Quando il mattino dopo mi svegliai, c’era molta luce e persino dentro la tenda il sole mi faceva male agli occhi. Ed ero sudata, come aveva predetto Jacob. Il quale russava leggero al mio orecchio, senza sciogliere l’abbraccio. Liberai la testa dal suo petto febbricitante e sentii il mattino freddo pungermi le guance intorpidite. Jacob sospirò nel sonno; inconsciamente strinse la presa. Mi divincolai, incapace di sfuggirgli, nello sforzo di sollevare la testa e gli occhi quel tanto che bastava...
Edward incrociò il mio sguardo con tranquillità. La sua espressione era calma, ma gli occhi tradivano una grande sofferenza.
«Fa un po’ più caldo fuori?», bisbigliai.
«Sì. Credo che oggi non ci sarà bisogno della stufa». Cercai la cerniera, ma non riuscivo a liberare le braccia. Con tutta me stessa combattei contro la forza inerte di Jacob. Lui borbottò qualcosa, nel sonno profondo, e strinse ancora la presa.
«Mi aiuti?», chiesi a mezza voce.
Edward sorrise. «Vuoi che tolga di mezzo le sue braccia?».
«No, grazie. Aiutami a liberarmi. Se no muoio di caldo». Edward aprì la cerniera del sacco a pelo con un gesto secco e repentino. Jacob ne rotolò fuori e la sua schiena nuda sbatté contro il fondo ghiacciato della tenda.
«Ehi!», protestò spalancando gli occhi. D’istinto si ritrasse dal freddo e si rannicchiò contro di me. Tossii mentre il suo peso mi mozzava il respiro. Ma poi il suo peso svanì. Sentii l’impatto di Jacob che schizzava verso uno dei pali che tenevano in piedi la tenda, facendola tremare. Tutt’intorno udivo soltanto ruggiti. Di Edward, rannicchiato davanti a me, con il volto nascosto, coglievo il ringhio rabbioso che gli nasceva dal petto. Anche Jacob era mezzo inginocchiato, il corpo tremante, mentre un ruggito vibrava tra i denti stretti. Fuori dalla tenda, il guaito cattivo di Seth Clearwater echeggiava tra le rocce.
«Basta, basta!», strillai, alzandomi di fretta e in disordine per mettermi tra i due. Lo spazio era talmente angusto che bastava allungare un braccio per sfiorare i loro petti. Edward mi cinse i fianchi con un braccio, pronto a togliermi di mezzo all’istante.
«Smettetela, subito», sbottai.
Al mio ordine, Jacob iniziò a calmarsi. Tremava di meno, ma mostrava ancora i denti e fissava Edward con sguardo furioso. Anche Seth ruggiva, con un suono lungo e continuo, sottofondo inquietante al silenzio improvviso della tenda.
«Jacob», chiesi, in attesa di vederlo abbassare lo sguardo verso il mio.
«Stai bene?».
«Certo che sì!», sibilò.
Mi rivolsi a Edward. Mi guardava, con espressione dura e furiosa. «Non si fà così. Almeno dovresti chiedere scusa».
Lui spalancò gli occhi. «Non dire sciocchezze: stava per stritolarti!».
«Perché tu l’hai buttato a terra! Non l’ha fatto apposta, e non mi ha fatto male!».
Edward fece una smorfia, nauseato. Lentamente, alzò gli occhi e rivolse uno sguardo ostile, di sottecchi, a Jacob. «Scusami, cane».
«Nessun problema», rispose Jacob con un filo di sarcasmo. Sentivo ancora freddo, ma non quanto ne avevo patito il giorno prima. Mi strinsi nelle braccia.
«Tieni», disse Edward, di nuovo calmo. Raccolse il giaccone da terra e lo avvolse sopra il mio maglione.
«Ma è di Jacob», obiettai.
«Jacob ha un mantello di pelliccia», suggerì Edward.
«Se non vi dispiace, sfrutterei ancora un po’ il sacco a pelo». Jacob s’infilò nella sacca. «Non ero ancora pronto per il risveglio. È stata tutt’altro che una bella dormita».
«L’idea è stata tua», rispose Edward impassibile.
Jacob era rannicchiato, gli occhi già chiusi. Sbadigliò. «Non ho detto che non sia stata la migliore delle notti. Mi dispiace di non aver dormito abbastanza. Temevo che Bella non chiudesse più il becco». Trasalii, preoccupata di ciò che poteva essermi uscito di bocca durante il sonno. Le possibilità erano terrificanti.
«Sono lieto che ti sia divertito», mormorò Edward.
Gli occhi scuri di Jacob si aprirono con un battito di ciglia. «Per te non è stata una buona notte?», chiese, malizioso.
«Non la peggiore delle notti».
«Almeno tra le prime dieci ci è entrata?», chiese Jacob, con ironia perversa.
«Può darsi».
Jacob sorrise e chiuse gli occhi.
«Ma», continuò Edward, «anche se avessi potuto prendere il tuo posto, non sarebbe entrata tra le dieci migliori. Quelle puoi sognartele». Jacob riaprì gli occhi e lo inchiodò con uno sguardo. Si sedette rigido, le spalle tese.
«Sai una cosa? Mi sa che qui siamo in troppi».
«Non potrei essere più d’accordo».
Diedi una gomitata a Edward, e probabilmente mi procurai un livido.
«Allora recupererò le ore di sonno più tardi». Jacob fece una smorfia. «E poi devo parlare con Sam». Si alzò sulle ginocchia e aprì la cerniera all’ingresso della tenda. Sentii un crepitio di dolore lungo la schiena e infine nello stomaco, nell’istante in cui mi resi conto che forse, in quel momento, salutavo Jacob per l’ultima volta. Stava per tornare da Sam, a combattere l’orda di vampiri appena nati e assetati di sangue.
«Jake, aspetta...». Lo inseguii e la mia mano scivolò lungo il suo braccio. Ma lui la scrollò via prima che le mie dita facessero presa.
«Per favore, Jake. Rimani?».
«No».
La risposta fu dura e fredda. Capii che il dolore mi si leggeva sul viso, perché Jacob sbuffò e un mezzo sorriso addolcì la sua espressione.
«Non preoccuparti per me, Bells. Me la caverò, come sempre». Si sforzò di ridere. «E poi, pensi che possa lasciare andare Seth al posto mio a divertirsi e a prendersi la gloria?», ridacchiò.
«Stai attento...».
Sgusciò fuori dalla tenda prima che finissi di parlare.
«E piantala, Bella», lo sentii mormorare mentre richiudeva l’apertura. Restai ad ascoltare il rumore dei suoi passi lontani, ma c’era un silenzio perfetto. Niente più vento. In lontananza, sulle montagne, sentivo solo il canto degli uccelli del mattino. Jacob si muoveva senza fare rumore.
«Quanto manca?», chiesi.
«Alice ha detto a Sam che dovrebbe essere questione di un’ora, più o meno», rispose Edward, con voce soffice e impassibile.
«Noi restiamo insieme. Comunque vada».
«Comunque vada», ripeté con sguardo assorto.
«Lo so», dissi. «Anch’io sono spaventata per loro».
«Sapranno cavarsela», mi rassicurò Edward, e di proposito sfoderò un tono più leggero. «È soltanto che non mi va di perdermi il divertimento». Di nuovo la storia del "divertimento". Sbuffai dal naso. Mi cinse le spalle con il braccio. «Non preoccuparti», tagliò corto e mi baciò sulla fronte.
Come se fosse davvero possibile non preoccuparmi. «Certo, certo».
«Vuoi che ti distragga un po’?». Fece un sospiro e le sue dita fredde sfiorarono la mia guancia. Rabbrividii involontariamente; il mattino era ancora ghiacciato.
«Magari non ora», si disse e ritrasse la mano.
«Ci sono altre maniere di distrarmi».
«Quale ti andrebbe?».
«Potresti raccontarmi qualcosa delle tue dieci notti migliori», suggerii.
«Sono curiosa».
Scoppiò a ridere. «Indovina».
Scossi la testa. «Ci sono troppe notti di cui non so nulla. Almeno un secolo».
«La farò breve. Tutte le notti migliori le ho vissute da quando ti ho incontrata».
«Davvero?».
«Sì, davvero... direi che con le altre non c’è confronto». Ci riflettei. «Io riesco a pensare soltanto alle mie», ammisi.
«Magari sono le stesse», mi stuzzicò.
«Be’, c’è stata la prima notte. La prima volta che sei rimasto».
«Sì, è anche tra le mie. Certo, i momenti che preferisco sono quelli in cui non eri cosciente».
«È vero», ricordai, «anche quella notte ho parlato nel sonno».
«Già».
Mi sentii surriscaldare le guance e tornai a chiedermi cosa avessi potuto dire mentre dormivo tra le braccia di Jacob. Non ricordavo se o cosa avessi sognato, perciò non avevo indizi.
«Cos’ho detto stanotte?», sussurrai, a voce ancora più bassa. Anziché rispondere alzò le spalle e io ebbi un fremito.
«È così brutto?».
«Niente di orribile», sospirò.
«Dimmelo, per favore».
«Più che altro hai ripetuto il mio nome, come al solito».
«Non è male», suggerii con cautela.
«Verso la fine, però, hai iniziato a mormorare qualcosa di incomprensibile a proposito di "Jacob, il mio Jacob"». Era un sussurro, ma sentivo che soffriva. «Al tuo Jacob è piaciuto parecchio, direi». Drizzai il collo, allungandomi per avvicinare le labbra al profilo del suo mento. Non riuscivo a incrociare il suo sguardo. Fissava il soffitto della tenda.
«Scusa», mormorai. «È il mio modo di distinguere».
«Che cosa?».
«Distinguere il Dottor Jekyll da Mister Hyde. Tra il Jacob che mi piace e quello che mi esaspera da impazzire», spiegai.
«Mi pare che abbia senso». Sembrava essersi calmato, almeno un po’.
«Raccontami di un’altra delle tue notti preferite», disse.
«Il viaggio di ritorno dall’Italia».
Si rabbuiò.
«Non è anche una delle tue?», domandai.
«Sì, in effetti lo è, ma mi sorprende che sia nella tua lista. Sbaglio, o eri preda della ridicola convinzione che a guidarmi fosse solo il senso di colpa, e che sarei fuggito dall’aereo subito dopo l’atterraggio?».
«Sì». Sorrisi. «Però eri lì, accanto a me».
Mi baciò i capelli. «Non merito che mi ami così tanto». Risi, di fronte a quell’idea impossibile. «E poi viene la prima notte dopo il ritorno dall’Italia», proseguii.
«Sì, è sulla lista. Eri davvero divertente».
«Divertente?».
«Non immaginavo che i tuoi sogni fossero tanto nitidi. Mi ci è voluta un’eternità per convincerti che non stavi dormendo».
«Ancora non lo so», mormorai. «Mi sei sempre sembrato un sogno, più che una realtà. Adesso parlami di una delle tue. Ho azzeccato il tuo primo posto?».
«No. Quello è stato due notti fa, quando finalmente hai accettato di sposarmi». Feci una smorfia.
«Non è sulla tua lista?».
Ripensai a come mi aveva baciata, alla concessione che avevo ottenuto, e cambiai idea. «Sì... lo è. Ma con riserva. Non capisco perché sia tanto importante per te. Sono già tua per sempre».
«Tra cento anni, quando la tua prospettiva sarà lunga abbastanza da apprezzare la risposta, te lo spiegherò».
«Ti ricorderò di spiegarmelo... tra cento anni».
«Hai caldo abbastanza?», chiese d’un tratto.
«Sto bene», lo rassicurai. «Perché?».
Prima che potesse rispondere, il silenzio che circondava la tenda fu squarciato da un assordante ululato di dolore. Il suono rimbalzò sulla parete di pietra nuda della montagna e riempì l’aria, come se provenisse da ogni direzione.
L’ululato attraversò i miei pensieri come un tornado, strano e familiare al tempo stesso. Strano perché non avevo mai sentito un lamento così straziante. Familiare perché ne distinsi subito il timbro: riconobbi il suono e ne compresi il significato alla perfezione, come se venisse da dentro di me. Poco importava che Jacob non fosse umano, quando si lasciò sfuggire il grido. Non c’era bisogno di tradurlo.
Jacob era vicino. Jacob aveva sentito ogni nostra parola. Jacob stava soffrendo. L’ululato soffocò fino a diventare un curioso mugolio gorgogliante, poi tornò il silenzio.
Non udii il rumore della sua fuga silenziosa, ma la avvertii. Notai l’assenza che prima, a torto, avevo dato per scontata, lo spazio vuoto che si lasciava alle spalle.
«Perché la tua stufetta ha passato il segno», rispose Edward imperturbabile. «Tregua finita», aggiunse, in tono così basso che non riuscii a capire se le parole fossero davvero quelle.
«Jacob ci ascoltava», sussurrai. Non era una domanda.
«Sì».
«Lo sapevi».
«Sì».
Guardai nel vuoto, senza vedere nulla.
«Non ho mai promesso di combattere senza barare», precisò calmo. «E lui merita di sapere».
La testa mi crollò tra le mani.
«Sei arrabbiata?», domandò.
«Non con te», sussurrai. «Sono disgustata di me stessa».
«Non tormentarti», supplicò.
«Già», aggiunsi acida. «Meglio che risparmi energie per tormentare Jacob un altro po’. Non sia mai detto che ne risparmi una parte».
«Sapeva ciò che stava facendo».
«Pensi che importi qualcosa?». Sbattevo gli occhi per non piangere, era facile intuirlo dalla mia voce. «Pensi che m’importi che sia giusto o no, o che qualcuno lo abbia già messo in guardia? Gli sto facendo del male. Con ogni piccolo gesto, gli faccio del male». La mia voce si faceva sempre più acuta, più isterica. «Sono una persona orribile».
Mi strinse forte fra le braccia. «Invece no».
«Invece sì! Cosa mi succede?». Mi divincolai e lui allentò la presa. «Devo raggiungerlo».
«Bella, è già lontano chilometri, e fa freddo».
«Non m’importa. Non possono starmene qui». Mi scrollai di dosso il giaccone di Jacob, infilai i piedi negli scarponi e strisciai rigida verso la porta con le gambe intorpidite. «Devo, devo...». Non sapevo come concludere la frase, non sapevo cosa fare, tuttavia aprii la cerniera della tenda e uscii nel mattino luminoso e ghiacciato.
C’era meno neve di quanta pensassi dopo la tempesta furiosa della notte precedente. Probabilmente era stata soffiata via, anziché sciogliersi al sole che in quel momento splendeva basso a sudest e sbucava dal manto bianco pizzicandomi gli occhi non ancora abituati alla luce. L’aria era rimasta frizzante, ma c’era una calma assoluta e, mano a mano che il sole si alzava, la temperatura tornava ai livelli di stagione. Seth Clearwater era raggomitolato su uno spiazzo di aghi di pino asciutti, all’ombra del fitto di un abete, con la testa tra le zampe. La sua pelliccia color sabbia era quasi invisibile sullo sfondo degli aghi morti, ma notai il riflesso della neve nei suoi occhi aperti. Mi fissava con un’espressione che immaginai essere di accusa.
Mentre barcollavo verso gli alberi sapevo di avere Edward alle spalle. Non lo sentivo, ma il sole si rifletteva sulla sua pelle in arcobaleni scintillanti che mi precedevano danzando. Non si avvicinò a fermarmi finché non fui parecchi passi all’interno delle ombre della foresta. Con la mano mi strinse il polso sinistro. Quando cercai di liberarmi con uno strattone, mi ignorò.
«Non puoi inseguirlo. Non oggi. È quasi l’ora. E smarrirti nel bosco non sarebbe d’aiuto a nessuno, malgrado tutto».
Piegai il polso e tirai, inutilmente.
«Mi dispiace, Bella», sussurrò. «Mi dispiace per ciò che ho fatto».
«Tu non hai fatto niente. È colpa mia. Sono stata io. Ho sbagliato tutto. Avrei potuto... Quando lui... non avrei dovuto... Io... io...». Singhiozzai.
«Bella, Bella». Le sue braccia mi avvolsero e bagnai di lacrime la sua camicia.
«Avrei dovuto dirglielo... avrei dovuto dire...». Cosa? Cosa avrebbe potuto raddrizzare la situazione? «Non è giusto che lo abbia... saputo così».
«Vuoi che provi a vedere se riesco a riportarlo qui, per fartici parlare?
Abbiamo ancora un po’ di tempo», mormorò Edward, un tormento soffocato nella sua voce. Annuii, la testa contro il suo petto, timorosa di guardarlo.
«Non allontanarti dalla tenda, torno presto».
Le sue braccia svanirono. Se ne andò così in fretta da sparire nel momento stesso in cui alzai lo sguardo. Ero sola. Un altro singhiozzo mi scosse il petto. Stavo facendo del male a tutti. Era rimasto qualcosa che avessi toccato senza rovinarlo?
Non capivo perché proprio in quel momento mi sentissi sopraffatta. Tutto sommato, sapevo che prima o poi sarebbe accaduto. Ma Jacob non aveva mai reagito così violentemente, perdendo la sua sfacciataggine esagerata e svelando l’intensità del proprio dolore. Il suono di quel tormento non se n’era ancora andato e mi lacerava in fondo al petto. E, accanto, c’era l’altro dolore. Il dolore che nasceva dal dolore per Jacob. Il dolore per avere ferito anche Edward. Per non essere stata capace di mantenere il contegno mentre Jacob se ne andava e ricordare che era la cosa giusta, l’unica strada. Ero egoista, nociva. Torturavo coloro che amavo.
Somigliavo alla Cathy diCime tempestose , solo che le mie alternative erano di gran lunga migliori delle sue, non ce n’era una debole o malvagia. Eppure, eccomi lì a piangerci sopra, senza fare niente di produttivo per risolvere il problema. Proprio come Cathy. Non potevo più permettere che ciò che mi tormentava influenzasse le mie decisioni. Era troppo poco e decisamente troppo tardi, ma a quel punto dovevo prendere la decisione più sensata. Forse qualcuno l’aveva presa per me. Forse Edward non sarebbe riuscito a riportarlo indietro. A quel punto me ne sarei fatta una ragione e avrei continuato a vivere la mia vita. Edward non mi avrebbe mai più vista versare lacrime per Jacob Black. Non dovevano esserci più lacrime. Asciugai le ultime con le dita ormai fredde. Ma, se Edward fosse tornato assieme a Jacob, non avrei avuto scelta. Dovevo dirgli di andarsene e di non tornare mai più.
Perché era così difficile? Molto, troppo difficile rispetto al dire addio ai miei altri amici, ad Angela, a Mike? Perché mi faceva stare male? Non era giusto. Non potevo lasciarmi scalfire. Avevo ciò che volevo. Non potevo averli entrambi, perché Jacob non poteva restare un semplice amico. Era venuto il momento di smettere di desiderare che lo fosse. Quanto avide e ridicole riescono a essere le persone?
Dovevo liberarmi della sensazione irrazionale che Jacob appartenesse alla mia vita. Non poteva appartenermi, essere ilmio Jacob, se io appartenevo a qualcun altro. Tornai lentamente alla piccola radura, trascinando i piedi. Quando irruppi nello spazio aperto, sbattendo le palpebre sotto la luce tagliente, lanciai un’occhiata furtiva a Seth che non si era spostato dal letto di aghi di pino, ma non ressi al suo sguardo.
Mi sentivo i capelli scompigliati, annodati come i serpenti della Medusa. Ci infilai le dita per sistemarli, ma rinunciai all’istante. Del resto, che importava del mio aspetto?
Afferrai la borraccia appesa alla porta della tenda e la agitai. A giudicare dal rumore era piena, perciò svitai il tappo e bevvi un sorso per inumidirmi la bocca con l’acqua ghiacciata. Da qualche parte lì accanto c’era da mangiare, ma non mi sentivo così affamata da mettermi a cercare. Iniziai a passeggiare avanti e indietro sul piccolo spiazzo assolato, seguita in ogni attimo, lo sentivo, dallo sguardo di Seth. Dal momento che non osavo fissarlo, nei miei pensieri si trasformò in ragazzo, anziché in lupo gigante. Tanto simile a un Jacob da ragazzino.
Avrei voluto chiedere a Seth di guaire o darmi un altro segno, nel caso Jacob stesse tornando, ma mi convinsi a non farlo. Non importava che tornasse o no. Forse sarebbe stato più facile se non lo avessi rivisto. Desideravo che ci fosse un modo di chiamare Edward. In quel momento Seth guaì e si alzò.
«Che succede?», fu la mia domanda stupida.
Mi ignorò, trotterellò verso il confine degli alberi e puntò il naso verso ovest. Iniziò a uggiolare.
«Sono gli altri, Seth?», domandai. «Nella radura?».
Mi guardò, emise un guaito lieve e tornò a puntare il naso verso ovest, all’erta. Con le orecchie schiacciate all’indietro, guaì di nuovo. Perché ero stata così sciocca? Cosa avevo sperato chiedendo a Edward di andare? Come facevo a sapere cosa stava succedendo? Non parlavo la lingua dei lupi.
Un rivolo freddo di paura iniziò a scivolarmi lungo la schiena. E se il tempo fosse scaduto? Se Jacob ed Edward si fossero avvicinati troppo? Se Edward avesse deciso di unirsi alla battaglia?
La paura mi gelò lo stomaco. E se l’inquietudine di Seth non avesse avuto niente a che vedere con la radura e i suoi guaiti fossero una risposta negativa? Forse Jacob ed Edward stavano combattendo uno contro l’altro, chissà dove, nella foresta? Non avrebbero mai osato, vero?
All’improvviso ebbi la consapevolezza agghiacciante che invece poteva succedere: bastava una frase sbagliata. Ripensai alle schermaglie tese di quel mattino e considerai che forse non mi ero accorta di quanto fossero stati vicini a combattere.
Se per caso li avessi persi entrambi, sarebbe stato un castigo meritato. Il ghiaccio avvolse stretto il mio cuore.
Prima che potessi svenire di paura, Seth emise un brontolio secco, dal profondo del petto, per poi allontanarsi dal posto di guardia e tornare dove aveva riposato. Mi sentii più calma ma anche irritata. Non poteva scrivere un messaggio scavando per terra, o qualcosa del genere?
Il continuo camminare sul posto stava iniziando a farmi sudare, sotto tutti gli strati. Gettai il giaccone nella tenda, poi tornai a percorrere un sentiero che tagliava in due il centro della minuscola apertura tra gli alberi. Seth si rialzò all’istante con un balzo, drizzando i peli alla base del collo. Mi guardai attorno senza vedere niente. O la smetteva, o gli tiravo una pigna in testa. Ringhiò, con un rumore cupo di avvertimento, si avvicinò quatto quatto all’orlo occidentale della radura e fui costretta a ridimensionare la mia impazienza.
«Siamo noi, Seth», scandì Jacob da lontano.
Cercai di spiegarmi perché il mio cuore fosse partito in quarta al suono della sua voce. Era soltanto la paura di ciò che stavo per fare, e niente più. Non potevo permettermi il sollievo che sentivo nel vederlo tornare. Sarebbe stato tutto tranne che un aiuto. Edward comparve per primo, il volto impassibile e rilassato. Quando uscì dall’ombra, il sole luccicò sulla sua pelle come faceva sulla neve. Seth andò a salutarlo, fissandolo deciso negli occhi. Edward annuì lentamente e la preoccupazione increspò la sua fronte.
«Sì, è ciò che ci serve», mormorò tra sé, prima di rivolgersi al grosso lupo. «Immagino che non ci sia da sorprendersi. Ma la tempistica dev’essere molto serrata. Per favore, di’ a Sam se può chiedere ad Alice di precisare meglio la scaletta».
Seth chinò il capo con un cenno e a quel punto mi sarebbe piaciuto saper ringhiare. Ma bravo, adesso sì che comunicava. Mi voltai, irritata, e mi resi conto che c’era anche Jacob.
Mi dava le spalle, guardava verso il sentiero da cui era spuntato. Non so cos’avrei dato perché si voltasse.
«Bella», mormorò Edward, che all’istante mi fu vicino. Mi fissava e dai suoi occhi non traspariva altro che preoccupazione. La sua generosità non aveva limiti. Non avevo mai sentito di meritarlo così poco.
«C’è una piccola complicazione», mi disse, attento a non mostrarsi preoccupato. «Ho bisogno che Seth venga con me, per risolverla. Non mi allontanerò troppo, ma non resterò neanche in ascolto. So che non ti va di avere un pubblico, qualunque sia la tua decisione».
Solo con le ultime parole nella sua voce affiorò il dolore. Non dovevo fargli del male, mai più. Ecco la missione della mia vita. Mai più sarei stata la ragione di quello sguardo nei suoi occhi. Ero talmente scossa che nemmeno riuscii a chiedergli quale fosse il nuovo problema. Non mi andava di aggiungerne altri, in quel momento.
«Torna in fretta», sussurrai.
Mi diede un bacio leggero sulle labbra e sparì nella foresta con Seth al suo fianco.
Jacob era rimasto all’ombra degli alberi; non riuscivo a cogliere la sua espressione.
«Vado di fretta, Bella», disse senza entusiasmo. «Perché non la fai finita?». Deglutii, con la gola talmente secca da non capire se ne potesse uscire un suono.
«Di’ ciò che devi, e togliamoci il pensiero».
Respirai a fondo.
«Scusa se sono così cattiva», sussurrai. «Mi dispiace di essere stata egoista. Magari non ti avessi mai conosciuto, avrei evitato di ferirti in questa maniera. Non lo farò più, te lo prometto. Ti resterò lontana. Me ne andrò in un altro Stato. Non dovrai più venirmi a cercare».
«Non mi sembra granché, come soluzione», disse amareggiato. Non riuscivo a esprimermi che con sussurri. «Dimmi tu come fare».
«E se non volessi lasciarti andare? E se, egoista o no, preferissi vederti restare? Posso dire la mia, o sei tu a voler decidere per me?».
«Non servirà a niente, Jake. Ho sbagliato a restarti vicina quando sapevo che desideravamo cose tanto diverse. Non migliorerà. Continuerò a farti del male e basta. Non voglio più ferirti. Non lo sopporto». La mia voce si spezzò.
«Basta. Non dire nient’altro. Capisco».
Avrei voluto spiegargli quanto mi sarebbe mancato, ma mi convinsi a non farlo. Sarebbe stato un altro tentativo inutile di migliorare le cose. Per un istante rimase in silenzio con lo sguardo basso, mentre lottavo contro l’istinto di corrergli incontro e abbracciarlo. Per confortarlo. Poi alzò la testa di scatto.
«Be’, non sei l’unica capace di sacrificare se stessa», disse con voce più convinta. «Ci si può giocare anche in due».
«A cosa?».
«Anch’io mi sono comportato davvero male. Ti ho reso la vita più difficile del necessario. Avrei potuto farmi da parte già all’inizio, senza battere ciglio. Invece, anch’io ti ho ferita».
«È colpa mia».
«Non voglio che ti prenda tutte le responsabilità, Bella. Né tutta la gloria. Io so come riscattarmi».
«Cosa stai dicendo?», domandai. La luce improvvisa e ardente nel suo sguardo mi spaventò.
Alzò gli occhi al sole e mi sorrise. «Laggiù sta per esplodere una battaglia piuttosto seria. Credo che non sarà così difficile, per me, uscire di scena». Le sue parole mi sprofondarono nel cervello, lentamente, una alla volta, e mi mozzarono il respiro. Malgrado le intenzioni di tagliare definitivamente fuori Jacob dalla mia vita, solo in quell’istante capii quanto dovessi affondare la lama per riuscirci davvero.
«Oh, no, Jake! No, no, no!», sbottai, terrorizzata. «No, Jake. Per favore, no». Iniziarono a tremarmi le ginocchia.
«Che differenza fa, Bella? Sarà soltanto più comodo per tutti. Non dovrai nemmeno traslocare».
«No!». La mia voce si fece più forte. «No, Jacob! Non te lo permetterò!».
«E come farai a fermarmi?», mi provocò con leggerezza, sorridendo per togliere cattiveria alla domanda.
«Jacob, ti scongiuro. Resta con me». Glielo avrei chiesto in ginocchio, se solo fossi riuscita a muovermi.
«Per un quarto d’ora soltanto, perdendomi una bella rissa? Così potrai scappare non appena penserai che sono fuori pericolo? Non dire fesserie».
«Non scapperò. Ho cambiato idea. Troveremo una soluzione, Jacob. Un compromesso c’è sempre. Non andare!».
«Stai mentendo».
«No. Sai che come bugiarda non valgo niente. Guardami negli occhi. Rimango qui solo se resti anche tu».
La sua espressione s’indurì. «Allora posso farti da testimone al matrimonio?». Passò un istante prima che riuscissi a parlare, e tuttavia l’unica risposta che riuscii a dargli fu: «Per favore».
«È come pensavo», disse, e sul suo viso tornò lo calma, a eccezione della luce turbolenta negli occhi.
«Ti amo, Bella», mormorò.
«Ti voglio bene, Jacob», sussurrai a stento.
Sorrise. «Lo so meglio di te».
Si voltò e fece per andarsene.
«Qualsiasi cosa», urlai alle sue spalle, con voce strozzata. «Tutto ciò che vuoi, Jacob. Ma non farlo!».
Si fermò e si girò lentamente.
«Secondo me non dici sul serio».
«Resta», lo implorai.
Scosse la testa. «No, vado». S’interruppe, come per decidere qualcosa.
«Ma potrei lasciare che sia la sorte a decidere».
«Cosa vuol dire?», tossii.
«Che non farò niente di proposito. Solo darò il mio meglio per il branco e quel che sarà, sarà». Si strinse nelle spalle. «Se riuscissi a convincermi che desideri davvero il mio ritorno... e che non è soltanto per egoismo».
«Come faccio?», domandai.
«Potresti chiedermelo».
«Torna», sussurrai.
Come poteva dubitare che non dicessi sul serio?
Scosse la testa e sorrise di nuovo. «Non è questo che intendo». Mi bastò un secondo per capire e nel frattempo mi accorsi del suo sguardo di superiorità, sicuro della mia reazione. Non appena sentii la certezza, però, balbettai la domanda senza fermarmi a pesarne le conseguenze.
«Vuoi baciarmi, Jacob?».
Strabuzzò gli occhi, sorpreso, ma poi li socchiuse sospettoso. «Stai bluffando».
«Baciami, Jacob. Baciami, e ritorna».
Restò immobile nell’ombra, in guerra con se stesso. Fece per voltarsi verso ovest, il busto girato ma i piedi ben piantati dove stavano. Senza guardarmi, fece un passo indeciso verso di me, e poi un altro. Inclinò il viso per osservarmi, dubbioso. Restituii lo sguardo. Non avevo idea di che espressione avessi. Jacob si dondolò sui talloni, poi si trascinò in avanti e coprì la distanza tra noi con tre grandi passi.
Sapevo che avrebbe approfittato della situazione. Me lo aspettavo. Restai immobile — gli occhi chiusi, i pugni stretti ai miei fianchi — mentre con le mani cercava il mio viso e le sue labbra trovavano le mie, con un’avidità che non era lontana dalla violenza.
Sentii la sua rabbia, quando con la bocca si accorse della mia resistenza passiva. Una mano si avvicinò alla mia nuca, l’altra mi afferrò brusca la spalla, mi scosse e mi avvinghiò a lui. Poi proseguì sul mio braccio, mi cercò il polso e lo sollevò a circondargli le spalle. Lo lasciai dov’era, il pugno ancora stretto, senza sapere dove mi avrebbe condotta il desiderio disperato di salvargli la vita. Nel frattempo le sue labbra, di una morbidezza e di un calore straordinari, cercavano di scatenare la reazione delle mie. Quando fu certo che non avrei lasciato cadere il braccio, mi liberò il polso e la sua mano si fece strada fino ai miei fianchi. La mano infuocata trovò un lembo di pelle all’altezza della vita e mi costrinse ad avvicinarmi e inarcare il corpo contro il suo.
Le labbra si fermarono per un istante, ma sapevo che la fine era ancora lontana. Con la bocca seguì il contorno del mio mento, poi esplorò il profilo del collo. Lasciò i capelli, in cerca dell’altro braccio, che voleva stringersi al collo come il primo. Poi mi ritrovai le sue braccia attorno ai fianchi e le sue labbra all’orecchio.
«Puoi fare meglio di così, Bella», sussurrò tenebroso. «Ci stai pensando troppo».
Sentii un fremito quando con i denti mi toccò il lobo.
«Esatto», mormorò. «Una volta tanto, concediti di sentire ciò che senti». Scossi la testa meccanicamente, finché con una mano non tornò a stringermi i capelli per tenermi ferma. La sua voce si fece acida. «Sei sicura di volere che io torni? Non è che in realtà desideri la mia morte?».
Mi sentii scuotere dalla rabbia come da un colpo violento di frusta. Così era troppo: non stava giocando pulito.
Avevo già le braccia sulle sue spalle, perciò gli tirai due ciocche di capelli senza badare al dolore pungente alla mano destra e mi ribellai, nello sforzo di allontanare il viso dal suo.
E Jacob fraintese.
Era troppo forte per accorgersi che le mie mani, decise a strappargli i capelli alla radice, volevano fargli male. Scambiò la rabbia per passione. Pensava che finalmente stessi reagendo.
Con un sospiro selvaggio riavvicinò la bocca alla mia, le dita affondate nella pelle dei miei fianchi.
Lo scatto di rabbia sbilanciò il mio debole autocontrollo e la sua reazione inattesa, estasiata, lo sconvolse del tutto. Se si fosse sentito soltanto trionfante, forse avrei resistito. Ma la spontaneità assoluta e indifesa della sua gioia improvvisa sbriciolò la mia determinazione, la mise fuori uso. Il cervello si scollegò dal corpo e mi ritrovai a baciare Jake. Contro ogni logica, le mie labbra si muovevano assieme alle sue in una maniera strana e incomprensibile, mai sperimentata prima — perché con Jacob non dovevo stare attenta, e di certo lui non doveva esserlo con me. Strinsi le dita tra i suoi capelli, ma stavolta per avvicinarlo a me. Era ovunque. Il sole abbagliante inondò di rosso i miei occhi ed era il colore giusto, con tutto quel caldo. Il caldo era ovunque. Non vedevo, non sentivo, non provavo nient’altro che non fosse Jacob. L’unico frammento di cervello che manteneva un po’ di lucidità mi urlava domande. Perché non la smettevo? E, peggio ancora, perché non trovavo in me stessa nemmeno il desiderio di smettere? Non volevo che si fermasse: perché? Perché le mie mani gli stringevano le spalle ed erano felici di sentirle larghe e forti? Di sentire anche le sue mani sul mio corpo, e di desiderare che stringessero ancora di più?
Domande stupide, perché la risposta era chiara: avevo mentito a me stessa. Aveva ragione Jacob. L’aveva sempre avuta. Era più di un semplice amico. Ecco perché non riuscivo a dirgli addio: ero innamorata di lui. Sì. Lo amavo, più di quanto avrei dovuto, e tuttavia non abbastanza. Ero innamorata di lui, ma ciò non bastava a cambiare nulla; era soltanto sufficiente a ferirci entrambi. A ferirlo, peggio di quanto avessi mai fatto. E, più di tutto, una cosa avevo a cuore: la sua sofferenza. Io meritavo ampiamente di patire ogni conseguenza della situazione. Speravo di stare male. Speravo di soffrire davvero.
In quel momento era come se fossimo un’unica persona. Il suo tormento era sempre stato e sarebbe sempre stato anche mio ma, ora, la sua gioia era la mia. Anch’io ne provavo, eppure nella sua felicità coglievo un velo di sofferenza. Era quasi tangibile e mi bruciava sulla pelle come acido, in una lenta tortura.
Per un secondo breve ma infinito, vidi una strada diversa srotolarsi al di là delle palpebre che sigillavano i miei occhi inondati di lacrime. Come se guardassi attraverso il filtro dei pensieri di Jacob, capii con esattezza a cosa avrei rinunciato, cos’avrei perso malgrado la mia nuova consapevolezza di me stessa. Vedevo Charlie e Renée confusi in uno strano collage assieme a Billy, Sam e La Push. Vedevo gli anni passare, e il loro passaggio significava qualcosa, mi cambiava. Mi vedevo assistita e protetta, nel bisogno, dall’enorme lupo rossiccio e marrone che amavo. Per un minuscolo frammento di quel secondo vidi le teste ciondolanti di due bambinetti con i capelli neri che giocavano a rincorrersi nella foresta tanto familiare. Quando sparirono, portarono con sé il resto della visione. Poi, distintamente, sentii aprirsi una crepa nel mio cuore, mentre un suo minuscolo frammento si staccava da tutto il resto.
Le labbra di Jacob si fermarono prima delle mie. Aprii gli occhi e lo trovai che mi fissava meravigliato e festoso.
«Devo andare», sussurrò.
«No».
Sorrise, lieto della mia risposta. «Torno presto», promise. «Prima, però, una cosa...».
Riprese a baciarmi e non c’era più ragione di resistere. Perché mai?
Stavolta era diverso. Sentivo le sue mani lievi sul mio volto, le labbra calde e delicate, sorprendentemente timide. Fu breve, e tanto, tanto dolce. Mi avvolse tra le sue braccia e mi cullò stretta mentre mi sussurrava all’orecchio.
«Questo doveva essere il nostro primo bacio. Meglio tardi che mai». Contro il suo petto, dove non poteva vedere, le mie lacrime si addensarono e scesero.