10 Scia

Era tutto molto puerile. Perché mai Edward doveva andarsene se Jacob stava arrivando? Non era ora di smetterla con queste bambinate?

«Non è per antagonismo nei suoi confronti, Bella, è soltanto più semplice per entrambi», mi disse Edward sulla porta. «Non mi allontanerò. Sarai al sicuro».

«Non è questo che mi preoccupa».

Sorrise, poi una luce maliziosa gli guizzò negli occhi. Mi strinse forte e affondò il viso tra miei capelli. Sentivo il suo respiro freddo gonfiarli a uno a uno e mi venne la pelle d’oca sul collo.

«Tornerò presto», disse, poi scoppiò a ridere, come se avessi appena raccontato una barzelletta.

«Che c’è?».

Edward si limitò a sorridere e scomparve fra gli alberi, senza rispondere. Iniziai a pulire la cucina, mugugnando. Prima ancora che riempissi il secchio, il campanello squillò. Era difficile abituarsi a quanto Jacob fosse veloce a piedi. Erano tutti più veloci di me...

«Entra pure, Jake!», gridai.

Ero concentrata sulla pila di piatti da immergere nell’acqua insaponata e mi ero dimenticata che Jacob ormai si muoveva come un fantasma. Quando sentii la sua voce alle mie spalle, all’improvviso, sussultai.

«È davvero il caso di lasciare la porta aperta in quel modo? Oh, scusa...». Per la sorpresa mi ero rovesciata addosso l’acqua dei piatti.

«Quel che mi minaccia non si fermerebbe davanti a una porta chiusa», dissi mentre mi asciugavo la maglietta con uno straccio.

«Buona osservazione», annuì.

Mi voltai a guardarlo, con disapprovazione. «Ti riesce così difficile vestirti, Jacob?». Era di nuovo a petto nudo, indorsava soltanto un paio di vecchi jeans tagliati al ginocchio. Pensai che forse era talmente orgoglioso dei suoi nuovi muscoli da doverli esibire per forza. Dovevo ammettere che erano impressionanti, ma non avevo mai creduto che fosse così vanitoso.

«So che non sei più sensibile al freddo, ma datti una calmata». Si passò una mano fra i capelli bagnati che gli coprivano gli occhi.

«Così è più semplice», spiegò.

«Che cosa?».

Sorrise condiscendente. «È già abbastanza noioso dovermi portare dietro i pantaloni, figuriamoci un abbigliamento intero. Non sono mica un mulo da soma...».

«Che cosa intendi, Jacob?».

Mi guardava con aria superiore, come se mi sfuggisse qualcosa di ovvio.

«I miei vestiti non sono ancora in grado di apparire e scomparire quando mi trasformo, così quando corro sono costretto a portarmeli dietro. Scusa se mi sono tenuto leggero».

Arrossii. «In effetti non ci avevo pensato», borbottai. Rise e indicò una cordicella di pelle nera, sottile come un filo di lana, attorcigliata tre volte sotto il suo polpaccio sinistro come una cavigliera. Non avevo notato neanche che era a piedi nudi. «Non è una questione di moda: fa schifo correre con i jeans in bocca».

Non sapevo cosa rispondere.

Lui sorrise. «Ti dà fastidio che sia mezzo nudo?».

«No».

Jacob rise di nuovo e gli voltai le spalle per concentrarmi sui piatti. Sperai che capisse che ero rossa d’imbarazzo per la mia stupidità e non per causa sua.

«Bene, suppongo che dovrei mettermi al lavoro». Sospirò. «Non voglio dargli neanche una scusa per dire che sono uno scansafatiche».

«Jacob, non spetta a te...».

Alzò una mano per interrompermi. «Mi sono offerto volontario. Allora, dov’è più forte l’odore dell’intruso?».

«In camera mia, credo».

Affilò lo sguardo. L’idea lo innervosiva, così come aveva innervosito Edward.

«Faccio in un minuto».

Strofinai metodica i piatti che avevo in mano. L’unico suono che udivo era quello della spugnetta contro la ceramica. Tesi le orecchie per cercare di udire qualcosa dal piano di sopra, uno scricchiolio del pavimento, lo scatto di una porta. Niente. Mi accorsi che lavavo e rilavavo sempre lo stesso piatto e provai a concentrarmi sui miei gesti.

«Buh!», disse Jacob, a qualche centimetro da me, e mi spaventò ancora.

«Uffa, Jake, smettila!».

«Scusa. Dammi qua». Jacob prese lo straccio e lo passò sulla mia nuova macchia. «Ci penso io. Tu lavi, io sciacquo e asciugo».

«Ottimo». Gli diedi il piatto.

«È stato abbastanza facile trovare l’odore. A proposito, la tua stanza puzza».

«Comprerò un profumatore d’ambienti».

Rise.

Per qualche minuto rimanemmo in un silenzio amichevole, io a lavare e lui ad asciugare.

«Posso chiederti una cosa?».

Gli passai un altro piatto. «Dipende da ciò che vuoi sapere».

«Non voglio fare il cretino né niente del genere... sono solo curioso», mi assicurò Jacob.

«Va bene. Dimmi».

Dopo una breve pausa, disse: «Com’è... essere la ragazza di un vampiro?». Alzai gli occhi al cielo. «È il massimo».

«Sto parlando sul serio. Non ti preoccupi mai... non ti mette mai paura?».

«Mai».

In silenzio prese una scodella dalle mie mani. Gli sbirciai il viso: era imbronciato, il labbro inferiore sporgeva.

«Nient’altro?», domandai.

Arricciò di nuovo il naso. «Be’... mi stavo chiedendo... tu... tu lo baci mai?».

Risi. «Sì».

Ebbe un fremito. «Ah».

«A ciascuno il suo destino», mormorai.

«Non hai paura delle zanne?».

Gli colpii il braccio, spruzzandolo con l’acqua dei piatti. «Piantala, Jacob! Sai benissimo che non ha le zanne!».

«Qualcosa di simile», bofonchiò.

Serrai i denti e pulii un coltello, con forza decisamente eccessiva.

«Posso chiederti un’altra cosa?», mi domandò delicatamente quando glielo passai. «Sono solo curioso, davvero».

«Va bene», sbottai.

Si girò e rigirò il coltello tra le mani, sotto il getto d’acqua. Parlò in un sussurro.

«Hai detto poche settimane... Quando... esattamente?», non riuscì a finire.

«Dopo il diploma», sussurrai anch’io, guardandolo con cautela. Si sarebbe di nuovo infuriato?

«Così presto», sospirò a occhi chiusi. Più che un’affermazione sembrò un lamento. Aveva i muscoli delle braccia tesi e le spalle rigide.

«Ahi!», gridò e al suo scatto sobbalzai.

Il pugno della mano destra si era stretto attorno alla lama del coltello; l’aprì e il coltello cadde nel lavandino. Sul palmo c’era un taglio lungo e profondo. Il sangue gli colava fra le dita e gocciolava sul pavimento.

«Merda! Che male!», si lamentò.

Mi girava la testa, avevo lo stomaco sottosopra. Mi aggrappai al ripiano con una mano e mi sforzai di stare in piedi per potermi occupare di lui.

«Oh no, Jacob! Oh, merda! Tieni, avvolgila con questo!», gli passai lo straccio dei piatti. Lui si allontanò scrollando le spalle.

«Non è niente Bella, non preoccuparti».

I contorni della stanza iniziarono a sembrarmi sfocati. Respirai a fondo. «Come "non è niente"? Ti sei affettato la mano!». Ignorò lo straccio che gli avevo passato. Mise la mano sotto il rubinetto e fece scorrere l’acqua per lavare la ferita. L’acqua diventò rossa. La testa prese a girarmi più forte.

«Bella», disse.

Evitai di guardare la ferita e mi concentrai sul suo viso. Era accigliato, ma calmo.

«Che c’è?».

«Sembri sul punto di svenire. Se non la smetti di morderti il labbro tra un po’ sanguinerai anche tu... Tranquilla. Respira. Sto bene». Inspirai con la bocca e liberai il labbro dalla morsa dei denti. «Ma non fare il coraggioso».

Alzò gli occhi al cielo.

«Andiamo. Ti porto al pronto soccorso». Ero più che sicura di poter guidare senza problemi. Perlomeno, la stanza aveva ripreso i suoi contorni.

«Non è necessario». Jake chiuse l’acqua e mi prese lo straccio dalle mani. Se lo avvolse morbidamente attorno al palmo.

«Aspetta», protestai. «Fammi dare un’occhiata». Mi aggrappai più salda al ripiano, per tenermi in piedi nel caso in cui la vista della ferita m’intontisse di nuovo.

«Hai per caso una laurea segreta in medicina?».

«Dammi solo la possibilità di decidere se è il caso di arrabbiarmi con te pur di portarti all’ospedale!».

Fece una finta espressione di terrore. «No, arrabbiarti no, ti prego!».

«Invece sì, se non mi fai vedere la mano».

Mi rispose esasperato: «Va bene».

Sciolse la benda improvvisata e, mentre allungavo il braccio per prenderla, posò la mano sulla mia. Mi bastarono pochi secondi. Gli girai la mano più volte. Ero sicura che si fosse tagliato. La girai di nuovo; tutto ciò che rimaneva della ferita era una brutta linea rosa spezzata.

«Ma stavi sanguinando... tantissimo...».

Ritirò la mano, con gli occhi fissi e cupi su di me.

«Guarisco in fretta».

«Vedo», dissi senza voce.

Avevo visto chiaramente il lungo sfregio e il sangue scorrere sul lavello. L’odore di ruggine e sale mi aveva quasi fatta svenire. Fossi stata io, mi ci sarebbero voluti i punti. Ci sarebbero voluti giorni per rimarginare la ferita, e settimane perché diventasse quella cicatrice rosa leggera e brillante che ora segnava la sua pelle.

Fece un mezzo sorriso e con il pugno si diede un colpo sulla guancia.

«Licantropo, ricordi?».

I suoi occhi mi fissarono per un momento interminabile.

«Giusto», dissi infine.

Rise della mia espressione. «Te ne avevo parlato. Ricordi la cicatrice di Paul?».

Scossi la testa, decisa. «È diverso se ti capita di assistere a tutta la sequenza in diretta». Mi chinai per prendere l’ammoniaca dal mobile sotto il lavello. Ne versai un po’ su uno straccio e iniziai a lavare il pavimento. L’odore acre fece sparire anche gli ultimi capogiri.

«Lascia fare a me», disse Jacob.

«Ci penso io. Tu butta l’altro straccio in lavatrice, ti va?». Quando fui certa che il pavimento sapesse solo di ammoniaca, mi alzai e sciacquai anche il lavello. Poi andai alla lavatrice dietro la dispensa e versai una dose anche lì prima di farla partire. Jacob mi guardò con aria di disapprovazione.

«Ti è venuta qualche mania ossessiva?», mi chiese quando ebbi finito. Mmm. Forse sì. Ma almeno questa volta avevo una scusa buona.

«In questa casa siamo abbastanza sensibili al sangue. Mi capisci, no?».

«Ah». Arricciò di nuovo il naso.

«Perché non semplificargli le cose? Quello che fa è già abbastanza duro».

«Certo, certo. Perché no?».

Tolsi il tappo e lasciai colare l’acqua sporca dal lavello.

«Posso chiederti una cosa, Bella?».

Sospirai.

«Com’è... essere la migliore amica di un licantropo?». La domanda mi prese in contropiede e scoppiai a ridere.

«Non ti mette mai paura?», insistette.

«No. Quando il licantropo si comporta bene», puntualizzai, «è il massimo». Sorrise e i denti bianchi brillarono contro la pelle ramata. «Grazie, Bella», disse, poi mi prese la mano e mi avvolse in uno dei suoi abbracci stritolanti. Prima che potessi reagire, lasciò cadere le braccia e si allontanò.

«Bleah», esclamò. «I tuoi capelli puzzano più della stanza».

«Scusa», mugugnai. D’un tratto capii perché Edward si era messo a ridere dopo aver respirato il mio odore.

«Uno dei rischi del fare amicizia con i vampiri», disse Jacob scrollando le spalle. «Ti fa puzzare. Un rischio da poco, in confronto». Lo fissai. «Sei solo tu che senti la puzza, Jake».

Sorrise. «A presto, Bells».

«Te ne vai?».

«È qui fuori, aspetta soltanto che me ne vada. Lo sento».

«Ah».

«Esco dal retro», disse, poi si fermò. «Aspetta un attimo... ehi, ti andrebbe di venire a La Push stasera? Facciamo una festa attorno al fuoco. Ci sarà Emily, potrai conoscere Kim... e anche Quil vorrebbe vederti. È molto seccato che tu abbia saputo la verità prima di lui».

Sorrisi all’idea. Immaginai il fastidio di Quil. L’amichetta umana di Jacob che va in giro con i licantropi mentre lui brancola nel buio... Poi sospirai. «Non lo so, Jake. Vedi, è un momento un po’ particolare...».

«Andiamo, credi che qualcuno potrebbe mai battere noi... sei tutti insieme?». Aveva balbettato la fine della frase, dopo una strana pausa. Mi chiesi se avesse problemi a pronunciare la parola "licantropo", quanto li avevo io con la parola "vampiro".

I suoi grandi occhi neri mi pregavano, sfacciati.

«Chiederò», dissi dubbiosa.

Fece un rumore con la gola. «Ora è anche il tuo sorvegliante? Sai, l’altro giorno ho letto un articolo sul controllo degli adolescenti, sulle relazioni clandestine e...».

«Okay!», tagliai corto spingendogli via il braccio. «È ora che i licantropi se ne vadano a casa!».

Sorrise. «Ciao, Bells. Mi raccomando, ricordati di chiedere ilpermesso ». Sparì dietro la porta prima che trovassi qualcosa da lanciargli contro. Grugnii scomposta, nella stanza vuota.

Un secondo dopo, Edward entrò lentamente in cucina; le gocce di pioggia sui suoi capelli brillavano come diamanti incastonati nel bronzo. Lo sguardo era molto attento.

«Avete litigato?», chiese.

«Edward!», cinguettai, buttandomi su di lui.

«Salve». Rise e mi strinse tra le braccia. «Stai cercando di distrarmi?

Funziona».

«No, non abbiamo litigato. Non troppo. Perché?».

«Mi chiedevo perché lo avessi pugnalato. Non che abbia niente in contrario». Con un cenno indicò il coltello sul bancone.

«Oddio! Pensavo di aver messo tutto a posto».

Mi allontanai e corsi a immergere il coltello nel lavandino prima di passarlo nell’ammoniaca.

«Non l’ho pugnalato», spiegai mentre lo pulivo. «Si è dimenticato di avere un coltello in mano». Edward sogghignò. «Avevo immaginato qualcosa di più divertente».

«Sii carino».

Prese un voluminoso pacco dalla tasca della giacca e lo poggiò sul bancone. «Ti ho preso la posta».

«Novità positive?».

«Secondo me sì».

Lo guardai torva, insospettita da quel tono di voce. Mi avvicinai per indagare. Era un busta rettangolare piegata in due. La stirai per aprirla, sorpresa dal peso di quella carta costosa, e lessi l’indirizzo del mittente.

«Dartmouth? È uno scherzo?».

«Scommetto che è una lettera d’ammissione. Del tutto uguale alla mia».

«Santo cielo, Edward. Che hai combinato?».

«Ho soltanto mandato la tua candidatura, nient’altro».

«Magari non sarò degna di Dartmouth, ma non sono così stupida da credere a una notizia del genere».

«Pare che a Dartmouth ti considerino degna».

Contai piano fino a dieci. «Molto generoso da parte loro», dissi infine.

«Comunque sia, ammessa o no, c’è il piccolo problema della retta. Non me la posso permettere, e non ti concederò di sprecare il prezzo di una macchina sportiva soltanto per poter fingere di andare a Dartmouth l’anno prossimo».

«Non mi serve un’altra macchina sportiva. E tu non fingerai niente», mormorò. «Un anno di college non ti ucciderà. Potrebbe addirittura piacerti. Pensaci almeno, Bella. Pensa quanto sarebbero contenti Charlie e Reneé...». La sua voce di velluto aveva disegnato il quadretto nella mia mente prima che potessi impedirglielo. Ovviamente Charlie sarebbe esploso d’orgoglio e nessuno a Forks sarebbe sfuggito al suo entusiasmo. Reneé sarebbe impazzita di gioia per il mio trionfo... anche se avrebbe giurato di non esserne affatto sorpresa. Provai a scrollarmi di dosso l’immagine. «Edward. Già rischio di non sopravvivere al diploma, figuriamoci quest’estate o il prossimo autunno». Mi abbracciò ancora. «Nessuno ti farà del male. Hai tutto il tempo del mondo».

Sospirai. «Domani spedirò in Alaska il saldo del mio conto corrente. Non occorrono altri alibi. Vista la distanza, Charlie non si aspetterà nessuna visita prima di Natale, così avrò il tempo di pensare a qualche scusa. Sai», scherzai noncurante, «tutti questi segreti e inganni fanno male». Il volto di Edward s’irrigidì. «Diventa più facile con il tempo. Dopo qualche decennio, tutti quelli che hai conosciuto muoiono. Problema risolto». Rabbrividii.

«Scusa, brutta battuta».

Fissai la grande busta bianca, ma senza guardarla. «Purtroppo vera».

«Se riesco a risolvere questa storia, di qualunque cosa si tratti, prenderai in considerazione di aspettare?».

«Negativo».

«Sempre testarda, eh?».

«Sì».

La lavatrice batté un colpo e si fermò balbettante.

«Stupida ferraglia», bofonchiai divincolandomi. Spostai lo straccio solitario che l’aveva inceppata e la feci ripartire.

«Ora che mi ricordo», dissi, «potresti chiedere ad Alice cosa ha fatto della mia roba quando mi ha pulito la stanza? Non la trovo più da nessuna parte».

Mi guardò con espressione confusa. «Alice ha pulito la tua stanza?».

«Sì, penso di sì. Quando è venuta a prelevare il pigiama, il cuscino e la roba per rapirmi». Gli lanciai un’occhiata torva. «Ha spostato tutto quello che ha trovato in disordine, le magliette, le calze, e non so dove le ha messe». Edward mi fissò confuso per un attimo, poi all’improvviso s’irrigidì.

«Quando ti sei accorta che mancavano?».

«Quando sono tornata dal finto pigiama party. Perché?».

«Temo che Alice non abbia preso niente. Né i vestiti né il cuscino. Le cose che mancano... le avevi indossate... toccate... ci avevi dormito?».

«Sì. Che c’è, Edward?».

La sua espressione era tesa. «Oggetti con il tuo odore».

«Ah!».

Ci guardammo negli occhi per un momento interminabile.

«Il mio visitatore», balbettai.

«Stava cercando tracce... indizi. Forse per dimostrare che ti aveva trovato?».

«Perché?», sussurrai.

«Non lo so. Ma ti giuro che lo scoprirò, Bella. Te lo giuro».

«So che ce la farai», dissi poggiando la testa al suo petto. Sentii il suo cellulare vibrare. Lo estrasse dalla tasca e diede un’occhiata al numero.

«Proprio la persona con cui avevo bisogno di parlare», mormorò, poi rispose. «Carlisle, io...». S’interruppe subito e restò in ascolto, il viso teso per la concentrazione.

«Controllerò. Senti...».

Gli spiegò degli oggetti scomparsi ma, per quanto capivo, non sembrava che Carlisle potesse darci suggerimenti utili.

«Forse posso andare...», disse Edward, interrompendosi non appena incrociò i miei occhi. «Forse no. Non far andare Emmett da solo, sai come diventa. Almeno chiedi ad Alice di tenere tutto sotto controllo. Ne parliamo dopo». Spense il telefono. «Dov’è il giornale?», mi chiese.

«Mmm, non lo so. Perché?».

«Devo vedere una cosa. Charlie non l’avrà già buttato?».

«Forse...».

Edward scomparve.

Ritornò dopo mezzo secondo, con altre gocce di diamante nei capelli e un giornale bagnato fra le mani. Lo aprì sul tavolo e ne scorse velocemente i titoli. Era chino in avanti, concentrato nella lettura, e sottolineava con un dito i passaggi che lo interessavano di più.

«Carlisle ha ragione... sì... davvero confuso. Giovane e pazzo? O un aspirante suicida?», bofonchiò. Cercai di sbirciare oltre la sua spalla.

Il titolo del «Seattle Times» diceva: "La scia di omicidi si diffonde — Nessuna pista per la polizia".

Era più o meno la stessa storia di cui aveva parlato Charlie qualche settimana prima: la barbarie metropolitana spingeva Seattle sempre più in alto nella classifica delle capitali statunitensi degli omicidi. Ma non era proprio lo stesso articolo. Le cifre erano molto più alte.

«La situazione peggiora», mormorai.

Si rabbuiò. «È del tutto fuori controllo. Non può essere il lavoro di un solo vampiro appena nato. Che succede? A quanto pare, chiunque sia non ha mai sentito parlare dei Volturi. È possibile, in effetti. Nessuno che gli abbia spiegato le regole... ma allora, chi è il suo creatore?».

«Cosa c’entrano i Volturi?», domandai, spiazzata.

«Spazzano via ciclicamente questo genere di cose, cioè altri immortali che rischiano di farci uscire allo scoperto. Qualche anno fa, ad Atlanta, hanno ripulito un casino simile ma molto meno grave. Interverranno presto, molto presto, se non troviamo un modo per calmare le acque. Preferirei che non arrivassero a Seattle ora. Se sono tanto vicini... potrebbero decidere di farti visita». Rabbrividii di nuovo. «Che possiamo fare?».

«Prima di decidere dobbiamo saperne di più. Magari, se potessimo parlare con questi novellini, spiegargli le regole, la cosa si risolverebbe pacificamente». Aggrottò la fronte, poco convinto dell’ipotesi. «Aspetteremo che Alice abbia un’idea di ciò che sta accadendo... Non vogliamo entrare in azione finché non sarà strettamente necessario. Dopotutto, non è nostra responsabilità. Per fortuna abbiamo Jasper», aggiunse, quasi a se stesso. «Se dovremo avere a che fare con dei neonati, ci tornerà utile».

«Jasper? Perché?».

«Jasper è una specie di esperto in giovani vampiri».

«In che senso un esperto?».

«Chiedilo a lui. È una storia complicata».

«Che casino», mugugnai.

«Effettivamente sì. A quanto pare ne stanno accadendo di tutti i colori, in questi giorni». Sospirò. «Pensi mai che la tua vita sarebbe più semplice, se non mi amassi?».

«Forse sì. Ma non sarebbe così speciale».

«Per me...», aggiunse sereno. «E ora, sbaglio...», continuò con un sorriso ironico, «o hai qualcosa da chiedermi?».

Lo guardai senza capire. «Io?».

«O forse no». Sorrise. «Non avevi promesso a qualcuno di chiedermi il permesso di andare a una specie di serata fra licantropi?».

«Hai origliato di nuovo?».

Sorrise. «Solo un po’, verso la fine».

«Be’, non te l’avrei chiesto comunque. Pensavo che fossi già abbastanza stressato».

Mi sollevò il viso in modo da potermi leggere negli occhi. «Vuoi andarci?».

«Non è importante. Non preoccuparti».

«Non devi chiedermi il permesso, Bella. Non sono tuo padre, grazie al cielo. Forse dovresti chiedere a Charlie».

«Charlie dirà di sì, lo sai».

«Effettivamente è vero, direi che non tutti sono in grado di intuirne i pensieri come me».

Lo fissai, cercando di non pensare alla mia voglia di andare a La Push: volevo capire i suoi desideri senza farmi sviare dai miei. Era stupido, proprio ora che succedevano cose così preoccupanti e misteriose, voler uscire con una combriccola di ragazzi-lupo grandi e sciocchi. Ma proprio per questo volevo farlo. Volevo lasciarmi alle spalle le minacce di morte, solo per qualche ora... essere la Bella immatura e spericolata che poteva riderci sopra con Jacob, anche solo per un po’. Ma tutto questo non aveva importanza.

«Bella», disse Edward, «ti ho detto che sarei stato ragionevole e mi sarei fidato del tuo buon senso. Dicevo sul serio. Se tu ti fidi dei licantropi, non mi preoccupo di loro».

Restai sorpresa, come la notte precedente.

«E Jacob ha ragione, quanto meno su una cosa: uri branco di licantropi è sufficiente a proteggerti per una sera».

«Ne sei sicuro?».

«Certo. Solo...».

Mi preparai.

«Ti dispiacerebbe prendere qualche precauzione? Permettimi di accompagnarti fino al confine, intanto. E magari porta con te un cellulare, così saprò quando venire a prenderti».

«Mi sembra una proposta... molto ragionevole».

«Perfetto».

Mi sorrise e nei suoi occhi splendenti come gioielli non c’era alcuna traccia di apprensione.

Ovviamente Charlie fu ben contento di lasciarmi andare al falò di La Push. Quando chiamai Jacob per dargli la notizia, si abbandonò a un’esultanza sfacciata, tanto entusiasta da accettare tutte le misure di sicurezza di Edward. Gli diedi appuntamento sul confine, alle sei. Avevo deciso, dopo averci pensato meglio, che non avrei venduto la moto. L’avrei riportata a La Push — era casa sua, in fondo — e quando non ne avessi avuto più bisogno... be’, avrei insistito perché Jacob ne approfittasse in qualche modo. Avrebbe potuto venderla o regalarla a un amico. Non m’interessava.

Fu una buona occasione, dunque, per riportare la moto nel garage di Jacob. Con tutti i foschi presagi che avevo, ogni giorno sembrava un’ultima occasione. Non avevo tempo di rimandare nulla, importante o no. Quando gli spiegai il mio piano, Edward si limitò ad annuire, ma mi sembrò di vedere un lampo di costernazione nei suoi occhi: come Charlie, era tutt’altro che felice di vedermi in sella a una motocicletta. Lo seguii fino a casa sua, al garage dove avevo lasciato la moto. Soltanto quando scesi dal furgoncino mi resi conto che la preoccupazione non riguardava soltanto la mia sicurezza. La mia vecchia moto era sovrastata da un altro mezzo. Chiamarla motocicletta era davvero ingiusto: non sembrava affatto della stessa famiglia del mio veicolo, che d’un tratto mi appariva come un rottame. Era grande, lucida e argentata, e persino da ferma sembrava veloce.

«Cos’è quella?».

«Niente», mormorò Edward.

«Non ho mai visto niente di simile».

L’espressione di Edward era indifferente; sembrava che volesse farla sparire. «Be’, non sapevo se tu e il tuo amico avreste fatto la pace, e ho pensato, visto che ti piace, che avresti voluto continuare a guidare la moto. Pensavo di poterti accompagnare, ecco». Scrollò le spalle. Fissai quel veicolo stupendo. Accanto, il mio sembrava una specie di triciclo rotto. Sentii una repentina ondata di tristezza quando realizzai che forse era così che apparivo, accanto a Edward.

«Non sarei mai capace di tenere il tuo passo», sussurrai. Mi posò una mano sotto il mento e mi fece voltare verso di lui per guardarmi negli occhi. Con un dito cercò di sollevarmi un angolo della bocca.

«Sarei io a tenere il tuo, Bella».

«Ma per te non sarebbe molto divertente».

«Certo che sì, se fossimo insieme».

Mi morsi il labbro e provai a immaginare. «Edward, se pensassi che sto andando troppo veloce, che sto perdendo il controllo della moto o qualcosa del genere, che faresti?».

Esitò, cercando la risposta giusta. Io sapevo la verità: avrebbe trovato il modo di salvarmi prima che cadessi.

Poi sorrise. Sembrava spontaneo, tranne che per lo sguardo accigliato, sulla difensiva.

«Sono cose che fai con Jacob. Ho capito».

«In realtà, be’, cerco solo di non rallentarlo troppo, sai. Potrei provare, credo...».

Guardai dubbiosa la motocicletta argentata.

«Non preoccuparti», disse Edward, poi rise con leggerezza. «Ho visto Jasper molto interessato. Forse per lui è il momento di scoprire un nuovo modo di viaggiare. Dopotutto, Alice ha la Porsche».

«Edward, io...».

M’interruppe con un rapido bacio. «Ho detto di non preoccuparti. Però, mi concedi almeno una cosa?».

«Tutto ciò che vuoi», promisi subito.

Mi lasciò il viso e si appoggiò al fianco della moto, cercando di ripescare qualcosa che aveva nascosto lì sotto. Tornò con un oggetto, nero e informe, e un altro, rosso, facilmente identificabile.

«Per favore», disse e sfoderò il sorriso sghembo che sbriciolava sempre ogni mia resistenza.

Presi il casco rosso, pesandolo fra le mani. «Sembrerò ridicola».

«No, starai meglio. Tanto meglio da non farti male». Buttò l’oggetto nero, qualunque cosa fosse, alle sue spalle e poi mi prese il viso fra le mani.

«Ho una cosa fra le mani, adesso, senza la quale non potrei vivere. Dovresti averne cura».

«Okay, va bene. E quell’altro coso?», domandai sospettosa. Rise e scrollò una specie di giubbotto imbottito. «È una giacca da motociclista. Ho sentito che gli incidenti stradali sono parecchio fastidiosi, non che lo sappia per esperienza».

Me lo tenne per farmelo indossare. Rassegnandomi, tirai i capelli indietro e misi il casco in testa. Poi infilai le braccia nelle maniche. Lui chiuse il giubbotto con un sorrisetto e fece un passo indietro. Mi sentivo ingombrante.

«Sii sincero, quanto sono orribile?».

Fece un altro passo indietro e strinse le labbra.

«Così tanto?», mugugnai.

«No, no, Bella. In realtà...». Sembrava si stesse sforzando per trovare la parola giusta. «Ti trovo... sexy».

Risi di cuore. «Come no».

«Molto sexy, davvero».

«Lo dici soltanto per farmi portare questa roba», dissi. «Ma va bene. Hai ragione, così sto meglio».

Mi avvolse tra le braccia e mi strinse al petto. «Sei sciocca. Ma questo fa parte del tuo fascino. Comunque, lo ammetto, questo casco ha i suoi svantaggi». E me lo tolse per potermi baciare.

Poco dopo, mentre Edward mi accompagnava a La Push, mi resi conto che quella situazione senza precedenti mi sembrava stranamente familiare. Mi ci volle un po’ per riconoscere l’origine del déjà-vu.

«Sai cosa mi ricorda?», dissi. «Di quando ero piccola e Reneé mi portava da Charlie per l’estate. Mi sento come una bambina di sette anni». Edward rise.

Non lo dissi, ma la grande differenza era che adesso Reneé e Charlie erano in rapporti migliori fra loro. A circa metà strada girammo l’angolo e trovammo Jacob appoggiato contro un fianco della Volkswagen rossa che aveva rimesso in sesto da solo. L’espressione accuratamente neutrale di Jacob si trasformò in un sorriso quando lo salutai dal sedile.

Edward parcheggiò la Volvo a circa trenta metri di distanza.

«Chiamami quando sei pronta per tornare a casa», disse, «e arrivo subito».

«Non farò tardi», promisi.

Edward scaricò la moto e il mio nuovo equipaggiamento dalla sua auto. Ero rimasta quasi impressionata che ci fosse entrato tutto. Ma, d’altra parte, che vuoi che sia una moto quando uno è tanto forte da riuscire a spostare un furgoncino...

Jacob osservò senza un cenno. Il sorriso era sparito, lo sguardo indecifrabile. Strinsi il casco sotto il braccio e lanciai il giubbotto sul sedile.

«Hai tutto?», chiese Edward.

«Nessun problema», lo rassicurai.

Con un sospiro si chinò verso di me. Girai il viso per un bacetto d’addio, ma mi prese di sorpresa stringendomi forte tra le braccia e baciandomi con lo stesso entusiasmo che aveva avuto in garage. Mi lasciò subito senza fiato. Edward rise sereno, chissà perché, e mi lasciò andare.

«Ciao», disse. «Proprio bello quel giubbotto».

Mentre mi allontanavo da lui mi sembrò di scorgere una strana luce nei suoi occhi, qualcosa che non avrei dovuto vedere. Non sapevo dire con esattezza cosa fosse. Preoccupazione, forse. Per un secondo lo scambiai per panico. Ma forse mi stavo facendo tanti problemi per nulla, come sempre. Sentivo il suo sguardo seguirmi mentre spingevo la moto verso l’invisibile linea di confine licantropi-vampiri, per andare da Jacob.

«Che cos’è questa storia?», chiese Jacob guardingo, scrutando la moto con un’espressione enigmatica.

«Ho pensato che è meglio riportarla a casa», risposi. Meditò sulle mie parole per un istante, poi un sorriso gli distese il volto. Capii con precisione quando entrammo nel territorio dei licantropi perché Jacob saltò giù dall’auto e m’inseguì svelto, accorciando le distanze in tre lunghi passi. Prese la moto, la issò sul cavalletto e mi strinse in un altro fortissimo abbraccio.

Sentii il motore della Volvo ringhiare e cercai di liberarmi.

«Smettila, Jake!», ansimai senza fiato.

Rise e mi lasciò andare. Mi voltai a salutare, ma la macchina argentata era già scomparsa lungo la curva.

«Complimenti», commentai con un filo di acidità nella voce. Spalancò gli occhi, falsamente innocente. «Per cosa?».

«Si è già sforzato abbastanza di essere carino; meglio per te se la smetti di sfidare la tua buona sorte».

Rise di nuovo, più forte di prima — dovevo aver detto qualcosa di divertente. Cercai di spiegarmi perché mentre veniva ad aprirmi la portiera della Golf.

«Bella», disse infine, ancora sogghignante, mentre chiudeva la portiera, «come faccio a sfidare una buona sorte che non ho?».

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