondere la soddisfazione.
Giunta a casa, sentii tornare il nervosismo. Non volevo salire le scale. Il calore della presenza di Jacob stava svanendo, rimpiazzato da un senso di ansia sempre più forte. Ne ero sicura, non avrei potuto concedermi due notti tranquille di fila.
Per tirare tardi, controllai la posta elettronica. C’era un nuovo messaggio di Renée.
Mi parlava delle sue giornate, di un nuovo club di lettura a cui si era iscritta per riempire il vuoto lasciato dalle lezioni di meditazione abbandonate di recente, di una settimana di supplenza in seconda elementare, di quanto le mancassero i bambini del suo vecchio asilo. Mi scriveva che Phil era contento del suo nuovo incarico di allenatore e che stavano progettando un secondo viaggio di nozze a Disney World.
Mi accorsi che il suo messaggio, più che a una lettera, somigliava a una pagina di diario. Mi sentii invadere dal rimorso: che razza di figlia che ero!
Le risposi subito, commentando ogni parte della sua mail e aggiungendo notizie su di me—la spaghettata da Billy, le mie sensazioni mentre osservavo Jacob trasformare pezzetti di metallo in congegni funzionanti -, timorosa e con un filo di invidia. Evitai qualsiasi accenno alla differenza che avrebbe senz’altro notato tra quella e le mie mail dei mesi precedenti. Ricordavo a malapena cosa le avessi scritto una settimana prima, ma ero sicura di non essere stata particolarmente espansiva. Più ci pensavo, più mi sentivo in colpa: dovevo averla fatta preoccupare tanto.
Finii per fare tardissimo, eseguendo molti più compiti a casa di quanto fosse necessario. Ma né l’insonnia né il tempo passato con Jacob—che mi aveva dato una parvenza di felicità, per fragile che fosse—riuscirono a tenere lontano il sogno per la seconda notte consecutiva.
Mi svegliai tremante, le urla attutite dal cuscino.
Alla luce fioca del mattino, filtrata dalla nebbia fuori la finestra, restai immobile a letto e cercai di scrollarmi il sogno di dosso. Mi concentrai su quello che avevo colto: rispetto al solito, c’era una piccola differenza.
Non ero più sola, nel bosco. C’era anche Sam Uley: il ragazzo che mi aveva ripescata dalla foresta, in quella notte a cui non riuscivo a pensare razionalmente. Era un cambiamento strano e inaspettato. Gli occhi scuri di Sam erano curiosamente ostili, come se custodissero un segreto inconfessabile. Li fissavo, ogni volta che la mia ricerca frenetica me lo permetteva; oltre al solito senso di panico, percepivo il disagio di sentirli vicini. Forse perché, quando non lo guardavo direttamente, la sua sagoma sembrava tremare e cambiare, ai margini del campo visivo. Ma non faceva altro che fissarmi, immobile. A differenza di quanto era successo realmente, non mi offriva il suo aiuto.
A colazione, Charlie non mi perse di vista un attimo, mentre io facevo finta di niente. Era giusto così. Non potevo aspettarmi che non si preoccupasse. Ci sarebbero volute settimane prima che svanisse la paura di vedermi di nuovo trasformata in uno zombie e nel frattempo dovevo limitarmi a fare come se nulla fosse. In fondo, anch’io temevo il ritorno dello zombie. Due giorni di pausa non erano affatto sufficienti perché potessi dichiararmi guarita.
A scuola era il contrario. Ora che ci facevo caso, nessuno badava più a me.
Ripensai al mio primo giorno da alunna alla scuola superiore di Forks; a quanto avevo desiderato essere invisibile, confondermi al grigio del marciapiede di cemento come un enorme camaleonte. Sembrava che quel desiderio si fosse avverato con un anno di ritardo.
Era come se non ci fossi. Persino gli sguardi dei professori scivolavano sul mio banco come se questo fosse vuoto.
Quella mattina restai in ascolto delle voci che erano tornate a circondarmi. Cercai di aggiornarmi sulle vicende recenti, ma le conversazioni erano talmente slegate che mi toccò rinunciare.
Jessica non alzò neanche gli occhi, quando mi accomodai al suo fianco per la lezione di matematica.
«Ciao, Jess», dissi, ostentando disinvoltura. «Com’è andato poi il weekend?».
Mi guardò con sospetto. Era ancora arrabbiata? O non aveva la pazienza necessaria per parlare con una pazza?
«Alla grande», disse e tornò al suo libro.
«Bene», mormorai.
Altro che trattarmi con freddezza: mi aveva congelata. Nemmeno l’aria che soffiava dalle griglie del cruscotto riuscì a riscaldarmi. Presi il giubbotto dal poggiaschiena della sedia e lo indossai.
La quarta ora terminò in ritardo e quando entrai alla mensa il mio solito tavolo era già pieno. C’erano Mike, Jessica e Angela, Conner, Tyler, Eric e Lauren. Accanto a Eric c’era Katie Marshall, la ragazza del terzo anno con i capelli rossi che abitava dietro casa mia, e vicino a lei stava Austin Mark—il fratello maggiore di quello che mi aveva lasciato le moto. Chissà da quanto tempo occupavano quei posti: non riuscivo a ricordare se fosse dal primo giorno, o se avessero quell’abitudine da sempre.
Il mio comportamento mi faceva sentire a disagio. Era come se fossi rimasta chiusa in un pacco imbottito per tutto il primo semestre.
Nessuno alzò gli occhi quando mi accomodai accanto a Mike, nonostante il cigolio stridulo della sedia contro il linoleum.
Cercai di inserirmi nella conversazione.
Mike e Conner parlavano di sport, perciò li esclusi all’istante.
«Dov’è Ben?», chiese Lauren ad Angela. Drizzai le orecchie, incuriosita. Chissà se Angela e Ben stavano ancora insieme.
Riconobbi Lauren a malapena. Aveva accorciato la sua chioma, color grano: adesso aveva un taglio da maschietto, tanto corto da scoprirle la nuca. Strano da parte sua. Mi chiesi il perché di quella scelta. Si era ritrovata una gomma da masticare tra i capelli? Li aveva venduti? I bersagli dei suoi soliti commenti acidi l’avevano aspettata all’uscita della palestra e rapata a zero? Pensai che non era il caso di giudicarla in base all’idea che di lei mi ero fatta in passato. Per quel che ne sapevo, poteva anche essersi trasformata in una brava ragazza.
«Ben ha un po’ di influenza», disse Angela, con il suo tono tranquillo e dimesso. «Questione di una giornata. Ieri sera, però, stava davvero male».
Anche Angela aveva cambiato pettinatura. Si era lasciata crescere i capelli.
«E voi cos’avete fatto nel weekend?», chiese Jessica, ma non sembrava che le importasse granché della risposta. Probabilmente era soltanto un modo di iniziare la conversazione e parlare dei fatti suoi. Se la sentiva di raccontare di Port Angeles in mia presenza? Ero talmente invisibile che nessuno si faceva problemi a parlare di me sotto il mio naso?
«Sabato volevamo fare una scampagnata, ma alla fine... abbiamo cambiato idea», disse Angela. Nella sua voce c’era un velo di incertezza che catturò la mia attenzione.
Ma non quella di Jess. «Peccato», disse pronta a lanciarsi nel proprio resoconto. Io, però, non ero stata l’unica a badare ad Angela.
«Cos’è successo?», chiese Lauren, incuriosita.
«Be’», attaccò Angela, più esitante del solito, ma riservata come sempre. «Siamo andati in macchina verso nord, quasi all’altezza delle sorgenti calde; c’è un sentiero lungo poco più di un chilometro che porta a un posto davvero bello. A metà strada, però... abbiamo visto una cosa».
«Una cosa? Che cosa?». Le sopracciglia chiare di Lauren si sollevarono. Persino Jess sembrava prestare attenzione.
«Non so», disse Angela. «Ci è sembrato un orso. Era nero, sì, ma sembrava... troppo grosso».
Lauren ridacchiò. «Ah no, anche tu!». Il suo sguardo si fece ironico, e decisi di non concederle il beneficio del dubbio. Ovviamente, il suo carattere non era cambiato assieme al taglio dei capelli. «Questa ha già cercato di vendermela anche Tyler, la settimana scorsa».
«Non ci sono orsi nella zona attorno al rifugio», ribadì Jessica, alleandosi con Lauren.
«Davvero», protestò Angela a bassa voce, lo sguardo fisso sul tavolo. «L’abbiamo visto davvero».
Lauren rise sotto i baffi. Mike parlava con Conner e non prestò attenzione alle ragazze.
«Invece ha ragione», sbottai impaziente. «Sabato in negozio è passato un escursionista che diceva di aver visto quell’orso, Angela. Grosso e nero, poco fuori città. Vero, Mike?».
Per un momento, tutti tacquero. Gli occhi dei presenti puntarono tutti verso di me, sconvolti. Katie, la ragazza nuova, restò a bocca aperta come se avesse appena assistito a un cataclisma. Nessuno osava muoversi.
«Mike?», farfugliai, mortificata. «Ricordi il tizio che parlava dell’orso?».
«C-certo», balbettò lui dopo un secondo. Non capivo il perché di quel suo sguardo strano. In negozio ci parlavamo, vero? Vero? Forse...
Mike si riprese. «Sì, è passato un tizio che diceva di aver avvistato un enorme orso nero all’inizio del sentiero, più grosso di un grizzly».
«Ah». Lauren, irrigidita, si voltò verso Jessica, e cambiò argomento.
«Hai avuto notizie dal college?», chiese.
Anche gli altri tornarono agli affari propri, esclusi Mike e Angela. Lei azzardò un sorriso, che ricambiai al volo.
«E allora, come hai passato il weekend, Bella?», chiese Mike, curioso ma anche diffidente.
Tutti, tranne Lauren, si voltarono in attesa della risposta.
«Venerdì sera io e Jessica siamo andate al cinema, a Port Angeles. Sabato e domenica li ho passati quasi tutti giù a La Push».
Gli sguardi sfrecciarono verso Jessica e poi su di me. Jess sembrava irritata. Forse non voleva far sapere a nessuno che eravamo uscite assieme, oppure ci teneva a raccontare la storia al posto mio.
«Che film avete visto?», chiese Mike abbozzando un sorriso.
«Binario morto, quello con gli zombie». Anch’io gli sorrisi. Forse sarei riuscita a riparare un po’ dei danni che avevo combinato nei miei mesi da morta vivente.
«Mi hanno detto che fa davvero paura. È vero?». Mike ci teneva a continuare la conversazione.
«Bella è dovuta uscire, tanto era sconvolta», precisò Jessica con un sorriso malizioso.
Annuii, e cercai fingere un po’ di imbarazzo. «Mi ha fatto davvero paura».
Mike mi bombardò di domande per tutto il pranzo. A poco a poco, anche gli altri ripresero a chiacchierare, senza smettere di tenermi d’occhio. Angela parlò soprattutto con Mike e me e, quando mi alzai per rimettere a posto il vassoio, mi seguì.
«Grazie», disse sottovoce, a distanza di sicurezza dal tavolo.
«Per cosa?».
«Per aver parlato, per avermi difesa».
«Scherzi?».
Mi guardò preoccupata, ma non era la solita occhiata alla sto-parlandocon-una-pazza-furiosa. «Stai bene?».
Ecco perché avevo scelto di uscire con Jessica, anziché con Angela che mi piaceva di più. Angela aveva troppo intuito.
«Non proprio», confessai. «Ma sto un po’ meglio».
«Mi fa piacere. Mi sei mancata».
A quel punto, Lauren e Jessica ci raggiunsero e sentii Lauren mormorare: «Alleluia. Bella è tornata».
Angela alzò gli occhi al cielo e mi rivolse un sorriso di incoraggiamento.
Sospirai. Era come ricominciare da capo.
«Che giorno è oggi?», chiesi all’improvviso.
«Il 19 gennaio».
«Mmm».
«Che c’è?», domandò Angela.
«Sono arrivata qui esattamente un anno fa».
«Non è cambiato molto», mormorò lei, lanciando un’occhiata a Lauren e Jessica.
«Lo so», risposi. «Stavo pensando la stessa cosa».