Aprire gli occhi alla luce del mattino e comprendere che ero scampata a un’altra notte era sempre una sorpresa. E dopo questa, il cuore iniziava a battere e mi sudavano le mani; il respiro si tranquillizzava soltanto dopo che mi alzavo dal letto e mi accertavo che anche Charlie fosse sopravvissuto.
Era preoccupato, lo sapevo; d’altra parte, mi vedeva sobbalzare a ogni rumore forte, o sbiancare all’improvviso per ragioni che non capiva. A giudicare dalle domande che mi rivolgeva di tanto in tanto, attribuiva il cambiamento all’assenza prolungata di Jacob.
Il terrore, di solito il mio primo pensiero, mi distrasse dal fatto che un’altra settimana era passata e Jacob non mi aveva ancora chiamata. Una cosa che mi irritava quando riuscivo a concentrarmi sulla normalità della vita quotidiana, ammesso che la mia vita fosse mai stata normale.
Mi mancava immensamente. La solitudine mi pesava già prima di perdere la testa per la paura. Ora più che mai, desideravo ardentemente la sua risata spensierata e il suo sorriso contagioso. Avevo bisogno dell’atmosfera serena e accogliente della sua officina casalinga, del calore della sua mano tra le mie dita fredde.
Il lunedì avevo quasi sperato che mi chiamasse. Se aveva fatto progressi con Embry, perché non aggiornarmi? Desideravo credere che ad assorbirlo completamente fosse la preoccupazione per il suo amico, non la decisione di rinunciare a me.
Lo chiamai di martedì, ma non rispose nessuno. Ancora problemi sulla linea? O Billy aveva cambiato apparecchio e leggeva il mio numero sul display?
Il mercoledì chiamai ogni mezz’ora, fino alle undici di sera, impaziente di sentire il calore della voce di Jacob.
Giovedì restai davanti a casa sul pick-up—con la sicura inserita—per un’ora almeno, le chiavi strette in mano. Discutevo tra me e me in cerca di una giustificazione valida per andare a La Push, ma non la trovai.
A quel punto ero sicura che Laurent fosse tornato da Victoria. Se fossi andata a La Push, avrei rischiato di portarmi dietro uno di loro. E se mi avessero assalita in presenza di Jake? Per quanto mi facesse soffrire, era meglio che Jacob stesse alla larga da me. Non poteva rischiare.
La cosa peggiore era l’impossibilità di mettere Charlie al sicuro. Era più probabile che venissero a cercarmi di notte, ma cosa potevo dire a mio padre per allontanarlo da casa? Se gli avessi raccontato la verità, mi avrebbe fatta rinchiudere in una stanza con le pareti imbottite. Avrei pure accettato di entrarci—e di buon grado—se ciò avesse potuto salvargli la vita. Ma la prima tappa della ricerca di Victoria sarebbe stata comunque casa nostra. Forse, se avesse trovato me, si sarebbe accontentata. E a quel punto, forse, se ne sarebbe andata per sempre...
Quindi non potevo scappare. Anche se l’avessi fatto, dove sarei andata? Da Renée? Sentii un brivido davanti alla prospettiva di gettare la mia ombra letale sul mondo soleggiato e sicuro di mia madre. Non avrei mai osato metterla in pericolo in quel modo. Le preoccupazioni mi scavavano lo stomaco. Ancora un po’ di tempo e la voragine sarebbe raddoppiata.
La sera Charlie mi fece un altro favore, e chiamò di nuovo Harry per chiedergli se i Black fossero fuori città. Harry gli rispose di avere incontrato Billy al consiglio della tribù mercoledì sera e di non averlo sentito parlare né di viaggi né di trasferte. Charlie mi pregò di non esagerare: Jacob mi avrebbe telefonato non appena se la fosse sentita.
Il pomeriggio del venerdì, mentre tornavo a casa da scuola, ebbi una rivelazione improvvisa.
Poco attenta alla strada che conoscevo a memoria, mentre lasciavo che il rombo del motore m’intorpidisse il cervello e zittisse le preoccupazioni, il mio subconscio emise un verdetto che probabilmente elaborava da tempo, senza che me ne fossi mai resa conto.
Non appena ci pensai mi sentii una stupida per non averlo intuito prima. Ma certo, avevo avuto troppe cose per la testa—vampiri ossessionati dalla vendetta, enormi lupi mutanti, una voragine aperta al centro del mio petto—ma di fronte agli indizi la verità era ovvia e imbarazzante.
Jacob mi evitava. Charlie diceva che aveva un’aria strana, irritata... Billy mi dava risposte vaghe e inutili.
Santo cielo, sapevo esattamente cos’era accaduto a Jacob.
Era colpa di Sam Uley. Persino i miei incubi avevano cercato di dirmelo. Sam era arrivato a Jacob. Qualunque cosa fosse successa agli altri ragazzi della riserva, aveva coinvolto anche lui e me lo aveva tolto. Era stato risucchiato dalla setta di Sam.
In un impeto di lucidità, capii che non aveva affatto rinunciato a me.
Restai col motore acceso di fronte a casa. Cosa dovevo fare? Calcolai pro e contro.
Se fossi andata a cercare Jacob, avrei rischiato che Victoria o Laurent attaccassero anche lui.
Se non ci fossi andata, Sam lo avrebbe legato a doppio filo alla sua banda inquietante e oppressiva. Aspettare oltre era un rischio troppo grosso.
Era trascorsa una settimana e nessun vampiro era ancora venuto a cercarmi. Sette giorni erano più che sufficienti perché tornassero, perciò, forse, non ero tra le loro priorità. Verosimilmente, come già avevo intuito, sarebbero venuti di notte. Le probabilità che mi seguissero fino a La Push erano molto più basse del rischio di lasciare Jacob a Sam.
Valeva la pena di percorrere la strada isolata nella foresta. La mia non era una banale visita di cortesia. Sapevo cosa stava accadendo. Era una missione di salvataggio. Ero decisa a parlare con Jacob, anche a rapirlo, se necessario. Una volta avevo visto un documentario che parlava di deprogrammazione di chi aveva subito un lavaggio del cervello. Doveva per forza esserci una cura.
Prima di tutto decisi di chiamare Charlie. Forse, qualunque cosa stesse succedendo a La Push, era meglio che la polizia ne fosse al corrente. Sentivo dentro di me la frenesia, l’impazienza di mettermi in moto.
Fu Charlie a rispondere al telefono del commissariato.
«Ispettore Swan».
«Papà, sono Bella».
«Che hai combinato?».
Stavolta non potevo controbattere alle sue supposizioni apocalittiche. Mi tremava la voce.
«Sono preoccupata per Jacob».
«Perché?», chiese, sorpreso dall’argomento.
«Penso... penso che giù alla riserva succedano cose strane. Jacob mi ha raccontato di episodi assurdi che hanno coinvolto i suoi coetanei. Adesso anche lui si comporta come loro e ho paura».
«Che genere di episodi?». Usava la sua voce professionale, da poliziotto in servizio. Meglio così: mi stava prendendo sul serio.
«All’inizio aveva paura, poi ha cominciato a evitarmi e ora... temo che sia entrato in quella banda assurda, quella di Sam. La banda di Sam Uley».
«Sam Uley?», fece eco Charlie, preso in contropiede.
«Sì».
Quando rispose, era più rilassato. «Secondo me hai capito male, Bells. Sam Uley è un bravissimo ragazzo. Be’, ormai è un uomo. Un figlio modello. Dovresti sentire Billy quando parla di lui. Sta facendo meraviglie con i ragazzi della riserva. È stato lui a...». Charlie s’interruppe a metà frase, di sicuro stava per parlare della notte in cui mi ero persa nella foresta. Lo incalzai all’istante.
«Papà, non è così. Jacob aveva paura di lui».
«Hai provato a parlarne con Billy?». Cercava di tranquillizzarmi. Me l’ero giocato, parlandogli di Sam.
«Billy non è preoccupato».
«Be’, allora sono sicuro che è tutto a posto, Bella. Jacob è un ragazzino; probabilmente ha solo esagerato. E sono certo che stia bene. In fondo, non penserai che passi ogni minuto del suo tempo con te».
«Io non c’entro», ribadii, ma ormai la battaglia era persa.
«E dai, non preoccuparti. Lascia che sia Billy a prendersi cura di Jacob».
«Charlie...». Il mio fu quasi un lamento straziato.
«Bells, ho parecchio da fare, oggi. Due turisti si sono persi nei dintorni del sentiero del lago a mezzaluna». C’era un che di ansioso nel suo tono. «La faccenda dei lupi ci sta sfuggendo di mano».
Per qualche istante fui distratta—anzi, sbalordita—dalle sue notizie. Era impossibile che i lupi fossero sopravvissuti a uno scontro con Laurent... «Sei sicuro che c’entrino i lupi?», chiesi.
«Temo proprio di sì, piccola. Stavolta abbiamo trovato impronte e... anche del sangue».
«Ah!». Probabilmente non c’era stato alcuno scontro, allora. Laurent doveva averli seminati, ma perché? La scena a cui avevo assistito nella radura mi risultava sempre più strana e incomprensibile.
«Senti, adesso devo andare. Non preoccuparti per Jake, Bella. Sono sicuro che non è niente».
«Va bene», abbozzai, delusa ma conscia che c’era una crisi più urgente in corso. «Ciao». Riattaccai.
Per qualche interminabile istante osservai il telefono. E che cavolo, mi dissi.
Billy rispose al secondo squillo.
«Pronto?».
«Ciao Billy», quasi gli ringhiai addosso. Cercai di essere più amichevole. «Mi puoi passare Jacob, per favore?».
«Non è in casa».
Maledizione. «Sai dov’è andato?».
«È uscito con gli amici». Il tono di Billy era circospetto.
«Ah sì? Qualcuno di mia conoscenza? Quil?». Io per prima mi rendevo conto di non sembrare affatto disinvolta e spontanea.
«No», disse Billy, lentamente. «Non credo che sia con Quil, oggi».
Meglio non menzionare Sam, lo sapevo.
«Embry?», chiesi.
Billy sembrò più felice di rispondere a quella domanda. «Sì, è uscito con Embry».
Bene, era abbastanza. Embry era uno di loro.
«Per favore, gli puoi dire di richiamarmi quando torna?».
«Certo, certo, nessun problema». Clic.
«Arrivederci, Billy», mormorai alla linea muta.
Guidai verso La Push decisa ad aspettare. Se fosse stato necessario, ero pronta a passare una notte intera fuori da casa sua. A saltare le lezioni. Prima o poi sarebbe rientrato, e a quel punto il ragazzino avrebbe fatto due chiacchiere con me.
Di fronte alle mie preoccupazioni, il viaggio che tanto mi terrorizzava sembrò durare pochi secondi. Quasi a sorpresa, la foresta iniziò a diradarsi e capii che di lì a poco avrei scorto le prime casette della riserva.
Sul ciglio sinistro della strada camminava un ragazzo alto, con un cappellino da baseball.
Per un istante mi si bloccò il respiro: forse per una volta la fortuna era dalla mia e stavo per incrociare Jacob casualmente. Però quest’altro ragazzo era troppo corpulento, e portava i capelli corti. Pur vedendolo da dietro, capii che era Quil, anche se sembrava più grosso rispetto al nostro ultimo incontro. Ma cosa avevano i giovani Quileute? Li nutrivano con ormoni della crescita sperimentali?
Deviai sulla corsia opposta per accostarmi a lui. Alzò lo sguardo al rombo del pick-up in avvicinamento. La sua espressione, più che sorprendermi, mi spaventò. Era spenta, cupa, la preoccupazione gli si leggeva nelle rughe sulla fronte.
«Ehi, ciao, Bella», salutò senza entusiasmo.
«Ciao Quil... Stai bene?».
Mi guardò imbronciato. «Sì».
«Posso darti un passaggio?».
«Sì, grazie», farfugliò. Girò attorno al pick-up e aprì la portiera del passeggero per salire.
«Dove?».
«Abito nella zona nord, dietro il supermercato», disse.
«Hai visto Jacob, oggi?». Mi lasciai sfuggire la domanda ancora prima che finisse di parlare.
Lo osservavo, avida di risposte. Prima di aprire bocca guardò per un momento fuori dal finestrino. «Da lontano», disse infine.
«Da lontano?».
«Ho tentato di seguirli. Era assieme a Embry». Parlava a voce bassa, il motore quasi la copriva. Mi avvicinai a lui. «Mi hanno notato, di sicuro. Ma a un certo punto hanno cambiato strada e sono spariti nei boschi. Non credo fossero soli: mi sa che c’erano anche Sam e la sua banda.
Per un’ora sono andato alla cieca nella foresta, chiamandoli. Ho ritrovato la strada poco prima di incrociare te».
«Quindi Sam si è preso anche lui». Le mie parole erano poco chiare: avevo le mascelle serrate.
Quil mi fissò. «Ne hai sentito parlare?».
Annuii. «Me ne ha parlato Jake... prima».
«Prima», ripeté Quil con un sospiro.
«Jacob è diventato cattivo come gli altri?».
«Non molla mai Sam». Quil si voltò e sputò dal finestrino aperto.
«E prima? Si è isolato da tutti? Si comportava in modo strano?».
La sua voce era bassa e rauca. «Non più degli altri. Forse è durata un giorno. Poi se ne è occupato Sam».
«Secondo te cos’è? C’è di mezzo la droga o qualcosa del genere?».
«Non ce li vedo, Jacob o Embry... ma non ho proprio idea. Cos’altro potrebbe essere? E perché gli anziani non sono preoccupati?». Scosse la testa, gli occhi pieni di paura. «Jacob non voleva avere niente a che fare con quella... setta. Non capisco cosa sia riuscito a cambiarlo». Mi fissò, terrorizzato. «Non voglio essere io il prossimo».
La sua paura si rifletteva nei miei occhi. Era la seconda volta che sentivo parlare della setta. Rabbrividii. «Ne hai discusso con i tuoi genitori?».
Fece una smorfia. «Altroché. Mio nonno fa parte del consiglio, come il papà di Jacob. A sentire lui, Sam Uley è la cosa migliore che sia mai capitata alla riserva».
Restammo a guardarci a lungo, immobili. Eravamo entrati a La Push, il pick-up procedeva lento sulla strada deserta. Non molto lontano, c’era l’unico supermercato del villaggio.
«Io scendo», disse Quil. «Casa mia è laggiù». Indicò un piccolo rettangolo di legno dietro il magazzino. Accostai e lui saltò giù.
«Io vado ad aspettare Jacob», replicai in tono duro.
«Buona fortuna». Sbatté la portiera e proseguì ciondolante sulla strada, a capo chino e spalle basse.
La sua espressione mi perseguitò anche mentre invertivo la marcia e puntavo verso casa Black. Era terrorizzato dall’eventualità che potesse toccare anche a lui. Cosa stava succedendo?
Mi fermai di fronte alla casa di Jacob, spensi il motore e abbassai i finestrini. Non c’era vento, l’aria era stagnante. Appoggiai i piedi al cruscotto e mi preparai all’attesa.
Mi voltai quando con la coda dell’occhio mi accorsi di un movimento. Billy mi guardava da una finestra della facciata, sul viso un’espressione confusa. Salutai con la mano e mi sforzai di sorridere, senza scendere.
Mi lanciò un’occhiataccia e tirò la tenda.
Ero pronta a restare a lungo, ma non avevo niente da fare. Dal fondo dello zaino recuperai una penna e una vecchia verifica di scuola. Iniziai a scarabocchiare sul retro del foglio.
Dopo la prima fila di disegnini, sentii un colpo secco contro la portiera.
Di soprassalto alzai lo sguardo, sicura che fosse Billy.
«Che ci fai qui?», ringhiò Jacob.
Restai a fissarlo, sbalordita e muta.
Era cambiato radicalmente durante le ultime settimane. Prima di tutto notai i capelli: al posto della sua chioma lunga e folta c’era un taglio cortissimo, una macchia nera lucida come seta. Le guance sembravano indurite, contratte... invecchiate. Anche il collo e le spalle erano diversi, più robusti. Le mani, strette al bordo del finestrino, erano enormi, le vene e i tendini spiccavano ancora di più sotto la pelle bronzea. Ma il cambiamento fisico era insignificante rispetto al resto.
Era l’espressione del viso a renderlo quasi irriconoscibile. Il sorriso sereno e amichevole se n’era andato assieme ai capelli, il calore degli occhi si era trasformato in una malignità che metteva istantaneamente a disagio. C’era qualcosa di oscuro in lui. Come se il mio sole fosse imploso.
«Jacob», sussurrai.
Restò a guardarmi, nervoso e arrabbiato.
Mi accorsi che non eravamo soli. Dietro di lui erano in quattro; tutti alti, con la pelle bronzea e i capelli corti come i suoi. Sembravano fratelli, non riuscii nemmeno a riconoscere Embry. La sorprendente ostilità irradiata dalle loro occhiate non faceva che accentuare la somiglianza.
Solo uno faceva eccezione. Più anziano di qualche anno, alle spalle del gruppo c’era Sam, sereno e tranquillo. Cercai di soffocare l’attacco di bile che sentivo in gola. Avrei voluto prenderlo a schiaffi. Anzi, di più. Avrei voluto essere qualcosa di feroce e mortale, capace di intimorire chiunque. Capace di far morire di paura Sam Uley.
Avrei voluto essere un vampiro.
Quel desiderio violento mi prese alla sprovvista e mi fece esplodere. Era la più proibita della mie fantasie—poco importava che a scatenarla fosse la volontà perfida di maltrattare un nemico—perché fra tutte era la più dolorosa. Rappresentava un futuro che avevo perso per sempre, che non era mai stato a portata di mano. Mi sforzai di riprendere il controllo di me stessa, mentre lo squarcio nel petto tornava a farmi male.
«Cosa vuoi?», chiese Jacob, il suo risentimento accentuato dal susseguirsi di emozioni che mi leggeva in faccia.
«Voglio parlarti», risposi con un filo di voce. Cercavo di concentrarmi, ma ero ancora scossa dal riaffiorare del mio sogno negato.
«Dimmi», sibilò tra i denti. Il suo sguardo era perfido. Non lo avevo mai visto guardare nessuno, tanto meno me, con quegli occhi. Mi bruciava con un’intensità sconcertante. Era dolore fisico, una coltellata nella testa.
«Da soli!», sbottai, con un po’ di voce in più.
Si guardò alle spalle e capii subito con chi ce l’avesse. Tutti erano in attesa della risposta di Sam.
Quello annuì, imperturbabile. Accennò qualcosa in una lingua sconosciuta, fluida. Ero sicura che non fosse francese né spagnolo, probabilmente quileute. Si voltò e si diresse alla casa di Jacob. Gli altri, che immaginavo fossero Paul, Jared ed Embry, lo seguirono.
«Okay». Lontano dagli altri, Jacob sembrava un po’ meno furioso. La sua espressione era leggermente più calma, ma non meno irremovibile. Gli angoli della bocca restavano piegati all’ingiù.
Presi fiato. «Sai già cosa voglio sapere».
Non rispose. Continuava a guardarmi, sprezzante.
Lo fissai negli occhi, in silenzio. Il dolore che esprimeva era snervante. Sentivo un nodo in gola.
«Facciamo due passi?», chiesi, ancora in grado di parlare.
Lui non rispose; la sua espressione non cambiò.
Scesi dal pick-up, mentre occhi invisibili mi spiavano dalla finestra, e iniziai a camminare, in direzione nord. Strisciavo i piedi nell’erba umida e nel fango che costeggiava la strada ma non sentivo altri rumori, perciò sulle prime pensai che Jacob non mi avesse seguita. Invece, appena alzai lo sguardo, lo vidi al mio fianco.
Al riparo degli alberi, lontani da Sam, mi sentivo più sicura. Camminavamo e desideravo con tutte le mie forze di trovare le parole, ma non mi veniva in mente nulla. Finii soltanto per accumulare rabbia, al pensiero che Jacob si fosse lasciato risucchiare... che Billy avesse permesso... che Sam avesse la sfacciataggine di essere tanto calmo e sicuro di sé...
D’un tratto Jacob accelerò il passo, superandomi alla svelta con le sue gambe lunghe, e si voltò verso di me, fermandosi e bloccandomi sul sentiero.
La grazia evidente nei suoi movimenti mi colpì. Jacob, cresciuto così in fretta, era sempre stato goffo quasi quanto me. Quando era cambiato?
Non mi lasciò il tempo di pensarci.
«Facciamola finita», disse con voce secca e roca.
Restai in attesa. Sapeva cosa volevo.
«Non è come pensi». D’improvviso il tono di voce si fece più incerto. «Non è come pensavo... Mi sbagliavo di grosso».
«E allora com’è?».
Studiò la mia espressione a lungo. La rabbia non era sparita del tutto dai suoi occhi. «Non posso dirtelo».
Serrai le mascelle, nervosa, e risposi: «Pensavo fossimo amici».
«Lo eravamo». Mise una leggera enfasi sul verbo al passato.
«Ah, certo. E tu non hai più bisogno di amici», risposi, acida. «Hai Sam. Che bello... in fondo lo ammiri da sempre, no?».
«Prima non lo capivo».
«E poi hai visto la luce. Alleluia».
«Non era come pensavo. Non è colpa di Sam. Sta facendo del suo meglio per aiutarmi». Preso dal nervosismo, guardò oltre le mie spalle, gli occhi traboccanti di rabbia.
«Ma certo», ribadii, dubbiosa. «Ti sta aiutando».
Non mi ascoltava nemmeno. Respirava a fondo, cercando di calmarsi. Era talmente fuori di sé che gli tremavano le mani.
«Jacob, ti prego», sussurrai. «Perché non vuoi dirmi cos’è successo? Magari ti posso aiutare».
«Nessuno può aiutarmi, ormai». Le sue parole erano un gemito cupo, la voce spezzata.
«Cosa ti ha fatto?», chiesi con gli occhi gonfi di lacrime. Lo cercai, come avevo già fatto una volta, avvicinandomi a braccia aperte.
Ma lui si allontanò di scatto, difendendosi a mani alzate. «Non toccarmi», sussurrò.
«Sam ti vede?», mormorai. Quelle stupide lacrime erano sfuggite ai miei occhi. Le spazzai via con il dorso della mano e incrociai le braccia.
«Smettila di dare la colpa a Sam». Le parole schizzarono veloci, automatiche. Con le mani fece per rassettarsi i capelli che non c’erano più e poi le lasciò cadere, inerti, sui fianchi.
«E allora di chi è la colpa?».
Abbozzò un sorriso inquietante, distorto.
«Meglio che non te lo dica».
«E invece sì, dannazione!», sbottai. «Voglio saperlo, e voglio saperlo subito».
«Ti sbagli», replicò.
«Non osare dirmi che ho torto, non sono io la vittima del lavaggio del cervello! Dimmi subito di chi è la colpa, se tutto questo non c’entra con il tuo caro Sam!».
«L’hai voluto tu», ringhiò accecato dalla rabbia. «Se proprio vuoi dare la colpa a qualcuno, perché non punti il dito contro quegli schifosi, fetidi succhiasangue che ti piacciono tanto?».
Restai a bocca aperta e senza fiato, infilzata dalle sue parole come da una lama a doppio taglio. Sentivo che i sussulti familiari del dolore, la voragine che mi squarciava da dentro, erano solo un sottofondo al caos dei miei pensieri. Non potevo credere a ciò che avevo appena udito. Sul suo volto non c’era traccia di indecisione. Soltanto furia.
«Ti ho avvisato che era meglio non parlarne», disse.
«Non capisco cosa vuoi dire», sussurrai.
Mi guardò, torvo e incredulo. «Secondo me lo capisci anche troppo bene. Non vuoi che lo ripeta, vero? Non mi va di farti soffrire».
«Non capisco cosa vuoi dire», ribadii meccanicamente.
«I Cullen», scandì lentamente, osservandomi mentre pronunciava il nome. «Ci ho fatto caso: ti si legge negli occhi cosa succede quando li senti nominare».
Scuotevo forte la testa sia per negare, sia per scrollare via i pensieri. Come faceva a saperlo? E cosa c’entrava con la setta di Sam? Ce l’avevano con i vampiri? Ma che senso aveva, ora che i vampiri se n’erano andati da Forks? Perché mai Jacob avrebbe dovuto credere alle storie sui Cullen, ormai spariti senza lasciare traccia, per non tornare mai più?
Sprecai troppo tempo per arrivare alla risposta giusta. «Non dirmi che adesso credi alle superstizioni scombinate di Billy», dissi in un debole tentativo di ironizzare.
«La sa molto più lunga di quanto immaginassi».
«Sii serio, Jacob».
Mi lanciò un’altra occhiata velenosa.
«A parte le superstizioni», ripresi, «non capisco che motivo abbiate di accusare i... Cullen. Se ne sono andati più di sei mesi fa. Perché dai a loro la colpa di ciò che sta combinando Sam?».
«Sam non combina niente, Bella. Se ne sono andati, lo so anche io. Ma a volte succede... che gli ingranaggi si mettono in moto e a quel punto è troppo tardi».
«Quali ingranaggi? Troppo tardi per cosa? Cos’è che non tolleri di loro?».
Mi ritrovai di colpo il suo viso a un centimetro, gli occhi ardenti e infuriati. «Che esistano», sibilò.
A distrarmi e a sorprendermi giunse la voce di Edward che mi metteva in guardia, benché non mi sentissi in pericolo.
«Tranquilla, Bella. Non esagerare», bisbigliò al mio orecchio.
Da quando aveva abbattuto le mura dentro cui lo avevo rinchiuso con tanto scrupolo, non ero più riuscita a imprigionare il nome di Edward. In quel momento non mi faceva più soffrire, e i secondi in cui sentivo la sua voce erano preziosi.
Jacob, di fronte a me, era su tutte le furie e tremava di rabbia.
Non capivo da dove fosse spuntato l’allarmismo di Edward. Jacob era imbestialito, ma era pur sempre Jacob. Non sentivo l’adrenalina né il pericolo.
«Dagli la possibilità di calmarsi», insistette la voce.
Scossi la testa, confusa. «Sei ridicolo», dissi a entrambi.
«Bene», rispose Jacob, e riprese fiato. «Non voglio discuterne con te. Ormai non importa più, il danno è fatto».
«QUALE DANNO?».
Non fece una piega di fronte al mio strillo.
«Torniamo indietro. Non c’è più niente da dire».
Restai a bocca aperta. «C’è ancora tutto da dire! Non hai ancora detto nulla!».
Si fece da parte e tornò a grandi passi verso casa.
«Oggi ho incontrato Quil», strillai alle sue spalle.
Si fermò senza voltarsi.
«Ricordi il tuo amico Quil? Ecco, è terrorizzato».
Si girò verso di me. Sembrava spaventato. «Quil», disse e non aggiunse altro.
«Anche lui è preoccupato per te. Ha perso la testa».
Jacob mi trapassò con uno sguardo disperato.
Rigirai il coltello nella piaga. «Teme di poter essere il prossimo».
Jacob si strinse a un albero per reggersi in piedi, con una strana sfumatura verdastra sotto la pelle bronzea del volto. «Non sarà il prossimo», mormorò tra sé. «Non può. Ormai è finita. Non è possibile che accada di nuovo. Perché? Perché?». Prese a pugni il tronco. Non era grosso, ma sottile e poco più alto di Jacob. Eppure restai di sasso quando lo vidi spezzarsi sotto i suoi colpi.
Jacob restò a fissare la punta aguzza del tronco spezzato, con un’aria sorpresa che presto si trasformò in terrore.
«Devo tornare». Si voltò e riprese la via di casa a passo tanto veloce da costringermi a correre per raggiungerlo.
«Dove? Da Sam!».
«Se vuoi, vedila così». Parlava a bassa voce, dandomi le spalle.
Lo rincorsi fino al pick-up. «Aspetta!», urlai mentre imboccava l’ingresso di casa.
Si voltò verso di me, le mani gli tremavano ancora.
«Torna a casa, Bella. Non posso più stare con te».
Il dolore sciocco e illogico che sentii fu incredibile e potente. Le lacrime tornarono. «Mi stai... lasciando?». Era la frase più sbagliata possibile, ma non trovai un modo migliore di esprimere ciò che pensavo. Dopotutto, tra me e Jake si era creato qualcosa di diverso da una amicizia tra studenti. Di più forte.
Si lasciò scappare una risata amara. «Niente affatto. Se fosse così, ti direi “restiamo amici”. Ma non posso».
«Jacob... perché? Sam non ti permette di avere altri amici? Per favore, Jake. Hai promesso. Ho bisogno di te!». Il vuoto e il nulla della mia vita precedente, prima che l’arrivo di Jacob riportasse una parvenza di razionalità, tornarono a incombere minacciosi. La solitudine già mi soffocava.
«Scusami, Bella». Jacob scandì le parole con una voce fredda che non sembrava nemmeno la sua.
Non riuscivo a credere che fosse sincero. Dietro il suo sguardo arrabbiato si nascondeva qualcos’altro, forse un segreto, ma il messaggio mi sfuggiva.
Forse non aveva niente a che fare con Sam. E nemmeno con i Cullen. Forse stava soltanto cercando di togliersi di mezzo da una storia senza speranza. Forse era il caso di lasciarlo fare, per il suo bene. Ero disposta a sopportare. Dovevo sopportare.
Ma sentii la mia voce sfuggire in un sospiro.
«Mi dispiace di non essere riuscita... prima... vorrei tanto che i miei sentimenti per te cambiassero, Jacob». Ero disperata, rincorrevo e stringevo una verità tanto lontana da confondersi con una bugia. «Magari... magari cambierei», sussurrai. «Magari, se mi concedessi un po’ di tempo... ma non lasciarmi proprio adesso, Jake. Non riuscirei a sopportarlo».
In un secondo il suo volto passò dalla rabbia alla sofferenza. Mi offrì una mano, che ancora tremava.
«No. Non pensare una cosa del genere, Bella, per favore. Non prendertela con te stessa, non pensare che sia colpa tua. Tutto questo riguarda soltanto me. Te lo giuro, non è colpa tua».
«No, è mia la colpa», sussurrai. «Non cercare di confondermi».
«Dico sul serio, Bella. Non sono...». Si sforzò di non perdere la voce, ancora più roca, né il controllo delle emozioni. Il suo sguardo era tormentato. «Non sono più degno di essere tuo amico, o qualsiasi cosa vorresti che fossi. Non sono più ciò che ero. Non sono la persona giusta per te».
«Cosa?». Lo fissai, confusa e sbalordita. «Che stai dicendo? Tu sei molto migliore di me, Jake. Sei buono! Chi ti ha detto che non lo sei? Sam? È una bugia perfida, Jacob! Non lasciarti raccontare certe falsità!». Avevo ripreso a strillare.
L’espressione di Jacob tornò fredda e rigida. «Nessuno mi racconta niente. So ciò che sono».
«Sei amico mio, ecco cosa sei! Jake... no!».
Se ne stava andando.
«Scusami, Bella», ribadì, stavolta con un mormorio spezzato. Si voltò e raggiunse la porta di casa quasi a passo di corsa.
Non riuscivo a muovermi. Osservai la casetta: appariva troppo piccola per contenere quattro ragazzoni e due uomini di grossa taglia. Da dentro non giungeva alcun rumore. Niente tendine svolazzanti, né voci o movimenti. Mi fissava, vuota.
La pioggia sottile iniziò a punzecchiarmi. Non riuscivo a staccare gli occhi dalla casa. Jacob sarebbe tornato. Doveva.
La pioggia aumentò e così il vento. Le gocce non cadevano più dall’alto, ma arrivavano in diagonale da ovest. Sentivo l’odore salmastro dell’oceano. I capelli mi frustavano il viso, impastati dalla pioggia, e mi confondevano la vista. Io aspettavo.
Infine la porta si aprì e feci un passo avanti, rincuorata.
Dalla soglia spuntò Billy sulla sedia a rotelle. Dietro di lui non c’era nessuno.
«Bella, ha appena chiamato Charlie. Gli ho detto che stai per tornare a casa». Il suo sguardo era pieno di compassione.
E quella compassione, in qualche modo, fu il colpo di grazia. Non replicai. Mi voltai come un automa e salii sul pick-up. Avevo lasciato i finestrini aperti, i sedili erano scivolosi e umidi. Non importava. Tanto ero già inzuppata.
Non è una tragedia! Non è una tragedia! La mia mente cercava di rassicurarmi. Era vero. Non era un problema così grosso. Non era certo la fine del mondo, a quella ero sopravvissuta. Era soltanto la fine del breve periodo di pace che l’aveva seguita. Nient’altro.
Non è una tragedia!, mi ripetei per poi aggiungere: Ma è un bel dramma.
Avevo creduto che Jake potesse guarire la mia ferita, tapparla, almeno, e impedire che mi facesse male. Mi ero sbagliata. Aveva scavato una seconda voragine, tutta sua, ed ero conciata peggio di un groviera. Mi meravigliavo di non essere già caduta a pezzi.
Charlie mi aspettava sulla veranda. Non appena mi fermai, mi corse incontro. «Ha chiamato Billy. Mi ha detto che hai litigato con Jake, che ti sei parecchio arrabbiata», spiegò mentre mi apriva la portiera.
Poi mi guardò in faccia. A giudicare dalla sua espressione, vedeva qualcosa di tremendo. Cercai di concentrarmi sul mio viso per immaginare cosa. Mi sentivo vuota e fredda, come mi aveva vista in un momento ben preciso del passato.
«Non è andata proprio così», borbottai.
Mi abbracciò e mi aiutò a scendere. Non fece nessun commento sui miei vestiti zuppi.
«Ma allora che è successo?», chiese, una volta in casa. Mentre parlava, prese il plaid dal divano e mi coprì le spalle. Mi resi conto che tremavo ancora.
La mia voce era priva di vita. «Sam Uley ha vietato a Jacob di essere mio amico».
Charlie mi lanciò un’occhiata strana. «Chi te l’ha detto?».
«Jacob», risposi. Certo, aveva usato altre parole. Ma era la verità.
Charlie aggrottò le sopracciglia. «Pensi davvero che ci sia qualcosa che non va in Uley?».
«Ne sono certa. Però Jacob non me ne vuole parlare». Sentivo l’acqua gocciolare dai vestiti e bagnare il linoleum. «Vado a cambiarmi».
Charlie era perso nei suoi pensieri. «Va bene», rispose, distratto.
Avevo freddo, perciò decisi di fare una doccia, ma nemmeno il calore dell’acqua riuscì a sopraffare il gelo del mio corpo. Quando spensi il getto, sentii Charlie che al piano di sotto parlava con qualcuno. Mi avvolsi in un asciugamano e sgattaiolai in silenzio fuori dal bagno.
Charlie sembrava arrabbiato. «Non ci credo. Non ha senso».
Una pausa, in cui capii che stava parlando al telefono. Passò un minuto.
«Non dare la colpa a Bella!», strillò Charlie all’improvviso. Sobbalzai. Quando riprese a parlare, tornò lucido e misurato. «Ha sempre messo in chiaro che lei e Jacob erano soltanto amici... Be’, se non era così, perché non l’hai detto prima? No, Billy, io credo che abbia ragione Bella. Conosco mia figlia e se dice che prima Jacob aveva paura...». Fu interrotto a metà frase e quando rispose quasi ricominciò a urlare.
«Cosa vuol dire che non conosco abbastanza mia figlia?!». Restò in ascolto per pochi istanti e rispose in tono basso, quasi inudibile. «Se pensi che abbia intenzione di ricordarglielo, ti sbagli di grosso. Stava iniziando a lasciarsi tutto alle spalle e gran parte del merito era di Jacob, credo. Qualsiasi cosa stia combinando assieme a questo Uley, se farà sprofondare di nuovo Bella nella depressione, Jacob dovrà renderne conto a me. Io e te siamo amici, Billy, ma qui c’è di mezzo la mia famiglia».
Un’altra pausa.
«Hai capito bene: quei ragazzi hanno tirato troppo la corda e io voglio sapere cosa c’è dietro. D’ora in poi terremo d’occhio la situazione, puoi starne certo». Non era più Charlie: si era trasformato nell’Ispettore Swan.
«Certo, sì. Ciao». E ricacciò la cornetta al suo posto.
Attraversai il corridoio in punta di piedi e rientrai in camera. Charlie bofonchiava arrabbiato, in cucina.
Quindi secondo Billy era colpa mia. Non tollerava più che nutrissi Jacob di false speranze.
Era strano, io stessa avevo temuto che fosse così ma, dopo ciò che mi ero sentita dire quel pomeriggio, la pensavo diversamente. Dietro quella storia c’era molto più che una cotta non corrisposta ed ero sorpresa che Billy si abbassasse a sostenere una simile ipotesi. Evidentemente, qualsiasi segreto nascondessero, era molto più grande di quanto immaginassi. Se non altro, a quel punto Charlie era passato dalla mia parte.
Indossai il pigiama e m’infilai sotto le coperte. La vita mi sembrava talmente buia da potermi concedere di imbrogliare. La voragine, anzi, le voragini facevano già male, e allora, perché no? Ripescai i ricordi—non quelli reali, che mi avrebbero ferita troppo, ma quelli falsi della voce di Edward che avevo sentito durante il pomeriggio—e li rivisitai senza sosta, fino ad addormentarmi mentre le lacrime scendevano piano sul mio viso assente.
Quella notte feci un sogno nuovo. Pioveva, e Jacob camminava in silenzio al mio fianco, mentre sotto i miei piedi sentivo il crepitio del terreno, simile a quello della ghiaia asciutta. Non era il mio Jacob: era quello nuovo, aspro, aggraziato. La scioltezza e l’agilità dei suoi movimenti mi ricordavano qualcun altro e mentre lo fissavo i suoi lineamenti cambiavano a poco a poco. La tinta bronzea della pelle sbiadì, il volto divenne pallido come osso. Gli occhi si fecero dorati, poi rosso cupo, poi di nuovo dorati. Il vento gli arruffava i capelli cortissimi e, quando li sfiorava, da neri si facevano ramati. E il volto diventava così bello da spezzarmi il cuore. Lo cercavo, ma lui arretrava e alzava le mani come uno scudo. Infine, Edward sparì.
Quando mi svegliai, nell’oscurità, non sapevo se avessi appena iniziato a piangere o se le lacrime fossero sgorgate nel sonno. Fissavo il soffitto buio. Ero certa che fosse notte fonda: ero ancora mezza addormentata, forse più che mezza. Chiusi gli occhi stanchi e pregai di sprofondare in un sonno senza sogni.
In quel momento sentii il rumore da cui probabilmente ero stata svegliata. Qualcosa di affilato grattava la finestra, stridulo, come unghie contro un vetro.