Rosalie esitava sulla porta, un’espressione incerta sul suo viso mozzafiato.
«Certo», risposi con voce acuta per la sorpresa. «Entra». Mi alzai, scivolando verso una sponda del divano per farle spazio. Il mio stomaco sussultò nervoso mentre l’unica Cullen a cui non piacevo entrava silenziosa nella stanza. Mi chiesi il motivo di quella visita, ma ogni supposizione era vana.
«Ti dispiace se parliamo qualche minuto?», domandò. «Non ti ho svegliata, vero?». Il suo sguardo si posò sul letto spoglio e poi sul divano.
«No, ero sveglia. Parliamo, certo». Chissà se sentiva la preoccupazione nella mia voce come la percepivo io.
Fece una risatina, che risuonò come un coro di campane. «È così raro che ti lasci sola», disse. «Dovevo approfittare dell’occasione». Che cosa voleva dirmi di così importante da non poterne parlare di fronte a Edward? Le mie mani torturarono l’orlo del piumone.
«Ti prego, non giudicarla una brutale interferenza», disse Rosalie con voce gentile e quasi in tono di preghiera. Teneva le mani giunte in grembo e parlando le fissava senza alzare lo sguardo. «Ho ferito i tuoi sentimenti già abbastanza, non voglio farlo di nuovo».
«Non ti preoccupare, Rosalie. I miei sentimenti stanno benissimo. Cosa volevi dirmi?».
Rise di nuovo, stranamente imbarazzata. «Voglio provare a spiegarti perché credo che dovresti rimanere umana... Perché io, se fossi in te, rimarrei umana».
«Ah».
Sorrise al tono sorpreso della mia voce, poi sospirò.
«Edward ti ha mai spiegato com’è andata?», chiese indicando il suo stupendo corpo immortale. Annuii piano, improvvisamente cupa. «Mi ha detto che è accaduto qualcosa di simile a ciò che è successo a me quella volta a Port Angeles, solo che nessuno è venuto a salvarti». Rabbrividii al ricordo.
«Davvero è tutto ciò che ti ha detto?».
«Sì», annuii confusa. «Perché, c’è dell’altro?».
Mi guardò e sorrise: era un sorriso duro, amaro, ma pur sempre incantevole.
«Sì», disse. «C’è dell’altro».
Restai in attesa, mentre guardava fuori dalla finestra. Sembrava si sforzasse di calmarsi.
«Ti va di ascoltare la mia storia, Bella? Non ha un lieto fine... Del resto, quale fra le nostre storie ce l’ha? Se ci fosse stato un lieto fine, a quest’ora saremmo tutti sottoterra».
Il tono della sua voce mi spaventava.
«Vivevo in un mondo diverso dal tuo, Bella. Il mio mondo umano era molto più semplice. Era il 1933. Avevo diciotto anni, ero bella, la mia vita era perfetta».
Guardò verso le nuvole argentate, con espressione lontana.
«Venivo da una tipica famiglia di ceto medio. Mio padre aveva un lavoro fisso in banca, e soltanto ora mi rendo conto di quanto se ne compiacesse: era convinto di aver ricevuto quel benessere come ricompensa dei suoi sforzi e del suo talento, anziché ammettere che fosse stata anche una questione di fortuna. All’epoca davo tutto per scontato; a casa mia la Grande Depressione era soltanto un pettegolezzo fastidioso. Ovviamente vedevo i poveri, quelli che non erano fortunati come noi. Ma mio padre mi aveva indotto a pensare che erano essi stessi la prima causa dei loro problemi. Il compito di mia madre — e mio, e dei miei fratelli più giovani — era tenere la casa lucida come uno specchio. Ovviamente, ero la sua preferita e il suo primo pensiero. All’epoca non potevo capirlo, ma avevo il sospetto che i miei genitori non fossero soddisfatti della propria condizione, sebbene avessimo un tenore di vita nettamente al di sopra alla media. Volevano ancora di più. Avevano aspirazioni di un certo genere... li si potrebbe definire arrampicatori sociali. La mia bellezza per loro era un tesoro. Ci vedevano molte più possibilità di quante non ne vedessi io.
Loro non erano soddisfatti, ma io sì. Ero entusiasta di essere Rosalie Hale, di essere me stessa. Compiaciuta perché, da quando avevo dodici anni, ovunque andassi attiravo gli sguardi degli uomini. Compiaciuta che le mie amiche sospirassero d’invidia quando mi toccavano i capelli. Felice che mia madre fosse orgogliosa di me, e che a mio padre piacesse comprarmi bei vestiti. Volevo il meglio dalla vita, e sembrava non ci fossero ostacoli a ottenere ciò che desideravo. Volevo essere amata, adorata. Volevo un matrimonio sfarzoso, pieno di fiori, con tutta la città ad assistere mentre mio padre mi accompagnava all’altare, a guardarmi come fossi la più bella cosa mai vista. L’ammirazione per me era come l’aria, Bella. Ero stupida e superficiale... ma ero contenta». Sorrise, divertita da quel giudizio. L’influenza dei miei genitori era così forte da farmi desiderare anche le cose più materiali. Volevo una casa enorme con mobili eleganti che qualcun altro avrebbe pulito e una cucina moderna in cui qualcun altro avrebbe cucinato. Te l’ho detto, ero superficiale. Giovane e molto superficiale. E non vedevo una sola ragione per cui non avrei ottenuto tutto questo. Ma certi desideri mi stavano a cuore più di altri. Uno in particolare. La mia più cara amica era una ragazza di nome Vera. Si era sposata giovane, a soli diciassette anni. Con un carpentiere, un uomo che i miei genitori non avrebbero mai preso in considerazione per me. Un anno più tardi aveva avuto un figlio, uno splendido bambino con le fossette e i riccioli neri. Per la prima volta in vita mia mi ero sentita davvero invidiosa di qualcun altro». Mi guardò con occhi impenetrabili. «Era un’altra epoca. Avevo la tua stessa età, ma ero già pronta. Sognavo un figlio mio. Volevo una casa mia e un marito che mi baciasse quando tornava dal lavoro. Proprio come Vera. Solo che avevo in mente un altro tipo di casa...». Era difficile immaginare il mondo in cui era vissuta Rosalie. Il suo racconto somigliava più a una favola che a una storia vera. Provai una certa sorpresa quando mi resi conto che quel mondo era molto simile a quello che Edward aveva conosciuto da umano, in cui era cresciuto. Durante un attimo di silenzio mi domandai se il mio mondo le appariva sconcertante quanto il suo appariva a me.
«A Rochester c’era una famiglia nobile — si chiamavano King, ironia della sorte. Royce King possedeva la banca per cui lavorava mio padre, e quasi ogni altra impresa della città. Fu così che suo figlio, Royce King II», fece una smorfia pronunciando quel nome che venne fuori come un sibilo fra i denti, «mi vide la prima volta. Era destinato a rilevare la società, motivo per cui ne fu nominato supervisore. Due giorni dopo, mia madre dimenticò apposta di dare a mio padre il pranzo da portare al lavoro. Ricordo ancora la mia confusione, mentre insisteva che indossassi l’abito d’organza bianco e che mi aggiustassi i capelli, soltanto per arrivare fino alla banca a portarglielo». Rosalie rise senza ironia.
«Non notai che Royce mi guardava in modo particolare. In fondo, non era l’unico. Ma quella sera arrivò la prima rosa. Ogni sera, durante il corteggiamento, mi mandava un mazzo di rose. La mia stanza ne era sempre piena. A tal punto che, quando uscivo, profumavo di rose. Anche Royce era bello. Aveva i capelli più chiari dei miei, e occhi cerulei. Un giorno disse che i miei occhi erano come le viole e, a un certo punto, iniziarono ad apparire anche quelle, assieme alle rose.
I miei genitori approvavano — detto così, è un eufemismo. Era ciò che avevano sempre sognato. E Royce sembrava tutto ciò che sognavo da sempre. Il principe azzurro venuto a trasformarmi in principessa. Era tutto ciò che volevo... ma niente di più di ciò che mi aspettavo. Ci fidanzammo neanche due mesi dopo esserci conosciuti.
Non trascorrevamo molto tempo insieme. Royce diceva di avere troppe responsabilità al lavoro, e quando era in mia compagnia gli piaceva che la gente ci guardasse, che mi vedesse fra le sue braccia. Anche a me piaceva. C’erano tante feste, balli e bei vestiti. Essere un King ti apriva tutte le porte, c’erano tappeti rossi ovunque. Non fu un fidanzamento lungo. Stavamo organizzando un matrimonio sfarzosissimo. Sarebbe stato come avevo sempre desiderato. Ero felice. Quando parlavo con Vera non mi sentivo più invidiosa. Immaginavo i miei bambini dai capelli biondi giocare nei giardini di villa King, e provavo compassione per lei». S’interruppe all’improvviso, digrignando i denti. Quel gesto mi riportò fuori dalla storia e capii che l’orrore era dietro l’angolo. Non ci sarebbe stato lieto fine, me lo aveva anticipato. Mi chiesi se fosse quello il motivo del velo di amarezza che spiccava in lei più che in ogni altro suo familiare. La sua vita umana era stata spezzata quando ciò che più desiderava era stato a portata di mano.
«Avevo trascorso la serata a casa di Vera», sussurrò Rosalie, con il viso liscio e duro come il marmo. «Il suo piccolo Henry era adorabile, tutto smorfie e fossette, già stava in piedi da solo. Quando me ne andai, Vera mi accompagnò alla porta, con il bambino in braccio e il marito accanto che le cingeva la vita. Lui la baciò sulla guancia, in un momento in cui pensava non stessi guardando. Provai fastidio. Quando Royce mi baciava non era la stessa cosa: non era così dolce... Misi da parte quel pensiero. Royce era il mio principe. Un giorno sarei diventata regina».
Difficile distinguerlo al chiaro di luna, ma il suo viso così bianco sembrava ancora più pallido.
«Per strada era buio, i lampioni erano già accesi. Non mi ero resa conto di quanto fosse tardi». Sussurrava con un filo sottilissimo di voce. «Faceva anche freddo. Molto freddo per essere fine aprile. Mancava solo una settimana al matrimonio e mentre tornavo in fretta a casa pensavo preoccupata al tempo. Lo ricordo chiaramente. Ricordo ogni dettaglio di quella notte. Mi ci sono tenuta stretta... all’inizio. Non pensavo ad altro. Perciò la ricordo ancora, mentre altre memorie piacevoli sono svanite del tutto...». Sospirò e riprese sussurrando. «Sì, mi stavo preoccupando del tempo... non volevo celebrare il matrimonio al chiuso... Ero a pochi passi da casa quando li udii. Un capannello di uomini che ridevano chiassosi sotto un lampione rotto. Ubriachi. Avrei dovuto chiamare mio padre per farmi scortare fino a casa, ma la distanza era così breve che mi sembrava stupido. Poi lui urlò il mio nome.
"Rose!", strillò, e gli altri risero come degli stupidi. Non avevo notato che gli ubriaconi erano tutti molto ben vestiti. Erano Royce e certi suoi amici, altri rampolli come lui.
"Ecco la mia Rose!", gridò Royce e rise con loro. Anche lui sembrava uno stupido. "Sei in ritardo. Abbiamo freddo, ci hai fatto aspettare tanto". Non l’avevo mai visto bere prima. Un brindisi ogni tanto, alle feste. Mi aveva detto che non amava lo champagne. Non avevo capito che era perché preferiva cose più forti. Con lui c’era uno sconosciuto. L’amico di un amico, venuto da Atlanta.
"Cosa ti ho detto, John", esultò Royce, stringendomi il braccio e tirandomi verso di sé. "Non è forse molto più attraente di tutte le tue bellezze della Georgia?". Questo John aveva i capelli neri ed era molto abbronzato. Mi guardava come fossi un cavallo da comprare.
"Difficile da dire", rispose strascicando lentamente le parole. "È tutta coperta". Risero tutti, anche Royce. Di colpo, Royce mi strappò la giacca di dosso — era un suo regalo — facendo saltare i bottoni metallici che si sparpagliarono sulla strada.
"Fa’ vedere come sei fatta, Rose!", rise di nuovo e mi tolse via il cappello. Le forcine mi strapparono i capelli, scoppiai in lacrime dal dolore. Sembrava che godessero... del suono del mio dolore...». Rosalie mi guardò all’improvviso, quasi avesse dimenticato la mia presenza. Di sicuro ero pallida quanto lei. O forse livida.
«Ti risparmio il resto», disse calma. «Mi lasciarono per strada che ancora ridevano. Pensavano fossi morta. Provocavano Royce dicendogli che avrebbe dovuto trovare un’altra moglie. Lui rideva, e diceva che avrebbe dovuto imparare a essere più paziente.
Io, per strada, aspettavo di morire. Faceva freddo, ma stavo così male che mi sorpresi di riuscire a sentirlo. Cominciò a nevicare; mi chiesi perché non morivo. Non vedevo l’ora che arrivasse la morte, per far cessare il dolore. Ci voleva così tanto... A quel punto mi trovò Carlisle. Aveva sentito l’odore di sangue ed era venuto a controllare. Ricordo di essermi sentita vagamente infastidita mentre cercava di salvarmi la vita. Il dottor Cullen non mi era mai piaciuto, e neanche sua moglie e suo fratello — così si presentava Edward, all’epoca. Mi irritava che fossero tutti più belli di me, specialmente gli uomini. Ma non facevano vita sociale, perciò li avevo incrociati solo una o due volte. Pensai di essere morta quando mi sollevò da terra e si mise a correre. Era velocissimo, mi sembrava di volare. Mi ricordo un senso d’orrore, perché il dolore non si placava... Poi mi ritrovai in una stanza luminosa e calda. Stavo per spegnermi... Ne ero lieta, perché il dolore si stava alleviando. Ma all’improvviso sentii qualcosa di affilato tagliarmi la gola, i polsi, le caviglie. Gridai, nel panico, certa che mi avesse portata lì per farmi ancora più male. Poi il fuoco iniziò a bruciarmi dentro e non mi preoccupai più di niente. Lo implorai di uccidermi. Quando Esme ed Edward tornarono a casa, pregai anche loro di uccidermi. Carlisle restò a vegliarmi. Mi prese la mano, mi disse che gli dispiaceva molto, che sarebbe finita presto. Mi raccontò tutto; riuscivo ad ascoltare solo a tratti. Mi spiegò che cosa era lui, e che cosa stavo diventando. Non gli credetti. A ogni mio grido, chiedeva scusa. Edward non era contento. Ricordo che li sentii parlare di me, quando finalmente smisi di urlare. A quel punto urlare non serviva a niente.
"Cosa ti è saltato in mente, Carlisle?", diceva Edward. "Rosalie Hale?"». Rosalie imitava il tono irritato di Edward alla perfezione. «Non mi andava il modo in cui pronunciava il mio nome, come se in me ci fosse qualcosa che non andava.
"Non potevo lasciarla morire", rispose Carlisle tranquillo. "Era troppo... troppo orribile, uno scempio tremendo".
"Lo so", rispose Edward, come se volesse liquidare la faccenda. La cosa m’irritò. Allora ignoravo che lui sapeva tutto ciò che Carlisle aveva visto.
"Era uno scempio. Non potevo lasciarla lì", ripeté Carlisle in un sussurro.
"Certo che no", annuì Esme.
"Con tutta la gente che muore", commentò Edward con voce dura. "A ogni modo, non ti pare sia un po’ troppo riconoscibile? I King attraverseranno mari e monti per ritrovarla, anche se nessuno sospetterà di quel maniaco", ruggì. Ero felice che sapessero che il colpevole era Royce. Ancora non capivo che era quasi finita, che stavo diventando più forte e riuscivo a concentrarmi sui loro discorsi. Il dolore iniziava a scivolare via.
"Cosa ne faremo?", disse Edward con un tono che mi sembrò di disgusto. Carlisle sospirò. "Dipende da lei, ovviamente. Potrebbe volersene andare per conto suo". Gli avevo creduto quanto bastava per sentirmi terrorizzata. Sapevo che la mia vita era finita, che non sarei più tornata indietro. Non potevo sopportare il pensiero di rimanere sola... Alla fine il dolore svanì; mi spiegarono di nuovo cos’ero diventata. Questa volta compresi. Sentivo la sete, la pelle dura; vidi i miei brillanti occhi rossi. Superficiale com’ero, quando scorsi la prima volta la mia immagine riflessa nello specchio, mi sentii meglio. A parte gli occhi, ero la cosa più bella che avessi mai visto». Rise tra sé per un attimo. «Ci volle un po’ di tempo prima che iniziassi a incolpare la mia bellezza di ciò che era accaduto, perché capissi che era stata una sciagura... per desiderare di essere, non dico brutta, ma normale. Come Vera. Così avrei potuto sposare qualcuno che mi amava, e avere dei bei bambini. Era questo ciò che volevo davvero, in fondo. Non mi sembra di aver chiesto troppo».
Rimase pensierosa per un attimo, e mi chiesi se si fosse di nuovo dimenticata di me. Ma poi mi sorrise, con l’espressione insolitamente trionfante.
«Sai, il mio curriculum è pulito quasi come quello di Carlisle», mi disse.
«Meglio di Esme. Mille volte meglio di Edward. Non ho mai assaggiato sangue umano», annunciò orgogliosa.
Comprese la mia espressione interrogativa: mi stavo chiedendo il perché di quel "quasi".
«Ho ucciso cinque umani», mi disse in tono compiaciuto. «Se davvero si possono chiamare umani. Ma ho fatto molta attenzione a non succhiarne il sangue. Sapevo che non sarei stata capace di resistere, e non volevo che qualcosa di loro mi restasse dentro. Royce l’ho lasciato per ultimo. Speravo che venisse a sapere della morte dei suoi amici e che capisse cosa lo aspettava. Speravo che la paura potesse peggiorare la sua fine. Credo di esserci riuscita. Si era rifugiato dentro una camera senza finestre, dietro una porta spessa come un forziere, sorvegliato da uomini armati, quando lo presi. Ecco, sette omicidi», si corresse. «Mi ero dimenticata delle guardie. C’è voluto solo un secondo. Forse ho esagerato con la messinscena. Forse è stata un po’ infantile. Indossavo un abito da sposa che avevo rubato per l’occasione. Quando mi vide scoppiò a urlare. Urlò parecchio, quella notte. Fu una buona idea lasciarlo per ultimo. Per me diventava più facile controllarmi, se agivo più lentamente...». S’interruppe di colpo e mi fissò. «Scusami», disse imbarazzata. «Ti sto spaventando, vero?».
«Sto bene», mentii.
«Mi sono fatta prendere dai ricordi».
«Non preoccuparti».
«Mi stupisco che Edward non ti abbia raccontato di più su questa storia».
«Non gli piace raccontare le storie altrui. Ha sempre paura di tradire l’intimità degli altri, perché sente molto di più di ciò che vorrebbero fargli sentire».
Sorrise e scosse la testa. «Forse avrei dovuto dargli più credito. È davvero molto corretto, vero?».
«Io penso di sì».
«Sì, credo proprio di sì». Poi sospirò. «Non sono stata molto corretta con te, Bella. Ti ha spiegato perché? O sono anche queste informazioni riservate?».
«Mi ha detto che è perché sono umana. Perché non ti andava a genio l’idea che qualcuno di esterno sapesse». La risata musicale di Rosalie m’interruppe. «Ora mi sento davvero in colpa. È stato molto, molto più gentile con me di quanto mi meriti». Rise con maggior calore, come se avesse abbassato la guardia che manteneva sempre in mia presenza. «Che bugiardo». Rise ancora.
«Mi ha mentito?», chiesi con istantanea cautela.
«Be’, non esageriamo. Diciamo che non ti ha raccontato proprio tutto. Ciò che ti ha detto è vero, ora anche più di prima. Tuttavia, all’epoca...». S’interruppe e fece una risatina nervosa. «È imbarazzante. Vedi, all’inizio, ero gelosa soprattutto perché lui voleva te e non me». Le sue parole mi fecero rabbrividire di paura. Sotto quella luce argentata, Rosalie era più bella di qualunque cosa potessi immaginare. Non potevo competere con lei.
«Ma tu ami Emmett...», mormorai.
Annuì con vigore, divertita. «Non voglio Edward in quel senso, Bella. Non l’ho mai voluto: gli voglio bene come a un fratello, ma mi è bastato sentirlo parlare per trovarlo irritante. Devi capire, però... ero così abituata a essere l’oggetto del desiderio di chiunque. E invece Edward non mostrava il benché minimo interesse. All’inizio mi sentivo frustrata, persino offesa. Ma lui non desiderava mai nessuna, dunque non m’infastidiva più di tanto. Neanche quando abbiamo conosciuto il clan di Tanya a Denali — con tutte quelle femmine! — Edward ha mostrato la minima preferenza. E poi ha incontrato te». Mi guardò confusa. Non ero molto attenta. Pensavo a Edward e Tanya etutte quelle femmine , e serrai le labbra con forza.
«Non che tu non sia carina», disse fraintendendo la mia espressione.
«Ma lui ti trovava più attraente di me. E vanitosa come sono, ciò mi ha infastidito».
«Però hai detto "all’inizio". Ora non ti dà più... fastidio, vero? Voglio dire, sappiamo benissimo entrambe che sei la persona più bella del pianeta». Risi di quelle parole: era talmente ovvio, che non avrei neanche dovuto dirlo. Strano dover rassicurare Rosalie in quel modo. Anche lei rise. «Grazie, Bella. No, non mi dà più fastidio. Edward è sempre stato un po’ bizzarro».
«Ma io ancora non ti piaccio», sussurrai.
Il suo sorriso scomparve. «Ti chiedo scusa». Rimanemmo in silenzio per un momento. Non sembrava volesse andare avanti.
«Ti va di dirmi perché? Ho fatto qualcosa?». Forse era arrabbiata perché avevo messo la sua famiglia — il suo Emmett — in pericolo? Più di una volta. Prima James, ora Victoria...
«No, tu non hai fatto niente», mormorò. «Non ancora». La fissai, perplessa.
«Non capisci, Bella?». La sua voce si era fatta d’un tratto più accalorata di quando mi aveva raccontato la sua storia infelice. «Tu hai già tutto. Hai una vita intera davanti: proprio ciò che vorrei io. E stai per buttarla via. Non capisci che darei tutto ciò che ho per essere te? Hai a disposizione la scelta che io non ho avuto... e stai facendo quella sbagliata!». La sua espressione feroce mi fece arretrare; ero rimasta a bocca aperta... la chiusi di scatto.
Mi fissò a lungo e il fervore dei suoi occhi si spense poco a poco. D’un tratto aveva un’aria sconcertata.
«Ero così sicura di riuscire a parlartene con calma». Scosse la testa, sembrava un po’ stupita da quell’ondata di emozioni. «Ma ora è più difficile di prima, quando era soltanto questione di vanità». Fissò la luna in silenzio. Ci vollero alcuni minuti perché trovassi il coraggio di interrompere le sue fantasticherie.
«Se scegliessi di rimanere umana ti piacerei di più?». Si girò verso di me, le labbra tese in un cenno di sorriso. «Forse».
«Un po’ del tuo lieto fine l’hai avuto, però», le ricordai. «Hai Emmett».
«Ne ho avuto metà». Si aprì in un sorriso. «Sai già che ho salvato Emmett dall’aggressione di un orso, portandolo da Carlisle. Ma sai perché ho impedito all’orso di mangiarlo?».
Scossi la testa.
«Con i riccioli neri e le fossette evidenti anche nella sua smorfia di dolore... quella strana innocenza che sembrava così fuori luogo in un uomo adulto mi ha ricordato Henry, il bambino di Vera. Non volevo che morisse. Anzi, per quanto odiassi questa vita, sono stata abbastanza egoista da chiedere a Carlisle di trasformarlo per me. Ho avuto più fortuna di quanto meritassi. Emmett è tutto ciò che avrei mai potuto chiedere, se mi fossi conosciuta abbastanza da sapere cosa chiedere. È esattamente il tipo di persona adatta a una come me. E, stranamente, anche lui ha bisogno di me. Ha funzionato meglio di quanto potessi sperare. Ma resteremo sempre noi due. E non mi siederò mai in veranda assieme a lui, vecchi e grigi, circondati dai nipotini». Il suo sorriso si era ingentilito. «Tutto questo ti suona strano, vero? In un certo senso sei molto più matura di quanto fossi io a diciotto anni. Ma d’altra parte... ci sono molte cose a cui forse non hai mai pensato seriamente. Sei troppo giovane per sapere che cosa vorrai fra dieci, quindici anni, troppo giovane per mollare tutto senza pensarci a fondo. Non essere frettolosa, se non puoi tornare indietro, Bella». Mi diede un buffetto sulla testa, un gesto tutt’altro che condiscendente.
«Pensaci solo un po’. Una volta fatto, non ci sarà più rimedio. Esme si è accontentata di avere noi come figli, mentre Alice non ricorda niente della sua vita umana, dunque non ne sente la mancanza... Tu te ne ricorderai, invece. È molto, ciò a cui dovrai rinunciare».Ma è di più ciò che avrò in cambio , dissi fra me. «Grazie, Rosalie... è bello capire... conoscerti meglio».
«Mi scuso per essere stata un mostro», sorrise. «D’ora in poi proverò a comportarmi meglio».
Ricambiai il sorriso.
Non eravamo ancora amiche, ma ero sicura che non mi avrebbe più odiata così tanto.
«Ora ti lascio dormire». Gli occhi di Rosalie si rivolsero al letto e accennò una risata. «So che t’infastidisce che lui ti abbia rinchiuso così, ma non trattarlo troppo male quando torna. Ti ama più di quanto tu possa immaginare. Starti lontano lo terrorizza». Si alzò silenziosa e come un fantasma raggiunse la porta. «Buonanotte, Bella», sussurrò chiudendosela alle spalle.
«Buonanotte, Rosalie», mormorai con un secondo di ritardo. Dopo quella conversazione, mi ci volle un bel po’ per addormentarmi. Sprofondata nel sonno, ebbi un incubo. Strisciavo nel buio, tra i ciottoli freddi di una strada sconosciuta, sotto una neve leggera, e lasciavo una scia di sangue dietro di me. Un angelo tenebroso, con un lungo vestito bianco, sorvegliava il mio cammino con occhi pieni di rancore. Il giorno dopo Alice mi accompagnò a scuola. Stizzita, guardai per tutto il tempo fuori dal finestrino. Le ore di sonno arretrato non facevano che aumentare l’irritazione per la prigionia.
«Stasera andiamo a Olympia, o in giro», promise. «Ci divertiamo, ti va?».
«Perché non mi chiudi in cantina», suggerii, «e la smetti con questi contentini?». Alice si accigliò. «Si riprenderebbe la Porsche. Non sto facendo del mio meglio. Dovresti divertirti».
«Non è colpa tua», farfugliai. Non potevo crederci, eppure mi sentivo in colpa. «Ci vediamo a pranzo».
Mi diressi verso l’aula di inglese. Senza Edward, la giornata sarebbe stata di certo insopportabile. Rimasi imbronciata per tutta la prima ora, conscia che un simile atteggiamento non mi aiutava. Al suono della campana, mi alzai senza entusiasmo. Mike era lì sulla porta e me la tenne aperta.
«Edward si dà al trekking, questo fine settimana?», chiese affabile mentre uscivamo, sotto la pioggia leggera.
«Sì».
«Ti va di uscire stasera?».
Come poteva sperarci ancora?
«Non posso. Ho un pigiama party», mugugnai. Rispose con uno sguardo strano e tentò di decifrare il mio umore.
«Con chi?».
La domanda di Mike fu interrotta da un ruggito cupo e potente che veniva dal parcheggio alle nostre spalle. Tutti si girarono a guardare increduli mentre la moto nera e rumorosa frenava sgommando sull’asfalto, senza smettere di ringhiare. Jacob mi fece un gesto agitato.
«Corri, Bella!», gridò più forte del rombo del motore. Rimasi di sasso per un secondo prima di capire.
Lanciai un’occhiata a Mike. Sapevo di avere pochi secondi. Alice avrebbe avuto il coraggio di riacciuffarmi in pubblico?
«Mi sentivo molto male e sono andata a casa, okay?», dissi a Mike, la voce piena di frenesia improvvisa.
«Va bene», bofonchiò.
Lo ricompensai con un bacetto sulla guancia. «Grazie, Mike. Ti devo un favore!», dissi correndo via.
Jacob diede giri al motore, sorridente. Saltai in sella e mi strinsi forte a lui.
Vidi Alice, impietrita davanti alla mensa, con gli occhi scintillanti di furia, i denti scoperti. Le lanciai uno sguardo implorante.
Poi schizzammo sull’asfalto, così veloci che il mio stomaco non riuscì a starci dietro.
«Aggrappati», gridò Jacob.
Nascosi il viso contro la sua schiena mentre accelerava sull’autostrada. Sapevo che avrebbe rallentato solo in prossimità del confine dei Quileute. Fino ad allora dovevo solo aggrapparmi forte. Pregai in silenzio e con fervore che Alice non ci seguisse, e che Charlie non mi vedesse... Mi accorsi subito che avevamo raggiunto l’area protetta. La moto rallentava e Jacob si raddrizzò scoppiando a ridere. Aprii gli occhi.
«Ce l’abbiamo fatta», gridò. «Niente male come evasione, eh?».
«Ottima idea, Jake».
«Mi sono ricordato di quando hai detto che la sanguisuga veggente non è capace di prevedere le mie azioni. Meno male che non ci hai pensato tu. Non ti avrebbe permesso di andare a scuola».
«Per questo non l’ho preso in considerazione».
Sorrise trionfante; «Che cosa vuoi fare oggi?».
«Tutto!», risposi ridendo. Che gran cosa essere liberi.