«Non ho niente da mettermi!», mi lamentai davanti allo specchio. I miei vestiti, dal primo all’ultimo, erano accatastati sul letto; i cassetti e l’armadio erano svuotati. Fissavo le nicchie depredate, nella speranza di trovare qualcosa di adatto.
La gonna beige era appoggiata alla spalliera della sedia a dondolo, in attesa che scovassi qualcosa da abbinarci. Qualcosa che mi facesse sembrare bella e adulta. Qualcosa che dicesse "occasione speciale". Ma non avevo più idee.
Era quasi ora di andare ed ero ancora in tuta da ginnastica. Se non trovavo nulla di più adatto — e al momento non è che avessi tante speranze — sarei andata alla cerimonia con quella. Guardavo perplessa la pila di vestiti sul letto.
La cosa buffa era che sapevo esattamente cosa avrei indossato se l’avessi avuta: la camicetta rossa che mi avevano rubato. Tirai un pugno al muro con la mano sana.
«Stupido, noioso e ladro di un vampiro!», urlai.
«Che ho fatto?», chiese Alice.
Stava elegantemente appoggiata alla finestra aperta, sembrava davvero che fosse lì da sempre.
«Toc toc», aggiunse con un sorriso.
«È davvero così difficile bussare e aspettare che qualcuno ti apra la porta?». Lanciò una scatola bianca, piatta, sul letto. «Sono di passaggio. Pensavo che magari avessi bisogno di qualcosa da metterti».
Guardai il pacco in cima alla pila del mio guardaroba insoddisfacente e feci una smorfia.
«Ammettilo», disse Alice. «Ti ho salvato la vita».
«Mi hai salvato la vita», mormorai. «Grazie».
«Be’, almeno una cosa l’ho indovinata. Non sai quant’è irritante non poter "vedere" le cose come al solito. Mi sento così inutile. Così... normale». Nel pronunciare la parola rabbrividì per il disgusto.
«Chissà che sensazione orrenda. Normale. Santo cielo». Rise. «Almeno non ho avuto a che fare con il tuo fastidioso ladro, e adesso devo solo capire cosa mi sfugge a Seattle». Quando pronunciò queste parole e unì le due situazioni in un’unica frase, scattò la molla. Il qualcosa che sfuggiva da giorni, la connessione importante che non riuscivo a cogliere, d’un tratto mi apparve chiaro. Restai a guardarla senza cambiare espressione.
«Non la apri?», domandò. Di fronte alla mia reazione lenta sospirò e aprì la scatola. Tirò fuori qualcosa e me lo mostrò, ma non riuscivo a concentrarmi su cosa fosse. «Carini, non ti pare? Ho scelto il blu, perché Edward dice che ti dona».
Non la stavo ascoltando.
«Fa lo stesso», sussurrai.
«Che c’è?», chiese. «Non hai niente di simile. Anzi, a parte la gonna non hai proprio niente!».
«No, Alice! Lascia perdere i vestiti! Ascoltami!».
«Non ti piace?». Sul suo viso apparve la delusione.
«Ascolta, Alice, non capisci? Sono glistessi ! Quello che è entrato qui a rubare le mie cose e i vampiri di Seattle. Sono insieme!». I vestiti le scivolarono di mano e ricaddero nella scatola. Alice capì e la sua voce si fece all’improvviso aspra. «Cosa te lo fa pensare?».
«Ricorda cos’ha detto Edward. C’è qualcuno che usa i buchi nelle tue visioni per impedirti di vedere i neonati. E pensa anche a cos’hai detto tu sul tempismo straordinario: il ladro è stato attento a non entrare in contatto con me, come se sapesse che l’avresti visto. Credo che tu abbia ragione: Alice, lo sapeva. Anche lui ha usato quei buchi. Quante probabilità ci sono chedue persone, separatamente, non solo ti conoscano abbastanza da comportarsi così, ma abbiano deciso di farlo nello stesso momento? Non c’è possibilità. È una persona sola. La stessa. Chi sta organizzando l’esercito è venuto anche qui a catturare il mio odore». Alice non era abituata a essere colta di sorpresa. S’irrigidì e rimase zitta, talmente a lungo che iniziai a contare i secondi, mentalmente. Restò immobile per due minuti. Poi alzò gli occhi su di me.
«Hai ragione», disse con voce cupa. «Certo che hai ragione. E se la metti su questo piano...».
«Edward non ha capito», sussurrai. «Era una prova... per vedere se avrebbe funzionato. Se poteva entrare e uscire indisturbato senza fare niente di prevedibile. Per esempio, provare a uccidermi... E non ha preso le mie cose per dimostrare di avermi trovato. È venuto a prendere il mio odore... per consentire anche agli altri di trovarmi».
Restò a guardarmi scioccata. Sapeva bene che avevo ragione.
«Oh, no», balbettò.
Non mi aspettavo più che le mie emozioni avessero un senso. Al pensiero che qualcuno avesse creato un esercito di vampiri — l’esercito che aveva ucciso barbaramente decine e decine di persone a Seattle — con il chiaro proposito di uccidereme , mi sentii sollevata. Da una parte, era scomparsa la sensazione di avere ignorato chissà quale dettaglio importante.
Ma c’era dell’altro, e non era cosa da poco.
«Bene», sussurrai, «possiamo rilassarci. Nessuno sta cercando di sterminare i Cullen, in fin dei conti».
«Se pensi che la situazione sia cambiata, ti sbagli di grosso», disse a denti stretti. «Se qualcuno vuole uccidere uno di noi, dovrà passare sul cadavere di tutti gli altri».
«Grazie, Alice. Ma finalmente abbiamo scoperto cosa cercano davvero. Questo ci aiuterà».
«Forse», borbottò, e si mise a camminare su e giù per la stanza. Toc, toc. Qualcuno bussò con forza alla porta.
Balzai in piedi. Alice quasi non se ne accorse.
«Non sei ancora pronta? Faremo tardi!», protestò Charlie, piuttosto teso. Quasi come me, era allergico alle occasioni importanti. Nel suo caso il problema era che non amava vestirsi elegante.
«Dammi un minuto», dissi con voce rauca.
Restò zitto per mezzo secondo. «Stai piangendo?».
«No. Sono nervosa. Vattene».
Lo sentii scendere le scale con passo pesante.
«Devo andare», sussurrò Alice.
«Perché?».
«Edward sta arrivando. Se sente...».
«Vai, vai!», le urlai subito. Edward avrebbe perso le staffe se avesse saputo. Non potevo tenerlo all’oscuro ancora per molto, ma la cerimonia della consegna dei diplomi non era certo il momento migliore per vedere le sue reazioni.
«Mettile», ordinò Alice, mentre scappava dalla finestra. Obbedii e iniziai a vestirmi mezzo imbambolata.
Avevo pensato di farmi un’acconciatura complicata ma non ne ebbi il tempo, così lasciai i capelli sciolti e anonimi come sempre. Non importava. Non mi preoccupai di guardarmi allo specchio, perciò non sapevo come mi stavano la gonna e la maglietta di Alice. Mi buttai sulla spalla l’orribile toga gialla di poliestere e scesi le scale di corsa.
«Sei proprio carina», disse Charlie, con la voce rotta dall’emozione.
«Vestiti nuovi?».
«Sì», borbottai, intenta a concentrarmi. «È un regalo di Alice. Grazie». Edward arrivò appena un paio di minuti dopo che sua sorella se n’era andata. Non ebbi il tempo di fingere una calma di facciata. Ma, finché viaggiammo sull’auto della polizia di Charlie, non riuscì a chiedermi nulla. La settimana precedente, quando aveva saputo che volevo andare alla cerimonia di consegna dei diplomi con la macchina di Edward, Charlie si era impuntato. Non potevo dargli torto: i genitori hanno dei diritti, il giorno della cerimonia. Avevo ceduto volentieri ed Edward aveva proposto sorridendo che andassimo tutti insieme. Dato che Carlisle ed Esme non avevano nulla in contrario, Charlie non poté obiettare nulla e accettò a malincuore. E ora Edward stava sul sedile posteriore dell’auto della polizia di mio padre, dietro il pannello divisorio di vetro, con un’espressione divertita — probabilmente dovuta a quella altrettanto divertita di mio padre e al ghigno che gli illuminava il viso ogni volta che vedeva Edward nello specchietto retrovisore. Quasi sicuramente, se Charlie mi avesse rivelato i propri pensieri, mi sarei arrabbiata parecchio.
«Tutto bene?», sussurrò Edward mentre mi aiutava a scendere dalla macchina, nel parcheggio della scuola.
«Nervosa», risposi, e non era affatto una bugia.
«Sei così bella», disse.
Sembrò voler aggiungere qualcos’altro, ma Charlie, con una manovra tutt’altro che disinvolta, s’intromise e mi abbracciò.
«Sei agitata?», mi chiese.
«Non molto», ammisi.
«Bella, è un’occasione importante. Hai finito il liceo. Ora ti aspetta il mondo degli adulti. L’università. Andrai a vivere da sola... Non sarai più la mia bambina». Sembrava davvero commosso.
«Papà», brontolai. «Per favore, non ti mettere a piangere sulla mia spalla».
«E chi piange?», esclamò. «Non dirmi che non sei elettrizzata».
«Non so, papà. Penso di non aver ancora realizzato cosa sta succedendo».
«È bello che Alice abbia organizzato la festa. Hai bisogno di tirarti un po’ su».
«Certo. Ho proprio bisogno di una festa».
Charlie rise del mio tono di voce e mi abbracciò forte. Edward guardava le nuvole, con la mente altrove.
Mio padre dovette lasciarci davanti alla porta secondaria della palestra ed entrare come tutti i genitori dall’entrata principale. Ci fu un pandemonio quando la signorina Cope della segreteria e il signor Varner, il professore di matematica, cercarono di disporci in ordine alfabetico.
«Qui davanti, signor Cullen», abbaiò Varner.
«Ehi, Bella!».
Alzai lo sguardo e vidi Jessica Stanley sbracciarsi dal fondo della fila con un gran sorriso.
Edward mi diede un rapido bacio, sospirò e andò tra quelli con la lettera C. Alice non c’era. Cosa stava facendo? Voleva saltare la cerimonia della consegna dei diplomi? Che pessima scelta di tempo, la mia. Forse avrei dovuto aspettare che fosse passata, per capire cos’era successo.
«Sono qui, Bella!», Jessica mi chiamò di nuovo.
Percorsi tutta la fila per prendere posto accanto a lei, curiosa di scoprire il perché di quell’improvvisa gentilezza, Quando mi avvicinai vidi Angela, poco più indietro, guardare Jessica con la stessa curiosità. Jess blaterò qualcosa prima che fossi abbastanza vicina da capire.
«...così sorprendente. Voglio dire, sembra che ci siamo conosciute ieri, ed eccoci qua a ritirare insieme i diplomi», esultò. «Riesci a credere che è finita? Avrei voglia di urlare!».
«Anch’io», mugugnai.
«È davvero incredibile. Ti ricordi del tuo primo giorno qui? Ti ricordi?
Siamo diventate subito amiche, dal primo istante. Fantastico. E adesso io sto per partire per la California, tu per l’Alaska. Mi mancherai proprio tanto! Devi promettermi che ogni tanto ci vedremo! Sono così contenta che anche tu avrai la tua festa. È tutto perfetto. Perché per un po’ di tempo non ci siamo frequentate granché e adesso ce ne andiamo...». Non la finiva più, e senz’altro quell’improvviso ritorno di fiamma era dovuto alla nostalgia per la fine della scuola e alla gratitudine per l’invito alla festa, invito che non era stato affatto un’idea mia. Mi sforzai di ascoltarla mentre m’infilavo la toga. Tutto sommato ero contenta che le cose con Jessica finissero bene.
Perché era una fine, anche se Eric, lo studente promosso con i voti migliori e incaricato di pronunciare il discorso, avrebbe proclamato che si trattava di «un inizio», oltre a tutte le sciocchezze che si dicono in quelle occasioni. Forse valeva più per me che per gli altri, ma quel giorno tutti ci stavamo lasciando qualcosa alle spalle.
La cerimonia fu rapidissima. Mi sembrò di aver premuto il tasto dell’avanzamento veloce. Qualcuno ci aveva chiesto di fare così in fretta? Anche Eric fece in un attimo; era nervoso, le sue parole e le sue frasi si rincorrevano, perdendo ogni significato. Il preside Greene iniziò a chiamarci per nome, uno a uno, senza aspettare troppo; gli studenti della prima fila dovettero correre. La povera signorina Cope s’impappinò più volte nel passargli i diplomi. Vidi Alice, che era apparsa all’improvviso, saltellare danzando sul palco per prendere il suo, tutta concentrata. Edward la seguiva con un’espressione confusa, ma per nulla agitato. Solo loro due riuscivano a indossare con disinvoltura quelle toghe gialle e sembrare sempre impeccabili. Spiccavano tra la folla, con la loro bellezza e la loro grazia ultraterrene. E dire che all’inizio anch’io li avevo scambiati per esseri umani. Due angeli con le ali spiegate avrebbero dato meno nell’occhio.
Sentii il preside chiamare il mio nome e mi alzai in piedi, in attesa che la fila davanti a me si muovesse. Sapevo che in fondo alla sala c’era chi faceva il tifo per me e mi guardai intorno per vedere Jacob e Charlie darsi di gomito e incoraggiarsi a vicenda. Riuscii appena a vedere la testa di Billy accanto a Jake. Feci il possibile per lanciare loro un sorriso forzato. Il signor Greene finì di chiamarci, continuò a consegnare i diplomi, e sorrideva stanco mentre gli sfilavamo davanti.
«Congratulazioni, signorina Stanley», mormorò mentre Jess prendeva il suo.
«Congratulazioni, signorina Swan», disse e mi porse il diploma che afferrai con la mano sana.
«Grazie», sussurrai.
E questo fu tutto.
Restai accanto a Jessica nel gruppo dei diplomati. Jess aveva gli occhi arrossati e non smetteva di asciugarsi le lacrime con la manica del vestito. Il preside disse qualcosa che non riuscii a sentire, e tutti intorno a me si misero a ridere e a gridare. Piovvero cappelli gialli. Tolsi il mio troppo tardi e riuscii soltanto a farlo cadere per terra.
«Oh, Bella!», singhiozzò Jess, coperta dall’improvviso boato che seguì il discorso del preside. «Non riesco a credere che siamo diplomate».
«Non riesco a credere che è finita», mormorai.
Mi buttò le braccia al collo. «Devi promettermi che non ci perderemo di vista».
Anch’io la abbracciai e mi sentii un po’ a disagio nello sviare la sua richiesta. «Sono contenta di averti conosciuta, Jessica. Sono stati due anni magnifici».
«Certo che sì», sospirò e tirò su con il naso. Poi gridò «Lauren!», iniziò a sbracciarsi e s’insinuò nella massa di toghe gialle. Le famiglie si stavano avvicinando, ci pressavano gli uni addosso agli altri. Cercai con gli occhi Angela e Ben, ma erano circondati dai parenti. Mi sarei congratulata con loro più tardi.
Allungai il collo, in cerca di Alice.
«Congratulazioni», mi sussurrò all’orecchio Edward e nel frattempo mi cinse i fianchi. Parlava a voce bassa; non aveva fretta che raggiungessi quel traguardo.
«Ehm, grazie».
«A quanto pare il nervosismo non è ancora passato», notò.
«Eh, no».
«Che problema c’è? La festa? Non sarà così terribile».
«Forse hai ragione».
«Chi stai cercando?».
Le mie occhiate non erano discrete come credevo. «Alice... dov’è?».
«Ha ritirato il diploma ed è corsa via».
La sua voce cambiò. Alzai lo sguardo per vedere la sua espressione confusa, mentre fissava l’uscita secondaria della palestra, e presi una decisione impulsiva, una di quelle che non ero mai stata capace di soppesare.
«Preoccupato per Alice?», domandai.
«Ehm...». Non volle rispondermi.
«A cosa stava pensando? Per tenerti lontano, dico».
Abbassò gli occhi su di me, in un lampo, e li socchiuse sospettoso. «Stava traducendo l’inno nazionale americano in arabo. Finito quello, è passata al linguaggio dei segni coreano».
Risi nervosa. «Immagino che sia stato sufficiente a tenerle la mente occupata».
«Tu sai cosa sta nascondendo», mi accusò.
«Certo». Accennai un sorriso. «È un’idea mia».
Mi guardò confuso. Intanto vidi che Charlie si stava facendo largo tra la folla.
«Conoscendo Alice», sussurrai in fretta, «ti terrà all’oscuro di tutto fino a dopo la festa. Ma siccome vorrei tanto che la festa venisse cancellata, be’, non ti arrabbiare, non ci fare caso, va bene? È sempre meglio sapere più cose possibile. A qualcosa ti servirà».
«Ma cosa stai dicendo?».
Vidi la testa di Charlie sparire e riapparire in mezzo alle altre teste, mentre mi cercava. Mi chiamò e fece un cenno con la mano.
«Ora calmati, okay?».
Edward annuì, imbronciato.
Sottovoce, gli spiegai velocemente le mie deduzioni. «Penso che ti sbagli, non ci stanno attaccando da più fronti. Il fronte, secondo me, è uno soltanto... e il bersaglio sono io. È tutto collegato, deve esserlo. Una persona, una sola, sta giocando con le visioni di Alice. L’estraneo in camera mia era una prova per vedere se fosse possibile aggirarle. Senz’altro è lo stesso, che cambia idea di continuo, ha a che fare coi neonati e mi ha rubato i vestiti: è tutto collegato. È a loro che serve il mio odore».
Impallidì talmente che stentai a finire il discorso.
«Nessuno che vuole attaccare voi, non vedi? E va bene così. Esme, Alice e Carlisle sono al sicuro!».
Aveva sgranato gli occhi, intimorito, con lo sguardo spiritato e sconvolto. Sapeva che avevo ragione, esattamente come lo aveva intuito Alice. Gli posai una mano sulla guancia. «Calma», implorai.
«Bella!», esultò Charlie, facendosi largo tra le famiglie stipate una accanto all’altra.
«Congratulazioni, bambina mia!». Non smise di urlare, malgrado fosse appiccicato al mio orecchio. Mi buttò le braccia al collo e, nel farlo, scansò via Edward.
«Grazie», borbottai preoccupata dall’espressione di Edward. Non aveva ancora assunto il suo tipico autocontrollo. Le mani gli erano rimaste a mezz’aria, allungate verso di me, come sul punto di afferrarmi e portarmi via di corsa. Io invece mi ero quasi ripresa e scappare non mi sembrava una cattiva idea.
«Jacob e Billy se ne sono andati, avevano da fare. Ti sei accorta che c’erano?», chiese Charlie e fece un passo indietro senza togliermi le mani dalle spalle. Si era voltato — probabilmente si sforzava di escludere Edward, e in quel momento era meglio così. Edward, a bocca aperta, aveva ancora gli occhi spiritati.
«Sì», rassicurai Charlie, cercando di prestargli attenzione. «Li ho anche sentiti».
«Sono stati carini a venire», disse Charlie.
Annuii.
Okay, dirlo a Edward non era stata una buona idea. Alice aveva fatto bene a tenere per sé certi pensieri. Avrei dovuto aspettare di essere sola con lui o con i suoi fratelli. Senza oggetti fragili — come una finestra, una macchina... un edificio scolastico — a portata di mano. La sua espressione risvegliò le mie paure, e non solo. E dire che non c’era più traccia della paura: la rabbia si era impadronita dei suoi lineamenti.
«Allora, dove vuoi che andiamo a cena?», chiese Charlie. «Scegli pure, hai carta bianca».
«So cucinare».
«Non essere sciocca. Vuoi che andiamo al Lodge?», chiese in preda all’entusiasmo.
Non amavo molto il ristorante preferito di Charlie, ma a quel punto non faceva molta differenza. Non sarei stata comunque in grado di mangiare.
«Certo, al Lodge, fantastico», dissi.
Charlie sorrise a trentadue denti, poi sospirò. Si girò in direzione di Edward, ma senza arrivare a guardarlo in faccia.
«Vieni anche tu, Edward?».
Lo fissai con occhi imploranti. Edward tornò in sé appena un attimo prima che Charlie si voltasse per vedere perché non gli aveva ancora risposto.
«No, grazie», disse Edward in tono severo e con un’espressione dura e fredda.
«Hai un appuntamento con i tuoi?», chiese Charlie e si rabbuiò. Con lui Edward era sempre più educato di quanto meritasse e quell’improvvisa ostilità lo prese in contropiede.
«Certo. Se volete scusarmi...», Edward si voltò di scatto e se ne andò, facendosi largo tra la folla che si stava diradando. Si mosse molto rapidamente, troppo agitato per fingere come al solito.
«Che ho detto?», chiese Charlie con espressione colpevole.
«Non ti preoccupare, papà», lo rassicurai. «Non credo sia colpa tua».
«Avete litigato di nuovo?».
«Nessuno litiga. Fatti gli affari tuoi».
«Tu sei un mio affare».
Alzai gli occhi. «Andiamo a cena».
Il Lodge era affollato. Lo avevo sempre trovato troppo caro e pacchiano, ma in città era l’unica cosa che ricordasse un ristorante serio, perciò in certe occasioni era sempre pieno. Fissavo imbronciata la testa d’alce impagliata appesa alla parete, con il suo sguardo depresso, mentre Charlie mangiava delle ottime costolette di maiale e parlava con i genitori di Tyler Crowley seduti dietro di lui. C’era parecchia confusione: i presenti erano stati tutti alla cerimonia della consegna dei diplomi, e quasi tutti chiacchieravano con persone sedute ad altri tavoli, spesso dietro i loro, come nel caso di Charlie.
Io davo le spalle alle finestre e resistetti alla voglia di voltarmi e cercare gli occhi che mi sentivo addosso. Sapevo che non avrei visto nulla, così come sapevo che non mi avrebbe mai lasciata sola, neanche per un secondo. Non dopo quello che gli avevo detto. La cena si trascinava. Charlie era impegnato a chiacchierare e mangiava troppo lentamente. Staccavo dei bocconi dal mio hamburger e ne infilavo dei pezzi nel tovagliolo, quando ero sicura che la sua attenzione era rivolta da qualche altra parte. Tutto sembrava durare un’eternità, ma ogni volta che guardavo l’orologio, e in realtà lo facevo più spesso del necessario, le lancette sembravano quasi immobili.
Alla fine Charlie ricevette il resto e lasciò la mancia sul tavolo. Mi alzai in piedi.
«Hai fretta?», mi chiese.
«Voglio aiutare Alice con i preparativi», affermai.
«Okay». Si allontanò per dare la buonanotte a tutti. Io andai ad aspettarlo in macchina. Mi appoggiai alla portiera del passeggero, in attesa che Charlie lasciasse la festa improvvisata. Nel parcheggio faceva quasi buio, le nuvole erano così fitte che non avrei saputo dire se il sole fosse già tramontato o meno. L’aria sembrava pesante, come se stesse per piovere.
Qualcosa si mosse nell’ombra.
Il mio respiro affannoso si trasformò in un sospiro quando Edward apparve dal nulla. Senza dire una parola, mi strinse forte a sé. Mi prese il mento con una delle sue mani fredde e mi sollevò il volto per premere le sue labbra dure sulle mie. Notai la tensione della sua mascella.
«Come stai?», gli chiesi non appena mi lasciò respirare.
«Non troppo bene», mormorò. «Ma ho ritrovato l’autocontrollo. Mi dispiace averlo perso, prima».
«Ho sbagliato io. Avrei dovuto aspettare a dirtelo».
«No. Avrei dovuto saperlo. Non riesco a credere di non essermene reso conto da solo».
«Hai molto a cui pensare».
«Tu invece no?».
Mi baciò di nuovo, all’improvviso, senza lasciarmi il tempo di rispondere. Si tirò indietro dopo un attimo. «Charlie sta arrivando».
«Gli chiederò di accompagnarmi a casa tua».
«Va bene, vi seguo».
«No, non è necessario», provai a dire, ma se n’era già andato.
«Bella?». Charlie mi chiamò dalla porta del ristorante, sbirciando nell’oscurità.
«Sono qui fuori».
Charlie s’incamminò verso la macchina, lamentandosi della mia fretta.
«Allora, come ti senti?», mi chiese mentre viaggiavamo verso nord. «È stato un giorno importante per te».
«Sto bene», mentii.
Rise, se n’era accorto anche lui. «Preoccupata per la festa?», tirò a indovinare.
«Certo», mentii di nuovo.
Stavolta non se ne accorse. «Non sei mai stata un tipo da feste».
«Chissà da chi ho preso», mormorai.
Charlie alzò le spalle. «Sei veramente carina. Non ho neanche pensato a farti un regalo. Mi dispiace».
«Non essere sciocco, papà».
«Non è una sciocchezza. Ho l’impressione di non fare mai per te tutto quello che dovrei».
«Non essere ridicolo. Fai il tuo dovere alla grande. Il papà migliore del mondo. E...». Non era facile parlare di sentimenti insieme a Charlie, ma proseguii, dopo essermi schiarita la voce. «E sono davvero contenta di essere venuta a vivere con te, papà. È stata l’idea migliore che abbia mai avuto. Perciò non ti preoccupare, è solo un momento di pessimismo postdiploma». Sbuffò. «Forse. Ma sono sicuro di aver fallito almeno un paio di volte. Voglio dire, guardati la mano!».
Mi osservai le mani. La sinistra era ancora steccata, ma ci pensavo raramente. La nocca infortunata non faceva più così male.
«Non ti ho mai insegnato a tirare i cazzotti. Probabilmente ho sbagliato a non farlo».
«Ma non stavi dalla parte di Jacob?».
«Non importa da che parte sto: se qualcuno ti bacia senza avere il tuo permesso devi essere in grado di difenderti senza farti del male. Non hai tenuto il pollice dentro al pugno, vero?».
«No, papà. È carino da parte tua, carino e folle allo stesso tempo, ma non credo che queste lezioni mi avrebbero aiutato. Jacob ha la testa proprio dura».
Charlie rise. «La prossima volta colpiscilo allo stomaco».
«La prossima volta?», chiesi incredula.
«Ehi, non essere troppo dura con lui. È giovane».
«È odioso».
«È sempre un tuo amico».
«Certo», sospirai. «Ma non so davvero come comportarmi con lui, papà». Charlie annuì lentamente. «La cosa giusta non è sempre la più ovvia, A volte quella che è la cosa giusta per te, non lo è per qualcun altro. Perciò... buona fortuna, ti auguro di capire presto come comportarti».
«Grazie», borbottai secca.
Charlie rise di nuovo, poi aggrottò la fronte. «Se la festa si fa troppo sfrenata...», iniziò.
«Non ti preoccupare, papà. Ci saranno anche Carlisle ed Esme. Sono certa che puoi venire anche tu, se vuoi».
Charlie fece una smorfia, mentre guardava la strada. Amava le feste quanto me.
«Dov’è che si entra?», chiese. «Dovrebbero indicare meglio il vialetto: al buio è impossibile trovarlo».
«Dopo la prossima curva, credo». Increspai le labbra. «È vero, hai ragione: è impossibile trovarlo. Alice ha detto di aver disegnato una cartina sugli inviti, ma si perderanno tutti ugualmente». Sorrisi all’idea.
«Forse», disse Charlie, mentre la strada curvava verso est. «O forse no». Il velluto nero dell’oscurità s’interruppe poco prima del vialetto dei Cullen. Qualcuno aveva ricoperto di lucine intermittenti i due alberi affacciati sulla strada. Era impossibile non vederli.
«Alice», dissi con un tono acido.
«Caspita», disse Charlie mentre percorrevamo il vialetto. Gli alberi all’entrata non erano gli unici illuminati. Ogni due metri circa una torcia indicava il cammino verso la grande casa bianca. Per tutto il tragitto: cinque chilometri.
«Quando ci si mette, fa le cose per bene, vero?», borbottò Charlie, stupefatto.
«Sicuro che non vuoi entrare?».
«Sicurissimo. Divertiti, piccola».
«Grazie mille, papà».
Rideva tra sé quando scesi dall’auto e chiusi la portiera. Lo seguii con lo sguardo mentre se ne andava, con il sorriso sulle labbra. Sospirando salii le scale che mi portavano alla festa. Dovevo tener duro.