«Ho previsto...», disse Alice in un tono che non prometteva nulla di buono.
Edward le diede una gomitata nelle costole che lei schivò con prontezza.
«Ottimo», brontolò. «È Edward che mi sta obbligando. Però ho visto che se ti avessimo fatto una sorpresa ti saresti arrabbiata». Stavamo andando verso la macchina, dopo la scuola, e non avevo assolutamente idea di cosa stesse dicendo.
«Puoi ripeterlo in una lingua comprensibile?», domandai.
«Non fare la bambina, su. Niente bizze».
«Ecco, adesso ho paura».
«Insomma stai — voglio dire, stiamo — per affrontare una festa di diploma. Non è questa gran cosa. Niente per cui agitarsi più di tanto. Ma ho visto che ti saresti agitata se avessi provato a organizzarti una festa a sorpresa». Edward le si avvicinò, le scompigliò i capelli e lei lo scansò con un passo di danza. «Edward ha detto che dovevo dirtelo. Ma non è niente di speciale. Te lo giuro». Sbuffai. «C’è qualcosa da discutere?».
«No, niente».
«Va bene, Alice. Ci sarò. E odierò ogni singolo minuto che trascorrerò lì. Te lo giuro».
«Questo è lo spirito giusto! A proposito, grazie del regalo. Non dovevi».
«Alice, non ti ho fatto nessun regalo!».
«Ah, lo so. Ma me lo farai».
Mi concentrai, in preda al panico, cercando di ricordare cosa avessi pensato di regalarle per il diploma. Ovviamente me lo aveva letto nel pensiero.
«Incredibile», sbottò Edward. «Non è possibile che esista qualcuno di così piccolo e così irritante».
Alice rise. «Talento naturale».
«Non potevi aspettare un paio di settimane a dirmelo?», chiesi petulante.
«Mi hai solo prolungato il tormento».
Alice mi guardò torva.
«Bella», disse piano, «sai che giorno è oggi?».
«Lunedì?».
Alzò gli occhi. «Sì, è lunedì 4». Mi prese per un gomito, mi fece fare mezzo giro su me stessa e mi indicò un grande poster giallo affisso alla porta della palestra. C’era scritta a chiare lettere la data degli esami. A cui mancavano esattamente sette giorni.
«È davvero il 4? Di giugno? Siete sicuri?».
Nessuno dei due rispose. Alice si limitò a scuotere tristemente la testa, fingendo delusione, mentre Edward mi guardò perplesso.
«No, davvero, è impossibile!». Provai a fare un rapido conto nella mia testa, ma non mi capacitavo di come fosse passato il tempo. Mi sentii come se mi avessero tolto l’appoggio delle gambe con uno sgambetto. Le settimane di stress, di ansia... Ossessionata com’ero dal tempo, il mio tempo era svanito. Non ne restava per mettere tutto quanto in ordine, per fare progetti. Il tempo era scaduto.
E non ero pronta.
Non sapevo come fare. Come salutare Charlie e Renée... Jacob... la mia vita da essere umano.
Sapevo esattamente cosa volevo, ma l’idea di ottenerlo all’improvviso mi terrorizzava.
In teoria ero ansiosa, persino avida di scambiare la mortalità con l’immortalità. In fin dei conti era la chiave per restare con Edward per sempre. Inoltre ero bersaglio di assalitori più o meno noti. Forse era meglio non andare in giro così, inerme, fragile e deliziosa, in attesa che qualcuno mi catturasse.
In teoria tutto ciò aveva senso.
In pratica, invece... ero umana. Il futuro era un abisso grande e scuro e per conoscerlo avrei dovuto saltarci dentro.
Era il 4 giugno, un’ovvietà che il mio inconscio aveva represso. E ora, la riscoperta trasformava la data che avevo atteso con ansia in un appuntamento con il plotone d’esecuzione. Nella confusione mi accorsi che Edward mi aveva aperto la portiera della macchina, che Alice si era seduta dietro e non stava zitta un momento e che la pioggia batteva sul parabrezza. Edward aveva capito che ero presente soltanto con il corpo e non cercò di scuotermi dalla mia fantasia. Oppure lo fece e io non me ne accorsi.
Finimmo a casa mia, lui mi fece sedere sul divano e mi strinse a sé. Guardai fuori dalla finestra, verso la nebbia grigia e liquida, in cerca della determinazione che all’improvviso avevo perso. Dov’era andata a finire?
Perché tutto quel panico? Sapevo che quel momento sarebbe arrivato. Perché avevo paura proprio ora che mancava davvero poco?
Non so per quanto tempo mi lasciò guardare fuori. Quando il buio assorbì la pioggia, fu troppo anche per lui. Mi prese le guance tra le mani e i suoi occhi dorati mi fissarono. «Mi dici a cosa stai pensando? Prima che io impazzisca?». Cosa potevo dirgli? Che ero una codarda? Cercai le parole.
«Sei pallidissima. Parla, Bella».
Feci un respiro profondo. Per quanto tempo avevo trattenuto il fiato?
«Sono sconvolta perché mi sono resa conto di che giorno è oggi», sussurrai. «Tutto qui». In silenzio, mi guardò con un’espressione preoccupata e diffidente. Provai a spiegare. «Non so cosa devo fare... cosa dire a Charlie... cosa dire... come...». La mia voce si affievolì.
«Non ha a che fare con la festa, vero?».
Corrugai la fronte. «No, però grazie per avermelo ricordato». La pioggia batteva più forte quando mi guardò negli occhi.
«Non sei pronta», sussurrò.
«Invece sì», mentii di getto. Ma lui capì subito, così con un sospirone dissi la verità. «Devo esserlo».
«No, nessuno ti costringe».
Il panico prese il sopravvento. «Victoria, Jane, Caius, l’estraneo nella mia stanza...».
«Un altro motivo valido per aspettare».
«Edward, non ha senso!».
Aumentando la pressione delle mani sul mio volto, parlò con calma, ragionando.
«Bella. Nessuno di noi ha avuto la possibilità di scegliere. Hai visto cosa è successo... soprattutto a Rosalie. Noi tutti abbiamo lottato, abbiamo provato a riconciliarci con qualcosa che non riusciamo a controllare. Ma per te farò in modo che sia diverso: tu avrai la possibilità di scegliere».
«Ma io ho già scelto».
«Non andrai fino in fondo soltanto perché hai una spada di Damocle sulla testa. Penseremo ai problemi, e io penserò a te», promise. «Quando sarà tutto a posto, e non ti sentirai costretta a farlo, allora potrai unirti a me, se lo vorrai ancora. Ma non perché hai paura. Nessuno ti costringerà con la forza».
«Carlisle me l’ha promesso», mormorai per puro spirito di contraddizione. «Dopo il diploma».
«Solo quando sarai pronta», disse con voce ferma. «E quando smetterai di sentirti minacciata, non un attimo prima».
Non risposi. Non avevo voglia di discutere, non riuscivo davvero a ritrovare la determinazione.
«Ecco». Mi baciò la fronte. «Niente di cui preoccuparsi». Risi inquieta. «Niente, eccetto il destino che incombe».
«Fidati».
«Sì».
Senza smettere di guardarmi, attese che mi calmassi.
«Posso chiederti una cosa?», domandai.
«Certo».
Esitai, mordendomi il labbro, e poi feci una domanda diversa da quella che mi preoccupava.
«Cosa regalerò ad Alice per il diploma?».
Ridacchiò. «A quanto pare ci regalerai dei biglietti per un concerto...».
«Esatto!». Ero così sollevata che quasi sorrisi. «Il concerto a Tacoma. Ho visto un annuncio sul giornale la settimana scorsa. Ho pensato che magari ti interessava, visto che il CD ti è piaciuto».
«È davvero una bella idea. Grazie».
«Spero che non sia tutto esaurito».
«È il pensiero che conta. E io lo so bene».
Sospirai.
«C’è qualche altra cosa che volevi chiedermi», disse. Aggrottai la fronte. «Sei bravo, eh».
«Ormai se ti guardo in faccia non mi sfugge più niente. Sono allenato. Chiedi pure».
Chiusi gli occhi e affondai il viso nel suo petto. «Tu non vuoi che io diventi una vampira».
«Esatto, non lo voglio», disse dolcemente, in attesa che aggiungessi qualcosa. «Non è una domanda», precisò un momento dopo.
«Insomma... sono preoccupata del...perché la pensi così».
«Preoccupata?». Evidenziò la parola, sorpreso.
«Mi dici perché? Tutta la verità, senza timore di ferirmi?». Restò in silenzio per qualche istante. «Se ti rispondo, poi, mi spiegherai la tua domanda?».
Annuii senza scoprire il viso.
Prima di parlare prese fiato. «Potresti fare di meglio, Bella. So che tu credi che io abbia un’anima, ma io non ne sono del tutto convinto, e mettere a repentaglio la tua...». Scosse la testa lentamente. «Permettere tutto questo — lasciarti diventare come me soltanto per non perderti — è l’atto più egoista che possa immaginare. Lo vorrei più di ogni altra cosaper me stesso. Maper te voglio molto di più. Cedere sarebbe un atto criminale. Il gesto più egoista che potrei fare, anche se vivessi per sempre. Se potessi diventare umano per te lo farei, a qualsiasi costo». Restai nel più completo silenzio, meditando sulle sue parole. Edward si credevaegoista.
Sentii un sorriso rischiarare pian piano il mio volto.
«Così... non è che hai paura che non ti piacerò così tanto se sarò diversa... se non sarò più morbida e calda e non avrò lo stesso odore? Mi terrai con te, qualunque cosa io diventi?».
Fece un respiro secco. «Avevi paura di non piacermi più?», domandò. Poi, prima che potessi rispondergli, scoppiò a ridere. «Bella, sveglia come sei non posso credere che tu dica certe sciocchezze!». Temevo che l’avrebbe considerata una domanda stupida, ma ero sollevata. Se mi voleva davvero bene, potevo superare tutto... in qualche modo.
"Egoista" d’un tratto mi parve una bella parola.
«Non credo che tu capisca quanto sarebbe facile per me, Bella», disse, e dalla voce traspariva il suo stato d’animo, «se non dovessi restare sempre concentrato per evitare di ucciderti. Ovvio, ci sono cose che mi mancheranno. Questa, per esempio...». Mi guardò negli occhi carezzandomi la guancia e sentii il sangue colorarmi la pelle. Rise in modo gentile.
«E poi il suono del tuo cuore», continuò più serio, sorridendo appena.
«Il suono più importante per me. Ne sono così in sintonia che, giuro, potrei coglierlo a chilometri di distanza. Ma niente di tutto ciò importa davvero. Questo», disse, riprendendomi il viso tra le mani. «Te. Ecco cosa non lascerò mai. Tu sarai sempre la mia Bella, sarai soltanto un po’ più... resistente». Serrai gli occhi, appagata, e mi rilassai tra le sue braccia.
«Ora puoi rispondere a una mia domanda? Tutta la verità, senza timore di ferirmi?», domandò.
«Certo», risposi senza pensare, con gli occhi bene aperti per la curiosità. Cosa voleva sapere?
Parlò lentamente: «Tu non vuoi diventare mia moglie». Il mio cuore si fermò e poi iniziò a battere fortissimo. Il sudore freddo m’imperlò la nuca e le mani mi si gelarono.
Restò in attesa, pronto a intercettare la mia reazione.
«Questa non è una domanda», sussurrai infine.
Abbassò lo sguardo, l’ombra delle ciglia lunghissime gli calò sugli zigomi. Poi mi lasciò andare il volto e mi prese la mano sinistra, gelata. Mentre parlava giocherellava con le mie dita.
«Sono preoccupato del... perché la pensi così».
Provai a deglutire. «Nemmeno questa è una domanda», sussurrai.
«Per favore, Bella...».
«La verità?», domandai quasi senza voce.
«Certo. La accetterò comunque».
«Mi riderai in faccia».
Mi guardò negli occhi, scioccato. «Ridere di te? Non riesco neanche a immaginarlo».
«Vedrai», dissi sottovoce e presi coraggio. Il mio volto pallido si fece rosso di vergogna. «Bene, perfetto! Non pensare che sia uno scherzo, ti prego. Il fatto è che mi sento così... così... cosìimbarazzata !», ammisi e affondai di nuovo il viso nel suo petto.
«Non ti seguo», disse dopo una breve pausa.
Tirai indietro la testa e lo guardai torva, il disagio mi liberò la voce e mi rese agguerrita.
«Non sonoquel tipo di ragazza, Edward. Quella che si sposa dopo il diploma, come una provincialotta messa incinta dal fidanzato. Sai cosa penserà la gente? Ti rendi conto in che secolo viviamo? Nessuno si sposa a diciott’anni! Almeno, non le persone intelligenti, responsabili e mature! Non voglio essere quel tipo di ragazza! Non sono così...», la mia voce perse vigore e si affievolì. Edward meditò sulla risposta senza tradire alcuna emozione.
«È tutto?», chiese infine.
Sbattei gli occhi. «Non è abbastanza?».
«Non è che... desideri l’immortalità più di quanto non desideri me?». Mi aspettavo che fosse lui a mettersi a ridere, invece fui io a scoppiare in risate isteriche.
«Edward!», ansimai, cercando di soffocare i singulti di riso. «E io... che avevo sempre pensato... che fossi... molto più intelligente di me!». Mi abbracciò e sentii che anche lui stava ridendo.
«Edward», dissi sforzandomi di parlare più chiaramente, «non avrebbe senso diventare immortale senza te accanto. Non vorrei vivere nemmeno un giorno senza di te».
«Be’, sono sollevato».
«Sì, ma... non cambia niente».
«È comunque bello capirsi. Comprendo il tuo punto di vista, Bella. Ma mi farebbe molto piacere se tu provassi a capire il mio». Ormai non ero più agitata, perciò annuii e feci di tutto per cancellare ogni segno di nervosismo dal viso. Mi fissò con i suoi occhi dorati e luminosi e m’ipnotizzò.
«Vedi, Bella, io sono sempre statoquel tipo di ragazzo. Nel mio mondo ero già un uomo. Non ero in cerca d’amore... no, ero troppo impaziente di arruolarmi: pensavo soltanto alla gloria idealizzata della guerra, quella che ci vendevano per convincerci a entrare nell’esercito. Ma se avessi trovato...». S’interruppe e inclinò la testa. «Stavo per dire se avessi trovato un qualcuno, ma non lo dirò. Se avessi trovatote so come avrei agito, senza alcun dubbio. Io ero quel tipo di ragazzo che, non appena avesse scoperto che tu eri ciò che stava cercando, avrebbe chiesto la tua mano, in ginocchio. Ti avrei voluta ugualmente per l’eternità, anche se la parola non avrebbe avuto le stesse connotazioni di adesso». Sfoderò il suo sorriso sghembo.
Lo fissai a occhi sgranati.
«Respira, Bella», mi disse sorridendo.
E obbedii.
«Riesci a vedere la cose dal mio punto di vista, Bella, almeno un po’?». Per un secondo ci riuscii. Mi vidi con una gonna lunga, una camicetta di pizzo a collo alto e i capelli raccolti. Vidi Edward elegante, con indosso un abito chiaro e in mano un bouquet di fiori selvatici, seduto accanto a me su un dondolo, in un portico.
Scossi la testa e deglutii. Avevo appena avuto un flashback in stileAnnadai capelli rossi.
«Il fatto è che nella mia mente», dissi con voce tremante, eludendo la domanda, «matrimonio edeternità non rappresentano concetti che sono legati o si escludono a vicenda. E finché vivremo nel mio mondo, forse, è bene che andiamo al passo con i tempi, se capisci cosa intendo».
«Ma d’altra parte», rispose, «presto ti lascerai per sempre alle spalle il tempo. Perciò, perché permettere che gli usi transitori di una cultura locale influiscano in questo modo sulla tua decisione?».
«Paese che vai...».
Scoppiò a ridere. «Non devi dire sì o no oggi, Bella. È bene che ciascuno capisca la posizione dell’altro, comunque, non credi?».
«Perciò la tua posizione...».
«È sempre la stessa. Capisco il tuo punto di vista, Bella, ma se vuoi che sia proprio io a trasformarti...».
«Tan-tan-taràn», canticchiai sottovoce, imitando la marcia nuziale. Ma mi uscì una specie di canto funebre.
Il tempo continuava a passare troppo in fretta.
Quella notte non sognai. Aprii gli occhi e mi trovai faccia a faccia con gli esami. Rimanevano pochi giorni, ormai, e sapevo che non ce l’avrei fatta a studiare neanche la metà delle cose che mi mancavano. Quando scesi a fare colazione Charlie era già uscito. Alla vista del giornale, rimasto sul tavolo, ricordai che dovevo fare acquisti. Speravo che l’annuncio del concerto ci fosse ancora; avevo bisogno del numero di telefono con cui prenotare quegli stupidi biglietti. Non sembrava un gran regalo, ora che la sorpresa era saltata. Certo, provare a stupire Alice era un’idea tutt’altro che brillante.
Volevo iniziare a sfogliare il giornale al contrario, dalla sezione degli spettacoli, ma un titolo grande e in evidenza catturò la mia attenzione. Provai un brivido di paura quando lessi la cronaca in prima pagina.
Sono passati meno di dieci anni da quando la città di Seattle fu terreno di caccia del serial killer più sanguinario della storia degli Stati Uniti. Gary Ridgway, l’assassino del Green River, fu condannato per aver ucciso 48 donne. Ora la città sotto assedio deve fare i conti con un altro probabile mostro, ancora più sanguinario del precedente.
La polizia non rivela se la recente ondata di omicidi e sparizioni è opera di un serial killer Non ancora, almeno. Gli inquirenti stentano a credere che la carneficina possa essere opera di una sola persona. L’assassino sarebbe infatti responsabile, nel corso degli ultimi tre mesi, di 39 fra omicidi e sparizioni correlati tra loro. I 48 crimini di Ridgway ebbero luogo nel corso di 21 anni. Se queste morti risalissero davvero a un solo assassino, avremmo a che fare con il criminale più feroce della storia degli Stati Uniti d’America. La polizia presuppone che dietro tutto questo si celi l’attività di una gang. Tale teoria è supportata dall’alto numero dei morti e dal fatto che non sembra esserci un disegno preciso dietro alla scelta delle vittime.
Da Jack lo Squartatore a Ted Bundy, le vittime dei serial killer hanno sempre avuto caratteristiche comuni, come l’età, il sesso, la razza o combinazioni precise di questi tre dati. A Seattle sono morti tanto la quindicenne Amanda Reed, studentessa modello, quanto il postino in pensione Omar Jenks, 67 anni. Le vittime, in tutto 18 donne e 21 uomini, appartengono a razze diverse: caucasici, afroamericani, ispanici e asiatici. La scelta sembra casuale. E chi compie gli assassinii sembra farlo per il semplice gusto di uccidere, senza una ragione precisa. Allora perché mai considerare l’idea di un serial killer? Perché il modus operandi è quasi sempre lo stesso. I corpi delle vittime sono sempre carbonizzati, e si è dovuti ricorrere alle impronte dentali per l’identificazione. Si ipotizza l’uso di certi tipi di combustibili, come la benzina o l’alcol; tuttavia, finora non ne è stata rilevata nessuna traccia. Tutti i cadaveri sono stati abbandonati senza il minimo tentativo di occultamento.
La maggior parte dei resti presenta segni evidenti di una violenza brutale — ossa spezzate da una pressione tremenda — che i medici ritengono sia avvenuta prima della morte. Ma allo stato delle cose, e date le condizioni delle vittime, queste conclusioni non sono certe. Un’altra caratteristica fa ipotizzare la presenza di un serial killer: tutti i crimini mancano di qualsiasi prova, a parte i resti stessi. Non un’impronta digitale, né segni di pneumatici; non si è ritrovato nemmeno un capello. Non sono stati rilevati tratti comuni nelle sparizioni. E poi ci sono le vittime — tutt’altro che di basso profilo. Nessuna può essere considerata un bersaglio facile. Non si tratta di senzatetto o di vagabondi, persone la cui scomparsa potrebbe passare inosservata. Le vittime spariscono dal lavoro, da un appartamento al quarantesimo piano, da un centro benessere, da una festa di matrimonio. Il caso più sbalorditivo è quello di un pugile dilettante, Robert Walsh, 30 anni, che è entrato in un cinema con la fidanzata; dopo pochi minuti dall’inizio del film la donna si è accorta che lui non era seduto al suo posto. Il corpo è stato ritrovato solo tre ore dopo, in un cassonetto che era stato dato alle fiamme, a trenta chilometri di distanza.
Negli assassinii c’è un altro dato comune: tutte le vittime scompaiono di notte. E la costante più inquietante? Il continuo incremento degli omicidi. Nel primo mese ne sono stati commessi 6, nel secondo 11. Negli ultimi dieci giorni ne sono stati compiuti 22. E la polizia non è più vicina a scoprire i responsabili di quanto non lo fosse quando ha scoperto il primo corpo carbonizzato.
Le prove sono contraddittorie, i ritrovamenti raccapriccianti. Una nuova banda di delinquenti o solo un feroce serial killer? Oppure qualcos’altro, che gli inquirenti non hanno ancora preso in considerazione?
Solo una cosa è certa: a Seattle qualcosa di tremendo è in agguato.
Fui costretta a rileggere ben tre volte l’ultima frase, poi capii che non ci riuscivo perché mi tremavano le mani.
«Bella?».
Concentrata com’ero, la voce di Edward mi fece trasalire e voltare di scatto.
Stava appoggiato alla porta, accigliato.
Poi mi venne accanto e mi prese la mano.
«Ti ho spaventata? Scusa. Ho bussato...».
«No, no», dissi subito. «Hai visto?». Gli indicai il giornale. Fece un’espressione preoccupata.
«Non ho ancora visto il telegiornale, oggi. Ma sapevo che le cose stavano peggiorando. Dobbiamo fare qualcosa... in fretta». Era una situazione terribile. Non sopportavo che qualcuno di loro corresse dei rischi, e chiunque, o qualunque cosa, si stesse aggirando per Seattle iniziava davvero a farmi paura. Ma l’idea che i Volturi stessero per arrivare era altrettanto spaventosa.
«Alice ha visto qualcosa?».
«Questo è il problema». La sua preoccupazione aumentò. «Non riesce a vedere niente... nonostante le abbiamo chiesto più volte di concentrarsi. Sta iniziando a perdere fiducia in se stessa. Sente che le stanno sfuggendo troppe cose in questi giorni, che c’è qualcosa che non va. Che forse sta perdendo le sue facoltà di veggente». Avevo gli occhi spalancati. «Può succedere?».
«Chi lo sa? Nessuno ci ha mai studiati a fondo... ma ne dubito. Certe doti tendono ad affinarsi con il tempo. Prendi ad esempio Aro e Jane».
«E allora cosa c’è che non va?».
«È come un circolo vizioso. Per agire aspettiamo che Alice veda qualcosa... e lei non vede niente perché in realtà non facciamo nulla fino a che lei non vede. Così lei non riesce a vedere cosa facciamo. Forse dovremmo agire alla cieca». Rabbrividii. «No».
«Hai davvero voglia di andare a scuola oggi? Mancano solo pochi giorni agli esami, non diranno niente di nuovo».
«Credo di resistere un giorno senza scuola. Cosa facciamo?».
«Voglio parlare con Jasper».
Jasper, di nuovo. Che strano. Nella famiglia Cullen, Jasper restava sempre ai margini, prendeva parte a tutto senza essere mai al centro di nulla. La mia ipotesi inespressa era che restasse con loro soltanto per Alice. Pensavo che l’avrebbe seguita dappertutto, malgrado quello stile di vita non fosse il suo preferito. Probabilmente era poco coinvolto dagli altri e ciò gli impediva di stare al loro passo.
Comunque fosse, non avevo mai visto Edward dipendere da lui. Mi chiesi di nuovo cos’avesse voluto dire quando aveva parlato delle sue competenze. Di Jasper sapevo soltanto che, prima di essere rintracciato da Alice, viveva al Sud. Per qualche ragione Edward aveva sempre eluso le mie domande sull’ultimo arrivato dei suoi fratelli. E io ero sempre stata intimidita da quel vampiro alto e biondo, che somigliava a un attore tenebroso, per fargli domande più precise. Quando arrivammo a casa trovammo Carlisle, Esme e Jasper concentrati sul telegiornale, ma il volume era così basso che non sentivo nulla. Alice era accovacciata sull’ultimo gradino della scala, con il volto tra le mani e un’espressione di sconforto. Mentre entravamo, Emmett arrivò dalla cucina, completamente a suo agio. Emmett non si spaventava di fronte a nulla.
«Ciao, Edward. Bella, hai marinato la scuola?», mi disse sogghignando.
«Lo abbiamo fatto entrambi», gli fece notare Edward.
Emmett rise. «Sì, ma per lei è la prima volta. Magari si è persa qualcosa di importante».
Edward alzò gli occhi al cielo, ma per il resto ignorò il fratello preferito. Lanciò il giornale a Carlisle.
«Avete visto? Adesso pensano che sia un serial killer», disse. Carlisle fece un sospiro. «Alla CNN c’erano due esperti che per tutta la mattina non hanno parlato d’altro».
«Non possiamo permettere che questa storia continui».
«Allora facciamo qualcosa», disse Emmett con un entusiasmo improvviso. «Mi annoio a morte». Qualcuno dal piano di sopra sibilò qualcosa, che riecheggiò dalle scale.
«È proprio una pessimista», borbottò Emmett.
Edward era d’accordo con lui. «Prima o poi dovremo entrare in azione». Rosalie apparve in cima alle scale e le scese lentamente, con volto neutro, inespressivo. Carlisle scosse la testa. «Sono preoccupato. Non ci siamo mai intromessi in situazioni del genere prima d’ora. Non sono affari nostri. Non siamo i Volturi».
«Non voglio che i Volturi siano costretti a intervenire», disse Edward.
«Non avremmo abbastanza tempo per reagire».
«E tutti quegli umani indifesi a Seattle», mormorò Esme. «Non è giusto lasciarli morire così».
«Ah», esclamò Edward all’improvviso, voltando leggermente la testa per guardare Jasper in faccia. «Non ci avevo proprio pensato. Me ne rendo conto adesso. Hai ragione, davvero. Be’, questo cambia tutto». Non ero l’unica che lo guardava confusa, ma probabilmente ero l’unica a non avere l’aria leggermente annoiata.
«Forse è meglio se spieghi anche agli altri come stanno le cose», disse Edward a Jasper. «Quale potrebbe essere il loro fine?», domandò, e si mise a camminare su e giù, fissando il pavimento, perso nei suoi pensieri. Non mi ero accorta che si era alzata, ma Alice ora era lì, accanto a me.
«Cosa sta farneticando?», chiese a Jasper. «E tu cosa pensi?». Jasper non sembrava apprezzare tutta quell’attenzione. Incerto, ci guardò in faccia uno a uno — perché tutti gli si erano avvicinati, curiosi di sapere cos’avesse da dire. I suoi occhi si fermarono su di me.
«Sei turbata», mi disse, con la sua voce profonda ma calma. Non era una domanda. Jasper conosceva il mio umore.
«Siamo tutti turbati», borbottò Emmett.
«Devi sforzarti di essere paziente», gli disse Jasper. «Anche Bella deve capire cosa succede. È una dei nostri, adesso».
Le sue parole mi colsero di sorpresa. Per quel poco che avevo avuto a che fare con lui, specialmente dopo il mio ultimo compleanno, non mi ero accorta che pensasse a me in questi termini.
«Cosa sai di me, Bella?», domandò.
Emmett fece un sospiro teatrale e sprofondò nel divano con estrema impazienza.
«Non molto», ammisi.
Jasper fissò Edward, che alzò gli occhi per incrociare i suoi.
«No», Edward rispose alla domanda che l’altro aveva solo pensato. «Tu stesso sai perché non gliel’ho mai raccontato. Ma credo che a questo punto ne valga la pena».
Jasper annuì pensieroso e si rimboccò le maniche del maglione color avorio. Lo guardai, attenta e confusa, cercando di capire cosa stesse facendo. Avvicinò il polso al cono di luce della lampadina che gli stava accanto, con un dito seguì il contorno di un segno evidente sulla pelle diafana. Mi bastò un istante per capire perché quella forma mi fosse stranamente familiare.
«Ah», sussurrai. «Jasper, hai una cicatrice identica alla mia». Stesi la mano e la mezzaluna argentea apparve più nitida sulla mia pelle più scura della sua, marmorea.
Jasper sorrise appena. «Ho parecchie cicatrici come questa, Bella». Fu impossibile leggere la sua espressione mentre sollevava la manica del maglione leggero. In un primo momento non riuscii a distinguere l’intreccio fitto, spesso, che sembrava ricoprirne la pelle. Era un motivo a curve, bianco su bianco, visibile soltanto perché l’intensa luminescenza della lampada lo metteva in rilievo. Deboli ombre ne delineavano la forma. Solo a quel punto capii che era composto da tante mezzelune simili a quella sul polso... e sulla mia mano.
Riportai lo sguardo sulla mia unica, piccola cicatrice solitaria e ricordai come me l’ero procurata. Fissai la forma dei denti di James, impressi per sempre nella mia pelle.
E poi ansimai, fissandolo. «Jasper, che ti è successo?».